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sabato 30 agosto 2025

La triplice e i trilemmi

Ieri sono sceso a Roma per un incontro con i sindacati metalmeccanici. La richiesta veniva dalle tre sigle FIM-CISL, FIOM-CGIL e UILM ed era rivolta ai capigruppo parlamentari. Il capogruppo Molinari ha delegato me in quanto vicecapogruppo più vicino ai temi economici (gli altri sono Iezzi, in Commissione Affari Costituzionali, Bruzzone, in Commissione Agricoltura, Coin, in Commissione Affari Esteri, e Furgiuele, in Commissione Trasporti). L'incontro è stato molto costruttivo e le preoccupazioni espresse dai sindacati sostanzialmente condivisibili. Il punto tecnico, che credo conosciate, è che la "decarbonizzazione", cioè il passaggio a forni alimentati con energia elettrica prodotta emettendo CO2 (perché alternative per il momento non ce ne sono!), comporta la necessità di produrre "preridotto" (il cosiddetto DRI, che in qualche modo possiamo immaginare come l'alternativa alla ghisa prodotta nel ciclo tradizionale in altoforno), gli impianti per il preridotto richiedono altra energia, da produrre usando altro gas e quindi producendo altra CO2, e quindi per farla breve il piano dei commissari di governo prevedeva lo stazionamento a Taranto di un rigassificatore che però il sindaco di Taranto, interpretando l'opinione dei suoi elettori, non vuole assolutamente. L'alternativa sarebbe fare il preridotto da un'altra parte (Gioia Tauro?), il che comporterebbe, oltre alla perdita di posti di lavoro a Taranto, il simpatico paradosso che per decarbonizzare si dovrebbe trasportare il preridotto da Gioia Tauro a Taranto, ovviamente via nave, e quindi, altrettanto ovviamente, producendo altra CO2. Il dato positivo è che i sindacati trovano congruo il piano del Governo, il dato spinoso è che il problema ce l'hanno a sinistra, non a destra, perché che io sappia il sindaco di Taranto leghista non è. Va da sé che le elezioni imminenti non aiutano un ragionamento razionale, e vedremo quindi come andrà a finire.

Avrete comunque capito, da questo breve resoconto, che la CO2 è esattamente come l'altro idolo polemico dei piddini, erdebbitopubblico: tutte le strategie proposte per combatterla la fanno aumentare, o almeno non diminuire quanto si dice, il che pone la questione del perché mai un Paese che conta per lo 0,83% delle emissioni globali:


dovrebbe innescare bombe sociali come quella di Taranto e condannarsi all'irrilevanza, considerando che i rimedi proposti se non peggiori, non sono molto migliori del male. Ma su questo so che siete d'accordo con me (tranne il Comico, che però ci ha prematuramente abbandonato lasciando un vuoto colmabile dal buonsenso).

Ovviamente io ho ascoltato con rispetto e non ho polemizzato su nulla, anche perché non ne vedevo sinceramente il motivo, evitando qualsiasi tipo di sottolineatura politica tranne una, necessaria, al fatto che il partito in cui mi onoro di militare era stato il primo e l'unico fra quelli italiani a opporsi a tutte le follie del Green Deal per esattamente gli stessi motivi per i quali chi ce le ha proposte ora ci sta ripensando (fra cui, appunto, l'impatto sociale).

Resta il fatto però che mentre svolgevo rispettosamente il mio ruolo con la triplice, non potevo togliermi dalla testa il trilemma.

Quale?

Non quello di Mundell e Fleming, che gli economisti conoscono:

secondo cui non puoi avere contemporaneamente libertà dei movimenti di capitale, tassi di cambio fissi e controllo della tua politica monetaria, ma devi rinunciare a una di queste tre cose:

a) se hai tassi di cambio fissi e libertà dei movimenti di capitale, non puoi controllare il tuo tasso di interesse, perché se lo fissi a un livello inferiore a quello prevalente sui mercati finanziari internazionali subirai una fuga di capitali che renderà insostenibile il cambio fisso, forzandone il deprezzamento (questo è in qualche modo il mondo dell'euro, e prima quello del gold standard);

b) simmetricamente, se hai libertà dei movimenti di capitale ma manovri il tuo tasso di interesse, ovviamente devi lasciare che fluttui il tuo tasso di cambio (questo era in qualche modo il mondo dello SME, con la sua fluttuazione controllata);

c) quindi, per controllare il tuo tasso di cambio e il tuo tasso di interesse, devi controllare i movimenti di capitale (questo era in qualche modo il mondo di Bretton Woods).

Non pensavo nemmeno al trilemma "aumentato" di Rodrik, che trovate qui e che conoscono (spero) anche i politologi:



nella parte inferiore della figura (quella superiore riporta il trilemma standard di Mundell-Fleming), secondo cui non puoi avere simultaneamente completa integrazione economica (vista come sviluppo dell'integrazione dei mercati finanziari, cioè della mobilità dei capitali), stati nazionali, e democrazia, ma puoi solo avere due di queste cose (una spiegazione esauriente la fornisce Orizzonte48):

a) se vuoi integrazione economica mantenendo gli Stati nazionali devi accettare che questi siano ingabbiati da una camicia di forza che circoscriva l'ambito delle loro politiche (e questo è lo stato attuale dell'UE), rinunciando quindi alla democrazia in favore delle "regole";

b) puoi avere integrazione economica e democrazia se rinunci allo Stato nazionale e ti sposti verso una prospettiva federale come quella statunitense (qui da noi impraticabile per ovvi motivi storici e culturali): a tendere si avrebbe un mercato mondiale governato dagli Stati Uniti del Mondo (ma resta da chiedersi quale sia il significato che Rodrik dia alla democrazia in assenza di demos: questo non mi è affatto chiaro...);

c) poi, naturalmente, puoi avere (come in qualche modo, imperfettamente, avevamo) democrazia e Stati nazionali se rinunci alla piena integrazione economica, e questo è ovviamente il compromesso di Bretton Woods, in cui i vincoli ai movimenti di capitali (e quindi la libertà dal ricatto dei mercati) dava qualche grado di libertà in più ai governi nazionali.

No, io pensavo a un trilemma analogo, ma di tipo diverso, un trilemma di Bagnai che sostanzialmente dice che non puoi avere insieme Europa, decarbonizzazione, e posti di lavoro (posto che queste tre cose prese singolarmente abbiano un senso, e secondo me lo ha solo l'ultima), ma puoi avere solo due di queste cose:


Come potrete constatare qui, questo trilemma non ha tantissimo a che vedere con il "nuovo trilemma" proposto da Rodrik nel 2024, che si riferisce alle prospettive di sviluppo dell'economia mondiale, ma ha un significato molto più circoscritto, facilmente sintetizzabile:

a) la "decarbonizzazione" proposta dall'"Europa" col green deal distrugge posti di lavoro (e produce CO2), quindi se vuoi "Europa" e "decarbonizzazione" devi rinunciare al lavoro (prova ne sia che la Germania sta pensando di creare posti di lavoro nell'esercito!);

2) l'"Europa" potrebbe tornare a produrre occupazione solo se adottasse un approccio pragmatico, che comporterebbe il rinunciare all'obiettivo ideologico della "decarbonizzazione" (lanciato per favorire la riconversione dell'automotive tedesco, ma sostanzialmente fallito);

3) un vero balzo in avanti tecnologico (chiamiamolo "decarbonizzazione", per capirci) compatibile con la creazione di posti di lavoro richiederebbe livelli di investimenti pubblici incompatibili con le regole europee (fiscali e monetarie) e quindi con l'"Europa".

Per me è abbastanza chiaro da che parte dovremmo stare in questo grafico: da quella del "Bretton Woods (compromise)" e quindi della rinuncia alla cosiddetta "Europa", che in un modo o nell'altro ci condanna a un progressivo e inarrestabile slittamento verso l'irrilevanza economica, tecnologica, politica. La mia sensazione, che ovviamente mi sono tenuto per me, è però che qui in Italia i sindacati vogliano tutto, e tutto non si può avere, né secondo Mundell-Fleming, né secondo Rodrik, né secondo quanto abbiamo sotto gli occhi, di cui vi ho offerto una personale e discutibile sintesi.

Voi a che cosa rinuncereste?

mercoledì 30 luglio 2025

Dalla Slesia con furore

La mattinata è iniziata con una vivace discussione nella chat della Community abruzzese, discussione originata da un aggiornamento di questa notizia:


Pare che non siano 400 ma 600, ecc. Il dato, lo immaginate bene, è catastrofico per la valle (del Sangro), per la provincia (di Chieti) e per l'Abruzzo. Il giochino sappiamo qual è e purtroppo sappiamo anche dove porta:

ma nelle pieghe del discorso è emerso che il game changer, secondo alcuni, risaliva a tre anni fa:


In realtà, non è che le cose in Polonia vadano benissimo, ma non entro in questo. Il punto è che, come vi ho detto spesso, dà un po' ai nervi che ci venga fatta concorrenza interna da chi non solo ha mantenuto e usato la flessibilità del proprio cambio nominale, ma soprattutto beneficia in modo sproporzionato dei fondi che escono dalle nostre tasche!

Questa cosa la sapete bene, anche Claudio ve la ricorda spessissimo, ma vorrei farvela vedere in dettaglio (impegno preso con gli amici abruzzesi). Per comodità, non partirò dal tempo di Checco e Nina, ma dall'inizio del secolo, in modo da avere tutti i dati in un unico foglio, questo, che trovate alla pagina EU spending and revenue 2021-2027. Vi fornisco i flussi al netto delle operazioni straordinarie (cioè escludendo gli esborsi del PNRR, che sono debiti da rimborsare), ma se volete avere il quadro di cassa completo potete tranquillamente riprodurvelo coi dati. Quello che ci serve quindi, anno per anno, sono le "national contributions" (soldi che gli Stati membri danno al bilancio, i contributi al bilancio dell'Unione), le "total expenditures" (fondi che l'UE attribuisce agli Stati membri perché li spendano, e quindi i fondi che provengono dal bilancio dell'Unione), e naturalmente il Pil (per fare un rapporto).

Con un po' di santa pazienza (purtroppo oggi sono influenzato e quindi me ne sto alla scrivania a lavorare), l'impianto dei calcoli è questo qui:


la rappresentazione grafica del contributo (valori negativi) o beneficio (valori positivi) netto in valore assoluto è questa qui:


e in rapporto al Pil nazionale è questa qui:


I dati si commentano da soli, ma sentitevi pure liberi di esprimervi. Della sproporzione ero a conoscenza, ma certo che vederla rappresentata così, sapere che un Paese in cui delocalizziamo le nostre produzioni viene sussidiato a botte del 2% del Pil e oltre, ovviamente non fa piacere, anche se intuiamo l'astratta e nobile motivazione di creare un level playing field...

A differenza di Dostoevskij, che avrà avuto i suoi buoni o cattivi motivi, io non sono sospettabile di animosità verso il nobile popolo polacco, che mi ha dato tanto. Sono cresciuto ascoltando questo ripetuto e ripetuto dalla mia mamma:

(non so se adesso mi chiuderanno il sito); per motivi che non saprei nemmeno spiegarvi e sui quali è comunque inconferente dilungarsi questo:

ha cambiato significativamente il mio rapporto col pianoforte e col romanticismo (cosa di cui gli sono grato); mi piacciono i pierogi e i tramonti lunghi. Sono anche uno poco attaccato ai soldi. Però l'idea che questi qui ci fottano coi nostri soldi a me dà un pochino fastidio, forse un po' di più dell'idea che con i nostri soldi la UE, in cambio del bel servizio che ci rende, si faccia pubblicità, deturpando le nostre scuole con le sue placche infami.

Tutto qua.

lunedì 28 luglio 2025

Breve storia dei dazi e controdazi

Ieri avevo appena finito di rispiegare alcuni perché del "meno Europa", quando è arrivata la prova regina:


L'Europeona Unitona ha fatto peggio del povero San Marinuccio, che l'aveva chiusa bilateralmente al 10% tre mesi fa:


(come del resto aveva fatto il Regno Unito).

Che un negoziato bilaterale fosse possibile e potesse essere vantaggioso per il nostro Paese ce lo eravamo detti sei mesi fa, visto che l'Italia non era la principale fonte dello squilibrio causato dall'Eurozona:

D'altra parte, nonostante nessuno (tranne chi vi parla) lo mettesse in evidenza, la manovra statunitense era una contromisura allo squilibrio causato da quelli che abbiamo chiamato "i dazi di Draghi", cioè alla svalutazione competitiva dell'euro:


(svalutazione competitiva perché avveniva mentre il surplus europeo stava crescendo, diversa quindi dal fisiologico deprezzamento che subiscono le valute dei Paesi in deficit). Anche in questa svalutazione competitiva il nostro Paese aveva avuto un ruolo tutto sommato marginale, altrimenti la si sarebbe vista quando eravamo in crisi noi, intorno al 2011, mentre si è materializzata intorno al 2015, all'epoca del Dieselgate, cioè dell'inizio della fine tedesca. La contromisura, del resto, era largamente annunciata. Era il 2019 quando parlandovi di quelle che gli operatori informativi chiamano le tariffe vi facevo vedere che da quasi un decennio (allora) gli Stati Uniti manifestavano aperta insofferenza verso la manipolazione della valuta posta in essere dalla Germania. Tuttavia, nonostante le sparate iniziali (se ricordate, a febbraio si parlava di dazi al 25%):


ad aprile davo per molto probabile un punto di caduta vicino a quel 10% di cui Trump e i suoi esperti avevano parlato in campagna elettorale. In effetti, sia San Marinuccio che il Regnone Unitone (due realtà la cui distanza non devo evidenziarvi) l'hanno chiusa lì, come sapete. Ma noi ci siamo affidati alla sagace negoziatrice europea, in ossequio alla saggezza popolare secondo cui l'unione fa la forza. Il risultato è stato il profferire una serie di sconclusionate minacce:


Ben 95 miliardi di controcazzi, pardon: controdazi, senza mai e poi mai ammettere la natura del problema e dimostrare un minimo di resipiscenza e di volontà di raggiungere soluzioni cooperative. Insomma, una vera e propria Strafexpedition (che è la dimensione negoziale delle Sturmtruppen, come l'autogol è la dimensione dialettica del piddino) che non poteva portare che da una parte, qui:


Questa arroganza totale, questa incapacità ontologica di ammettere le proprie colpe, stupisce, perché poi si scopre che quando nelle vesti dell'importatore si trova l'UE, la signora von der Leyen ha ben chiaro che deve chiedere quello che da esportatrice non è disposta a concedere:


La malafede (e anche una certa ingenuità, se posso...) è quindi palese...

Inutile dire che alla minaccia di controdazi il Donaldo Trumpo ha reagito da par suo:


andando 5 punti percentuali oltre la sua pretesa iniziale del 25% (apro e chiudo una parentesi: le forme di parmigiano esposte sul Sole 24 Ore fanno capire come il giornale degli industriali italiani immagina sia composto il nostro export verso gli Usa), e trascinando così verso l'alto di 5 punti percentuali il punto di caduta, che quindi è stato il 15%, non il 10% che pensavo io (e pensava anche lui, come vi ho dimostrato per tabulas). D'altra parte, all'arroganza del botolo tedesco non si poteva rispondere in altro modo, ed è colpa nostra, non di Trump, se non ci è bastata la lezione del 1945.

I mercati, lungo tutto lo svolgersi di questa complessa vicenda, se ne sono battuti completamente il belino, tranne all'inizio, quando ci fu un tuffo verso il basso prontamente recuperato:


(questo è il FTSE MIB).

Non è chiaro perché mai gli operatori informativi e gli economisti da talk show, sempre così inclini a prosternarsi al verdetto dei mercati, in questo caso lo ignorino. Non è chiaro, cioè è chiarissimo: in questo caso il verdetto dei mercati non quadra con la loro narrazione terribilista "Trump pazzo cacca pupù disastro", e quindi lo ignorano. Mi è invece chiaro perché i mercati non si preoccupino: perché il 15% (cugino del 10%) è un margine che lungo catene distributive complesse si può assorbire, nel tempo, soprattutto considerando che a monte di questo aumento del 10% c'era stata una svalutazione del 25% che aveva consentito a molti di mettere, quatti quatti, tanto bel fieno in cascina. Ma non vi annoio con una lezioncina sul pricing delle aziende oligopolistiche che operano in mercati internazionali.

Non è nemmeno chiarissimo per quale motivo abbiamo evitato di percorrere la strada, assolutamente lecita, del negoziato bilaterale. Vero è che era stato Trump il primo a escluderla:


come era in sua piena potestà fare (mentre spero che abbiate capito, almeno voi, che la competenza esclusiva dell'UE è sui dazi che mette lei - perché anche lei ne mette! - non su quelli che mettono gli altri, nonostante questo concetto sia impervio a peraltro garbati colleghi con cui non voglio litigare: lascio che litighino loro col mio amico Aristotele...). Trump potrebbe averlo fatto per evitare di subire la solfa deamicisiana: "Trump, tu uccidi l'Europa!", ben consapevole che quest'ultima è di per sé un morto che cammina, e lo è tanto più quanto più si affanna a dare segni di vitalità. Lato nostro, credo che sia entrata in gioco una complessa valutazione di opportunità che tutto sommato condivido: se ci fate caso, mandare la von Sturmtruppen a schiantarsi contro il muro della propria connaturata arroganza di certo non la rafforza, ci ha evitato di passare per sabotatori del meraviglioso brogeddoeurobeo, con annesso costo politico di un nuovo otto settembre (di cui l'Italia è meglio che abbia fatto a meno), e alla fine ci è costato solo il 5% in più (15% invece di 10%). Un costo che molti imprenditori, inclusi quelli sollecitati dai media per alimentare la narrazione terribilista, trovano in fondo sostenibile (anche se è ovvio che chi ha beneficiato di una svalutazione del 25% preferisce poi non sostenere un dazio del 15%)!

Quindi, come dire: tutto è bene quel che finisce male!

Il nostro principale nemico ne esce indebolito anche di fronte ai più subalterni dei suoi vili lacchè (l'odierna rassegna stampa offre un florilegio inestimabile). Il nostro Paese non ne esce troppo danneggiato, posto che l'alleanza con il fiero alleato germanico ormai è lì, e sbarazzarsene non è semplice come ordinare una cedrata al bar (il che significa che l'ottica in cui dobbiamo porci è quella di riduzione del danno, e mi sembra che sia stata interpretata bene). Non ne esce troppo male nemmeno il blog, anche se avevamo fatto una previsione che era un bijoux, quel 10% che era nelle cose come tanti esempi dimostrano, e da cui ci siamo discostati, come il breve resoconto storico che vi ho fatto dimostra, solo per le goffe vociferazioni dell'odiosa megera.

Inutile dire che l'opportunità offerta dai dazi, quella di riflettere, come oggi chiede perfino Draghi, sul nonsenso di un modello di crescita sbilanciato sull'inseguimento dei mercati esteri, è finora andata perduta. Un modo per coglierla potrebbe essere, come sta facendo Claudio, usare la sponda della narrazione terribilista per chiedere un provvedimento che, come vi dicevo, è comunque nelle cose (l'allentamento delle regole di bilancio), o un provvedimento che non verrà mai accordato (la sospensione delle regole di bilancio). Tatticamente sarebbe una mossa interessante, ma vanno viste anche le sue implicazioni strategiche. Un'Europa che non strangoli se stessa con il Patto di stabilità rischia di innescare una nuova dinamica centro-periferia, un nuovo ciclo di Frenkel? Non è da escludersi, anche se in questo caso il motore degli squilibri, la Germania, più che sul dumping salariale e quindi sull'espansione delle esportazioni (con conseguenti squilibri debitori della periferia) sembra puntare su una sorta di dumping di bilancio e quindi sull'espansione degli investimenti bellici (con una spinta espansiva da cui in realtà la periferia potrebbe trarre beneficio, naturalmente fino al momento di rinnovare il magazzino). La fragilità causata dall'assenza di quel fisiologico meccanismo di riequilibrio che è il cambio nominale potrebbe tardare a palesarsi, ma sarebbe necessariamente parte degli sviluppi di un'Unione Europea che in un modo o in un altro cessasse di crescere sotto potenziale.

Intanto, il dollaro sta cedendo, cioè l'euro si sta rivalutando:


e chi ci dice (ora) che l'euro forte danneggia le imprese sta dicendo, senza rendersene conto, che una lira correttamente prezzata non le danneggiava.

Un passo alla volta...

giovedì 15 maggio 2025

La locomotiva tedesca (repetita juvant)

Ci siamo detti più volte che l'espressione "locomotiva tedesca" è il marker del dilettante, della persona inadeguata, ignara dei dati e dei principali fatti stilizzati del mondo circostante; forse, potremmo dire: del politico (e non è antipolitica: è statistica)!

Eppure, una volta i politici non erano così!

Rileggiamo, ad esempio, le parole di Napolitano nella famosa dichiarazione di voto contro lo SME che trovate nello stenografico della Seduta di mercoledì 13 dicembre 1978, quando si chiedeva:

se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendosi un paese come l’Italia alla deflazione.

Per Napolitano era ovvio che la Germania federale praticasse politiche di repressione della crescita. E del resto, ponendosi a dicembre 1978, quando lui pronunciava queste parole, i dati disponibili, che arrivavano fino al 1977, facevano vedere questo:


La crescita media della Germania dal 1961 al 1977 era stata del 3.8%, contro il 4.6% dell'UE (comprensiva della Germania, peraltro, cioè tirata giù dalla zavorra tedesca! Ma non ho ora il tempo di farvi il calcolo nettando dall'UE la Germania, operazione che porterebbe il tasso di crescita del resto dell'UE sopra al 5%...).

Napolitano, quindi, cosa strana per un politico e stranissima per un politico di sinistra, non negava la realtà: la conosceva, la riconosceva, e ci costruiva un ragionamento politico (molto semplice, peraltro: un Paese che ha interesse a crescere, anche per recuperare un importante divario territoriale, come è il caso dell'Italia, non ha interesse a legarsi monetariamente a un Paese come la Germania che va col freno tirato, perché rischia di andare in deficit commerciale a vantaggio del Paese che reprime la crescita).

Ma perché oggi tutti ripetono "lalocomotivatedesca, lalocomotivatedesca" (un po' come ripetono "erdebbitopubblico", "aspesaimproduttiva", ecc.)?

Forse le cose sono cambiate?

No, direi proprio di no:


Il tasso di crescita della Germania è stato inferiore, e spesso significativamente inferiore, a quello dell'Unione Europea in 40 su 63 anni, e le due eccezioni di un qualche rilievo, i due episodi di protratta crescita della Germania, corrispondono a circostanze che arrecavano alla Germania un ingiustificato vantaggio.

Il primo si verifica nei quattro anni fra 1989 e 1992, la fase finale dello "Sme credibile", quella in cui l'aggancio valutario fra Italia e Germania venne rafforzato (impedendo quindi alla Germania di rivalutare). Il secondo occorre nel periodo 2010-2014, in cui la Germania, dopo aver scatenato il panico sui mercati col discorso del private sector involvement, beneficiò di afflussi di capitali derivanti dalla sua fama di "porto sicuro" per i risparmi dell'Eurozona.

Fatti salvi questi due periodi, la performance della Germania è sempre stata inferiore alla media, tant'è che se costruiamo l'indice del Pil reale a partendo dai dati dei tassi di crescita il quadro che otteniamo è questo:


Nel periodo in cui il Pil della locomotiva europea si è moltiplicato per 5, quello del rimorchio tedesco si è moltiplicato solo per 4. Oppure, se volete vederlo in un modo diverso, potete considerare che il tasso medio di crescita sull’intero periodo è pari a 2,26 per la Germania, e 2,62 per l’Unione Europea, zavorrata da quella che quindi non è una locomotiva ma un rimorchio, cioè la Germania (i calcoli del tasso di crescita dell’Unione Europea non zavorrata li facciamo con calma un’altra volta a cortese richiesta).

Non è un caso: è una deliberata "politica non espansiva", come diceva Napolitano, corrispondente a un ben preciso orientamento ideologico, descritto ad abundantiam da Luciano Barra Caracciolo (ad esempio qui) ma anche da Machiavelli (e ne abbiamo parlato qui). Ha radici antiche, che non si possono estirpare, come credo sia difficile estirpare allo scorpione il suo pungiglione, senza causargli un danno irreversibile. Quindi, se si vuole rispettare la vita altrui, ma preservare la propria, meglio non prenderselo indosso, lo scorpione, nel traversare il fiume della Storia, cioè meglio non allearsi mai con i tedeschi, perché, come il grafico dimostra, se non ti pungono per avvelenarti, comunque ti intralciano con il loro desiderio di essere creditori netti, cioè esportatori di decrescita.

E quindi, quando sentite qualcuno dire "la locomotiva tedesca", non fategli notare che è un ignorante e un cretino: potrebbe offendersi! Ma non cedete, qualsiasi altra cosa brillante egli dica, alla tentazione di ritenerlo una persona intelligente, perché sarebbe un errore fatale.

Quasi quanto allearsi con la Germania!

domenica 27 aprile 2025

Produzione di squilibri a mezzo di squilibri

Parafraso il titolo di un libro che mi venne imposto dal docente di storia delle dottrine economiche quando ero iscritto a filosofia. Potete immaginare quanto riuscissi a capire di un testo così tecnico, ma all’epoca funzionava così, non si era ancora affermata l’ideologia del facilismo, con le sue carte patinate e i suoi box riassuntivi dai colori tenui: i docenti universitari buttavano tutti in piscina e poi si interessavano a quelli che sapevano nuotare. Suona un po’ darwinista, e forse lo è (mi perdonerà Enzo che ho rivisto con piacere ieri sera), ma il fatto è che nella sua apparente scorrettezza quel sistema funzionava.

Oggi però non voglio parlarvi della conversione dei valori in prezzi (quindi non voglio neanche spiegare che cosa sia a chi ha la fortuna di non saperlo), ma di una conversione molto più semplice: quella degli euro in dollari, ponendo qui a voi in modo più articolato e disteso, una domanda che ieri ho posto a un amico in una conversazione privata, e poi, in serata, a una platea ristretta di studenti in un seminario altresì privato, dove ci siamo molto divertiti (nel senso eletto ed etimologico del termine):



La domanda parte dalle osservazioni di Paolo Torp al post su Unione Europea e squilibri globali, e in particolare dalla sua constatazione di quanto lucida fosse la visione che Geithner aveva del tema degli squilibri globali. Come penso di avervi ricordato più volte, e senza nulla togliere alla capacità analitica e alla chiarezza di esposizione di Geithner (o dei suoi stagisti), in tanta consapevolezza non v’era nulla di miracoloso. I global macroeconomic imbalances erano un tema di ricerca assestato e consolidato da anni negli Stati Uniti, arrivato poi qui con il consueto ritardo di fase della nostra produzione accademica, tant’è che due anni prima anch’io mi ci ero buttato per scrivere un lavoro sul ruolo svolto dalla Cina nella loro formazione.

Ora, nel post in questione ironizzavo sul fatto che all’epoca Geithner diceva al G20 quello che oggi Draghi balbetta in audizione.

A parte il ritardo di Draghi, in fondo non è così strano che eventually (che non significa "eventualmente", ma "alla fine", nonostante quello che pensano i colleghi che chiamano il pi greco “Pai” come le patatine e i decenni “decadi”) i due si ritrovino su una diagnosi condivisa. Diagnosi che poi è quella della migliore economia ortodossa ed eterodossa da sempre, e, con maggiore consapevolezza, in particolare dai tempi degli accordi di Bretton Woods, dove, come sapete, il contrasto fra le posizioni americana e inglese verteva essenzialmente su come strutturare il sistema monetario internazionale perché arginasse l’emersione di squilibri globali, ovvero sul tema, oggi di particolare attualità grazie alle posizioni espresse dagli esperti di Trump, della condivisione dei costi di quella struttura cruciale per lo sviluppo economico che è l'architettura finanziaria internazionale (ne parlammo occupandoci di Keynes, Draghi, Gollum e i tassi negativi).

Questa unità di visione attraverso il tempo è tanto meno strana in quanto Geithner e Draghi sono cuccioli più o meno riusciti della stessa nidiata globalista. Eventualmente (nel senso di eventualmente!) può apparire strano che posizioni simili siano espresse dal segretario al Tesoro di Obama e dagli esperti di Trump! Che cosa potrà mai avere in comune il presidente statunitense che Berlusconi definiva “abbronzato“, fulgida icona della globalizzazione, con l’attuale presidente statunitense? La risposta superficiale credo sia “niente!". Penso che ci possano anche essere risposte meno superficiali e più articolate (che però nessuno mi sta dando), ma intanto andiamo avanti con la domanda che ieri ho posto due volte: se per gli Stati Uniti, indipendentemente dall’orientamento politico di chi li conduce, gli squilibri globali sono un problema, è mai possibile che non si siano posti e non si stiano ponendo il tema del ruolo dell’euro?

Mi spiego.

Anche gli squilibri globali sono, a modo loro, un “bene” (cioè un male, un’esternalità negativa), e vale quindi per loro quello che vale per gli altri beni. Esattamente come una Volkswagen, così anche uno squilibrio globale, per poterlo esportare, devi prima produrlo. La fabbrica delle Volkswagen (o almeno la sua principale sede legale) è a Wolfsburg, quella degli squilibri è a Francoforte: è la BCE. Come vi ho documentato nel post sugli squilibri globali, un paio di giorni fa, e nei post cui esso rinvia, la “materia prima“ del colossale squilibrio commerciale esportato dall’eurozona a partire dagli anni '10 è costituita dai tanti squilibri regionali fra Germania e paesi appartenenti al mercato unico. Questi squilibri regionali, costruitisi grazie all’euro, si sono poi riversati sui mercati globali a causa dell'austerità, che aveva prosciugato la capacità del mercato unico di assorbirli. Il punto è che se in primis questi squilibri non ci fossero stati, nessuna austerità avrebbe potuto contribuire a esportarli! Ai neofiti e ai passanti ricordo in sintesi che l'euro ha permesso alla Germania di vendere le proprie auto (e le proprie lavatrici, e i propri sommergibili...) all'Europa periferica a un prezzo relativamente contenuto perché non influenzato dal marco forte, e ai paesi periferici di indebitarsi a tassi molto convenienti per comprare le auto tedesche perché distorti al ribasso dalla "credibilità" dell'Unione economica e monetaria: gli squilibri nascono così, per una duplice inibizione del meccanismo di formazione di un prezzo di equilibrio in due mercati importanti, quello valutario (che avrebbe naturalmente condotto a un cambio tedesco più alto) e quello finanziario (che avrebbe naturalmente condotto a tassi di interessi greci, portoghesi, spagnoli ecc. più alti). Può sembrare strano ai profani che quello che è stato descritto come un bene assoluto (i bassi tassi di interesse) si riveli un male (un incentivo all'indebitamento), ma per i professionisti due principi dovrebbero essere assodati: che non ci sono pasti gratis e che non esistono distorsioni benefiche del mercato...

Ora, qui bisogna rovesciare una frase a me tanto cara di Keynes ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo!”. Dobbiamo cioè chiederci se, perché e fino a quando gli Stati Uniti potrebbero volere il mezzo (cioè l’euro) visto il fine che realizza (cioè gli squilibri globali), fine al quale loro si sono sempre detti contrari in un’ottica assolutamente trasversale dal punto di vista degli orientamenti politici.

Ecco: mentre nella conversazione privata con uno di voi sono riuscito ad andare al punto in modo abbastanza rapido, ho seri dubbi che intervenendo al seminario io sia riuscito a farmi capire.  Come vi dicevo in un commento al post precedente, il costo di una accresciuta consapevolezza rischia di essere l'autoreferenzialità. Un costo che forse paghiamo anche qui: per farmi capire da chi è appena arrivato sono costretto a citare altri post di questo blog, il che, mi rendo conto, trasmette un senso di autoreferenzialità (ma ogni post in realtà cita letteratura e dati "esterni"), anche se è semplicemente un modo per tenere insieme il filo del discorso.

Faccio un esempio delle mie difficoltà nel dibattito di ieri sera, partendo da un argomento che ho sentito formulare, quello secondo cui “dobbiamo stare con Trump perché scardina il sistema”, cioè, in sintesi, “il nemico del mio nemico è necessariamente un mio amico”. Ora, non è che io non lo condivida, questo approccio, come sapete! Per me che sono entrato in politica con un unico obiettivo, quello di espellere gli occupanti abusivi del concetto di “sinistra”, qualsiasi cosa li faccia impazzire è naturalmente benvenuta! Tuttavia, mi fa un po’ sorridere che le persone che ragionano così siano le stesse che poi con fare pensoso e riflessivo affermano un’altra banalità, cioè che “di tattica si muore”. Il dibattito fra tattica e strategia ha una lunghissima dignità anche nelle scienze economiche e si riconduce al dibattito se il lungo periodo possa essere o meno considerato come la somma di tanti brevi periodi. Non è di questo che voglio parlare, dovrei studiare molto per aiutarmi e aiutarvi a capire questo dibattito, peraltro irrisolto, ma voglio solo stabilire il punto che “il nemico del mio nemico è mio amico” è un ragionamento intrinsecamente tattico: mi suggerisce come posso fare un danno al mio avversario, ma non mi definisce l’obiettivo che voglio raggiungere, sia esso la vetta del Monte Porrara o una più equa distribuzione del reddito.

Il dibattito di ieri sera era anche arricchito, e in qualche modo confuso, dall’apporto di diversi geopolitici, categoria che qui abbiamo trattato un po’ come gli ingegneri, liquidandoli affettuosamente e forse un po’ affrettatamente, e di cui mi piace evidenziare un paradosso: a quel che capisco, secondo loro la geografia dominerebbe in quanto determina l’accesso a risorse strategiche per lo sviluppo economico, ma l’economia sarebbe però una categoria trascurabile. Insomma: la geografia ci interessa perché determina l’economia che però non ci interessa. Sul primo pezzo della proposizione non posso che essere d’accordo, da persona che con la geografia lotta ogni settimana sulle creste delle montagne, e che quindi è in grado di capire perché Passo Lanciano o Forca di Penne si chiamino così - anche se oggi pochi li percorrerebbero per raggiungere le rispettive località eponime (sì, perché ci sarebbe anche quell’altro dettaglio: sulla geografia regna la geologia, ma il percorso che porta dai lenti movimenti delle placche tettoniche all’estrema volatilità del tasso di cambio è un pochino troppo lungo e oggi ce lo risparmiamo)! Sul secondo ho qualche dubbio. In effetti, quello che attribuisce a un particolare elemento della tavola periodica lo status di risorsa è la sua capacità di soddisfare bisogni che in alcuni casi sono determinati dalla biologia, ma in molti altri dall'economia. Pensate alle famose terre rare (che rare non sono): quello che le ha fatte diventare così cruciali è stata la risposta statunitense al surplus della Germania, il Dieselgate con il conseguente reindirizzamento dell'automotive tedesco verso il green (e connessa sceneggiata gretina). Come la definiremmo questa dinamica se non economica? E quindi viene prima l'uovo geografico o la gallina economica?

È un po’ come l’altro paradosso, quello secondo cui la volontà di potenza della politica è indirizzata a espandere la propria sfera di influenza economica, ma l’economia non conta perché c’è il primato della politica! Fatto sta che senza sghei non si armano eserciti, e il primato della politica va così a farsi benedire di fronte al primato della contabilità (che ha a più che vedere con l'economia che con la politica).

Non voglio però commettere l’errore dal quale vi metto sempre in guardia, quello per cui se sei un martello ogni problema ti sembra un chiodo. Non mi viene in mente nessun modo consentito dalla legge per vincere una partita a scacchi con un martello (mentre quello non consentito dalla legge è ovvio: suonarlo in fronte all’avversario, che poi è quanto regolarmente avviene sullo scacchiere internazionale)! Non voglio quindi sminuire assolutamente il ruolo di altri approcci analitici, considerando che le categorie economiche in 15 anni di riflessione non mi hanno consentito di trovare una risposta a questa semplice ma fondamentale domanda: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell’euro (e quindi dell’Europa)? È chiaro che a questa domanda non si può trovare risposta nell’ambito della mera ottimizzazione, soprattutto perché la funzione obiettivo ci è ignota, e il contesto è di informazione estremamente asimmetrica. Cercherò di promuovere un dibattito su questo tema coinvolgendo più competenze, ma intanto “mi verrebbe da” (cit.) dirvi in che cosa penso che la dimensione economica possa aiutarci, e per farlo vi ricorderò alcuni "fatti stilizzati" economici che secondo me dovrebbero essere integrati (e non so se lo siano) nel ragionamento "geopolitico" per dargli una piena rotondità. Perché sì, va bene la KernEuropa, vanno bene le "grandi potenze talassocratiche", va bene tutto, ma poi la sera, o almeno a mezzogiorno, qualcosa in tavola ci deve essere, e la categoria rilevante in questo caso è indubbiamente quella di distribuzione del reddito...

Parto da una delle cose in qualche modo “dissonanti“ con le categorie della mia professione che ho sentito ieri: l'idea che la globalizzazione sarebbe stata provocata dal crollo del muro di Berlino, e sarebbe il tentativo di dare una risposta al mutamento degli assetti geopolitici determinato da questo crollo. Ora, gli economisti sono abbastanza d’accordo sul fatto che la terza ondata di globalizzazione sia in realtà iniziata quasi un decennio prima, cioè all’inizio, non alla fine, degli anni ‘80, e si sia manifestata in termini istituzionali sotto forma di una liberalizzazione progressivamente indiscriminata dei movimenti di capitale (le "riforme strutturali", come oggi si direbbe, all'epoca furono quelle). La liberalizzazione era lo strumento che serviva al capitale per sconfiggere definitivamente il lavoro mettendo in concorrenza il penultimo con l’ultimo proletariato (fuori di metafora, portando i capitali a costruire fabbriche dove il lavoro costava di meno). Volendola buttare in politica, questo significa che la tromba della globalizzazione ha squillato non quando il blocco occidentale ha sconfitto i comunisti a casa loro, ma quando il capitale ha sconfitto il lavoro in casa propria. Volendola dire in un altro modo, in questa lettura la terza globalizzazione comincia quando il capitale ha vinto la lotta di classe, non è la battaglia che ha consentito al capitale di vincerla (ricordo agli interessati anche il post in cui abbiamo affrontato specificamente il tema delle caratteristiche strutturali di questa globalizzazione).

Ora, un geopolitico secondo me è assente giustificatissimo dai presupposti di questa interpretazione della realtà. Gli mancano almeno due elementi che noi invece qui possediamo. Il primo è la constatazione di un fatto: la crescita dei salari reali da noi termina alla fine degli anni ‘70 (quando i salari si fermano e la produttività prosegue per un po’ il suo cammino); il secondo è la nozione di che cosa sia la “repressione finanziaria” e di cosa comporti la sua affermazione o il suo smantellamento. Il primo fenomeno ve l’ho messo in evidenza fin dall’inizio e l’ultima volta nel post sull’Italietta della liretta, sul secondo ci siamo soffermati più volte, a partire dal post su produttività, salari, crisi, logaritmi, marxiani, onestà, che è comunque un post fondante di questo blog e che vi consiglio di rileggere anche per capire che il fenomeno dell’arresto dei salari reali non è circoscritto al nostro paese:


ma è un fatto stilizzato, anzi: il fatto stilizzato più significativo per caratterizzare le dinamiche del blocco occidentale, un fatto che non può essere eluso da spiegazioni che ambiscano a fornire basi solide a ragionamenti predittivi.

Mi viene qui in mente un altro paradosso: in tutte le conversazioni “geopolitiche” prima o poi salta fuori il concetto, assolutamente dignitoso e condivisibile, secondo cui l’ordine mondiale proposto, esposto, imposto, dalle cosiddette democrazie liberali non sia assolutamente l’unico modello di democrazia. Il paradosso consiste nel fatto che quelli che affermano questa indiscutibile verità nella stragrande maggioranza dei casi mettono in disparte, o proprio non considerano, il fatto che anche all'interno del perimetro delle democrazie liberali esistono diversi possibili atteggiamenti verso l’egemonia del mercato. Anche qui: non vorrei che l’essere un "martello" docente di politica economica mi facesse vedere ogni problema come il "chiodo" del rapporto fra Stato e mercato. Tuttavia, non porre al centro questo tema quando si ragiona dei rapporti politici in uno Stato o fra gli Stati mi sembra un errore. Ve la dico in un altro modo: magari nell’affermare che un altro mondo è possibile si dovrebbe partire dal chiedersi se un’altra Banca centrale sia possibile, il che presuppone la conoscenza del percorso storico che ha portato a questa indipendenza, e la capacità di trarre un bilancio sull'esperienza dell'indipendenza…

Ora, torno al punto cui volevo condurvi: la lettura secondo cui la terza globalizzazione inizia alla fine degli anni  ‘80 può naturalmente convivere con la datazione che del fenomeno danno economisti, se si aggiunge un passaggio, ipotizzando che l’Unione Sovietica fosse già tecnicamente morta all’inizio degli anni ‘80. In questo caso, però, il crollo del muro da elemento "fondativo" della terza globalizzazione andrebbe letto come evento di enorme portata simbolica (quella è innegabile), ma che i capitalismi occidentali non hanno avuto bisogno di aspettare per regolare i conti con i loro proletariati, o almeno per porre le basi istituzionali che consentissero loro di regolare questi conti in modo più spiccio (l’indipendenza della Banca centrale si afferma infatti all’inizio degli anni ‘80). Tuttavia, e qui vado al punto, per capire se sulla relazione con Trump si debba costruire una tattica o si possa articolare una strategia, cioè, in altri termini, per capire se Trump sta veramente scardinando l’ordine mondiale instauratosi alla fine degli anni ‘70 con la sconfitta del lavoro, cioè della classe media, e la vittoria del capitale, cioè del capitalismo dei fondi, credo sia fondamentale avere un’idea condivisa e argomentata di quando è iniziato questo ordine mondiale e in che modo. In altre parole, ho qualche difficoltà con chi mi dice che la terza globalizzazione è finita grazie a Trump, o comunque che Trump vuole porre fine ai suoi giorni (per quanto io possa trovare auspicabile questa prospettiva), ma non mi fornisce una datazione del suo inizio collimante con l’evidenza che vi ho mostrato, cioè con i principali fatti stilizzati riferiti alla distribuzione del reddito nel "primo" mondo!

L’argomento che pure ieri ho sentito, cioè che Trump vorrebbe scardinare tutto in quanto ha preso sul personale il fatto che gli abbiano sparato addosso, non mi sembra molto convincente, non ne fa di per sé “uno di noi”. Questo non tanto perché a quasi nessuno di noi (spero) qualcuno ha sparato addosso, quanto perché, come ampiamente dibattuto al tempo dei "punturini" parlando di quanto la storia insegna, la minaccia esistenziale diretta è comunque un fondamento molto labile per la costruzione di una solidarietà di classe. Sparare addosso a un miliardario non ne fa necessariamente un paladino della classe media, indipendentemente dal fatto che il colpo vada a segno o meno...

Insomma, non sono riuscito a capire bene, ma è un limite mio, in base a quale ragionamento datino ad oggi la fine della globalizzazione quelli che ne datano l’inizio dalla caduta del muro (e che quindi non riescono a spiegarci come mai la quota salari nei paesi occidentali sia scesa in picchiata dieci anni prima che il "comunismo" venisse sconfitto). Quello che so, però, e che qui credo sappiamo tutti, è che il dato veramente segnaletico non è tanto quello su cui, tanto per cambiare, i media vogliono che voi concentriate la vostra attenzione (“dazi sì, dazi no”), quanto il tema più complessivo del rapporto di questa amministrazione con le istituzioni della globalizzazione, e in particolare con l’indipendenza della Banca centrale.

Quella è la battaglia da seguire.

Qui abbiamo ampiamente discusso sul ruolo che l'indipendenza della Banca centrale gioca nell'orientare la distribuzione del reddito a vantaggio della rendita finanziaria (ad esempio, alle pagg. 267 e seguenti de Il tramonto dell'euro). Basti pensare che da noi l’indipendenza ha condotto alla lunga stagione degli avanzi primari, che sono stati altrettanti trasferimenti di risorse dei contribuenti ai percettori degli interessi sul debito (categorie che in alcuni casi possono coincidere, ma che proprio nel meraviglioso mondo dell'indipendenza si sono progressivamente disaccoppiate). Oggi il fronte di questa eterna lotta è destinato a scaldarsi ancora di più, per il semplice motivo che sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea gli orientamenti politici necessariamente conducono a tensioni inflazionistiche: non credo di dovervi spiegare nulla circa le tensioni inflazionistiche intrinseche nella strategia Green in cui l’Europa ha cercato salvezza e che rilutta ancora ad abbandonare in modo chiaro e definitivamente segnaletico, e penso di non dovervi spiegare che voler rimpatriare le fabbriche negli Stati Uniti, in cui il tasso di disoccupazione è vicino ai minimi:


significa accettare il rischio che ci siano tensioni inflattive, per l'operare della curva di Phillips, di cui parlammo spiegando lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro, e su cui siamo tornati recentemente per spiegare come si fa a far scendere i salari.

La domanda quindi diventa: questa promozione, consapevole o meno che sia, di un ambiente di crescita (nel caso degli Stati Uniti) o decrescita (nel caso dell'Unione Europea) moderatamente inflazionistica verso quale scenario ci porta? Per usare le categorie di Reinhart e Sbrancia, stiamo aprendo a una "liquidazione del debito pubblico" (e non solo pubblico), realizzata tramite la promozione di una crescita moderatamente inflazionistica e della regolamentazione dei mercati dei capitali, cioè della "repressione finanziaria", con il conseguente abbandono del dogma dell'indipendenza della banca centrale e la riappropriazione dello strumento monetario da parte dei governi, o ci trincereremo dietro il dogma dell'indipendenza (per quanto la sua applicazione non abbia praticamente mantenuto alcuna delle tante promesse fatte), innalzando i tassi di interesse e conducendo il sistema economico a un progressivo soffocamento (cioè giapponesizzandoci, per usare l'espressione di Krugman che vi ho ricordato parlando dei negazionisti del declino)?

La battaglia è questa, come ben sapete: nei miei testi e in questo blog il tema dell'indipendenza della Banca centrale (ma più in generale dell'esistenza di istituzioni indipendenti dall'espressione della sovranità popolare) e la sua declinazione locale, cioè il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia, è sempre stato centrale, perché indissolubilmente legato a una domanda che non è parente così distante di quella da cui siamo partiti: chi deve decidere sulla distribuzione del reddito? Questa decisione è tecnica o politica? Spetta a burocrati non eletti e privi di responsabilità politica o a rappresentanti dei cittadini, soggetti alla volontà popolare attraverso il processo elettorale (cioè quella cosa da cui Monti voleva proteggere le decisioni importanti, che per lui andavano appunto riposte "al riparo dal processo elettorale")?

Non sono mai riuscito a capire (per mia superficialità, s'intende) quanto i geopolitici "mettano a tema" (come credo direbbero) questa domanda, che però è la domanda fondativa del vivere comune. Fatto salvo Robinson Crusoe, che non aveva motivi di porsela (e che non a caso è diventato paradigma economico del modello neoclassico - quello che nel becero e disinformato dibattito nostrano viene chiamato "neoliberista"...), chiunque non se la ponga non è un cittadino particolarmente consapevole né uno studioso particolarmente illuminante dei processi sociali.

A questa domanda è legata la domanda da cui siamo partiti: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell'Europa? Immagino che i geopolitici (o i politologi, o gli ingegneri, o gli editorialisti dei grandi giornali in caduta libera) abbiano lettura diverse e tutte interessanti del significato del Trattato di Maastricht, ma dal punto di vista tecnico è piuttosto evidente che "la ciccia" è nell'articolo 104, quello che ha istituzionalizzato e formalizzato il "divorzio", cioè l'indipendenza della Banca centrale dal potere esecutivo. Quanto reggerebbe l'Occidente (immaginando che esso si componga di America settentrionale ed Europa) nel caso in cui gli Stati Uniti rinunciassero all'indipendenza della Banca centrale, per assicurare un regime di crescita moderatamente inflazionistica, e l'Europa reprimesse la propria crescita sotto la sferza di alti tassi di interesse? La repressione della crescita significa, come sapete, repressione delle importazioni, quindi promozione di surplus di bilancia dei pagamenti, quindi, ancora una volta, per finire da dove abbiamo cominciato, produzione di squilibri (commerciali) a mezzi di squilibri (istituzionali).

La posta in gioco è questa. Trump ha bisogno di una Banca centrale accomodante per realizzare il suo progetto di reindustrializzazione degli Stati Uniti, i cui sistemi d'arma, mi dicono gli esperti, dipendono ormai in modo preoccupante dalle tecnologie cinesi. Se il rimpatrio delle catene del valore strategiche, con le conseguenti tensioni inflazionistiche, venisse stroncato da politiche di alti tassi di interesse, l'intento strategico sarebbe frustrato. Lo sarebbe però anche se qui da noi si continuasse a esportare squilibri, magari sotto forma di carri armati VW!

Ecco: io alla domanda che da anni mi pongo (e che ieri ho posto due volte con scarso successo) ancora non so rispondere, ma qualcosa mi dice che vivrò abbastanza da vedere quale sarà la risposta della Storia. Come vedete, i temi posti tredici anni fa nel Tramonto dell'euro e più in generale nel corso della nostra lunga conversazione mantengono la loro centralità anche oggi che la crisi non si presenta sotto le categorie dell'economico (non è fallita nessuna grande banca, non si parla di spread, ecc.) ma del politico (la richiesta esplicita di Trump all'Unione Europea di scegliere in quale campo stare). Almeno in questo senso il tanto lavoro fatto e il tanto tempo passato insieme non sono stati inutili.

Buona domenica!

mercoledì 16 aprile 2025

Le analisi dell'Europa

Ricorderete l'immortale scena in cui una delle tante di passaggio rimprovera a Woody Allen di aver creduto, nella sua ipocondria, di essersi preso un melanoma, e lui replica: "Ma avevo una macchia nera sulla schiena!", e lei controbatte: "Sì, ma era sulla camicia!"

Ieri anche il vostro ecclesiarca aveva qualcosa di simile a una macchia nera sulla camicia (il colore era un altro, non era la camicia e non era una macchia, ma insomma...), e quindi questa mattina ha colto l'occasione per vincere la pigrizia e fare tutte le analisi in programma (tutte negative, nel senso di positive, perché, sempre per citare il noto attore, passata una certa età le parole che è più bello sentirsi dire non sono "ti amo!", ma: "è benigno").

Con l'occasione, mi è venuto in mente (perché la mia ecclesia è naturalmente sempre in cima ai miei pensieri) che vi avevo promesso, qualche post fa, di farvi vedere le analisi dell'Europa, cioè come si stavano comportando i vari Stati alla luce degli indicatori della MIP (Macroeconomic Imbalances Procedure). L'idea era un po' quella di vedere, laddove arrivasse uno sgrullone (ad esempio una crisi finanziaria, perché la storia non è finita...), quali Stati membri sarebbero più esposti a rischi, almeno secondo le metriche dei nostri illuminati sovragovernanti.

Il quadro di sintesi è questo:


e come vedete noi siamo ultimi (cioè primi) a pari merito con la Polonia, mentre il maggior numero di analisi positive (cioè di segnali di allarme) lo consegue l'Irlanda, l'unica ad avere sei valori fuori scala.

Il quadro di dettaglio è questo:


Mi interessano e incuriosiscono le vostre considerazioni.

Come vedete, in alcuni casi i segnali che provengono da questo cruscotto sono o sembrano contraddittori. Ma questo difficilmente colpirà l'attenzione dei nostri amici piddini. L'unica cosa che avranno difficoltà ad accettare è che secondo la loro amata Leuropa l'odiata Italia (Paese di mandolinisti) sia la prima della classe...

Sul significato da attribuire a questa classifica potremmo esercitarci a lungo.

Chi comincia?

venerdì 4 aprile 2025

Lessico (non) famigliare

Scusate, ma siccome vedo che la panna monta (come al tempo della Brexit, che, ci tengo a ricordarlo, non è andata come dicevano i terroristi), mi limito sommessamente a ricordare che l'integrazione economica prevede normalmente queste tappe:


Di tutta questa storia probabilmente ci interessa la nostra situazione, che è quella di una unione economica e monetaria, cioè dell'integrazione fra:

  1. un mercato comune,
  2. un'unione doganale
  3. un'unione monetaria.

Tralasciando come funzionano il mercato comune e l'unione monetaria (entrambi male, perché sono incompatibili, dato che l'esistenza di un'unione monetaria obbliga i Paesi membri del mercato comune a reagire con politiche restrittive, cioè a fare competizione coi salari, abbattendo il potere di acquisto dei partecipanti al mercato, come Draghi chiedeva nel 2011 e ha rinnegato nel 2024), mi soffermo su come funziona una unione doganale, anche nota agli europei come Zollverein, dal nome del suo più illustre precedente storico.

In un'unione doganale non solo si abbattono le barriere commerciali interne all'area (cioè, per semplificare, si portano a zero i dazi fra i Paesi membri), cosa che avviene anche in una zona di libero scambio (esempio attuale: l'ASEAN), ma si adotta anche una tariffa doganale unica verso le merci che arrivano dall'esterno. I singoli membri di una zona di libero scambio, in altri termini, possono farsi concorrenza (o proteggersi) abbattendo (o mettendo) dazi verso paesi terzi diversi da quelli vigenti negli altri Paesi membri della zona. In un'unione doganale, invece, il dazio sulle merci che entrano (precisazione pleonastica, ma purtroppo occorre farla, dato il livello...) è uguale per tutti i Paesi membri.

Ora, il dazio è intrinsecamente imposto sui flussi di merci in entrata a un Paese. I dazi sulle esportazioni sono eccezioni limitatissime e circoscritte. Visto che il mondo è pieno di analfabeti soggetti al principio di autorità, ecco un riferimento utile:


Inoltre, un'Unione doganale ovviamente regola le tariffe imposte alle merci in entrate dai Paesi che ad essa appartengono, non quelle praticate dai Paesi che ad essa non appartengono, per lo stesso motivo per il quale, che so, un abbattimento del cuneo fiscale deciso dal Governo italiano non si applica ai cittadini statunitensi o neozelandesi (mi fa strano doverlo dire, ma qualcosa mi lascia intuire che è necessario).

Ne deriva che la strana idea secondo cui gli Stati Uniti non potrebbero applicare dazi diversificati ai Paesi dell'Unione Europea perché questi sono membri di un'Unione doganale o perché m'ha detto mi cuggino che er commercio è competenza esclusiva dell'Unione ai sensi dell'art. 3 TFUE non ha alcun fondamento!

Gli Stati Uniti non possono decidere quali dazi carichiamo sulle loro merci in ingresso da noi (possono negoziarlo, non deciderlo), e quei dazi dovranno però essere identici per tutti i Paesi dell'Unione Europea perché essa è anche una Unione doganale. Ma noi non possiamo decidere che gli Stati Uniti mettano dazi uniformi sulle nostre merci in ingresso da loro, perché che cosa fanno a casa loro lo decidono loro, perché non sono membri della nostra Unione doganale, e perché se anche lo fossero l'Unione doganale si preoccupa dei dazi all'import nostro (export degli altri), non all'import altrui (export nostro)! Quindi è assolutamente possibile dal punto di vista economico, logico, astratto e concreto che gli Usa decidano di applicare dazi diversificati ai Paesi membri dell'UE, perché il fatto che noi siamo una Unione doganale riguarda noi e il modo in cui abbiamo deciso di non farci concorrenza o di non proteggerci con tariffe doganali unificate, ma non riguarda loro. Tanto è vero che è già successo, e a gennaio ve ne ho fatto un esempio qui. Non solo! L'ottimo Borghi ha anche rintracciato una ammissione piuttosto ovvia di un personaggio che alcuni potrebbero considerare autorevole:


Non so se è chiaro!

Basta così, o volete dell'altro?

Lo so, questa spiegazione sembrerà assurda, perché è assurdo che la si debba dare.

Ma visto che funziona così, allora meglio togliersi il pensiero, così poi passiamo ad altro.

Aggiungo però una sottolineatura politica. Forse di questo strano trucchetto (consistente nel fatto che i membri di una unione doganale devono avere dazi uniformi in entrata, ma possono subire dazi diversificati in uscita, per il semplice motivo che i loro dazi in uscita in realtà sono i dazi in entrata di Paesi terzi che decidono loro quanto far pagare e a chi perché nulla hanno a che spartire con le logiche di una Unione doganale cui non appartengono!) sarebbe meglio non parlare troppo, e il negoziato bilaterale sarebbe meglio farlo (come staranno facendo Francia e Germania) anziché annunciarlo. Va bene che la turba così si sommuove e "laika" (voce del verbo "laikare", ma anche nome di un cane che finì male), ma nell'affermare certe cose si mettono inutilmente in imbarazzo i membri di Governo, si costringono altri membri di Governo a dire leggere imprecisioni, e soprattutto si afferma una cosa che l'arbitro che gioca con i nostri avversari non è disposto ad accettare: che il progetto unionale è fallimentare. E perché turbare così un personaggio cui invece deve andare la nostra riverenza e il cui sogno non va turbato? Ci sono situazioni in cui le cosa vanno fatte, non dette. E se chi ci dovrebbe sostenere nella nostra battaglia di buonsenso non lo capisce, amen! Siamo veramente così convinti che ci occorra il consenso di chi, per soddisfare il proprio narcisistico bisogno di aver votato "le persone giuste", costringe sistematicamente le persone giuste a fare la cosa sbagliata, cioè a svelare al nemico le sue posizioni?

Io no.

Ma io sò strano...

sabato 29 marzo 2025

La coalizione dei volenterosi

Quello europeo è innanzitutto un progetto di propaganda ben strutturato, sorretto da un lessico peculiare, che spicca per essenzialità: poche parole a sostegno di poche idee che grazie all’incisività del lessico non appaiono molto confuse, come poi si rivelano essere alla prova dei fatti. Questa economia di concetti è ovviamente funzionale alla loro rapida e sincronica diffusione. Ogni tanto saltano fuori dal nulla parole desuete, o comunque in qualche modo decontestualizzate, e si impongono rapidamente, diventando onnipresenti: un buon esempio è la parola “resilienza”, ma ne abbiamo viste tante altre (pensiamo ad esempio all’aggettivo “giusta”, utilizzato prima per la transizione e poi per la pace).

L’ultimo arrivato in questa nidiata di stronzate luoghi comuni è il concetto di “coalizione dei volenterosi”. Va innanzitutto, detto che la traduzione non aiuta. Il fatto che le regole (e, aggiungo io, non solo quelle) siano scritte in inglese, ma pensate in tedesco, prima di essere tradotte in italiano, determina degli infelici slittamenti del campo semantico. In inglese è willing chi è intenzionato, disposto, a fare qualcosa chi cioè vuole farla, nel senso di fare quella precisa cosa. Provate a tradurre “I’m willing to cook dinner tonight” con “sono volenteroso di cucinare la cena stasera”! Chiaro il concetto, no? In italiano, viceversa, a testimonianza forse di una saggezza più antica, il concetto di “volenteroso” rinvia naturalmente a quel particolare tipo di fallimento che arriva spedito su una strada lastricata di buone intenzioni. Non a caso il nostro megafono piddino preferito, la Three dogs, come esempio dell’uso di questo aggettivo ci propone: “un allievo non molto intelligente, ma volenteroso“. Che è esattamente come sembrano gli attuali commissari influencer europei. “Volenteroso”, insomma, in italiano, che lo si voglia o no, è comunque, un cugino non troppo distante di “velleitario”, nel senso che anche quando non prelude a un fallimento, non esprime una volontà, un impegno, una disposizione precisa, ma una generica predisposizione al fare. Qualcuno direbbe: un “do something”! Sempre dalla Three dogs: “La nuova impiegata è solerte e volenterosa”. Bene! Ci fa piacere! Ma i risultati?…

Tenete a mente questo esempio, perché non è banale, tutt’altro! Il vero motivo per il quale non sarà mai possibile attivare un reale processo democratico nell’Unione Europea e che questa è un progetto pensato negli Stati Uniti e scritto in inglese, e dei suoi potenziali cittadini solo una stretta minoranza pensa in inglese. La democrazia “europea” cadrebbe rapidamente vittima dei false friends, di cui la coalizione dei “volenterosi” (che sarebbero in realtà gli “intenzionati”, cioè i  malintenzionati), è un preclaro esempio.

Comunque, al netto di queste non sottigliezze ma fondamentali questioni semantiche, tutti si rendono conto del fatto che l’esistenza stessa di una coalizione dei volenterosi decreta la fine dell’Unione Europea, ma credo che pochi sappiano, anche fra voi, e nonostante io ve lo abbia già detto, che questo simpatico termine è stato inserito nel circuito della propaganda europea dall’organo principe della propaganda europea in un lavoro che teorizza la fine dell’Unione Europea!

Vale quindi la pena di ribadirlo.

A quanto mi consta, ma potrei sbagliare, una delle prime occorrenze del termine “coalition of willings” si rinviene in “Europe’s challenge and opportunity: building coalitions of the willing” pubblicato il 14 febbraio scorso su Vox da due vecchi amici del blog: Olivier e Jean (e il giorno prima su Bruegel e PIIE).

La nostra valutazione di simili coalizioni è piuttosto semplice: se in una unione a 27 per risolvere i problemi bisogna ritrovarsi in cinque, vuol dire che l’unione a 27 è inutile (me lo avete sentito dire fin dall’inizio). Questo però è un ragionamento di tipo induttivo: parte dall’esperienza concreta e ne trae una inferenza. La cosa interessante del lavoro dell’autorevole coppia invece il suo procedimento deduttivo: anziché desumere il fallimento del progetto dall’evidenza concreta, chiarisce per quali motivi il progetto non può non fallire, e questi motivi sono tanto incontestabili quanto sorprendenti se confrontati con la retorica dei cosiddetti Stati Uniti d’Europa (sui quali pesa il verdetto del compagno Lenin, che non necessita di essere contestualizzato, essendo tuttora attualissimo, a differenza dei deliri di alcune persone probabilmente sottoposte ad una dieta povera di calorie).

Partendo, come usa fare di questi tempi per rafforzare argomenti farlocchi, dal presupposto che vi sia una minaccia esterna (che per l’autorevole coppia è costituita da Trump, non da Putin), i nostri cari amici ci dicono che l’Unione Europea non può però contrastarla per due motivi: è troppo piccola ed è troppo divisa. Al problema delle dimensioni si può ovviare, paradossalmente, creando delle alleanze a geometria variabile che però coinvolgano anche Stati non membri: gli ipotetici allargamenti previsti, che si tradurrebbero nel caricarsi a bordo una manica di derelitti, non risolverebbero il problema, così come non lo risolverebbe l’unione politica, perché il tutto sarebbe pur sempre la somma delle parti. Naturalmente con la stessa metodologia si risolve anche il problema delle divisioni: basta partire da un nucleo di Stati che abbiano idee sufficientemente omogenee su un determinato problema. Questo ragionamento, che vi invito a leggere sulla fonte originale, sancisce al tempo stesso il fallimento di un processo di integrazione totalitario, tutto incentrato sul feticcio del cosiddetto acquis communautaire, un dato a noi sufficientemente chiaro da tempo grazie alle analisi di Giandomenico Maione:


e, paradossalmente, la lungimiranza e il potenziale successo (nonostante gli attuali fallimenti, derivanti dal carattere estemporaneo delle iniziative e dalla loro volontà di convivere con un quadro istituzionale profondamente sbagliato, come quello unione) di quella ristrutturazione dell’integrazione europea in un sistema di giurisdizioni funzionali sovrapposte di cui parlava Bruno Frey e che qui conoscete da tempo.

Questo giusto per sottolineare una cosa: quello che gli abbietti operatori informativi hanno da sempre banalizzato come un lavoro puramente “ventrale“ di contestazione velleitaria, pregiudiziale, demagogica dell’ordine naturale delle cose, in realtà è stato qualcosa di totalmente diverso: un lavoro di analisi e di proposta su cui, alla fine, anche chi ha strenuamente difeso l’indifendibile è costretto a convergere.

DVCVNT VOLENTES FATA NOLENTES TRAHVNT.

Questo non ve lo dice LVI, ma io, quindi succede e, appunto, la “coalizione dei volenterosi” è uno dei tanti casi in cui è successo! Rilassatevi quindi: la fine dell’incubo è ormai apertamente teorizzata. Questo naturalmente prelude a incubi peggiori, se non si intercetta correttamente e non si gestisce il momento “rivoluzionario”. Per questo contiamo sulla vostra attenzione e sul vostro sostegno.

martedì 11 marzo 2025

La logica del RearmEu

 (...è ovviamente un'applicazione della logica eurista, sulla quale ci siamo spesso intrattenuti, l'ultima  volta qui, dove trovate anche il rinvio alle cinque puntate precedenti...)

Luebete ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Un'utile sintesi":


Per come procede la discussione riguardo il riarmo europeo capisco che:

- dobbiamo armarci contro una nazione che fino a ieri combatteva con le pale e i chip delle lavatrici

- dobbiamo armarci contro una nazione che ci vuole colpire per obbligarci a comprare il suo gas che è più economico (perchè siamo furbi)

- impiegheremo anni per armarci e la nazione contro cui dovremmo difenderci aspetterà tranquillamente tutto il tempo

- dobbiamo armarci per difenderci da una nazione che se ci attacca fa scattare l'art. 5 della Nato (visto che ci siamo tutti dentro) e che rischia di essere rasa al suolo

- dobbiamo armarci contro una nazione con un PIL più piccolo del nostro e che non avrebbe i mezzi per garantire la stabilità della zona che ha conquistato

- la spesa per armarci sarà scorporata dai vincoli europei, ma dobbiamo comunque trovare i soldi perchè gli 800 miliardi erano una trovata pubblicitaria

- per armarci dobbiamo comprare prodotti bellici esclusivamente europei dopo che, avendo distrutto la nostra industria, al massimo possiamo produrre cerbottane (che forse sono efficaci contro le pale)

- dobbiamo produrre acciaio e veicoli bellici, ma io devo comprare l'auto elettrica per salvare il pianeta, così che le forze armate possono usare un carro armato che va a bitume.

- dobbiamo armarci per avere i carri armati col dubbio che i ponti sul Po possano reggere il peso

- i 70 anni di pace che ci ha dato Lueropa, erano proprio 70 e sono, purtroppissimo, finiti

- dobbiamo armarci proprio ora che l'unico conflitto europeo sta volgendo al termine

- per armarci dobbiamo fare il debito comune (denominatore o multiplo?) che però non può essere garantito dalla BCE che non è qui per chiudere lo spread (nostro)

- dobbiamo armarci, ma chiudiamo gli ospedali che così nel caso i soldati si facciano male vanno alla clinica privata

- dobbiamo armarci per difenderci i confini che però sono brutti perché "immagina un mondo senza confini"...


Io, boh...


Pubblicato da Luebete su Goofynomics il giorno 11 mar 2025, 11:42


(...sinceramente credo che non ci sia altro da aggiungere sul piano di riarmo. Sull'esercito comune avevamo già detto tutto qui anni or sono. Direi che possiamo passare ad altro...)