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domenica 30 marzo 2025

La svalutazione penalizza l’export

(…è in qualche modo un QED di questo post)

La lunga sequenza di piroette (la colpa è del debito pubblico, no di quello privato; bisogna fare austerità, no bisogna fare debito…) deve aver fatto girare la testa all’ingegner Giavazzi, che oggi, su un quotidiano che noi associamo spontaneamente al concetto di lieve imprecisione, ci regala una perla da mettere al verbale di questo blog, perché occorre che una volta di più si attesti la qualità (infima) dei personaggi che, dettando la linea dei quotidiani cosiddetti autorevoli, hanno distrutto la credibilità della professione accademica e, dato non banale, delle associazioni di categoria.


Non c’è male, eh? Per forza poi personaggi come Fubini potevano dire impunemente dalle stesse colonne che la rivalutazione aveva fatto crescere il Pil del Regno Unito. Mi sembra evidente che se una svalutazione dell’euro deprime le esportazioni europee, allora una rivalutazione della sterlina promuove quelle del Regno Unito, no? La loro economia non è priva di una coerenza interna intellettualmente appagante. C’è solo il piccolo problema che non quadra con quanto accade nel mondo reale.

A queste persone qui, prive di strumenti analitici ma molto munite di petizioni di principio, non interessa argomentare. Qualcuno si ricorda lo scambio che ebbi con l’ingegnere sulle colonne del Fatto Quotidiano? L’argomento era molto simile, e comprovava che l’uomo l’economia internazionale monetaria non la sa.

Oggi il princeps bocconianorum ci spiega che per i consumatori statunitensi i beni europei costerebbero di più se l’euro costasse di meno (in dollari, cioè appunto per i consumatori statunitensi stessi). Magari qualcuno di voi ci dovrà pensare su un po’, ma credo che nessuno di voi possa sposare una tesi così bislacca!

Ma come?

Dopo anni passati ad insultare i nostri imprenditori sulla base del presupposto che essi avrebbero cercato di promuovere slealmente l’export con svalutazioni competitive della lira (che in realtà alla luce dei fondamentali macroeconomici erano delle fisiologiche rivalutazioni del marco), adesso scopriamo che una svalutazione competitiva dell’euro danneggerebbe l’export!? 

Allora, gentile ingegnere, gliela spiego così: una volta la valuta italiana si chiamava lira. Oggi si chiama euro. Ci siamo fino a qui? Spero di sì. Questo significa che una svalutazione dell’euro oggi per noi ha gli stessi effetti che aveva una svalutazione della lira ieri.

Mi segue?

Quante dita sono queste?

La aiuto: uno (e non è il pollice).

Adesso mi permetta di spiegarle un altro concetto di economia, quello di curva di domanda. Nello spazio prezzi/quantità questa curva ha pendenza negativa (diciamo derivata prima negativa, così lei, che è un ingegnere, capisce meglio). C’è qualcosa che mi ha tenuto nascosto o che non le è chiaro circa questa derivata prima? Abbiamo forse scoperto in Bocconi nell’ultima settimana che le curve di domanda hanno pendenza positiva!? Aspetti, le dico una cosa da economista che magari le serve per non aggravare la sua posizione: noi economisti sappiamo che esistono anche dei beni la cui curva di domanda ha un’inclinazione positiva, cioè che vengono acquistati in maggiori quantità se il loro prezzo cresce. Sono i beni di Giffen e costituiscono un’eccezione nel vasto panorama degli scambi economici. La regola è che se una cosa costa di più se ne acquista di meno. Di converso, se una cosa costa di meno, se ne acquista di più.

Il prezzo della valuta europea in dollari è una componente del prezzo totale in dollari dei beni europei per un consumatore americano. Se il primo prezzo (quello della valuta europea in dollari, il tasso di cambio euro/dollaro) scende, anche il secondo prezzo (il prezzo totale in dollari dei beni europei) scenderà, e quindi il consumatore americano acquisterà di più, e quindi l’Europa esporterà di più. 

Non c’è altro da aggiungere se non una cosa: si faccia un favore e lo faccia a quelli che la ricordano in modo diverso da così (perché io la ricordo così)! Si ritiri, non si esponga più per fare da megafono al tizio che in Senato balbettava. Lei una reputazione, a mio avviso immeritata, ce l’ha. Se la tenga stretta tenendo cucita la bocca nel momento in cui il mondo che lei ha contribuito a costruire con le sue analisi tendenziose sta crollando. Lei è quello che nei tardi anni ‘80 ci spiegava l’opportunità fornita dal legarsi le mani con le regole europee, dall’agganciarci alle politiche della BCE. Come si sente oggi che perfino il PD ammette le gravi conseguenze deflazionistiche di quella decisione, il suo impatto devastante sui salari degli italiani, oggi che quel futuro “giapponese” che Krugman prevedeva per noi è diventato il nostro presente, oggi che le regole europee vengono tranquillamente violate da chi ce l’aveva imposte, cioè da quelli in nome e per conto dei quali lei produceva questi meravigliosi “pezzi di ricerca“?

Non c’è praticamente nulla di quello che le ha assicurato la sua reputazione che abbia retto alla prova del tempo, e quindi, ripeto, si faccia un favore, ne prenda atto.Lo dico contro il mio interesse, perché è naturalmente mio interesse far vedere la qualità pessima delle analisi che nel corso degli anni ci sono state opposte. Ma io, che non ho sulla coscienza il sangue delle tante vittime dell’austerità, so restare umano. Il rispetto per le persone anziane è uno dei pilastri della civiltà, di quella civiltà che una certa economia tanto ha fatto per estirpare, per fortuna senza riuscirci.

E quindi con rispetto le dico: la storia l’ha sconfitta.

Sappia perdere con dignità!


Post scriptum delle 13:07

Sommersi da pernacchie, e consapevoli della necessità di preservare un minimo di credibilità, al Corsera nella versione on online hanno rettificato l’errore, specificando anche l’orario in cui lo hanno fatto, seguendo in questo la prassi delle testate internazionali:



Mi limito ad osservare che la consapevolezza analitica del fatto che il dazio è uno dei tanti strumenti a disposizione per rettificare uno squilibrio commerciale noi l’avevamo già a gennaio, e che per il resto l’ingegnere non si interroga minimamente sulla causa degli squilibri (cui ha contribuito anche lui con le sue deliranti incursioni nel territorio dell’economia) e fornisce un quadro a mio avviso radicalmente contrario al vero nella valutazione relativa dell’impatto di dazi e svalutazione. Una svalutazione del dollaro sarebbe molto più penalizzante per noi, perché la corrispondente rivalutazione dell’euro ci toglierebbe anche il turismo degli Stati Uniti, compromettendo quindi non solo la nostra esportazione di beni ma anche quella di servizi.

Ah, aggiungo un dettaglio: la correzione mi pare sia avvenuta dopo questo simpatico siparietto. Ai Soloni dell’economia può capitare di finire sotto a un giornalista che ha partecipato ai convegni giusti…

domenica 23 febbraio 2025

PISL, PISV, PISC, PISA: l'euro e l'integrazione economica delle Regioni italiane

 (...riprendo e approfondisco, anche per pensare ad altro, il filo di un discorso che avevamo lasciato qui...)

Il PISL del titolo è uno dei tanti mitologemi del nostro più insidioso nemico: iComunicatori! Si tratta, come ricorderete, del Piccolo Imprenditore Spaventato Lombardo.

Spaventato da chi?

Ma da Borghi, ça va sans dire, dal perfido Borghi che fa crescere lo spread, s'intende! Fuor di metafora, l'imprenditore di cui favoleggiano iComunicatori è quello che vedrebbe nell'integrazione monetaria l'opportunità di accedere con minore difficoltà alle catene del valore tedesche, con beneficio della propria azienda (mi riferisco alla Germania per l'ovvio motivo che è la prima economia manifatturiera europea: va da sé che lo stesso argomento potrebbe applicarsi all'Estonia, ma capite bene che la rilevanza non sarebbe la medesima...).

L'argomento sarebbe quindi che noi siamo ormai terzisti della Germania, non abbiamo più le nostre "fabbriche prodotto" (come si direbbe in ambito bancario), cioè, per confinarci all'ambito automobilistico, la Fiat e via discorrendo, che ormai producono altrove (ma il ragionamento si applicherebbe ad altri prodotti e altri marchi), però siamo forti nell'indotto, perché i prodotti di chi ancora riesce a farne (la Germania) necessitano dei pezzi che solo noi sappiamo fare, un po' come questo prodotto tedesco:


necessitava di questi semilavorati italiani (rectius, veneziani, perché non è la stessa cosa, ma di questo parliamo un'altra volta):

motivo per cui sarebbe indispensabile che prodotti e semilavorati venissero entrambi quotati in euro, un po' come è auspicabile che la chiave di violino indichi sempre il sol, anche quando il concerto è per clavicembali.

Naturalmente, se così fosse, all'entrata in vigore dell'euro dovremmo riscontrare nei dati quello che il mito ci tramanda, cioè un incremento dei flussi commerciali fra Lombardia e Germania (un incremento dell'interscambio misurato come somma di importazioni ed esportazioni ed espresso in rapporto al Pil, analogo insomma al concetto di openness che si usa in economia internazionale - qui una definizione e alcune critiche di questo concetto), ma nulla di tutto questo si emerge dai dati, come abbiamo visto qui:

Grandi balzi in avanti (cioè verso l'alto) fra il periodo antecedente (1991-98) e quello susseguente (1999-2023) all'adozione dell'euro non ce ne sono, e del resto sarebbe strano il contrario. Cerchiamo di capirci: se il motore dell'integrazione commerciale fra Lombardia e Germania fosse principalmente o esclusivamente l'integrazione nelle catene del valore tedesche, perché mai dovremmo aspettarci che l'ingresso in un sistema monetario che rende meno convenienti perché quotati in valuta forte i semilavorati italiani dovrebbe far aumentare i volumi di questo fruttuoso interscambio? I tedeschi sono "programmaticamente profondi", come diceva Savinio per non dargli direttamente degli stupidi, ma non lo sono fino al punto di acquistare di più una cosa che costa di più, visto che hanno potuto constatare come sia più facile vendere una cosa quando costa di meno! Prova ne sia il fatto che fra il 1992 (anno della drammatica svalutazione della liretta) e il 1995 (anno della rivalutazione) l'interscambio aumenta! L'argomento, se mai, andrebbe rovesciato: si potrebbe con maggiore plausibilità argomentare che proprio perché il motore dell'interscambio commerciale della Lombardia è la sua integrazione nelle catene del valore tedesche, l'ingresso nell'euro non l'ha aiutata, visto che ha reso più cari i suoi prodotti per gli acquirenti tedeschi! Questo ragionamento è coerente coi dati osservati e lascia aperto solo un gigantesco punto di domanda: ma allora il PISL, di preciso, chi è? 

Lasciamo un momento nell'ombra questo mitologema e approfondiamo l'analisi estendendola ad altre Regioni. Lo spirito della nostra ricerca è sempre il medesimo: l'ingresso nell'euro determina un aumento dell'integrazione commerciale? Favorisce le nostre esportazioni nette o le deprime? Ci manda in surplus o in deficit con i nostri principali partner commerciali? Rende le nostre Regioni più "aperte" (in un contesto europeo) o più chiuse?

Prendiamo il Veneto, altra regione a potente vocazione manifatturiera. Il grafico dell'apertura verso la Germania è questo:


e più o meno ci racconta le stesse storie di quello della Lombardia: l'interscambio con la Germania conta fra il 10% e il 12% del Pil regionale (oggettivamente, tanta roba!) e non si vedono drastici cambiamenti - se non forse in peggio - dall'entrata nell'euro. Ma qui potrebbe arrivare il piddino col ditino puntato a dire: "Eh, no! Qui si vede chiaramente un trend positivo dal 2013 in poi! Se non l'euro, almeno l'austerità quindi ha fatto bene al Veneto, ne ha aumentato l'interscambio...".

Un attimo: forse conviene, come abbiamo fatto per la Lombardia, guardare i flussi netti e lordi. Le esportazioni nette eccole qui:


e quello che è successo è abbastanza chiaro: l'ingresso nella moneta unica ha depresso la bilancia dei pagamenti del Veneto, con l'aggravante che, a differenza della Lombardia, il Veneto partiva da una posizione di surplus! Per facilitarvi il confronto vi metto insieme i saldi commerciali delle due Regioni:


così vedete bene analogie e differenze. Fra le analogie c'è la derapata dall'ingresso nell'euro e la "ripresa" nella stagione dell'austerità. Fra le differenze c'è che la Lombardia è sempre in deficit, riduce il suo deficit già dalla crisi dei subprime, e a differenza del Veneto, che tiene botta, lo vede peggiorare nel periodo 2020-2023.

Quindi possiamo immaginare che andamento abbiano i flussi lordi del Veneto! Questo:


Il balzo verso l'alto delle esportazioni nette fra 2011 e 2012 è un tuffo verso il basso delle importazioni, dovuto alla recessione, e l'aumento dell'interscambio dal 2013 al 2019 è principalmente dovuto a un aumento delle importazioni dovuto alla valutona fortona (l'euro), che ovviamente si traduce in una diminuzione delle esportazioni nette. Solo dal 2020 la situazione cambia, con un aumento sia dell'export che dell'import, ma siamo sufficientemente distanti dal 1999 per poter dire che in questo fenomeno non vediamo gli effetti benefici della moneta unica!

Sarà forse per questo che quando ci spostiamo in Veneto incontriamo tanti PISV spaventati non da Borghi, ma dall'euro, e che in Veneto abbiamo un seguito più agguerrito e tenace che in tante altre Regioni italiane? Forse. Certo, molto c'entra anche l'anelito all'indipendenza che caratterizza quel popolo. Ma mi piace pensare che i fondamentali macroeconomici non siano solo un tema accademico...

E se ci spostassimo in una regione totalmente diversa? Esisterà il PISC (Piccolo Imprenditore Spaventato Campano)? Che effetti avrà avuto l'euro sull'economia della sua Regione?

Se ragioniamo in termini di interscambio, il grafico è qui:


Ho mantenuto la scala verticale: si vede così molto bene che naturalmente la Campania è molto meno integrata con la Germania delle Regioni del Nord, ma il pattern è lo stesso: con l'ingresso nella moneta unica e fino a tutta la crisi l'interscambio tende piuttosto a deprimersi. I flussi lordi sono questi:


e anche qui la storia è più o meno la stessa, se pure su una scala ridotta rispetto ai flussi delle Regioni del Nord.

Chiudo con una Regione a me e a voi cara:


Il piccolo Abruzzo è molto più integrato nell'economia tedesca della grande Campania (sembrerà strano a chi se lo immagina come una Regione di orsi e arrosticini, ma come credo di avervi spiegato a suo tempo c'è molto di più). Fatte salva questa differenza di scala, il pattern dell'interscambio complessivo è tutto sommato analogo a quello delle altre Regioni italiane: dall'ingresso nell'euro diminuisce e dall'adozione dell'austerità aumenta leggermente. Quindi anche in Abruzzo, come in Lombardia, Veneto, Campania, l'aumento dell'interscambio è associato a un peggioramento del saldo commerciale perché è dovuto a un incremento delle importazioni lorde?

Il saldo commerciale (aka esportazioni nette) è questo:


e quindi no, le cose non stanno così, perché in Abruzzo le esportazioni nette verso la Germania aumentano in modo relativamente costante. I flussi lordi sono qui:


e si vede bene come per tutto il periodo le esportazioni abruzzesi verso la Germania siano superiori alle, e crescano più rapidamente delle, importazioni abruzzesi dalla Germania.

Insomma, #ilmiocollegioèdifferente, nel senso che se ci atteniamo a questi dati aggregati pare che siamo più o meno gli unici che possono sopportare euro e Germania!

Ovviamente questi grafici pongono più domande di quante risposte offrano, e altrettanto ovviamente bisognerà entrare in ulteriore dettaglio per capire se la classe imprenditoriale tutta sia realmente attaccata all'UE come pretendono i suoi rappresentanti (quelli del prosecco tiepido) e credono i miei colleghi (quelli che preferiscono il lompo alla porchetta), e eventualmente quanto lo sia per freddo calcolo economico (come dovrebbe essere in un mondo normale) o perché imbesuita dalla propaganda finanziata dall'UE, come appare più probabile. Il dettaglio settoriale, ad esempio, potrebbe esserci di aiuto nel distinguere vinti e vincitori:

e quindi ci torneremo sopra.

Certo è che il dato "mesoeconomico" non ci lascia vedere molti più vantaggi dall'ingresso nella moneta unica di quanti ce ne lasciava vedere il dato macroeconomico (cioè, in sintesi, zero). Bisognerà che ora che si può nuovamente parlare si torni a parlare anche di questo...



(...sì, avete anche capito uno dei motivi per cui cinesi e tedeschi si stanno simpatici: hanno una cosa in comune...)

martedì 18 febbraio 2025

La questione settentrionale, aka "l'Europa delle regioni"

 (...chiedo scusa, sono in ritardo nelle risposte ai vostri commenti ai post precedenti, ma ieri è stata giornata intensa. Vorrei però mettere qui un altro paio di grafici che potrebbero interessarvi, prima di completare l'analisi di quelli del post precedente...)

La banca dati Coeweb (che suppongo stia per "COmmercio Estero") dell'ISTAT ci consente di analizzare l'interscambio delle regioni italiane col resto del mondo, entrando nel dettaglio dei singoli Paesi partner. Mi sono preso il gusto, facendomi aiutare da un ex studente e attuale consulente, di riprendere i dati che vi avevo mostrato a un goofy nello spiegarvi la fenomenologia di quello che avevamo chiamato il PISL (Piccolo Imprenditore Spaventato Lombardo), cioè di quel personaggio mitologico, come è mitologica la sciura Maria che non capisce quando le dici le cose come stanno. Il PISL, in particolare, è il titolare di PMI che sarebbe spaventato (con la S di Draghi) dal buon Borghi quando questi criticando l'unione monetaria fa crescere lo spread.

Nella narrazione interna, il PISL sarebbe politicamente un moderato (ma, non si sa perché, voterebbe per noi! Ricordo che un minimo di incoerenza logica aggiunge spesso alla narrazione quel che di "pensiero magico" che la rende più avvincente, se pure, in astratto, meno credibile), e inoltre sarebbe contrario all'ipotesi che il Paese si emancipi. Anzi! Il PISL sarebbe attaccatissimo all'euro, che gli avrebbe garantito una maggiore integrazione nelle catene del valore della locomotiva d'Europa (cit.), cioè della Ger-magna, in base al principio, apparentemente fondato, che "noi possiamo cooperare coi tedeschi perché riusciamo a tenere il passo con la loro economia e non buttiamo cartacce in terra, e i terroni si fottano!"

Questa è la mitologia, ovviamente.

Di imprenditori in Lombardia ne ho incontrati e ne conosco molti, ma nessuno ritiene che il progetto europeo arrechi particolari vantaggi. Il mercato di questi imprenditori è il mondo, dal Vietnam al Cile (prendo due esempi a caso di gente che ho conosciuto), in piena compatibilità con le parole di un economista vero (Alesina) che vi citavo due post addietro:


dell'UE tendenzialmente farebbero a meno perché li ha sommersi di burocrazia inutile e dell'euro non hanno una buona opinione, nel senso che non ritengono che abbia arrecato loro particolari vantaggi.

Ma questi imprenditori qui, quelli che conosciamo, che abbiamo toccato con mano, con cui parliamo (noi), sono dei facinorosi ideologizzati, il cui successo economico è dovuto a una immeritata fortuna, dicono insomma certe cose perché sono dei decerebrati hooligan di Bagnai&Borghi, o sono delle persone razionali, che hanno contezza dei fatti e delle cose?

Per dirimere questa questione vorrei mostrarvi i dati sull'interscambio fra Lombardia e Germania nel periodo in cui Coeweb ce li rende disponibili, cioè dal 1991 al 2023. Il dato aggregato, cioè le esportazioni nette della Lombardia verso il resto del mondo (comprese le altre regioni italiane), ve lo avevo fatto vedere nel post su Milano ladrona, Berlino non perdona!:


e a quel post vi rinvio per il commento, che comunque è semplice: le esportazioni nette aggregate (Lombardia vs resto del mondo) erano in crescita fino all'entrata nell'euro, poi erano andate calando (ovviamente all'epoca avevo solo i dati fino al 2010).

Vediamo lo stesso dato (esportazioni nette) riferito ai flussi fra la Lombardia e la sola Germania:


La prima cosa che notiamo è che per il periodo in cui sono disponibili i dati evidenziano un deficit strutturale della Lombardia verso la Germania: sono i lombardi a comprare tedesco più di quanto sia la Germania a comprare lombardo. Diciamo che anche se la Germania si muovesse velocemente (crescesse) non sarebbe una locomotiva: è locomotiva chi compra i tuoi beni, non chi ti vende i suoi...

Anche qui notiamo uno sprofondamento del deficit verso la fine degli anni '90, e anche qui notiamo una inversione di tendenza verso l'inizio degli anni '10 (nel grafico aggregato è meno percepibile). Quindi dal 2010 in poi i problemi di competitività si sono risolti grazie alle #riformestrutturali e al #tagliodeldebitopubblico per cui ora #andràtuttobene? Lo si può accertare, basta spacchettare il dato: se le esportazioni nette sono aumentate perché sono aumentate le esportazioni lorde, allora siamo diventati più competitivi e i tedeschi comprano più lombardo. Ma se le esportazioni nette sono aumentate perché sono diminuite le importazioni lorde, allora siamo diventati più poveri e compriamo meno tedesco.

Il grafico è qui, e non credo sia difficile da leggere:

Fra 2007 e 2010 le importazioni crollano, mentre le esportazioni restano ferme. Il miglioramento del saldo è quindi dovuto alla recessione prima e all'austerità poi, cioè al nostro impoverimento, più che ad altro. La Lombardia, regione che amo, ha condiviso lo stesso amaro destino del Paese: non ci sono molti più Übermenschen da quelle parti di quanti Untermsnchen ci siano altrove, con tutto che una serie di fattori culturali e antropologici differenze le creano, anche molto rilevanti sotto il profilo di un ordinato andamento dell'economia, spesso a evidente svantaggio del Sud. Tutti possiamo migliorare e qualcuno ha più margine di altri. Questo è un fatto che non voglio negare e su cui aspetto le vostre osservazioni.

Quello che invece voglio negare, perché lo negano i dati, è che l'integrazione monetaria abbia determinato una maggiore integrazione commerciali, un maggiore interscambio, inteso come somma dei flussi di esportazioni e importazioni. Quello che è successo è qui:


Direi che, se mai, dopo la gestione della crisi a botte di austerità l'interscambio fra Lombardia e Germania si è strutturalmente ridotto, passando da circa il 12% a circa il 10%. Ovvio risultato di quel prosciugamento del mercato interno a botte di svalutazioni interne competitive (i tedeschi che si tagliano i salari per vendere ai francesi che si tagliano i salari per vendere agli italiani che si tagliano i salari per vendere ai tedeschi) di cui ormai parla perfino un Draghi qualsiasi: sono finiti i tempi eroici in cui certe cose ve le dicevo solo io!

E quindi?

E quindi bisogna fare un discorso di verità.

Non ha molto senso dirci che una cosa che ci ha danneggiato collettivamente come nazione ci ha avvantaggiato singolarmente come regioni del Nord (magari sfasciando solo quelle del Sud), e questo non per un senso di solidarietà nazionale che potrebbe anche essere infondato e che comunque non è necessario provare, ma semplicemente perché non è così nei dati. Poi, per carità, ognuno ha le sue esperienze individuali. Immagino che in certe Confqualcosa di provincia dove si sorseggia prosecco tiepido sgranocchiando lompo rancido su pane da toast rinsecchito ci sia una discreta percentuale di imbesuiti schiavi della narrazione giornalistica, vittime incolpevoli e inconsapevoli della mattanza, tutti Europa e distintivo, e ci sarà magari anche qualcuno che del grande progetto europeo parla bene perché a lui è andata bene (magari è un importatore di qualcosa che serve anche a un popolo impoverito, nel qual caso la monetona fortona lo aiuta)!

Ma il mio punto qui, come in altri contesti, è e resta il solito: se non riconosciamo di avere un problema, difficilmente potremo attrezzarci per gestirlo.

Tutto qua.


(...ah, a scanso di equivoci, e sempre in tema di discorsi di verità: quando parla Borghi non fa crescere lo spread, altrimenti sarebbe ricco come un nababbo! Lo spread l'ha fatto crescere artificialmente Mariou smettendo di acquistare titoli italiani per metterci in difficoltà, ma finora, in questa guerra di logoramento, il più logoro è lui, e noi tiriamo dritto...)

(...farò una proposta di legge per dichiarare lo spumante tiepido reato universale, ma è un capitolo che apriremo più avanti, quando cominceremo a intravedere all'orizzonte qualcosa a cui brindare...)

giovedì 31 ottobre 2024

Draghi vs Blanchard

(...in un commento al post precedente Luciano evidenziava come il problema della maggior parte delle persone non sia non aver capito, ma non essere venute a conoscenza del Dibattito - cioè del blog che stai leggendo, caro lettore! Il mio spirito polemico e sofistico mi porterebbe a dire che, invece, il successo del Dibattito [e quindi la sua diffusione, che, per quanto scarsa, è stata sufficiente a farmi Presidente di bicamerale] sia da attribuire al fatto che la gente aveva capito, cioè che si riconosceva in quanto trovava scritto, con un atto di adesione emotivo e intuitivo. Insomma: il blog ha funzionato perché era inutile, ha funzionato con quelli cui era inutile, e quindi non tanto perché abbia aggiunto qualcosa alle loro conoscenze o al loro bagaglio culturale, quanto perché ha dato loro coscienza di non essere soli nella percezione di certi problemi, e ha dato loro una casa, che è appunto, caro lettore, il blog che stai leggendo, questa pagina, questo schermo di laptop o di smartphone [questo passa il convento!]. Però ha ragione anche Luciano: le persone che conoscono il nostro lavoro sono poche, pochissime, e per quanto questo possa apparire paradossale, sono in particolare pressoché assenti in Abruzzo! Pensate un po'! Quello che gli sprovveduti chiamano "sovranismo" è sostanzialmente nato in Abruzzo, per un decennio qualche collega - o presunto tale - particolarmente cretino è andato avanti sui social [che a voi sembrano il mondo e sono una bolla di metano ] a canzonarmi con la storiella di "Pescaracas", per anni abbiamo portato centinaia di persone fra cui un paio di scappati di casa rispondenti ai nomi di Giorgia e Matteo a Montesilvano, in tutti i media nazionali si parlava del professorino abruzzese di provincia... Quando questo lavoro ha contribuito a mutare il panorama politico italiano, per inciso mettendo una "poltrona" sotto il sedere di tante persone, non solo di chi vi scrive!, ci si sarebbe aspettati che là dove se non tutto, molto era successo, un minimo di campanilismo portasse a rivendicare il lavoro svolto, ad appropriarsene in qualche modo. O no? Invece no! I miei rappresentati per lo più non sanno un cazzo di niente di chi li rappresenta [e certo non possono affidarsi ai media locali per colmare questa lacuna, laddove vogliano], e i miei "colleghi" leghisti locali a loro volta non sanno un cazzo di niente di chi credono di essersi portati in casa [ma era qui, e costruiva senza minimamente immaginarselo un pezzo del pensiero "leghista", molto prima che loro sapessero che esisteva la Lega]! Eppure leggere il blog, o almeno sapere chi lo ha scritto, sarebbe utile: non vorrei sembrare eccessivamente enfatico, ma in certi casi letteralmente salverebbe la vita. Basterebbe sapere che queste pagine sono scritte dal Cavaliere nero, e al Cavaliere nero... Ma è inutile: non leggono - se leggessero non scriverei così, ça va sans dire - non mi seguono, né me né altri personaggi rilevanti come Claudio, sui social, non hanno idea di che ruoli io svolga a Roma, non hanno idea di quanto sia risalente e di quale sia il mio rapporto con Matteo e con gli altri leader politici in utroque, e quindi non capiscono, il che non è del tutto un male, perché mi consente di esercitare nel piccolo le virtù che spero di essere chiamato ad applicare nel grande: la pazienza, l'umiltà, spinta fino alla dissimulazione, la tenacia, l'arte di vincere una battaglia politica mandando l'avversario a schiantarsi contro le proprie contraddizioni, l'arte di vincere [eliminando i problemi] senza stravincere [umiliando chi li ha creati], e così via. Quindi, amici miei, guardate il bicchiere mezzo pieno: in un mondo a informazione completa fottere chi ti vorrebbe fottere sarebbe molto più difficile! Il messaggio, insomma, è sempre il solito: facciamoci bastare quello che sappiamo, e cerchiamo di usarlo a nostro vantaggio, se non per trarne un guadagno, almeno per limitare le perdite! E a questo proposito...)

Lo scorso otto ottobre Olivier Blanchard e Angel Ubide hanno scritto sul blog del Peterson Institute for International Economics un commento dal titolo particolarmente eloquente: Essential issues raised, but not fully answered by the Draghi report sull'ormai mitologico rapporto di Draghi. Un titolo che, se vogliamo, è un riuscito esercizio nella mia preferita fra le arti marziali: l'eufemismo estremo (not fully answered è un colpo mortale, inutile girarci intorno).

(...apro e chiudo una parentesi per confessare a voi fratelli che senza Marco Zanni mai e poi mai sarei venuto a conoscenza di questo pezzo di bravura! Esattamente come cerco di vincere le mie battaglie sfruttando la forza dei nemici, e ci riesco, sviluppo il mio pensiero sfruttando il cervello dei miei amici, e ci riesco. Vi ho sempre confessato che l'economia in fondo a me non interessa: è perché non l'amo che l'economia mi ama e cerca di compiacermi comportandosi in modo per me prevedibile! Certo però che un economista deve almeno far finta di interessarsi all'economia, e qui arrivano in soccorso gli amici: mi riconosco il merito di aver creato le strutture di coordinamento in cui ci confrontiamo, ma quelli bravi, posso dirlo senza tema di smentita, sono loro...)

La parte più corrosiva del commento di Blanchard e Ubide coincide con quella che vi ho illustrato in una slides del #goofy13:


Loro la mettono (diplomaticamente) così:

"Let us start with a strong statement: The title of the report, The Future of European Competitiveness, is misleading. What the report is about, and indeed should be about, is productivity, not competitiveness. Productivity determines the standard of living. Competitiveness is a different issue: A country can have low productivity and still be competitive. This is what a flexible exchange rate is supposed to achieve and typically does. The European Union does not have a competitiveness problem—in fact, it runs a current account surplus. If anything, it has a potential productivity problem."

Il titolo del rapporto Draghi è fuorviante (io direi sbagliato, ma fuorviante è più cortese), perché l'UE non ha un problema di competitività, dal momento che è in surplus di partite correnti: eventualmente si può argomentare che l'UE abbia un problema di produttività. Diciamo che io l'ho detta in modo più rude, fornendo una mia personale definizione di trombone sopravvalutato ("persona che in piena crisi del modello mercantilistico ravvisa un problema di competitività in un'area che ha un surplus estero superiore a quello della Cina"), ma tant'è: il concetto è lo stesso, e fanno meglio loro a esprimerlo in modo asettico (non sia mai che qualcuno mi accusi di invidiare economisti a basso h-index!).

Il problema di produttività c'è tutto, e ve lo mostro con una delle slides che al #goofy13 non vi ho fatto vedere (il tempo era poco, l'anno prossimo mi prendo due ore):


Se facciamo 100 nel 1995 il Pil in termini reali per addetto, AMECO prevede che al 2025 negli USA sarà aumentato di quasi il 60%, nell'UE di quasi il 30% (la metà) e nell'Eurozona di quasi il 20% (un terzo). Mi sembra evidente che quello che "tira su" la produttività dell'Unione europea è la performance dei Paesi non appartenenti all'Eurozona, e ci vuole poco a verificare che in effetti è così:


Naturalmente i Paesi "non-EZ" sono un insieme molto eterogeneo, composto per lo più da Paesi che partivano da posizioni relativamente arretrate. Tuttavia, i loro risultati smaglianti in termini di crescita della produttività non sono imputabili esclusivamente al meccanismo di catch-up implicito nel modello di crescita neoclassico, che spiegammo ad esempio qui, tra l'altro perché anche la Svezia, paese storicamente "avanzato", ha fatto meglio dell'Eurozona! Ma insomma, il problema di produttività c'è e si vede. 

Può forse stupire che dopo aver affermato questo problema, Blanchard e Ubide ne neghino la rilevanza:

"In comparing the European Union to the United States, and in characterizing the diagnostic of the report, Draghi has talked about an “existential challenge” and, if nothing is done, a “slow agony.” This overstates the case."

Insomma: parlare di "lenta agonia" dell'Eurozona sarebbe un'esagerazione. Certo è che la crescita del Pil per addetto (Blanchard e Ubide usano il Pil pro capite) nell'Eurozona è stata un terzo che negli Usa. Un gran successo non è...

Perché Blanchard e Ubide devono sminuire?

Io un'idea ce l'avrei, ma prima condivido seco voi un'altra riflessione, destinata ai più anziani del blog e studiosi. Alla luce del nostro modello di crescita standard, quello di Verdoorn-Kaldor-Thirlwall, spiegato ad esempio qui, il primo e il secondo grafico di questo post non sono coerenti: ci aspetteremmo infatti che la produttività sia maggiore (minore) dove maggiore è il surplus (deficit) della bilancia dei pagamenti. L'argomento è quello di Smith: al crescere dei mercati di sbocco viene incentivata l'innovazione di processo (divisione del lavoro), quindi aumenta la produttività, che non è un dato tecnico, esogeno, ma un dato endogeno, dipendente dalla domanda. Ci si aspetta quindi che cresca di più in Paesi i cui beni sono in domanda netta, che sono cioè esportatori netti. Invece cresce di più negli Usa (importatori netti) e di meno nell'Eurozona (esportatore netto).

Perché?

La risposta è in alcune slides che vi ho mostrato al #goofy13, e il suo tenore spiega anche perché Blanchard e Ubide, dopo aver puntato il dito sul problema di produttività, preferiscono poi girarci intorno.

Mi limito a una slide, quella centrale nel ragionamento:


Il modello di Thirlwall in linea di principio è sempre valido: la crescita delle esportazioni (nette) in linea di principio causa una crescita della produttività. Il problema dell'Eurozona però è che la crescita delle esportazioni nette è a sua volta stata provocata con misure che deprimono la produttività: la svalutazione interna, cioè la deflazione salariale. Certo, abbattere i salari fa aumentare le esportazioni perché abbatte il costo dei prodotti nazionali. Tuttavia, la compressione dei salari esercita un effetto avverso sulla produttività che compensa, riducendolo o addirittura azzerandolo, l'effetto propizio via aumento delle esportazioni. Altro sarebbe se la crescita delle esportazioni fosse assicurata via svalutazione esterna, cioè affidando il cambio di una ipotetica valuta nazionale alle forze di mercato.

Questo spiega, fra l'altro, il differenziale di produttività fra Paesi dell'Eurozona (necessità di tagliare i salari, produttività più bassa) e Paesi UE extra-Eurozona (possibilità di manovrare la valuta nazionale, produttività più alta).

Ma naturalmente questo banale fatto stilizzato a Blanchard e Uribe non fa comodo vederlo, quindi non lo vedono, sciorinando invece tutto il pattume supply-side che a Montesilvano ci fu propinato in occasione del #goofy8:

(Tir di faldoni, tabaccaie scalabili, amo perso er treno de 'a rivoluzzzione diggitale, ecc.).

Va bene così: il vero problema non fa comodo evidenziarlo nemmeno a noi. Nel momento in cui Germania e Francia si schiantano contro la propria arroganza, nel momento in cui le agenzie sono costrette se non ad alzarci il rating almeno a rivedere al rialzo l'outlook, inutile far casino per portare l'attenzione sulla "contraddizione principale". Quella è, e resta, l'euro, ma visto che ora sta lavorando per noi, ragazzi: lasciamola lavorare! Ora sono gli altri a dover tagliare i propri salari, e quindi la propria produttività. Il problema è loro: si prendano loro il costo politico di accennare la soluzione!


(...ci eravamo detti a settembre che la Francia poteva solo scegliere come, non se, far crescere il rapporto debito pubblico/Pil: aumentando la spesa sociale, o praticando politiche di austerità. Ha fatto la sua scelta: sarà austerità! Non possiamo che congratularci con Barnier: l'esperienza italiana dimostra che questo è il modo più rapido per far crescere il rapporto debito/Pil, e quindi presto non saremo più soli in testa alla classifica. Non è Schadenfreude! Semplicemente, ormai sapete che l'UE, come Goofynomics, è fatta di figli e di figliastri: quando i problemi li hanno solo i figliastri, va tutto bene, ma quando toccano i figli bisogna intervenire, e in questo caso è veramente difficile immaginare un intervento selettivo che aiuti solo i figli, trascurando i figliastri...)

(...ah, naturalmente non vi ho spiegato perché, invece, la produttività cresce negli Usa, che sono importatore netto. In realtà al #goofy13 l'ho detto: qualcuno se lo ricorda?...)

domenica 19 novembre 2023

In memoriam

Tre giorni fa vi ho spiegato quale importanza avesse avuto nel mio percorso di consapevolezza il lavoro di Anthony Thirlwall, un lavoro che ho cercato di illustrarvi e di condividere con voi a più riprese. Sono frutto della sua influenza intellettuale, e poi dello scambio con lui, alcune delle mie pubblicazioni più prestigiose, come questa, o più citate, come questa, ma anche, come vi ricordavo nell'ultimo post, delle più significative per il percorso che abbiamo fatto insieme, come questa, questa, o questa, senza dimenticare questa e questa (l'ultima legata, in particolare, al caro ricordo di una serata passata a cena insieme a Budapest). La sua "legge":


di cui vi avevo parlato per la prima volta qui, e poi, nei dettagli, tre anni dopo qui, resta, dal mio sommesso punto di vista, un capolavoro di economia di pensiero. Non conosco in economia, e neanche nelle scienze di cui sono dilettante, una formula che con così tanta concisione (o, se volete, con così poche pretese) aiuti così tanto a interpretare un fenomeno complesso (che nel caso in specie è quello della crescita economica). E in effetti, per quanto ci riguarda, questa semplice formula, come abbiamo visto nel corso dei lunghi anni passati insieme, ci aiuta a capire com'è andata in Italia molto meglio delle tante spiegazioni da bar dello sport con cui ci intrattengono millantatori di titoli, o possessori di prestigiosissime cattedre: due estremi che si toccano nel gonfiarcele con "il treno della rivoluzione digitale", o "la scarsa produttività delle PMI", e consimile ciarpame autorazzista.

Le spiegazioni di questi fenomeni da baracchino o baraccone non sono coerenti col profilo temporale dei dati, come vi spiegai a suo tempo. La spiegazione fornita dalla legge di Thirlwall, invece, lo è.

Oggi, affacciandomi alla cloaca social, ho appreso con grande dolore da un tweet lievemente promozionale di Mathias Vernengo che Tony ci ha lasciato a 82 anni l'8 novembre scorso. La sua ultima lettera, alla quale non ho risposto, perché non sono riuscito a trovare le parole per farlo, era di circa un anno fa, del 24 novembre 2022. Al termine di uno scambio sulle situazioni politiche dei nostri rispettivi Paesi, dopo avermi fatto i complimenti per la mia rielezione, naturalmente dicendomi anche lui che avrebbe votato per me ma non per la Lega (una posizione che evidentemente è rappresentata anche a livello internazionale!), Tony mi confidava di avere una malattia incurabile, e che per quanto cercasse di prenderla stoicamente, la sua vita non era affatto facile.

Questa notizia mi lasciò amareggiato e senza parole: non sapevo come essergli di conforto.

Poi il flusso delle mille incombenze quotidiane mi distrasse da questa cosa che avrei preferito non sapere. Retrospettivamente non sono molto contento di essermi lasciato distrarre, ma è andata così e accetto il rischio che possa andare così altre volte in futuro. 

Ero molto fiero che gli fosse piaciuto il paper in cui estendevo il suo modello a un contesto a più Paesi, per analizzare il contributo alla crescita di un Paese dei suoi rapporti commerciali con diverse aree geografiche. Ma tutto questo appartiene a un tempo e a un mondo diverso, quello in cui avevo tempo di studiare e approfondire. Da questo mondo mi ha strappato l'aver denunciato, molti anni dopo di lui, quella che lui, molti anni prima, nel 1998, quando avevo da poco preso confidenza col suo lavoro, aveva chiamato "la follia dell'euro". Della sua appassionata e lucida denuncia vi avevo parlato qui, dodici anni or sono. Forse dovreste rileggerla: sarebbe un modo utile di ricordare una persona che ha lasciato una traccia nel pensiero economico, riflettendo sull'attualità di quello che aveva cercato di dirci 25 anni fa. 

giovedì 26 gennaio 2023

Segare il ramo: una postilla

Volevo aggiungere una postilla al post su "Segare il ramo", in cui concludevo che dopo aver distrutto i loro mercati di sbocco nel Sud dell'Eurozona, e essersi fatti tagliar fuori dai mercati di sbocco statunitense e cinese (e dal mercato di approvvigionamento russo), i capitalismi del Nord (aka "Germania") si trovano in questo fastidioso dilemma:

  1. o scelgono di sostenere la domanda interna, passando da un regime di crescita export led (trainata dalle esportazioni) a un regime di crescita wage led (trainata dai salari), come consigliato da alcuni banchieri centrali, col problema però di alimentare un moderato processo inflazionistico e quindi di (a) continuare a perdere competitività rispetto al Sud dell'Eurozona e (b) accettare una svalutazione dei crediti da loro accumulati in anni di esportazioni drogate dal cambio debole;
  2. o scelgono di non sostenere la domanda interna e si accartocciano su se stessi.

Messa così, però, è un po' troppo semplice, perché in effetti un altro modo di sostenere la domanda interna, oltre ai salari, ci sarebbe: la spesa pubblica, quella che i cretini chiamano "spesapubblicaimproduttiva", e che chi vuole sembrare meno cretino distingue in spesa corrente e spesa per investimenti, salvo accorgersi dopo un po' che anche una spesa corrente come gli stipendi dei medici è in realtà un investimento sulla salute dei pazienti (dipende anche dal medico, ma ci siamo capiti: lo ha capito perfino lui).

Qui rientrano in gioco le asimmetrie europee e il dibattito sulle regole europee, di cui io, nel mio nuovo ruolo, devo dirvi che non ho proprio idea di dove sia arrivato. Per dirvela tutta, temo che finirà così: che il Nord, dopo aver fatto schizzare verso l'alto il rapporto debito/Pil del Sud grazie all'austerità, non consentirà al Sud di usare il volano della spesa pubblica per ripartire. Di conseguenza, al Nord si continueranno a nazionalizzare le imprese invece di farle fallire (nel silenzio di DG COMP) e si spingerà un po' sull'acceleratore degli investimenti pubblici (finanziati con debito nazionale, certo non con trappole come il PNRR), mentre al Sud si consentirà di far debito solo in regime di memorandum (cioè col PNRR) e comunque non in misura sufficiente per colmare quel gap fra crescita effettiva e tendenziale che l'austerità ha aperto, come abbiamo visto qui:


(...scusate, non ho tempo di aggiornare il grafico, ma non è cambiato di molto...)

Insomma: il famoso discorso che spesa pubblica può farne chi ha lo "spazio fiscale" per farla.

Questo che cosa significa?

Significa che l'Eurozona continuerà a essere sottoposta a forze divergenti.

Nella sua prima fase, le tensioni derivavano dal cambio, che favoriva le economie del Nord, promuovendone le esportazioni e quindi la crescita, e sfavoriva quelle del Sud, deprimendone le esportazioni e quindi la crescita (i fatti sono fatti, poi ci sono le opinioni dei riveriti colleghi, come ricorderete). Nella fase attuale, tensioni dello stesso genere potrebbero derivare dalla spesa pubblica, nella misura in cui il Nord consentisse a se stesso di farne (sostenendo di avere spazio fiscale), ma continuasse a vietarlo al Sud (con la scusa che questo avrebbe poco spazio fiscale), nonostante che gli sviluppi recenti dimostrino come il maggior calo del rapporto debito/Pil, in Italia, si sia verificato negli anni di maggior deficit:


(il grafico viene dal Programma di stabilità per l'Italia del 2022).

Capite bene che una serie di deficit entro il 3%, come dal 2012 al 2019, che ci mantengano il rapporto debito/Pil stabile perché non riescono a rianimare la crescita, col debito al 150% non possiamo esattamente permettercela, considerando che siamo indebitati in una valuta estera (nel senso che il debito è definito in una valuta di cui il nostro Paese non ha pieno controllo politico).

Comunque, anche in questo caso l'economia un rimedio l'offrirebbe. Spingendo sul pedale della spesa pubblica le economie del Nord riuscirebbero a crescere più di quelle del Sud, ma quindi importerebbero anche di più, trainando con la loro domanda di beni le economie del Sud. Un meccanismo di aggiustamento lento e che passa attraverso una cosa che il Nord assolutamente non vuole, cui è allergico più che all'inflazione: un deficit del saldo commerciale.

Prevarranno le forze centrifughe o quelle centripete?

Lo vedremo abbastanza presto.

Io non credo che il contesto istituzionale attuale sia favorevole alla convergenza, ma, si sa, io sono una brutta persona. Credo invece che ove mai l'Italia consolidasse il suo attuale percorso di crescita, dopo un po' qualcuno, per spezzarle le gambe, suonerebbe la fanfara dell'attacco speculativo, motivo per cui è folle pensare di ratificare la riforma del MES, che trasforma il Trattato in una macchina per innescare crisi finanziarie a piacimento. Non che ora non sia possibile: ma proprio per questo, facilitare il compito a chi ci vuole così bene non mi sembrerebbe cosa lungimirante. L'esempio di cosa non fare lo abbiamo tutti chiaro davanti agli occhi:


Se la storia si ripeterà, quindi, non sarà farsa, ma tragedia.

Conclusioni?

Per ora non ce ne sono: sappiamo a che cosa stare attenti (alla politica dei redditi degli altri Paesi europei e alle regole fiscali), e sappiamo che piega prenderanno le cose a seconda delle scelte fatte in questi due ambiti. Ma che scelte verranno fatte non dipende solo da noi, e questo, oltre all'asteroide, ci lascia con un discreto margine di incertezza. Sarei molto contento di essere stato, per una volta, pessimista...

domenica 8 gennaio 2023

"È arrivato l’arrotino!" Dimensioni, esportazioni e crescita

 (...e tte pareva?...)

Marco ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Il Pil e il tramonto dell'euro (lebbasi)":

E io che pensavo che la maggiore crescita italiana fosse dovuta alla maggior caduta avuta con il covid. Vedremo se continuerà su questi ritmi, ma temo proprio di no.

Le PMI agili alle quali dobbiamo questa crescita miracolosa sono forse le stesse degli ultimi 30 e passa anni di declino? Sono forse le stesse che non fanno un investimento in ICT mango a pagarglielo perché non sanno cosa sia e che in media hanno al loro interno competenze manageriali limitatissime? Sono quelle che pagano salari bassi perché hanno bassa produttivà? Si potrebbe andare avanti....

Per chiudere, cosa serve avere la globalizzazione se poi non si può esportare nei mercati esteri? Si sa benissimo che le aziende esportatrici sono grosse.

Pubblicato da Marco su Goofynomics il giorno 8 gen 2023, 19:50


In un post precedente abbiamo evocato i gianninisti, e l'amico Marco si offre come esemplare a scopo didattico. Vediamo quante fregnacce affermazioni controvertibili ha messo in fila, e poi andiamocene a dormire preoccupati. Non sono cattivi, non lo fanno apposta, ma sono tanti, sono ovunque, e non trovano mai uno che li controbatta, sicché i giannini, come i poverini, sono pericolosi. C'è il rischio che la politica, e soprattutto quegli organi di indirizzo politico che sono le alte corti, prendano per buona la visione del mondo un pochino démodé da essi offerta. L'austerità è stato il frutto marcio di questa egemonia culturale. Vorremmo evitare di ricascarci di nuovo.

L'Italia è cresciuta di più perché è caduta di più

Prima fregnaccia affermazione controvertibile. Basta guardare questo grafico:


I dati vengono da questa tabella dell'ultimo Economic Outlook dell'OCSE:


convertiti in indice con base 100 nel 2019.

Se per crescere di più bastasse andare in una recessione più profonda, allora la Spagna ci dovrebbe aver raggiunto e superato. Invece noi, che abbiamo avuto una recessione comparativamente meno grave, abbiamo recuperato più di lei. Dai dati dell'OCSE risulta che nel biennio della ripresa (2021-2022) la nostra è stata la crescita media più alta (5.2%), seguita da quella della Spagna (5.1%), della Francia (4.7%) e della Germania (2.2%). Ricordiamo anche che per il 2022 abbiamo stime che molto probabilmente verranno riviste al rialzo nel caso del nostro Paese. Aggiungo che abbiamo ottenuto questa performance con un livello relativamente contenuto di inflazione (finora):


Germania e Spagna hanno visto un'evoluzione molto più rapida dei prezzi, nonostante che la Spagna sia farcita di GNL, e quindi in qualche modo risenta di meno dei vincoli di offerta posti dalla crisi energetica. Meglio di noi fa solo la Francia, che invece è farcita di centrali nucleari (speriamo bene!).

La produttivà dipende dalle dimensioni dell'azienda

Sì, lo so: volevi dire produttività.

Non sei stato molto produttivo.

Vedi, ora per colpa tua mi trovero intasato di spam osceno perché mi è venuta la curiosità di andare a vedere quanto costa una falloplastica. Sì, perché questa ossessione per avercela grossa, l'azienda, secondo me è freudiana, un po' come l'ossessione per la monetona durona il cui cambio si impenna. Forse ci vorrebbero effettivamente più donne al potere, anche se, a rigor di logica, non so se questo attenuerebbe il problema...

Qui con la storia che la produttività delle imprese dipende dalla loro dimensione e quindi il "nanismo" è causa del declino (peraltro, i nani sono noti per le loro virtù), abbiamo chiuso molti anni fa, tendiamo a considerarla una fregnaccia un argomento controvertibile, e il risultato delle nostre riflessioni (che poi sono legate strettamente a quelle di Smith, citate due post fa), è stato sottoposto a peer review e pubblicato su rivista tre anni dopo. Secondo noi il declino dell'economia italiana dipende da altri fattori, noi la pensiamo un po' più come Smith, Kaldor, e Thirlwall, che come i tanti giannini egemoni sui media, ma se non sei d'accordo con noi, nel caso non ti interessi la falloplastica (come credo e auspico) ti segnalo una seconda opzione: prendi carta e penna, scrivi un articolo per confutarmi, mandalo a una rivista più importante dell'International Review of Applied Economics (suggerisco l'American Economic Review) e torna a trovarci. Siamo sempre curiosi di apprendere. Le frasi fatte ci interessano di meno (sulle dimensioni siamo laici).

Le aziende esportatrici sono grosse

Aridanga! Sempre con questa storia delle dimensioni...

Ma prima di entrare nel merito di questo argomento, ti chiederei sinceramente di spiegarmi il significato di questa frase sibillina (o, se preferisci, sibillona, così sembrerà più produttiva di pensiero): 

cosa serve avere la globalizzazione se poi non si può esportare nei mercati esteri?

Veramente non ne capisco il senso. Qui pensiamo, in molti, che la globalizzazione sia andata troppo oltre, sia entrata nella fase dei rendimenti decrescenti, la fase in cui crea più problemi di quanti ne risolva, quindi una prima riflessione è che, appunto, avere tutta questa globalizzazione non ci serve. Poi, chi ha detto che "non si può esportare nei mercati esteri"? Se si vuole, e dall'estero acquistano, perché no? Il punto che è sempre stato sottovalutato (dagli altri, non da noi) è che chi esporta beni importa problemi. Che cosa voglio dire? Semplice: che se il tuo modello di sviluppo è mercantilista, alla tedesca, cioè tutto basato sulla domanda altrui, la tua economia sarà sensibilissima a qualsiasi shock geopolitico che chiuda i mercati esteri (e a quel punto rimpiangerai di non aver alimentato la domanda interna). Questo è il ragionamento che facciamo qui, da tempo, e che ora cominciano a fare, con comodo, anche altri.

Quanto alla tua ossessione per le dimensioni, che cosa vuoi che ti dica? Le evidenze non sono così granitiche come le tue certezze. In letteratura non mancano studi secondo i quali l'idea che l'intensità delle esportazioni dipenda delle dimensioni dell'azienda è una fregnaccia controvertibile: già nel 1992 Bonaccorsi confutava questa asserzione nel caso dell'Italia, nel 2001 Wagner dimostrava che la maggior parte degli studi sul tema erano distorti a causa della natura delle variabili utilizzate e una volta tenuto conto di questa distorsione le dimensioni in molti settori non sembravano costituire un problema, un suo studio più recente trova una relazione fra dimensioni ed export nella Germania Ovest ma non nella Germania Est, ecc. ecc. ecc. Però di questi studi ora possiamo fare a meno: è arrivato l'arrotino e ci ha detto che esportazione fa rima con dimensione. Meglio così, sempre meglio leggere la lettera di un amico che un noioso paper pieno di numeri.

Comunque, con il massimo rispetto per tuo cuggino, che penso sia l'ispiratore delle tue brillanti analisi, ti segnalo che l'ICE la vede in un modo un po' diverso. Nel suo ultimo rapporto L'Italia nell'economia internazionale ci dice che:


il 51,2% dell'export italiano è generato da PMI, e la percentuale di export proveniente dalle microimprese è assolutamente in linea con quella di Germania e Francia. Siccome la performance delle nostre esportazioni non è deludente:


(qui la Spagna fa marginalmente meglio di noi, ma prima aveva fatto molto peggio, mentre la Germania si sta spiaggiando), non vedo in che modo il fatto che il nostro export provenga per oltre metà dalle PMI possa essere visto come indicatore di una fragilità... che non c'è!

Conclusioni

Marco ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "La situazione è grave, ma non è seria":

Bagnai, come mai temi di pubblicare il commento che ho provato più volte a caricare?

Pubblicato da Marco su Goofynomics il giorno 17 nov 2022, 11:41

Marco caro e stimato, come vedi non sono io a temere di pubblicare i tuoi commenti: sei tu che dovresti temere che vengano pubblicati. Tu sei nuovo di queste parti. Siamo un piccolo villaggio di alcune decine di migliaia di persone, e ogni tanto, come si fa nei villaggi, ci divertiamo affettuosamente con chi non ci arriva, ma solo se lo fa con arroganza, e sempre in modo argomentato, costruttivo, e pedagogico.

A Roma dicono: come me sòni, te canto.

Torna a trovarci!

(...ah, comunque se trovi scritto sullo specchio "Benvenuto nell'AIDS!" non siamo stati noi. Qui siamo laici, tolleranti, e soprattutto prudenti. Dovresti ispirarti almeno all'ultima delle nostre virtù...)

domenica 18 luglio 2021

Il paese esportatore

Chi è qui da un po' si ricorda senz'altro il nostro amico che ha l'abitudine di guidare contromano in autostrada: è un complottista, ma è tanto una brava persona. Qualche giorno fa ne ha fatta un'altra:


(il tweet originale è qui).

Ora voi mi direte: ma che cosa c'è che non va in questo grafico? In fondo sono solo dati!

Sì, naturalmente: sono solo dati, e raccontano solo un pezzo della storia, non solo e non tanto perché partono dal 1991 (che sarebbe anche abbastanza), quanto perché ci fanno vedere solo il saldo fra esportazioni e importazioni di beni e servizi (il saldo commerciale), senza farci vedere come si sono mosse le rispettive componenti, cioè le esportazioni e le importazioni. Non c'è nulla di male nel non farlo vedere, ma non c'è neanche nulla di male nel farlo vedere, e quindi ve lo faccio vedere usando i soliti dati ISTAT. Il grafico (su dati annuali anziché su media mobile di dati mensili, il che non cambia sostanzialmente nulla nelle informazioni "a bassa frequenza", cioè di lungo periodo, che interessano me), è questo:


dove l'unità di misura è il punto percentuale di PIL, le esportazioni sono blu, le importazioni arancioni, e il saldo è rappresentato dal grafico a barre grigie (scala di destra).

Che cosa vi racconta questo grafico? Che dal 1970 a oggi (volendo si potrebbe andare ancora più indietro) ci sono state tre correzioni abbastanza violente del deficit di bilancia dei pagamenti del nostro paese: una fra 1974 e 1975, una fra 1992 e 1993, e una fra 2011 e 2012.

Ora, della diversa natura di queste correzioni, in particolare delle ultime due, abbiamo già parlato, ma conviene riparlarne un attimo.

In effetti, il saldo delle partite correnti (le barre grigie), dato dalla differenza fra esportazioni e importazioni, può cambiare segno, passando da negativo a positivo (da sotto a sopra) per due ordini di motivi: o perché aumentano le esportazioni, o perché diminuiscono le importazioni (i due movimenti possono ovviamente coesistere e quindi sommarsi). Le esportazioni dipendono dal reddito del resto del mondo, e dal loro prezzo relativo, il tasso di cambio reale (rapporto fra i prezzi italiani e esteri espressi nella stessa valuta, un concetto spiegato qui). Le importazioni dipendono dal reddito italiano e ancora una volta dal tasso di cambio reale. Naturalmente il Governo italiano, che già ha il suo da fare nell'assicurare la sopravvivenza degli italiani, in questi tempi così difficili, non è mai stato particolarmente in grado di influire sul reddito del resto del mondo, il che significa, in buona sostanza, che per far aumentare le sue esportazioni l'Italia può far leva solo sul tasso di cambio reale. Altra storia per le importazioni: siccome queste dipendono dal reddito italiano, e il Governo italiano questo reddito un po' lo controlla, ecco che anche in assenza di manovre del cambio le importazioni possono essere manovrate influendo sul reddito.

Semplicemente, se vuoi che gli italiani complessivamente importino di meno, occorre che il loro reddito complessivo sia inferiore, cioè occorre austerità. Naturalmente l'aggiustamento in base al reddito diventa indispensabile quando non è possibile ricorrere all'aggiustamento dei prezzi relativi, o almeno a un aggiustamento sufficientemente rapido (e anche di questo abbiamo parlato). 

Per far capire dove voglio arrivare, consideriamo l'entità dell'aggiustamento del saldo fra l'anno precedente alla correzione e il picco positivo successivo alla correzione. Dopo il -1.33% raggiunto dal saldo della bilancia commerciale nel 1974, il picco arrivò col 2.85% del 1978: una correzione di 4.18 punti percentuali del saldo di cui 3.38 dovuti a un aumento delle esportazioni, e 0.80 a una diminuzione delle importazioni. La correzione delle importazioni fu quindi il 19% della correzione totale (0.8/4.18=0.19). Dopo il -1.98% del 1992 la correzione fu molto più forte: il saldo delle partite correnti arrivò nel 1996 a 4.53%, con un aumento di 6.52 punti, di cui 4.75 dovuti a un aumento delle esportazioni e 1.76 dovuti a una diminuzione delle importazioni: la diminuzione delle importazioni, in questo caso, contò per il 27% dell'aggiustamento totale. E arriviamo a oggi: dopo il -1.4 del 2011, il picco è stato raggiunto col 3.66 del 2020, con una correzione complessiva di 5.06 punti, di cui 2.61 dovuti a un aumento delle esportazioni, e 2.44 a una diminuzione delle importazioni. In questo caso, quindi, finora, la correzione è dipesa per circa metà (il 48%) dalla diminuzione delle importazioni.

Chiaro ora quello che non va nel discorso del nostro fratello tedesco?

Non è esattissimo dire che l'Italia "is increasingly becoming an export nation". Non siamo sempre di più una nazione esportatrice: siamo soprattutto sempre di meno una nazione importatrice, per la semplice ragione che il nostro reddito prima del COVID era fermo a quello di quindici anni prima (cioè nel 2019 avevamo il reddito aggregato del 2005). Nel grafico si vede bene: quest'ultimo aggiustamento (quello del 2012) dipende soprattutto dal fatto che le importazioni si fermano: è l'austerità, bellezza!

E partendo da qui si potrebbero sviluppare tante interessanti considerazioni, che rinunciamo a sviluppare un po' perché lo abbiamo già fatto tante volte, e un po' perché abbiamo altro da fare. Ci vediamo più tardi in diretta FB sulla pagina del collega Siri...

domenica 29 ottobre 2017

Della Vedova e le esportazioni (Treccani #1)

(...esaurita una serie di impegni più importanti, torno a occuparmi di un evento che ha suscitato in alcuni di voi una reazione emotiva tanto forte quanto ingiustificata. Le tesi sostenute da certi relatori durante il convegno de cujus non meritano tanto astio, ma solo una risata, o al massimo un'alzata di spalle, per quanto sono vetuste e apodittiche. Tuttavia, dato che certe cose sono state dette in una istituzione che si propone come scientifica, mi corre l'obbligo, da membro della comunità scientifica, di rettificare qui le più rilevanti imprecisioni. Lo faccio costruttivamente, da italiano che crede nel proprio paese e da cittadino dotato di senso civico, anche allo scopo di marcare la distanza dai politici ostili al proprio paese e scevri da senso di responsabilità. Della Vedova è il primo della mia personale shortlist...)



"...tu vai sul territorio e vedi che dal vino al formaggio ai macchinari sofisticati ai robot del distretto di Pisa un problema di euro sull'export, che sta crescendo al passo tedesco... In una cosa abbiamo tenuto il passo tedesco nel periodo della crisi: le esportazioni, in euro! Sia nell'area euro, che sono cresciute, sia fuori. Quindi, che all'Italia siano venuti danni, nel core business dell'export, su cui credo che questi governi abbiano investito con politiche importanti, io credo che non è così...".

(al minuto 2:20:35, anacoluti e congiuntivi del relatore).


Siamo alla vigilia di una campagna elettorale che, come le precedenti e le successive (finché starà in piedi il carrozzone di Bruxelles), farà "tremare l'Europa" (come dicono i gazzettieri), perché verterà, inevitabilmente, sull'Europa (nonostante i tentativi dei politici e dei gazzettieri di divertere l'attenzione del pubblico). Faccio questa premessa perché sto per darvi plastica rappresentazione di come i politici siano informati sull'Europa e sulle sue conseguenze: da qui capiremo quale potrà essere la qualità del dibattito che ci attende.

Altra premessa essenziale: do per scontato che vi rendiate conto di come la provenienza di Della Vedova da un partito fortemente filo-atlantico (i radicali) lo induca a difendere a spada tratta il più ambizioso progetto dell'imperialismo liberista USA: l'Unione Europea. Insomma: cosa Della Vedova voglia non è poi un mistero, né deve esserlo. Dato che lui è un politico, direi che il fatto che ciò che desidera sia noto mi sembra il requisito minimo perché chi lo voti sappia se i propri interessi saranno rappresentati! Against this backdrop, ci possono essere modi più o meno disinformati di difendere le proprie opinioni. Chi è affezionato a un minimo di onestà intellettuale dovrebbe chiedere ai politici, e in particolare ai propri politici, quello che abbiamo rinunciato a chiedere ai giornalisti, ovvero di esercitare sì il diritto alla propria opinione, ma senza arrogarsi il diritto ai propri dati. Questo sarebbe doveroso sempre, ma tanto più in dibattiti condotti in sedi scientifiche, perché in caso contrario si riverberebbe su queste ultime il discredito che affermazioni infondate necessariamente emettono.

L'imbarbarimento del dibattito italiano, dovuto in primo luogo alla scarsa deontologia professionale dei giornalisti (come qui mille volte abbiamo rimarcato), ha fatto delle importanti vittime collaterali, fra cui spiccano prestigiose istituzioni scientifiche, spesso onuste di tradizioni secolari, che sono scadute a livelli di una bassezza sinceramente inimmaginabile. Cito, come esempio eloquente (ab uno disce omnes), queste slides ospitate non si sa bene perché sul sito dell'Accademia dei Lincei, delle quali vi evidenzio in particolare la quindicesima (non che le altre siano molto migliori...):


Ditemi voi se è possibile che un uomo di scienza possa citare le copertine di un giornale in evidente conflitto di interessi come fonte autorevole per la valutazione del merito delle politiche di un governo nazionale! E questo, notate bene, commettendo un discreto falso storico, dal momento che, come ben sappiamo (e come era visibile già alla data in cui queste sorprendenti slides vennero pubblicate), le politiche di Monti non hanno risanato le finanze italiane, anzi!


Incrementando di più di un punto di Pil il surplus primario (barre arancioni), in presenza di un rapporto debito/Pil superiore al 100% (con le conseguenze esposte qui) e di un moltiplicatore largamente superiore a uno (come ormai la letteratura scientifica concordemente riconosce, e come qualsiasi economista non pre-keynesiano avrebbe tranquillamente detto anche prima), Monti ha peggiorato la situazione del debito pubblico italiano (linea nera), portandolo oltre il 130%, per cui, come tutti sanno e come molti hanno detto da subito, il calo dello spread non ha nulla a che vedere con il "risanamento fiscale italiano" (come suggerisce con un'impudenza che lascia esterrefatti, soprattutto per la sede in cui è riposta, il titolo della slide), ma dipende esclusivamente dal whatever it takes di Draghi.

Ecco: i Lincei li abbiamo persi. Proviamo a difendere la Treccani, che ha una storia meno lunga, e un ruolo più importante, in quanto istituzione con una missione divulgativa, nel formare la coscienza civile del paese. A questo scopo, qui mostrerò quale sia il fondamento fattuale e teorico dell'affermazione che l'on. Della Vedova, senza possibilità alcuna di verifica e di contraddittorio, ha profferito nel dibattito: quella secondo cui non ci sarebbe un problema di euro sull'export.

Parto dai dati: non da quelli cui l'on. Della Vedova crede di aver diritto, ma da quelli che le fonti statistiche ufficili riportano, cominciando dalla bislacca asserzione secondo cui non esiste un problema di euro perché le esportazioni stanno crescendo a ritmi tedeschi dall'inizio della crisi. I dati Eurostat in milioni di euro a valori concatenati, prezzi 2010, sono questi:



(li trovate qui), e diciamo che a prima vista non raccontano esattamente la storia che abbiamo sentito dalla bocca di Della Vedova. Tuttavia, noi siamo intellettualmente onesti, e quindi, a differenza dei faciloni di destra e di sinistra, sappiamo che quando si parla della dinamica di un fenomeno occorre esaminarne le tendenze in scala logaritmica (il motivo venne spiegato qui, parlando dell'onestà intellettuale dei "marziani"). In sintesi: se si usa una scala logaritmica, le pendenze di due spezzate sono direttamente confrontabili. Mentre in scala naturale un aumento di una unità è un aumento del 10% se si parte da 10 o dell'1% se si parte da 100, in scala logaritmica un aumento di 0.01 è sempre un aumento dell'1%, indipendentemente dal punto di partenza.

E allora vediamo i dati in scala logaritmica: non è perché i nostri interlocutori sono superficiali che dobbiamo esserlo anche noi!

Qui si vede bene che dal 1997 a oggi il divario livello delle esportazioni tedesche e italiane è aumentato, il che, in scala logaritmica, implica che le prime siano cresciute a un tasso superiore alle seconde. Ma Della Vedova si riferiva al periodo post-crisi, e ai tassi di crescita. E allora vediamo i tassi di crescita, e calcoliamo qualche media:


E qui l'occhio esperto qualche problemino lo afferra: sì, le spezzate dei due tassi di crescita si muovono abbastanza in fase (per forza: sia la Germania che l'Italia dipendono, per il loro commercio, dalla congiuntura mondiale), ma la linea rossa, che saremmo noi, sta sempre un po' sotto alla linea blu, che sarebbero loro. Se andiamo a calcolare la crescita media mensile dell'export "nel periodo della crisi" (ipse dixit) troviamo questi risultati, a seconda di dove vogliamo far iniziare la crisi:






Se partiamo dal trimestre dopo Lehman, vediamo che la crescita delle esportazioni tedesche è stata dello 0.72% contro lo 0.39% per quelle italiane. Se partiamo dall'arrivo di Monti liberatore, cioè, per capirci, dalla cosiddetta crisi dei debiti sovrani, il divario è più contenuto, ma sempre a svantaggio dell'Italia. Quindi, l'affermazione secondo cui nel periodo della crisi le nostre esportazioni abbiano marciato al passo dell'oca è smentita dai dati.

Ora, bisognerebbe approfondire un altro pezzo del "ragionamento" dell'on. Della Vedova, quello secondo cui "io credo che non è che al core business dell'export sono venuti danni dall'euro" (Gianni Minà non avrebbe saputo dir meglio). Il modo più ovvio per analizzare questa bislacca asserzione (poi vi chiarirò perché è bislacca) è quello che usiamo spesso: allargare lo zoom. Per farlo, però, non possiamo servirci di Eurostat, che non ci dà tutti i dati. Conviene usare il World Economic Outlook database del Fmi, che trovate al solito posto, e che vi fornisce il tasso di crescita delle esportazioni di beni e servizi in volume per tutti i paesi registrati al Fmi. I dati che interessano noi sono qui:


Un occhio minimamente allenato, o minimamente non accecato dall'ideologia di odio verso l'Italia che va sotto il curioso nome di europeismo, dovrebbe vedere subito una cosa: mentre prima del 1996 le esportazioni italiane (riga rossa) erano qualche volta sopra e qualche volta sotto quelle tedesche (linea blu) dal 1997 in poi l'Italia diventa sottona: non c'è più un singolo anno nel quale il tasso di crescita del suo export superi quello dell'export tedesco. Cosa sia successo nel 1997 lo sapete e ne abbiamo parlato ad esempio qui, e l'argomento ci ha aperto uno squarcio sull'abisso di ignoranza della classe politica che ha gestito l'ingresso nell'euro (qui e qui): nel 1997 siamo entrati nell'euro de facto (de jure ci saremmo entrati nel 1999).

Ma naturalmente l'euro non c'entra, dice Della Vedova. Solo che siccome un problema c'è, forse, oltre a negare una causa concomitante, sarebbe opportuno che un politico desse una spiegazione alternativa, in modo da permetterci di valutare dove stia indirizzando i propri sforzi, e se quella sia la direzione giusta... Cosa altro può essere successo, nel 1997, di così disastroso per la nostra economia? Siamo diventati tutti corrotti? Improvvisamente è emersa la Cina dal Mar Giallo? Abbiamo perso il treno della rivoluzione digitale, che passava solo il primo gennaio 1997? Altra scemenza a piacere? Qualche argomento bisognerebbe portarlo, altrimenti... altrimenti si rischia di sembrare incompetenti!

E allora, grazie alle IFS del FMI, allarghiamo ancora lo zoom, perché sia chiara la dimensione del disastro che i nostri politici negano, non riuscendo a trovare una spiegazione seria che non sia quella che per motivi ideologici non vogliono dare:


Qui avete 68 anni di esportazioni italiane e tedesche. Ho fatto base nel 1950 (1950=100) per consentirvi di apprezzare come fino all'inizio degli anni '90 la dinamica dell'export italiano e tedesco sia sostanzialmente analoga. Poi l'Italia prende il sopravvento, nel 1992. Poi arriva l'euro, che impedisce alla Germania di rivalutare: gli effetti del dumping valutario tedesco sono ben evidenti, e nulla cambia se il fenomeno lo si osserva in scala logaritmica (dove si apprezzano molte sfumature che saranno evidenti a molti di voi):

Addendum delle 13:24
(...scusate, mi sono distratto per una telefonata di Rockapasso e ho dimenticato di fornirvi qualche dato in più...)
Gli occhi allenati non hanno bisogno di nulla, ma agli altri farà probabilmente comodo avere qualche summary statistics. Qui vedete i tassi di crescita media annua dell'export italiano e tedesco sul campione e su vari sottocampioni:
Fra il 1951 e il 2016 le esportazioni tedesche e italiane sono cresciute a tassi di crescita medi annui non molto distanti: 7.2% la Germania, 6.5% l'Italia. Tuttavia, fra il 1951 e il 1996 l'Italia era in vantaggio, con una crescita di 0.5 punti percentuali superiore a quella tedesca (8.4% contro 7.9%). Dall'aggancio all'ECU/EUR, nel 1997, la situazione si ribalta drasticamente: il tasso di crescita delle esportazioni italiane piomba al 2.5%, 3.4 punti sotto (anziché 0.5 punti sopra) il tasso di crescita di quelle tedesche. In termini assoluti, un tonfo di 5.9 punti, e in termini percentuali di 3.9. Notate anche che fra 1997 e 2008 il tasso di crescita delle esportazioni tedesche esplode rispetto a quello italiano, situandosi in media 7.7-3.2=4.5 punti al di sopra. Ogni riferimento a svalutazioni competitive dei salari è puramente intenzionale.
Fine addendum delle 13:24

I Soloni che disquisiscono della neutralità dell'euro dovrebbero spiegarci bene come mai prima dell'adozione di questa valuta noi tenevamo testa ai nostri concorrenti. La teoria economica una spiegazione la dà. Se il cambio riflette i fondamentali, quello di una valuta comune riflette la media dei fondamentali di paesi forti e deboli. Come tale, il valore risultante non è di equilibrio per nessuno: è forte per i deboli (ostacolandoli) e debole per i forti (attribuendo loro un ingiusto vantaggio). In virtù di questa ovvia caratteristica, la valuta unica agisce come un cuneo che si insinua fra paesi forti e deboli, divaricandone sempre più le prestazioni. Lo abbiamo visto per la produzione industriale, e naturalmente la stessa cosa vale per le esportazioni.

Direi che possiamo dedicare una prece alla credibilità delle analisi economiche dell'on. Della Vedova, che sarà senz'altro autorevole quando si occupa delle cose che conosce (non so quali siano e non mi interessa), ma che ha dimostrato di non essere esattamente a proprio agio con i fatti stilizzati più importanti del paese che ancora per poco è chiamato a governare.


Voglio solo sottolineare un punto metodologico. L'on. Della Vedova gioca al piccolo liberale, o meglio al piccolo liberista. Ciò rende ancor più paradossale il suo diniego del fatto che il tasso di cambio conti! Alla radice dell'ideologia liberal-liberista (non me ne vogliano gli amici che si dilungano in sottili e appassionanti distinguo: avrete modo di farli nei commenti) si situa, come assoluto cardine, il fatto che l'egoismo individuale aiuti a conseguire l'ottimo collettivo, valorizzando al meglio le risorse scarse disponibili, e questo perché sia consumatori che produttori, che agiscono in modo atomizzato e indipendente, sono coordinati dal sistema dei prezzi, la cui flessibilità è garanzia al tempo stesso di piena occupazione delle risorse e di corretta informazione dei partecipanti all'economia di mercato.

Questo punto fondamentale (la funzione allocativa del sistema dei prezzi), che qualsiasi libro di testi di economia vi chiarirà, ci mette di fronte a due scenari, tutti ugualmente svantaggiosi per l'on. Della Vedova:

1) o l'on. Della Vedova non sa che il tasso di cambio è un prezzo, il che, dando per scontato che egli sia in buona fede quando dice di aderire a un'ideologia liberale, spiegherebbe perché egli non capisca quanto sia pericoloso inibirne la giusta flessibilità;

2) o l'on. Della Vedova non è, in effetti, un liberale, ma piuttosto un amico dei monopoli, il che spiegherebbe perché difenda a spada tratta quel sistema europeo che sappiamo essere piuttosto vulnerabile all'azione delle grandi lobby, e piuttosto impermeabile agli interessi delle piccole e medie imprese.

Insomma: mettetela come vi pare, ma io dall'on. Della Vedova, pur nell'ovvio rispetto umano e nel piacere di ascoltare le sue esilaranti analisi, non comprerei una teoria economica usata, e naturalmente non gli darei il mio voto. Decidere per chi votare sarà difficilissimo: ma in compenso decidere per chi non votare sarà molto facile, e oggi ve ne ho dato un esempio.

Chiudo auspicando che un giorno, sui siti delle prestigiose istituzioni culturali del nostro paese, si possano leggere o ascoltare, se non solo, almeno anche i dati corretti circa l'evoluzione della nostra storia economica più o meno recente. Sarebbe un requisito minimo di civiltà senza assicurare il quale piagnucolare sul populismo resta un esercizio sterile, al quale non si può che rispondere con la saggezza popolare: chi semina vento, raccoglie tempesta!