Visualizzazione post con etichetta bilancia dei pagamenti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta bilancia dei pagamenti. Mostra tutti i post

sabato 30 agosto 2025

Premiata armeria Hellas: tredici anni dopo

Antonomasia ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Premiata armeria Hellas: saldi di fine stagione (1° parte)":


Chiarissimo Professore,

Sto preparando una proposta di progetto di ricerca in Diritto del'Unione Europea finalizzata a problematizzare alcuni passaggi della transizione verso la moneta unica a partire dall'Atto Unico Europeo.

Tuttavia, ritengo sia piuttosto velleitario rapportarsi in modo critico a questi temi senza aver maturato una coscienza critica delle storture economiche connaturate alla moneta unica.

Pertanto, ho deciso di ripercorrere dall'inizio i passaggi della Sua preziosa attività, che, del resto, fu la ragione per la quale, ormai quattro anni or sono, ho cominciato ad interessarmi di euro.

L'intento di questa premessa non è certo un goffo tentativo di captatio benevolentiae, quanto piuttosto una giustificazione che spero sia suscettibile di rendere un po' meno inappropriata la tardività del mio intervento sotto questo post, che ho trovato illuminante a tal punto che ho deciso di rivolgermi al database del WEO dell'aprile 2025 per costruire un grafico, sulla base dei dati riportati nella Figura 1 e 2, che constasse anche dei numeri relativi agli ultimi dodici anni, in modo da prendere coscienza degli sviluppi più recenti.

Ebbene, ho selezionato le voci "Total Investment", "Gross National Savings" e "Current Account Balance", tutte espresse in punti di PIL ma mi sono trovato innanzi a risultati diversi da quelli che Lei riporta nel post:


- Per quanto riguarda il primo balzo dell'indebitamento estero (biennio 1998-2000), mi risulta che le partite correnti in punti di PIL aumentano dal 2,7% al 6,1% (3,4 punti di PIL anziché 5).

- Per quanto attiene al secondo scalino (biennio 2005-2007) mi risulta che effettivamente l'indebitamento estero raddoppia (o quasi, dal 7,5% al 14,1%), ma che sia l'aumento degli investimenti (di circa 4,5 punti di PIL) a fungere da traino, anziché il calo del risparmio nazionale (circa 2,2 punti di PIL).


Ovviamente, parto dal presupposto che l'errore è mio - presumo sia legato alla scelta delle voci del database - ma le sarei grato se me lo potesse indicare.

Con immensa stima,

Valerio

Pubblicato da Antonomasia su Goofynomics il giorno 14 ago 2025, 15:20



Per chi si fosse messo in ascolto solo ora, nel post "Premiata armeria Hellas" ho mostrato in dettaglio la relazione fra risparmio nazionale, investimento nazionale, e saldo della bilancia dei pagamenti, cioè l'identità di contabilità nazionale:

CA = S - I

secondo cui se in un Paese il risparmio nazionale S supera gli investimenti nazionali I l'eccedenza viene prestata all'estero determinando un saldo positivo delle partite correnti (CA>0), cioè un accreditamento netto verso l'estero, mentre di converso se S è minore di I il saldo CA è negativo, cioè indica un indebitamento estero, conseguenza del fatto che gli investimenti nazionali vengono in parte finanziati con risparmio estero.

Questa relazione non è negoziabile: è così e basta, per definizione. Non ci possono essere errori: i soldi che vengono spesi da qualche parte devono arrivare, la partita doppia sconti non ne fa.

Con questa premessa, osservo che a me troppi complimenti e troppa modestia urtano subito i nervi, quindi ho aspettato un attimo a rispondere (anche perché qui il campo è poco e quindi prezioso). Il punto di metodo che a me sembra ovvio (ma io coi dati ci lavoro da sempre) è che prima di pronunciare la parola "errore" ci si dovrebbe accertare di usare il medesimo set di dati, altrimenti la parola da usare è un'altra. Errore mio o tuo (o suo, o nostro, o vostro, o loro) ci sarebbe se usando il dataset che usavo nel post del 2012 si ottenesse un risultato diverso da quello che mostravo nel post, cioè da questo:


Per scrupolo, ho rifatto il grafico con la stessa fonte (questa) e ho ottenuto gli stessi risultati:


Se però uso la fonte citata dal cerimonioso amico, senza sorpresa alcuna ottengo i risultati che dice lui:


come potrà esservi più chiaro se rappresento questi dati in forma tabellare, concentrandomi in particolare sulle variazioni fra 1998 e 2000 e fra 2005 e 2007:


Quindi, ossequioso Tommaso, errori non ce ne sono: coi miei dati la formula (che non può sbagliare) dà i risultati che dico io, e con i tuoi dà quelli che dici tu. Non si tratta pertanto di errore, ma di revisione. Ci deve essere stata una revisione delle statistiche, e per vederlo basta raffrontare i dati del 2011 con quelli più recenti (che rappresento con tratteggio):


La cosa che salta all'occhio è che la revisione ha avuto un impatto pressoché impercettibile sul saldo (grigio), perché i flussi sono entrambi traslati verso l'alto di qualcosa fra uno e quattro punti di Pil, a seconda delle circostanze. Il messaggio complessivo non è cambiato molto (ci torno dopo), ma intanto segnalo che questa revisione è relativamente recente ed è stata analizzata in dettaglio da un nostro amico:


le cui conclusioni sono che il lodevole tentativo di armonizzare le statistiche nazionali greche con quelle degli altri Paesi europei abbia portato ELSTAT a produrre dati di qualità, diciamo, migliorabile (chi mi segue sa che cosa significa: "ci sono ampi margini di miglioramento").

Non entro nei dettagli tecnici del ragionamento (chi vuole approfondirli potrà farlo sul paper di Gennaro), ma uno dei problemi riscontrati è col deflatore degli investimenti e questo ovviamente impatta sulla relazione CA = S-I.

Fatta questa precisazione, che serve anche a ricordarci come i dati macroeconomici non siano incisi nel marmo (nessun dato lo è, nemmeno nelle scienze sperimentali), ma siano il risultato di stime, per cui riscritture più o meno involontarie della storia sono sempre dietro l'angolo, possiamo porci la domanda di come questa particolare riscrittura impatti sulla nostra lettura della crisi greca, basata sul modello "centro-periferia" (ciclo di Frenkel). Direi non moltissimo: l'indebitamento estero resta tutto lì (la riscrittura non altera l'andamento del saldo estero), e il fatto che dopo questa revisione dei dati esso sembri attribuibile un po' di meno alle famiglie e un po' di più alle imprese non cambia la sostanza delle cose, che è che se l'ingresso nell'euro non avesse distorto pesantemente il mercato dei capitali in Grecia, portando il costo del denaro molto lontano (verso il basso) dal suo valore di equilibrio, nessuno, né le famiglie, né le imprese, avrebbe avuto un incentivo così forte a indebitarsi (con banche estere).

Direi quindi che nel dubbio se la revisione effettuata da ELSTAT sia effettivamente valida, possiamo continuare a prendere per buona la nostra analisi del 2012. Certo, ora le cose sono andate avanti, e quindi possiamo toglierci la curiosità di vedere questa sfaccettatura del miracolo greco:


che così miracoloso non è: la correzione del 2011-2012 è evidente ed è in parte determinata da un aumento del risparmio e in parte da una diminuzione degli investimenti, che poi procedono pari passu fin quanto la pandemia non sconvolge il quadro, determinando prima una diminuzione del risparmio, e poi un aumento degli investimenti, che entrambi riportano il saldo estero verso le due cifre. Come di consueto, il Fmi ci rassicura: le previsioni (a destra della retta verticale rossa) ci dicono che il saldo estero migliorerà perché aumenterà il risparmio nazionale. Fra altri tredici anni sapremo che cosa pensare di queste previsioni (o meglio: avremo la certezza che quanto ne pensiamo ora - tutto il male possibile! - era corretto).

Spero che questo ripasso sia servito, e che se qualcuno, arrivato dopo, si era perso quel post, si sia incuriosito e sia andato a recuperarlo, perché è in effetti uno dei post "fondanti" del blog.

E con questa esortazione, vi auguro buona notte!

giovedì 19 giugno 2025

Miran vs Obstfeld

Il lavoro di Miran è qui, quello di Obstfeld qui. Meritano entrambi un’attenta lettura, nella quale cercherò di assistervi. Il secondo critica il primo, con argomenti fondati, e nel farlo fornisce un’algebra utile per interpretare i trend che abbiamo descritto qui e rispondere alle domande che si poneva ad esempio Simo97 qui.

(…io però ci dormo sopra. Sono a Milano sfasciato dal caldo, domani assisto nel mio ruolo istituzionale all’incontro della CONSOB coi mercati, e poi me ne torno giù, facendo tappa a Roma prima di salire dove si respira…)

venerdì 6 giugno 2025

Chi esporta merci esporta capitale (umano)

Abbiamo ormai perso ogni speranza di far capire al secol superbo e sciocco (LVI incluso) che per mera contabilità la somma dei saldi merci e capitali (rectius: la somma algebrica del saldo delle partite correnti e del conto finanziario della bilancia dei pagamenti) deve (must) essere nulla. Non si tratta di alchimia o di convenzione! Si tratta della rappresentazione nitida e facilmente comprensibile di un dato di fatto. Quando l’esportatore italiano incassa dollari (e in bilancia dei pagamenti si registra quindi un segno più, come sempre quando la valuta entra), la storia non finisce, ne manca un pezzo importante.

Con i suoi dollari l’esportatore può fare tre cose:

1) tenerli in tasca (ma a meno che non sia Eta Beta questa strategia potrebbe dimostrarsi rapidamente insostenibile, oltre a essere finanziariamente poco conveniente);

2) acquistarci attività finanziarie denominate in dollari, per non tenere contante ozioso e infruttifero, nel qual caso in bilancia dei pagamenti si registrerebbe un segno meno (un’uscita di valuta annotata nel conto finanziario);

3) convertirli in euro per comprarsi un gelato (o per fare investimenti produttivi), nel qual caso si registrerebbe ugualmente un segno meno sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti, perché la Banca centrale non è come il deposito di Paperone un gigantesco hangar blindato colmo di dollaroni metallici ballanti e sonanti, ma un ufficio popolato da una burocrazia più o meno amica del Paese ma sicuramente razionale, che quindi con i dollari che le vengono ceduti in cambio di euro acquista attività denominate in dollari (con relativa annotazione in uscita nella bilancia dei pagamenti).

Punto.

È così difficile? Apparentemente sì, se perfino LVI non capisce che non puoi chiedere al contempo più competitività e meno fuga di capitali! La competitività, in quanto venga raggiunta, si manifesta come esportazione di merci e quindi esportazione (o fuga) di capitali.

Ri-punto.

Ma c’è un’altro aspetto su cui non si riflette abbastanza, che nessuno vede (strano…), nonostante sia sotto gli occhi di tutti, nonostante perfino 🍇 lo abbia in qualche modo confessato a denti stretti.

Seguitemi: per esportare devi essere competitivo, giusto? Per essere competitivo devi tagliare i salari (lo ha detto Draghi), giusto? Ma se i salari di ingresso sono troppo bassi, che cosa fanno i giovani migliori? Ma è semplice: emigrano in cerca di migliori opportunità! Quindi in un’unione monetaria chi vuole esportare merci vuole esportare capitale umano, vuole separarsi dai propri figli.

Dite che non vuole?

Eh, no: Keynes dice che vuole, perché ricordate che cosa afferma ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”? Ve lo ricordo: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo”! Quindi quando sentite qualcuno, come 🍇 o chi gli è intellettualmente subalterno, parlare di competitività della nostra economia sappiate che lui vuole separarvi dai vostri figli, di quello sta parlando, perché ora funziona così, perché qualcuno (non noi) ha voluto che funzionasse così. Il presupposto per non esportare capitale umano è un mercato interno florido e dinamico, è un modello di crescita basato sulla domanda interna, e quindi wage led, non export led.

Aspetto argomentate confutazioni di queste ovvietà.

Ma ora… decollo per Genova!

Destroying domestic demand: il disegnino

Credo che qui tutti ricordino le parole di Monti: "We are actually destroying domestic demand..." (per chi se le fosse dimenticate o non le avesse mai sentite sono qui), la spudorata confessione del fatto che le politiche procicliche, il consolidamento fiscale, insomma, l'austerità, era stata una politica deliberata volta a recuperare competitività, come oggi ammette lo stesso Draghi:


(per i diversamente capaci di unire i puntini: in altre parole, il risanamento dei conti pubblici era solo un pretesto per effettuare politiche redistributive accampando uno stato di necessità, e infatti i conti pubblici non li abbiamo risanati e mai avremmo potuto farlo così per i motivi a suo tempo esposti).

Per un qualche motivo mi è venuta voglia di fare il disegnino di questo bel capolavoro, non tanto quello dell'Italia (ormai lo conoscete), quanto quello dell'Unione Europea:


Qui vedete i dati dell'OCSE. Notate che gli Stati Uniti viaggiano su livelli di domanda interna (definita come somma di consumi, compresi quelli pubblici, e investimenti, compresa la variazione delle scorte) superiori al 100% del Pil: è un dato coerente con la loro posizione di importatori netti. Noterete anche che dalla metà degli anni '90 sostanzialmente all'inizio della crisi dei subprime questa percentuale è andata crescendo, fino a quando il botto del 2008 non ha un po' ridimensionato la domanda interna (via crollo del credito).

Il tracciato europeo è molto diverso. Per sedici anni il peso della domanda interna è rimasto sostanzialmente costante. Poi, dopo il 2011, si è ridimensionato bruscamente, scendendo di più di due punti percentuali, per poi rimanere su un sentiero inferiore.

Questa cosa si vede anche coi dati AMECO:


e anche coi dati Eurostat:


Insomma: è nei dati.

Nei dati, naturalmente, c'è anche quella che abbiamo chiamato la "sostituzione etnica" di una platea di consumatori con un'altra:


Si vede bene, no?

Qui gli ultimi tre anni sono previsti, e la previsione è che a breve questo assetto rimanga invariato, nonostante i pressanti e accorati appelli a rinvigorire la domanda interna (ma anche la competitività, cioè la domanda estera) dell'Eurozona. Il grafico si divide esattamente in due: nella prima metà, il mercato interno funziona (i tedeschi vendono e i PIGS comprano), e quindi i conti con l'estero sono in equilibrio. Nella seconda metà il mercato interno non funziona: i tedeschi vogliono vendere ma i PIGS non possono più comprare (essendo stata destroyed their domestic demand, cioè i loro redditi), per cui il surplus produttivo si scarica all'estero generando gli squilibri che sappiamo e cui gli Stati Uniti hanno reagito come sappiamo.

Dice: "E vabbè, ma quanto sò incazzosi gli americani! Che vuoi che siano tre punti di Pil di surplus!? Sta a gguardà er Pil nell'uovo..."

Beh, come vi ho spiegato il 5 marzo a Roma, tre punti di Pil sò 400 mijardi di euro, e la storia ci insegna che gli americani hanno ucciso (figuratamente, e non solo) per molto meno:


Lo so, sono cose che sapete, che sappiamo, soprattutto qui (le sappiamo dal 2011, da prima che ce le spiegasse Monti, cui noi spiegammo in anticipo il suo fallimento: Draghi con tutto il rispetto non è nemmeno in partita!...).

Tuttavia, pensavo che questo disegnino:


potesse interessarvi.

Sperando di aver fatto cosa gradita, mi pregio pertanto di porgervi i miei più cordiali saluti (e vado a fare un altro disegnino).

Il vostro affezionatissimo,

Guru.

mercoledì 14 maggio 2025

I migranti ci pagano le pensioni

(...in questo momento sui canali social del mio ateneo potete assistere alla diretta Facebook di questo evento che coinvolge un amico mio e di a/simmetrie, ai cui eventi ha partecipato, il senatore Castelli. Non si rinviene traccia del convegno cui ho partecipato io, per cui vi metto qui al volo le slides dell'intervento, che è stato molto apprezzato, insieme con le parole che mi ricordo di aver detto...)


Ringrazio per l'invito il Prof. Veraldi, che mi fornisce questa opportunità di potermi esprimere nel mio ateneo, occasione piuttosto rara. Agli studenti dell'IPSAR De Cecco, per presentarmi, dirò che io sono uno di quei personaggi nullafacenti, incompetenti e potenzialmente corrotti che vanno sotto il nome di politici: così vi vengono presentati dai media, se li consultate. Saluto il comandante della Legione Abruzzo e Molise, come questa mattina, a Pennapiedimonte, ho salutato i suoi uomini impiegati nelle indagini sul tragico fatto che ha colpito la nostra comunità il 30 aprile scorso. Sottolineo che essendo nato a Raiano, cioè in provincia dell'Aquila, il comandante qui è in qualche modo un migrante, cioè un immigrato, che ha dovuto attraversare ben due frontiere per raggiungerci: quella con la provincia di Pescara e quella con la provincia di Chieti. Chi conosce (e subisce) la forza delle identità locali abruzzesi non può che apprezzarne il coraggio! Nonostante la conquista romana, nonostante il successivo il passaggio di diversi fronti, da quello fra longobardi e bizantini a quello fra canadesi e tedeschi, e l'apporto di diverse comunità, jugoslave (Schiavi d'Abruzzo), greche (pensiamo a San Nicola Greco), l'impronta dei nove popoli abruzzesi (Osci, Marsi, Vestini, Peligni, Marrucini, Pentri,  Frentani, Carricini, Sanniti) è ancora molto forte.

Qualcuno ha ricordato che oggi è la giornata dell'Europa. Voglio ricordare che oggi è anche la giornata dedicata alle vittime del terrorismo, perché 47 anni fa venne ritrovato il corpo di Aldo Moro, una delle vittime più note di quella tragica stagione. Non è un ricordo estemporaneo: più tardi parleremo di storia italiana, e ha un senso menzionare quel periodo così violento e tragico.

Ringrazio infine Sua Eccellenza per il suo intervento come sempre ricco di stimoli. Abbiamo sentito uomini di scienza esporre giudizi di valore. Sua Eccellenza ha fatto un'operazione di grande rilievo scientifico: ha dichiarato di voler fare un intervento schierato (schierato, aggiungo io, dalla parte di chi per la propria fragilità merita appunto di essere difeso), ha cioè dichiarato le sue premesse di valore. Questa è un'operazione che ogni scienziato dovrebbe fare, perché le parole della scienza, come ci ha insegnato un grande premio Nobel, Gunnar Myrdal, sono portatrici, spesso involontarie, di giudizi di valore, di valutazioni etiche (buono/cattivo), insidiose perché si presentano sotto le mentite spoglie di una falsa oggettività e con l'autorevolezza, che diventa auctoritas, del ruolo scientifico di chi le propone. Trovo illuminante il fatto che per mettere in guardia da questo pericolo Myrdal faccia l'esempio del termine "integrazione economica". La disintegrazione porta con sé una serie di connotazioni aggressive, negative: non per questo però l'integrazione è sempre cosa buona. Ma la scelta dei termini conta.

Il mio ruolo istituzionale è quello di presidente della Commissione di controllo sugli enti pensionistici. Abbiamo appena terminato un'indagine sugli investimenti finanziari delle casse previdenziali, ne stiamo avviando una sulla sostenibilità del sistema, e in quel contesto troverà naturale collocazione una valutazione del contributo che gli immigrati danno al sistema pensionistico. Insisto sul termine immigrati perché migrano anche gli emigrati, che al sistema pensionistico, per ovvi motivi, non danno un contributo (anche se, come ricorderemo più avanti, possono darlo al Paese nel suo complesso). I flussi di uomini, come quelli di capitali, hanno una direzione, e questa direzione è elemento determinante per la valutazione dei loro effetti. L'indagine non è ancora stata svolta e quindi non posso riferirvene i risultati, ma vi fornirò qualche elemento di riflessione per inquadrare l'argomento, e parto ancora una volta da due spunti forniti dall'intervento di Sua Eccellenza.

Nel suo discorso Sua Eccellenza ha ricondotto la motivazione profonda dei flussi migratori all'aspirazione individuale, naturale e insopprimibile, alla felicità. Un'aspirazione così connaturata all'essere umano che alcune costituzioni, in particolare una che potremmo scherzosamente definire più costituzione delle altre, nella fattoria delle costituzioni, pongono esplicitamente la ricerca della felicità fra i diritti inalienabili dell'essere umano. Ora, nessuno di noi è animato da una irrazionale pulsione repressiva verso questo inalienabile diritto. Ci riconosciamo anzi nelle parole dello zio Tobias: "—go, poor devil, get thee gone, why should I hurt thee ?—This world surely is wide enough to hold both thee and me." [NdCN: la citazione di Sterne è solo per voi, ovviamente...].

Si pone però un problema. Non credo lo sappiate, ma da quattordici anni tengo un blog, un blog di cui questo ateneo dovrebbe essere fiero, visto che la terza missione riceve sempre più attenzione, poiché non è cosa usuale che il blog di un economista batta per due anni di file il Sole 24 Ore alla Festa della Rete! L'articolo più letto del mio blog però non parla di economia: riferisce il dialogo che ho avuto con un africano che mi chiedeva l'elemosina. La cosa più evidente era che a questa persona era stata data un'idea assolutamente fuorviante del nostro Paese, gli era stato dipinto come un Eden, e non gli era stato fornito un dato fondamentale: che da noi il tasso di disoccupazione era (all'epoca) il doppio di quanto non fosse a casa sua, per cui molto difficilmente avrebbe potuto trovare un lavoro compatibile con la sua formazione (era un parrucchiere, a suo dire). Ecco: la ricerca della felicità non andrebbe costruita sulla prima manifestazione del Maligno, la menzogna! Eppure, è un dato di fatto che chi lucra su certi fenomeni diffonde menzogne sulle condizioni del nostro Paese, descrivendolo come un Eden, per renderlo più attrattivo. Credo sia invece importante che tutti, a partire da noi, abbiamo del nostro Paese un'immagine oggettiva, basata sui dati, e lo scopo del mio intervento è esattamente quello di fornirvela.

Infine, ho particolarmente apprezzato il richiamo di Sua Eccellenza alle parole di Benedetto XVI sul diritto a non emigrare, a non essere costretti ad avventurarsi in terre lontane e potenzialmente inospitali in cerca della propria felicità. Qualsiasi forma di costrizione, implicita o esplicita, è comunque incompatibile con una piena realizzazione dell'essere umano, e va evitato che la mobilità del lavoro diventi, nelle parole del Pontefice scomparso, un calvario per la sopravvivenza. Queste parole acquistano una grande pregnanza in Abruzzo, che che conta una comunità estera di numerosità quasi pari a quella della popolazione residente. Qui in Abruzzo, e in particolare qui, nella nostra provincia di Chieti, è vivo l'allarme per la diminuzione della popolazione, in gran parte dovuta al fatto che i nostri giovani, i giovani formati nelle nostre eccellenti università, sono costretti a cercare miglior fortuna altrove, come prima di loro i loro padri e i loro nonni. Intendiamoci: fare un'esperienza all'estero, laddove sia una scelta, è un fatto positivo, entusiasmante, che arricchisce innanzitutto umanamente e culturalmente. Sono tanti gli abruzzesi che hanno illustrato nel resto del mondo il nome della nostra Regione, grazie al loro ingegno, alla loro creatività, alla loro tenacia, alla loro capacità inesauribile di impegnarsi per raggiungere obiettivi. Ce ne sono, in particolare, nella professione che alcuni di voi intendono intraprendere. Tuttavia, in quanto vi mostrerò oggi oggi troverete anche le spiegazioni del perché, pur non volendolo, potreste essere costretti ad andarvene altrove.


In questo grafico sono rappresentati gli ultimi 76 anni di Pil italiano. Ricordo brevemente ai non specialisti che in una economia di mercato si produce per vendere e si vende per guadagnare. Questo significa che il Pil non è solo il valore di tutti i beni prodotti e i servizi erogati in una certa unità di tempo (in questo caso un anno), ma è anche la somma delle remunerazioni corrisposte Al lavoro e al capitale impiegati per produrli, ed è anche la somma delle varie voci di spesa effettuata per acquistare questi beni e servizi.

Il grafico riporta in blu i valori storici, mentre in arancione la retta che interpola i dati dal 1950 al 2007, e poi, in tratteggio, la sua estrapolazione dal 2008 al 2025. Naturalmente questa semplice estrapolazione statistica non ha alcun particolare valore scientifico. Non vi annoio con la teoria dei processi stocastici, ma rivendico la validità di questo strumento come ausilio per una analisi descrittiva dei dati. Prima abbiamo parlato del tragico sequestro Moro, di quegli anni di fortissima conflittualità sociale,ma avrei potuto parlare delle guerre che in questo periodo hanno sconvolto il mondo, a partire da quella del Vietnam, avrei potuto parlare delle crisi energetiche degli anni 70, quando il prezzo del petrolio decuplicò, avrei potuto parlare delle grandi crisi finanziarie, la crisi asiatica, ad esempio. Ecco, attraverso questo periodo scosso da turbamenti politici ed economici di scala tutto sommato non inferiore a quelli attuali il valore della nostra produzione, la somma delle nostre remunerazioni, è andata crescendo in modo più o meno costante. Dal 2007 in poi invece questa crescita si è arrestata. C’è stata sì una grande crisi finanziaria, quella del 2008, come ce ne erano state altre. Quella che è mancata però è stata la ripresa. Solo nel 2024 siamo tornati a un volume di reddito analogo a quello del 2007. Il paese ha perso 17 anni di crescita. Si tratta di un evento epocale, nel senso etimologico del termine: un evento che marca un’epoca. Noi non ne siamo consapevoli, ma fra due o tre secoli, e poi nei lunghi secoli a venire, gli storici si interrogheranno su che cosa è successo al nostro paese in questi 17 anni. La risposta non è difficile, e dipende da una scelta (sbagliata) di politica economica:


Questo grafico mostra l’andamento tendenziale e effettivo degli investimenti pubblici. Ricordo ai non esperti che in macroeconomia per investimento si intende l’acquisto di beni capitali, di macchinari, di attrezzature, di mezzi di trasporto industriali, insomma, di manufatti che servono a produrre altri beni, o di infrastrutture, come le strade, i ponti, eccetera. Non si intende per investimento quello finanziario, cioè l'acquisto di un prodotto finanziario (titolo pubblico, azione, quota di fondo comune, polizza assicurativa, ecc.) coi propri risparmi. Il taglio degli investimenti pubblici, cioè delle infrastrutture, delle scuole, dei ponti, degli ospedali, delle strade, in una fase in cui l’economia non stava andando bene dopo la crisi finanziaria scoppiata nel settembre 2008, ha ampliato e reso persistenti gli effetti di quella crisi. Si diceva che questo era necessario per ridurre la spesa pubblica, e si sosteneva che la spesa pubblica spiazza quella privata. L’argomento è che quando fa ricorso ai mercati, indebitandosi, per finanziare i propri investimenti, lo Stato fa alzare il tasso di interesse, e in questo modo scoraggia gli investimenti privati. Ci dovremmo quindi aspettare che a fronte di questo calo drastico degli investimenti pubblici ci sia stato un aumento degli investimenti privati che abbia tenuto il totale degli investimenti più o meno in linea. Invece è andata così:


Stranamente, per chi crede all’economia terrapiattista insegnata in certe università, il più protratto calo del Pil nell’intera storia dell’Italia unita è andato insieme al più protratto calo degli investimenti fissi lordi nella storia dell’Italia unita!

Ora, in effetti non è assolutamente strano che sia così, se ci pensate bene, perché le scelte di investimento Dei privati, cioè la scelta se ampliare o meno uno stabilimento, la scelta se localizzarlo in una o in un’altra provincia, la scelta di acquistare un macchinario capace di produrre un maggior numero di prodotti nell’unità di tempo, dipendono anche dal tasso di interesse, non esclusivamente dal tasso di interesse (come nel modello terrapiattista). Sono molto importanti, nelle scelte degli imprenditori veri (non di quelli raccontati dalle televisioni o dalle associazioni di categoria) anche altri fattori. Vi faccio un esempio utilizzando un bene che probabilmente tutti avrete visto una volta in vita vostra, la bottiglia da 33 cl di una nota marca di birra italiana. Forse non lo sapete ma se non tutte, quasi tutte queste bottiglie vengono prodotte da una azienda abruzzese. Visitando quella azienda ci è stato detto che non riuscivano ad aumentare il volume della produzione, cosa che avrebbero potuto e voluto fare, semplicemente perché non veniva fatta una bretella che avrebbe collegato il loro stabilimento al casello autostradale senza passare per un paese vicino, il cui traffico era già sufficientemente congestionato. Era il numero di camion che potevano entrare o uscire dall’azienda a limitarne il potenziale produttivo, e questo numero di camion dipendeva non dal tasso di interesse, ma dal fatto che si facesse o meno un investimento pubblico: una corta bretella autostradale.

L’investimento pubblico quindi non sempre spiazza: in molti casi incentiva l’investimento privato. D’altra parte, pensateci: si producono beni per venderli, ma se non si riesce a portarli al mercato, che li si produce a fare? E la prima delle infrastrutture che uno Stato assicura è appunto quella di trasporto. Capito perché tagliando gli investimenti pubblici si sono tagliati gli investimenti privati e quindi si è abbattuta la capacità produttiva, la produttività del paese? Ma la storia naturalmente non finisce qui, visto che, come ci siamo detti, il Pil non è solo il valore della produzione, ma anche il valore delle remunerazioni corrisposte a chi l’ha posta in essere, e in particolare ai lavoratori. Che cosa è successo a queste remunerazioni? È successo questo:


Dato che il Pil è il valore della produzione ed è anche il totale delle remunerazioni dei fattori produttivi, fra cui le retribuzioni dei lavoratori , esattamente come il valore della produzione si è scostato verso il basso dal suo tendenziale, anche il valore delle retribuzioni dei lavoratori si è scostato verso il basso dal suo tendenziale. Sono praticamente la stessa cosa, si sono comportati nello stesso modo. E qui ci avviciniamo al discorso pensioni, naturalmente, perché visto che i contributi sociali, cioè la quota di retribuzione che viene trattenuta per corrispondere le pensioni, sono proporzionali alle retribuzioni, anche il gettito contributivo si è scostato verso il basso dal tendenziale. Sì, avete capito bene: esattamente quelle politiche di austerità fatte per salvare le generazioni future, fatte per alleviare il peso del debito e delle pensioni sulle vostre spalle, hanno reso più oneroso, più difficile da soddisfare, questo impegno, perché hanno prosciugato la fonte del suo finanziamento. Chi vi ha raccontato che stava facendo qualcosa per voi, in realtà stava lavorando contro di voi. E a proposito di generazioni future, c’è anche un altro dettaglio che andrebbe messo in evidenza. Retribuzioni basse, precarietà economica, impediscono di mettere su famiglia. Il risultato è questo qui:

Per 15 anni, dal 1995 al 2010, il numero di nati vivi in Italia era andato crescendo, seppure lievemente, in Italia. Dall’inizio della stagione dell’austerità si evidenzia un cambiamento strutturale molto appariscente, con un brusco calo dei nati vivi e un crollo della fertilità al valore attuale di 1,2 bambini per donna, assolutamente insufficiente, come è ovvio, ad assicurare il mantenimento della popolazione a un livello costante (per ottenere questo risultato il tasso di fertilità deve essere pari a 2,1). E infatti, la popolazione italiana è in drastico calo dalla stagione dell’austerità in qua.

Correlazione non vuol dire causazione, va da sé. Però questo:

cioè, il fatto che il brusco calo dei nati vivi sia contemporaneo al brusco scostamento del Pil dal suo tendenziale, è un fenomeno che va spiegato. Non vogliamo imporre l’idea che sia il calo del Pil ad aver determinato il calo delle nascite, ma se non è stato questo, che cosa è stato? Se non è stata la difficoltà di trovare lavoro e metter su famiglia a compromettere la demografia del nostro paese, che cosa può averla compromessa? Si accettano spiegazioni, di qualsiasi tipo, purché compatibili con l’andamento dei dati. Non credo che se ne troveranno di più convincenti di questa però.

C’è poi un altro aspetto. La sostenibilità del debito e del sistema pensionistico si misura ovviamente in rapporto al Pil. Perché? Perché il Pil è la somma dei redditi.in un paese dove si guadagna bene, si raccolgono molti contributi, e si possono pagare delle pensioni decenti. Se invece nel paese si comincia a guadagnare male, il peso delle pensioni sul Pil aumenta rendendo più difficile mantenere il patto di solidarietà intergenerazionale. Ora, il drastico calo del tasso di crescita del Pil dovuto alle politiche di austerità ha determinato una impennata del rapporto al Pil della spesa pensionistica. Lo vedete in questo grafico dove in blu è rappresentato l’andamento storico del rapporto spesa pensionistica/Pil e in arancione l’andamento che si sarebbe manifestato se il tasso di crescita del Pil fosse rimasto quello precedente alla stagione dell’austerità:

Insomma, tirando le fila del discorso, la sintesi di quanto ci siamo detti finora è questa:

E anche qui, sì, avete capito benissimo! Sono state esattamente le politiche messe in opera per farlo diminuire, cioè le politiche di austerità ad aver invece fatto aumentare il rapporto fra spesa pensionistica e Pil. Non è un risultato paradossale. In un rapporto il calo del denominatore Determina una esplosione che in circostanze piuttosto comuni può sovrastare quella di un pari ricavo del numeratore. Quindi, le politiche di austerità, cioè politiche che tagliano gli investimenti pubblici quando l’economia va male, cioè le politiche che assecondano la fase negativa del ciclo economico, che la accentuano, cioè le politiche, come dicono gli economisti,  procicliche, sono la causa della compromissione del sistema pensionistico, e quindi della compromissione del vostro futuro. E questo non ve lo dice un docente di questa università. Questo ve lo dice niente meno che il presidente Draghi, anche nessun giornale ha mai attirato la vostra attenzione sul significato delle sue parole:


Non ve le tradurrò, per il semplice motivo che, come avrete capito, il risultato delle politiche fatte per “salvarvi“ dai vostri genitori cattivi e che voi ve ne dovrete andare in giro per il mondo, quindi l’inglese è meglio che lo impariate subito, se già non lo sapete, e questo può essere un testo interessante sul quale esercitarsi, anche perché vi riguarda direttamente.

Quindi, voi ve ne andrete, e al vostro posto probabilmente verrà qualcun altro. La domanda che ci poniamo un po’ tutti è: ma chi verrà al posto vostro, darà un contributo al sistema sufficiente per renderlo sostenibile?

Vi fornisco qualche elemento di riflessione, visto che, come ho detto in premessa, conclusioni precise non ne ho, dal momento che l’indagine su questo aspetto ancora non l’ho effettuata. Intanto, una prima domanda che ci potremmo porre è se l’arrivo di persone appartenenti a popolazioni diverse dalla nostra possa dare un contributo significativo al tasso di fertilità nel nostro paese. La risposta è no, per un motivo molto semplice, che vedete in questo grafico:

In questo grafico vedete rappresentato il tasso di fertilità di alcuni paesi. La linea rossa tratteggiata è posta a 2,1 figli per donna, il tasso di fertilità che, come vi dicevo, consente di mantenere la popolazione costante, tenuto conto della mortalità infantile. Il tasso di fertilità dell’Italia è la barra in rosso ed è 1,2, sotto il livello di rimpiazzo.

Ora, naturalmente, sappiamo che avere un tasso di fertilità così basso crea dei problemi, ma non è detto che avere un tasso di fertilità molto alto sia necessariamente una soluzione. Ad esempio, il paese con il tasso di fertilità più alto al mondo è la Somalia, un paese in cui, se lo conoscete, difficilmente potreste aver voglia di trasferirvi: povertà, conflitti etnici, un quadro disastroso sotto il profilo economico ed umanitario. D’altra parte, il paese con il tasso di fertilità più basso è Macao, una ex colonia portoghese in Cina, un paese relativamente tranquillo, in crescita, forse non in testa ai vostri desideri, ma sicuramente un posto dal quale, se ci andaste, torneresti indietro vivi. La Cina ha un noto problema di fertilità, a causa della “politica del figlio unico“. Le autorità cinesi infatti per lungo tempo hanno proibito alle coppie di avere più di un figlio, perché temevano di non riuscire a sostenere la crescita esponenziale della popolazione, temevano che non ci fossero sufficienti risorse per sfamarla, e nel sistema di economia collettivista dell’epoca forse questo timore era fondato. Fatto sta che aver impedito alle donne di fare più di un figlio ha causato, da qualche anno a questa parte, un brusco calo della popolazione cinese che infatti è stata recentemente superata da quella indiana, e ora la Cina ha il problema opposto a quello che pensava di avere e cui ha ovviato in modo troppo drastico.

Questa cosa ci riguarda? Un po’ sì, perché una delle comunità più presenti in Italia è quella cinese, cioè una comunità che ha un tasso di fertilità più basso di quello delle donne italiane. Lo stesso vale per la comunità più presente in Italia, quella rumena, e anche per altre comunità straniere presenti in Italia. Di fatto solo la comunità pakistana ha un tasso di fertilità significativamente superiore al tasso di rimpiazzo (3,5). La maggior parte delle altre etnie presenti condividono con gli autoctoni il fatto di avere un tasso di fertilità inferiore a 2,1, e quindi la fertilità delle donne straniere in Italia è di 1,9, cioè non raggiunge il livello di rimpiazzo. Con l’occasione vi faccio notare che in media mondiale, il tasso di fertilità è 2,2, il che significa che la popolazione mondiale sta ancora crescendo, ma che è abbastanza vicina a stabilizzarsi, contro le previsioni catastrofiste dei maltusiani.

Posto che la capacità delle donne immigrate di alimentare la popolazione residente non è poi così determinante, veniamo a un altro aspetto: quanto contribuiscono gli immigrati al mercato del lavoro? Qui vedete qualche dato:

La maggior parte dei permessi di soggiorno non viene rilasciata per motivi di lavoro, ma per ricongiungimenti familiari o per protezione umanitaria. Questo significa che chi viene in questo paese necessita in larga parte di usufruire del nostro sistema educativo, sanitario, ma non necessariamente contribuisce a sostenerlo (su questo vi darò qualche dato più sotto). Il tasso di disoccupazione dei lavoratori stranieri è quasi il doppio di quello degli italiani, mentre le loro retribuzioni in media  sono quasi la metà di quelle degli italiani. In effetti, nonostante i lavoratori stranieri siano il 10% degli occupati, l'INPS certifica che essi contribuiscono solo per il 6% al totale del monte contributivo. Si tratta di un contributo importante, ed è meglio averlo che non averlo, naturalmente, ma è evidente che affermazioni semplicistiche come “i migranti ci pagano le pensioni“ sono fattualmente infondate. Non lo fanno perché non possono farlo, e anzi, purtroppo, verosimilmente non riescono neanche a pagare le loro, e comunque, se e quando le riceveranno, non è detto che poi le spenderanno nel nostro paese (ma anche di questo vi dirò meglio dopo).

Non mancano studi dettagliati che cercano di dimostrare come l’apporto degli immigrati regolari al bilancio pubblico sia positivo. Inutile dire che questo nulla toglie al danno che gli immigrati clandestini viceversa apportano, non fosse che per l’esigenza di mantenere una struttura piuttosto costosa per garantire la sicurezza loro e della popolazione residente. Qui vi faccio vedere le conclusioni cui giungono sul blog della Bocconi alcuni economisti:


La sintesi è che gli immigrati regolari contribuirebbero al bilancio pubblico con 4 miliardi, che è una cifra ragguardevole (ci si potrebbe tranquillamente finanziare la rottamazione quinquies e un ulteriore taglio delle aliquote IRPEF, per dire). Notate però che per arrivare a questo risultato gli autori fanno una serie di ipotesi. Sarebbe interessante verificare la robustezza di questo risultato rispetto a piccoli scostamenti aleatori delle singole voci dalla loro valutazione puntuale fornita nella tabella. Potrebbe essere un esercizio divertente, ma me lo sono risparmiato perché il punto su quale vorrei attirare la vostra attenzione è un altro: per quanto si possa argomentare che il contributo del lavoratori immigrati al bilancio dello Stato sia positivo, fatto sta che il contributo dei lavoratori immigrati alla bilancia dei pagamenti è senz’altro negativo. La Banca d’Italia ci dice che le rimesse degli immigrati, cioè i soldi che i lavoratori stranieri presenti nel nostro paese inviano ai loro paesi di origine, si situano intorno ai 9 miliardi, appesantendo i conti con l’estero. Nel grafico qua sotto il fenomeno è registrato dalle barre gialle, che infatti sono in territorio negativo, e che rappresentano il saldo dei cosiddetti redditi secondari della bilancia di pagamenti, cioè dei redditi derivanti da operazioni di redistribuzione (e mandare una parte del proprio stipendio alla propria famiglia nel paese di origine è una operazione di redistribuzione): 


Noi dovremmo essere ben consapevoli di questo fenomeno, atteso che la prima industrializzazione dell’Italia, quella dell’inizio del secolo scorso, è stata finanziata largamente con le rimesse dei nostri emigrati, che erano gli immigrati nelle Americhe (non solo Stati Uniti, anche Argentina, Brasile, eccetera). Quindi, dall’esportazione di lavoratori si può trarre un reddito (le rimesse degli emigrati), esattamente come dall’importazione di lavoratori bisogna essere consapevoli che si sosterrà un costo come sistema paese (le rimesse degli immigrati), un costo che si riflette sulla bilancia dei pagamenti.

La situazione italiana non è fuori controllo sotto questo profilo. Va molto peggio in altri paesi come la Francia, che essendo ex potenze coloniali hanno un flusso di redditi secondari in uscita molto più cospicuo, come potete vedere da questo grafico.



Resta il punto che vale per il lavoro quello che vale per l'altro fattore di produzione: il capitale. Esportarlo contribuisce positivamente alla bilancia dei pagamenti (dai capitali esportati si percepiscono interessi e dividendi, dai lavoratori esportati si percepiscono rimesse), importarlo contribuisce negativamente (vale il ragionamento uguale e contrario).

Ecco, il mio scopo era solo fornirvi qualche dato e qualche elemento di riflessione. Non c'è nulla di intrinsecamente vantaggioso o svantaggioso in economia, e non c'è nulla di gratuito. Come tante altre cose, anche i flussi di lavoratori in entrata (o in uscita) non sono un pasto gratis: suggerirlo è diseducativo e politicamente inopportuno.

Spero che questi elementi di riflessione possano aiutarvi, e vi auguro per il vostro futuro in questo o in altri Paesi tutto il bene possibile.

venerdì 7 marzo 2025

Governance UE e scenari globali


(...dal minuto 58, ma ovviamente anche quello che c'è dopo, e soprattutto prima, vale la pena di ascoltarlo! Le slides sono qui...)

(...fra pochi minuti avremo un webinar ad a/simmetrie sul tema del RearmEurope. Non sarete sorpresi. La svolta bellicista era nella natura delle cose. Dopo aver distrutto il mercato interno, cioè dopo aver segato il ramo su cui era seduta, come documento nel mio intervento, la Germania è andata in cerca di mercati altrui aiutandosi con una pesante svalutazione competitiva dell'euro, che abbiamo documentato qui; respinta con perdite, prima ha cercato di riconvertire la sua economia al "green", sfruttando la paura della crisi climatica. La CO2 però come spauracchio non ha funzionato benissimo. Dopo aver distrutto il nostro tessuto industriale, presa a sberloni dai suoi elettori la leadership tedesca sta tornando indietro di gran carriera sull'agenda green, e per risolvere il problema di tener viva la propria manifattura si è data a un grande classico: fomentare la paura di un nemico esterno per convertirsi all'industria dell'armamento. Chissà se la paura di Putin farà più presa su quelle anime semplici dei tedeschi della paura della CO2! Il buonsenso comanderebbe prudenza: la CO2 ti scalda - se ti scalda lei! - sempre meno di una bomba termonucleare, ma l'idea archetipica dei cosacchi che invadono le capitali europee fa sempre presa. Quindi forse questa volta non possiamo contare sugli elettorati altrui perché ci tolgano le castagne dal fuoco. Altra storia è se dobbiamo contare su di loro. Ha senso volere che le cose vadano bene? Per toglierci di torno la fonte degli squilibri - e qui sapete tutti qual è - un conflitto mondiale è una tappa ahimè inevitabile...)

domenica 2 marzo 2025

Cinquant'anni di squilibri europei e globali

(...preparando il convegno del 5 marzo. Aiutatemi a capire se è comprensibile: dopo sette anni finalmente, mangiando ogni giorno con santa pazienza il cucchiaino di quella cosa che non è cioccolata, abbiamo l'opportunità di spiegare alla politica alcune cose che qui sono patrimonio comune. Sento la responsabilità di non perdere l'occasione, perché il momento è veramente cruciale...)

La governance europea ha esportato nel resto del mondo gli squilibri causati dalla moneta unica. La risposta ritorsiva minacciata dagli Stati Uniti è una diretta conseguenza di queste dinamiche perverse. Senza riconoscerle, capire come rispondere sarà complesso. Vediamo se i dati possono aiutarci...


Il grafico rappresenta il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti: esportazioni meno importazioni, valori sopra la linea indicano un surplus, sotto la linea indicano un deficit.

Ho deciso di rappresentare distintamente la Germania dagli "Altri Europei" (costruiti come somma algebrica dei PIGS e della Francia, trascurando Paesi più piccoli), perché la storia degli ultimi cinquant'anni è sostanzialmente quella della lotta della Germania per la supremazia commerciale. Il saldo complessivo dell'Eurozona, rappresentato in grigio, fino al 1997 è approssimato dalla somma algebrica fra Germania e Altri Europei: l'approssimazione è buona, come vedremo sotto, e comunque non altera il senso del discorso.

Dal 1975 al 2003 gli scambi fra Paesi europei si sono svolti in un contesto di sostanziale equilibrio.  Il punto è semplice: se quando la Germania esportava un po' di più (come dal 1986 al 1991, periodo dello SME credibile), gli altri Paesi importavano un po' di più, uno sbilancio compensava l'altro dentro l'Eurozona senza creare squilibri globali (nota bene: dico "l'Eurozona" per semplicità, mentre correttamente dovrei dire: l'area che sarebbe poi divenuta l'Eurozona. Ma questo so che voi lo capite).

Idem, quando gli altri esportavano un po' di più, come dal 1992 al 2002, la Germania importava un po' di più, i due sbilanci si "nettavano" dentro l'Eurozona, e non si riversavano sui mercati globali.

In effetti, in quel periodo i Paesi cui gli Stati Uniti imputavano di essere causa degli squilibri globali erano altri:


Negli anni '80 soprattutto il Giappone (vedete che la linea gialla sale quando la blu scende e viceversa), poi anche la Cina.

Dentro l'Eurozona le cose cambiano in modo vistoso dal 2004:


Nel breve volgere di quattro anni il surplus tedesco "schizza" (come direbbe un operatore informativo) a circa 200 miliardi. Simmetricamente, però, il saldo degli altri crolla a circa -200 miliardi, e quindi il risultato netto sul saldo dell'Eurozona è sostanzialmente nullo (200-200=0), a parte un picco di deficit nel 2008 in corrispondenza della crisi globale (che aveva colpito gli altri prima di noi europei, motivo per cui noi continuavamo a importare quando loro avevano già smesso di farlo, mandandoci appunto in deficit).

Che cosa stava succedendo?

A parte lo shock del 2008, quello che vediamo dal 2004 al 2011 è un mondo in cui i tedeschi vendono (surplus di bilancia dei pagamenti) e gli altri europei comprano (deficit di bilancia dei pagamenti). L'Eurozona continua così a essere mercato di sbocco a se stessa (il Sud lo è per il Nord), il mercato unico quindi ancora funziona, ma in modo sempre più asimmetrico, con squilibri formidabili, mai visti prima. Che cosa li abbia resi possibili lo vedremo dopo (suggerimento: la deflazione salariale).

Prima però vediamo come evolveva lo scenario globale:

Nel 2008, quando scrivevo The role of China in global external imbalances, tutti erano preoccupati, appunto, dalla Cina, cioè dalla linea rossa in surplus nel grafico (che all'epoca era in crescita verticale). L'Eurozona sembrava inoffensiva: nessuno sembrava notare, e a dire il vero non lo notavo nemmeno io, il potenziale destabilizzante di una situazione in cui il Paese ricco incassava duecento miliardi di dollari l'anno dai Paesi poveri (che ovviamente a questo scopo dovevano indebitarsi). Una cosa però mi era chiara, questa:


Per contribuire a riassorbire gli squilibri esterni globali, piuttosto che schiacciarsi sulle posizioni americane (ricorda qualcosa?), che all'epoca pretendevano una drastica rivalutazione del renminbi, l'Unione Europea avrebbe dovuto spingere sulla crescita, non lasciando soli gli Stati Uniti nel ruolo inevitabile, ma scomodo, di compratore di ultima istanza. Nota bene: questa raccomandazione vale ancora oggi ed è quella con cui chiuderei il mio intervento, naturalmente con la raccomandazione di non finanziare questa crescita con "strumenti comuni", ma semplicemente di favorirla sospendendo le assurde regole di bilancio (cosa inevitabile perché ora serve agli altri).

Arriva la crisi, ed è lì che la "programmatica profondità", come direbbe Savinio, ovvero l'ottusità, tedesca, dà il meglio di sé. Nell'ansia di rientrare dai crediti offerti al Sud per comprare i suoi beni, la Germania impone ai Paesi del Sud politiche di austerità. Risultato: al Sud crollano i redditi, quindi crollano le importazioni, quindi i Paesi del Sud si trovano in surplus, quindi il surplus tedesco non è più compensato all'interno dell'Eurozona dal deficit degli altri. Insomma, invece di essere la somma del surplus del Nord e del deficit del Sud, il surplus dell'Eurozona diventa la somma di due surplus, entrambi rivolti ai mercati esteri, e quindi il surplus dell'Eurozona si impenna!


Si passa cioè dal simpatico mondo Germania + Altri Europei = 200 + (-200) = 0 (saldo dell'Eurozona sostanzialmente nullo), al mondo Germania + Altri Europei = 300 + 100 = 400 (saldo dell'Eurozona gigantesco e quindi fonte di risentimento Usa, come il saldo giapponese negli anni '80 o quello cinese negli anni '10). Come abbiano fatto i tedeschi a convincere per un po' il resto del mondo a comprare i beni che il Sud Europa non poteva più comprare lo sapete: svalutando l'euro:


(ne abbiamo parlato qui).

A questo punto il quadro globale si altera un po':


Dal 2013 in poi il surplus dell'Eurozona domina quello cinese, e se per un po' la spinta della Cina sulla domanda interna riesce a tenere sotto controllo il surplus (la linea rossa scende), dopo lo shock del COVID la Cina torna in forte surplus, forzando gli Stati Uniti sotto i 1000 miliardi di deficit. Una soglia psicologica non da poco, tale da destare l'attenzione, ma guardando il grafico si vede bene che lo squilibrio più rilevante, il surplus più importante, è il nostro, causato, fra l'altro, da una svalutazione competitiva della nostra valuta, ed è destinato a restare tale almeno fino al 2029 nelle proiezioni del Fmi.

Capito quindi perché si parla di dazi?

Perché distruggendo il proprio mercato di sbocco interno (i Paesi del Sud) con le politiche di austerità la governance europea ha esportato nel resto del mondo i propri squilibri commerciali (l'immenso surplus tedesco).

E capito quindi perché in un'ottica bilaterale i dazi a noi preoccupano poco?

Perché anche se siamo un'economia in moderato surplus, a chiunque non sia completamente digiuno dei fatti o completamente stupido non sfugge che il problema è causato dalla Germania.

Ma facciamo un passo indietro.

Visto che i tedeschi da sempre hanno questa fissa di crescere coi soldi degli altri, come mai riescono a realizzarla solo nel 2004, e come fanno a riuscirci così rapidamente?

In altre parole, come hanno fatto i tedeschi a diventare improvvisamente così tanto competitivi da moltiplicare per sette il loro surplus in quattro anni?

Beh, questo lo sapete perché lo ha detto Draghi a la Hulpe:


e anche perché qui ne abbiamo già parlato:


e no, le cose non sono andate come le racconta l'animale mitologico!

Allineando i dati, e costruendo un indice dei salari degli "Altri" con Italia e Spagna (la Francia va avanti per i fatti suoi, la sua grandeur questo le impone, un gran finale, una Waterloo, una Verdun...), vediamo che il gioco si è svolto in due tempi:


e:



dove il motore della storia è, ovviamente, il salario, che determina il costo dei beni sui mercati esteri.

Quindi il racconto del nostro amico Uva è scorretto sotto plurimi profili:

  1. non "we pursued", ma "Germany pursued", gli altri sono stati costretti a seguirla;
  2. non "after the sovereign debt crisis", ma "before the sovereign debt crisis": la deflazione salariale è stata causa della crisi, non risposta alla crisi;
  3. non "combined with a procyclical fiscal policy", ma "followed by a procyclical fiscal policy imposed to peripheral countries": l'austerità è stato lo strumento con cui il Sud ha inseguito il Nord sulla strada della deflazione.

Eh già!

Perché i dati mostrano bene quello che del resto voi già sapete, cioè:

  1. che la politica aggressiva di deflazione salariale (svalutazione interna) competitiva fu iniziata dalla Germania con le riforme Hartz, per mettere in opera le quali violò le regole del Patto di stabilità;
  2. che questo comportamento, forzando il deficit dei Paesi del Sud come abbiamo visto, causò il loro massiccio ricorso all'indebitamento estero dei Paesi del Sud (e quindi di fatto la crisi debitoria, che non fu da debito pubblico, come Giavazzi ammise già nel 2015 e Draghi ancora fa finta di non sapere nel 2025: noi ci aprimmo il blog);
  3. che l'austerità arrivo solo dopo, nel 2012 (con qualche timida avvisaglia da noi fin dal 2011: Berlusconi fu cacciato perché non se la sentiva di fare il lavoro sporco, come vi avevo anticipato all'epoca), e serviva sostanzialmente a costringere i lavoratori del Sud a tagliarsi i salari, facendo collassare il Pil e quindi alzare il tasso di disoccupazione.

Sorgono due domande: perché la Germania non l'aveva fatto prima? E quali effetti collaterali ha avuto la sua politica beggar-thy-neighbour?

La risposta alla prima domanda (perché la Germania non ha fatto prima politiche salariali aggressive) è semplice e la sapete: se avesse praticato una simile politica di deflazione salariale in regime di cambi flessibili o aggiustabili (quindi prima del 1999), il vantaggio competitivo (e quindi il surplus) conseguente alla svalutazione del salario sarebbe stato azzerato da una rivalutazione del marco, cioè da quello che era stata la regola negli anni del dopoguerra, come vi ho mostrato qui:


L'euro non è stato fatto, voi lo sapete, per impedire alla lira di svalutare, ma per impedire alla Germania di rivalutare, tant'è che quando invece la Germania ha avuto bisogno di svalutare ha tranquillamente lasciato scivolare l'euro, come abbiamo visto qui. fdrcrfdeee [questo lo lascio perché l'ha scritto Otto].

Insomma, il valoroso alleato alemanno, prima di picchiarci, aveva bisogno che noi ci legassimo le mani dietro la schiena. So che è un po' urticante come metafora, ma lo è perché è calzante, non perché sia originale:


(neanche l'esito è originale: si sta ripetendo proprio in questi giorni...). Si potrebbe obiettare che i cambi erano de facto fissati dal 1997 e che in quel periodo la Germania non se la passava benissimo, quindi avrebbe avuto un incentivo ad aggredire, ma... si dimentica che per fare i tagli salariali occorre il macellaretto dal grembiule rosso! Nel 1997 c'era Kohl! Le riforme Hartz (con i minijob e tutte le cose che conoscete) furono messi in opera da Schröder, dopo la sua riconferma nel 2002, con una traballante maggioranza rosso-verde, ma naturalmente un progetto così meticoloso di smantellamento dei diritti e dei salari non si fa in un giorno. L'elaborazione avvenne durante il primo governo Schröder, che riportava a sinistra l'asse della politica tedesca dopo vent'anni di governi del cavolo (Kohl).

Più preoccupanti sono le conseguenze di questa race to the bottom. La corsa al ribasso sui salari ha avuto due effetti catastrofici ed epocali, uno legato allo strumento utilizzato per realizzarla (l'austerità), uno legato direttamente agli effetti della deflazione salariale.

L'austerità ha causato un arresto della crescita italiana di dimensioni epocali. Una cosa simile, come ben sapete, non si era mai vista:


Stiamo parlando di una distruzione di reddito di dimensioni epocali, che non ha pari per intensità, ma soprattutto per durata, nemmeno nella più sanguinosa e distruttiva (per noi) delle due guerre mondiali, e se zoomiamo sull'ultimo pezzo del grafico possiamo farci un'idea, se pure approssimativa, di quanto reddito sia stato perso, confrontando il risultato storico col controfattuale costruito estrapolando la tendenza dal 1950 al 2007:


Ci siamo fumati 7000 miliardi così...

Ma non è tutto qui, i danni sono stati profondi e strutturali. La deflazione salariale ha causato una errata allocazione del fattore lavoro, come vi ho spiegato all'ultimo #goofy:


Le forze in gioco sono almeno tre: l'effetto Ricardo, ovvero lo spostamento verso tecniche a più alta intensità di lavoro, meno produttive ma più convenienti se il lavoro costa troppo poco; l'effetto precarietà, che scoraggia l'investimento in competenze (cioè, in soldoni, se sai che ti cacciano chi te lo fa fare di imparar bene il mestiere?); e il salario di efficienza, cioè il fatto che l'impegno del lavoratore è proporzionato alla remunerazione che riceve. Questi effetti, a partire dal 2004, susseguono e si combinano agli effetti di cattiva allocazione del capitale che la moneta unica ha determinato, anch'essi secondo plurimi canali:


e il risultato è quello che molti non vogliono vedere:


e che qui vi propongo coi dati dell'OCSE: dopo quasi trent'anni di recupero della produttività europea nei confronti di quella statunitense, dall'ingresso nell'unione monetaria le due produttività si divaricano nuovamente, e la stagione della deflazione salariale segna una marcata accelerazione del fenomeno.

Riassumendo: la pervicace volontà della potenza egemone (la Germania) di alimentare la propria crescita con la domanda dei Paesi circonvicini (esportazioni) anziché con investimenti e consumi, cioè un modello di crescita export-led anziché wage-led, ha condotto alla crisi debitoria, ha interrotto la crescita, ha compromesso la produttività.

Ciononostante, pur avendo subito un enorme danno, noi usciamo da questa crisi dopo un tempo infinito ma in condizioni che ora sono migliori di quelle di chi in questa crisi ci ha cacciato, perché alla fine, se nel mondo non esiste giustizia, in economia esiste l'equilibrio. Un'economia industriale come quella tedesca non può andare avanti per decenni sottoinvestendo in infrastrutture, ad esempio, e poi, naturalmente, vale sempre l'adagio che chi esporta beni importa problemi.

L'arrogante surplus tedesco non poteva passare inosservato a chi si era già inalberato per il surplus giapponese e per quello cinese.

Ma queste cose le sapete.

Ora vi lascio, magari domani, o nei commenti, facciamo qualche considerazione pro futuro, anche se le conclusioni da trarre mi sembrano piuttosto ovvie: se è chiaro dove abbiamo sbagliato, sarà chiaro che cosa dobbiamo fare per risollevarci.

Il contrario.

(...buona notte! Tutta questa roba in 15 minuti non riesco a dirla, quindi aiutatemi voi a immaginare che cosa possa essere più "impressionante" per dei colleghi...)

(...vi avevo promesso di dimostrarvi che la somma algebrica del saldo "Germania" e del saldo "Altri europei" approssimava bene il saldo complessivo dell'Eurozona verso il resto del mondo. Ecco il grafico:


e come vedete l'andamento è assolutamente allineato
...)