Una piovosa domenica di aprile
Come forse vi sarà capitato di sentir dire da qualche cialtroncello, io sono notoriamente "ai margini della comunità scientifica". Fatto si è che questa comunità, animata da spirito filantropico, oltre a pubblicarmi in fascia A, a farmi organizzare convegni internazionali, ad assistere alle presentazioni dei miei lavori in seminari all'estero, mi onora fino al punto di inviarmi dei peiper (dall'itangliano
paper) da referare (con un #ciaone alla #branacademy, quella simpatica combriccola di influencer renziani...).
Quando arriva la richiesta, ecco, in quei momenti sì che vorrei essere veramente ai margini della comunità scientifica, anzi, un po' più in là: all'esterno e ben lontano dai margini dei sedicenti scienziati, che in molti casi, come sapete, non toccherei nemmeno con uno stecco. Non so se vi ho mai detto come funziona: mi arriva un lavoro di non so chi (e non devo saperlo), sul quale devo esprimere un parere del quale l'editor (il curatore) della rivista terrà conto nella sua decisione se pubblicare o meno il lavoro. Naturalmente anche il pisquano di turno non deve sapere chi io sia, altrimenti il gioco non funziona. Può essere uno stimolo all'approfondimento, e spesso lo è, ma mediamente è una solenne rottura di coglioni, anche perché mentre quando mando lavori io raramente ricevo commenti dettagliati (tirano via, i colleghi), e qualche volta
commenti francamente ridicoli, io invece purtroppo sono vittima della mia etica professionale, e quindi controllo tutto, fornisco all'autore suggerimenti costruttivi, ecc.
Una seccante asimmetria, fra tante altre...
Nel penultimo peiper che ho dovuto referare l'autore voleva convincermi di una sua folgorante intuizione: che la crisi dell'Eurozona non era dovuta solo al debito pubblico dei paesi del Sud ma anche e soprattutto agli squilibri esterni causati dal cambio fisso e che quindi (quindi?) era necessario procedere verso un'unione fiscale. Per scrivergli fra le righe quello che pensavo mi sono limitato a fare la lista di tutti quelli che ci erano arrivati prima di lui (ovviamente escluso me, altrimenti mi tanava).
L'ultimo è ancor più spettacolare: l'autore vuole convincere il lettore che la svalutazione interna funziona prendendo ad esempio il caso della Lettonia. Di quel caso noi abbiamo parlato spesso, citando l'articolo di
Weisbrot e Ray (2011) che esprimeva un certo scetticismo sul "successo lettone" (con l'accento sulla "e"). Nel frattempo però sono passati cinque anni, e quindi hai visto mai che Weisbrot e Ray non fossero dei malfidati? Chissà, magari i programmi di aggiustamento à la FMI funzionano...
Certo, la questione è controversa: se lo chiedi al FMI lui ovviamente cosa vuoi che ti dica? Ma che va tutto benissimo! "IMF-supported programs have generally been successful" (
Haque e Khan, 1998). Ma se invece della ricerca fatta in casa, e quindi potenzialmente soggetta a conflitto di interessi, ci si orienta sulle migliori riviste scientifiche internazionali, ecco che la musica cambia: "The reality is that Fund programs seem to have a negative effect on investment and possibly economic growth, often do not enable countries to graduate from a reliance on IMF resources, more often than not remain incomplete, and do not catalyze external finance from other sources" (
Bird, 2001).
A differenza del libbberista medio cerco di essere scevro da pregiudizi. Mi accingo così al
mesto ufficio e pio, quando il mio orecchio musicale viene colpito da una stecca clamorosa. Eh già! Perché l'autore cosa mi dice? Che se in un paese che non può aggiustare il proprio tasso di cambio (svalutazione esterna) i salari non calano (svalutazione interna), allora il PIL diminuirà.
E voi mi direte: "Bè, ma ha ragione! Se i salari non si flettono, il costo del lavoro rimane alto, quindi i prezzi dei prodotti nazionali sono troppo alti, quindi sia i residenti nel paese che i residenti esteri preferiranno beni esteri, e quindi aumenteranno le importazioni (che producono reddito all'estero), e diminuiranno le esportazioni (riducendo i redditi delle imprese nazionali)".
Ah, bè, certo, non fa una piega... se però non sapete come è definito il PIL!
Intermezzo tecnico
Se volete approfondire, vi suggerirei
questo testo, che è rimasto misteriosamente nascosto ai colleghi libbberisti. Il manuale del System of National Accounts (edito da Nazioni Unite, Commissione Europea, OCSE, e spicci) è la fonte di riferimento per la contabilità nazionale. Il nostro sistema (
ESA 2010) è sostanzialmente compatibile con lo SNA, e quello di cui vi voglio parlare è veramente roba molto semplice (ma istruttiva) sulla quale non sussistono divergenze di alcun tipo fra i diversi sistemi contabili nazionali.
Giuseppe su Twitter si è lamentato del fatto che sono troppe pagine. Ma non bisogna mica leggerle tutte! A noi ne bastano quattro: il quadro di raccordo dei vari conti (pp. 326-327), e il confronto fra le tre definizioni di PIL (pp. 332-333). Poi, se volete, partendo da questo (che è il succo della questione), potete approfondire a vostro piacimento. Io intendo solo farvi capire perché dire che "se i salari non si flettono il PIL si contrae" è una colossale scemenza.
Lo è perché anche (e soprattutto) se i salari si flettono il PIL si contrae per definizione.
Vediamo di capire perché, partendo dal funzionamento di quella cosa che ai nostri amici libbberisti rimane un po' opaca, l'economia di mercato. Chissà: forse la amano tanto perché la capiscono poco. A me è successo con alcune donne, ma mai sul lavoro!
L'economia di mercato funziona così: si produce per vendere, e si vende per guadagnare. Certo, non è detto né che si produca sempre tutto quello che si vuole (o che gli altri vogliono), né che si venda tutto quello che si è prodotto (o che si riesca ad acquistare tutto ciò che ci occorre), né, soprattutto, che si guadagni quanto si desidererebbe guadagnare (perché in questo caso
sky is the limit...). Non è cioè detto che ci si trovi sempre in equilibrio
economico, che è la situazione nella quale tutti sono soddisfatti e quindi non cambierebbero la propria posizione con quella di un altro. Tuttavia, se una cosa viene venduta qualcuno l'ha prodotta e qualcuno ha speso per acquistarla: quindi l'equilibrio
contabile implica che coesistano e siano identiche tre definizioni di PIL: quella dal lato della spesa (cioè della domanda); quella dal lato della produzione (cioè del valore aggiunto); e quella dal lato del reddito (salari e profitti).
Non è che questa identità fra le tre definizioni del PIL me la sia inventato io questa notte, spero sia chiaro! È così per due ottimi motivi. Primo, perché lo dice il manuale dello SNA (leggere per credere):
(pagine 332-333 del manuale), e secondo, perché non può che essere così, in base al semplice ragionamento che abbiamo svolto sopra circa il flusso circolare di produzione-spesa-reddito.
Nei nostri post tecnici abbiamo quasi sempre fatto riferimento alla seconda misura, quella "dal lato della spesa", secondo cui:
Y = C + I + NX
dove Y è il PIL (
gross domestic product, prodotto interno lordo), C i consumi finali (privati e pubblici), I gli investimenti lordi in capitale fisico (
gross fixed capital formation: macchinari, attrezzature, veicoli e capannoni industriali,...), e NX le esportazioni nette (
exports less imports). Manipolando questa relazione si ottengono, ad esempio, i saldi settoriali, di cui abbiamo parlato la prima volta credo
qui, e che trovate descritti più in dettaglio (e più in sintesi)
qui. Questa definizione (
expenditure measure) è alla base di ogni modello macroeconomico, e chi fra voi ha studiato economia sicuramente l'ha incontrata. Oltre a essere una definizione di PIL, è anche interpretabile come una condizione di equilibrio:
Offerta/Produzione (Y) = Domanda/Spesa (C+I+NX)
(dove la domanda viene classificata a seconda di chi la esprime: famiglie, imprese, estero).
Ma la definizione dal lato della spesa nasconde due cose:
1) chi ha prodotto il reddito (ovvero: la struttura settoriale dell'economia);
2) come viene distribuito il reddito (ovvero: la ripartizione fra salari e profitti).
Alla prima domanda risponde la definizione (a), quella lato produzione, secondo la quale il PIL è:
Y = GO - IC + NT
ovvero: il PIL è uguale alla produzione lorda (
gross output, GO), meno i consumi intermedi (cioè i beni e servizi utilizzati come input del processo produttivo, IC), più le imposte indirette nette. Insomma: è uguale al valore aggiunto dal processo produttivo alle materie prime. Naturalmente questa definizione può essere disaggregata per settore, ottenendo il valore aggiunto di agricoltura, costruzioni, manifattura, servizi di vario tipo, ecc. Insomma: mentre la prima definizione (quella che usiamo di solito) ci permette di interrogarci sulla composizione della domanda (quanti consumi? Quanti investimenti? Quante esportazioni?), la seconda ci permette di interrogarci sulla composizione dell'offerta (quanta agricoltura? Quanta industria? Quanti servizi?).
Resta sempre da chiedersi a chi venga distribuito il reddito prodotto, e questa, ovviamente, è la cosa sulla quale gli amici libbberisti preferiscono glissare (non devo spiegarvi perché...). A questa specifica domanda risponde la terza definizione di PIL:
Y = W + GOS + TS
ovvero: il PIL è uguale alla somma dei redditi da lavoro W (
compensation of employees), più la somma dei redditi da capitale/impresa (il risultato lordo di gestione,
gross operating surplus, cui si aggiunge il reddito misto,
mixed income, che è il risultato dell'attività economica svolta dalle famiglie: li ho indicati con GOS), più il saldo fra tasse pagate su produzione e importazioni e sussidi ricevuti.
Allora, ricapitoliamo: se mettiamo a sistema la prima e l'ultima definizione, che cosa salta fuori? Questo:
Y = C + I + NX = W + GOS + TS = Y
ovvero: il PIL inteso come spesa deve ovviamente essere uguale al PIL inteso come reddito (se non percepisci reddito, come fai a spenderlo? Sì, certo, indebitandoti: ma in un paese in crisi i soldi che te li dà?).
E da questa storia cosa si dovrebbe capire? Ma, semplicemente che il calo dei salari (cioè la diminuzione di W) non può far aumentare il PIL (cioè Y), a meno che non riesca:
1) dal lato della spesa a produrre un sensibile aumento di NX (i consumi C non possono aumentare più di tanto, se togli soldi ai lavoratori)
2) dal lato dei redditi a produrre un sensibile aumento di GOS, cioè dei redditi da capitale.
Quindi?
Quindi ricordate il discorsetto qui fatto miliardi di volte, quello sulla famosa "uscita a sinistra" (discorsetto che per fortuna dopo la crisi greca ci si vergogna di fare in pubblico, ma, vi assicuro, purtroppo si continua a fare in privato)? L'idea era: "Bagnai libbberista, tu vuoi svalutare perché sei amico di Soros (
hanno detto anche questo!) e quindi vuoi ridurre i salari dei lavoratori, che, a parità di salario nominale - cioè di soldi in busta paga - perderebbero potere di acquisto a causa dell'inflazione brutta e cattiva!". Ovviamente noi abbiamo fatto vedere coi dati che
questo non succede praticamente mai.
Viceversa, quello che succede sempre è che se il cambio non si flette i lavoratori rimangono fottuti, perché le loro buste paga, i loro salari nominali devono essere tagliati, e quindi diminuiscono comunque a vantaggio dei profitti (e a prescindere da cosa farà l'inflazione).
Non è insomma il cambio flessibile (e la sua svalutazione
esterna) a essere nemico dei lavoratori, ma il cambio fisso (con la connessa svalutazione
interna), e chi lo difende (sindacati, uscisti da sinistra, e perfino Brunetta,
che è venuto su Twitter a farmi la lezioncina - rinuncio a citare Rabelais, anche perché in fondo Brunetta, da persona di destra, se difende l'austerità, cioè l'euro, fa il suo lavoro, difende i suoi interessi di classe...).
Il miracolo lettone
E andiamo allora a vedere cosa è successo in Lettonia. È successo questo:
(i dati vengono da qui).
Intanto, verifichiamo le definizioni.
Nel 2008 il PIL era pari a 22.890 milioni di euro, ovvero a:
18.889+7.146-3.144 (consumi più investimenti più esportazioni nette), ma anche a:
11.625+9.189+2.077 (salari più profitti più imposte nette).
I mercati finanziari prestavano largamente: 14% del PIL di deficit estero! I lettoni, però, con questi soldi facevano anche investimenti: il rapporto investimenti/PIL (del quale occorrerebbe investigare la composizione, volendo) era al 31%.
Poi arriva la crisi, e nel febbraio 2009 interviene il simpatico comitato di affari della finanza internazionale, il FMI, le cui priorità sono ovvie: abbattere il deficit estero. Il taglio dei salari a questo serve: promuove le esportazioni, e, soprattutto, nell'immediato, abbatte le importazioni (perché durante una crisi finanziaria non puoi spendere i soldi che non hai!)
I salari medi unitari (rapporto fra salari e occupati, W/N) passano da 11.016 a 9.518 euro, con una contrazione del 13,6%. Il PIL diminuisce di quasi il 20%, la disoccupazione, U, passa dal 7,7% al 17,5%. L'obiettivo però è raggiunto: il deficit estero passa dal 14% all'1% del PIL, un calo di 13 punti di cui 10 spiegati dal calo degli investimenti (ricorderete che S-I=X-M).
Le cose non vanno molto meglio nell'anno successivo: il saldo estero rimane sostanzialmente in equilibrio, ma la disoccupazione raggiunge il 19,5% mentre il PIL cala di un altro 5%. Si arriva così al 2011, l'anno della ripresina, in cui Weisbrot e Ray scrivono il loro articolo. Ora abbiamo a disposizione altri due anni di dati (Eurostat non ha ancora reso disponibili i dati del 2014...), e possiamo mettere la storia in prospettiva.
A questo scopo, nell'ultima colonna ho segnato la variazione delle variabili, scomponendola in due parti: da prima della crisi al punto di minimo del PIL (dal 2008 a 2010) e dal minimo in poi (da 2010 a 2013), oltre ovviamente alla variazione complessiva.
Fra 2008 e 2010 la Lettonia ha perso 4.851 milioni di euro di PIL, pari al 21%, per poi riprenderne 5.333 nella fase ascendente (pari al 29%). Rispetto al 2008, nel 2013 la Lettonia era cresciuta del 2%, ovvero di uno 0.4% all'anno. Naturalmente la cosa può anche essere raccontata come "che brava la Lettonia che con le riforme è cresciuta del 29%!", e se cercate qualcuno che la mette così lo troverete di sicuro. Ma il fatto è che in cinque anni la Lettonia è praticamente rimasta al palo, anche se la svalutazione interna qualche effetto "strutturale" lo ha avuto.
Intanto, a fine corsa (nel 2013) i salari medi unitari erano sempre inferiori del 2% rispetto al 2008. Notate che sto parlando di valori nominali: tutte le serie riportate sono a prezzi correnti. Avete idea di quanto sia stata l'inflazione cumulata in Lettonia fra 2008 e 2013? Vi lascio per esercizio il determinarlo, e vedrete che la diminuzione del salario reale (sì, proprio quello che secondo gli economisti progressisti sarebbe tutelato dal cambio fisso) è di quasi dieci volte superiore...
E la quota salari? Il feticcio della sinistra eurista, da preservare mettendoci sotto l'ombrello dell'euro che ci protegge? Bè, anche lì le cose ovviamente non vanno bene. Le esportazioni nette, nel periodo, sono aumentate di 2.709 miliardi, ma questo aumento di reddito (parzialmente compensato dal calo di consumi e investimenti) si è distribuito in modo molto disuguale: la quota salari è scesa di 10 punti (dal 51% al 41%) e la quota dei profitti è aumentata di 9 punti (dal 40% al 49%, la differenza essendo spiegata dall'andamento delle imposte nette).
Chiaro il concetto? La svalutazione interna è una politica redistributiva: la più feroce delle politiche redistributive. Trovatemi un paese, fuori dall'America Latina, dove la svalutazione esterna (quella del cambio) abbia fatto carne di porco dei lavoratori in un modo confrontabile, e anche qui vi offro i due biglietti per il #goofy5 che mi sono avanzati dal post precedente!
E se ve li offro, credetemi, ci sarà un perché... ed è che non avete ancora visto tutto quello che c'è da vedere!
Se i salari nominali sono più bassi alla fine che all'inizio della storia, vuol dire che qualcosa dovrà essere più alto. Che cosa? La disoccupazione, bravi, che dopo il picco del 19,5% è diminuita fino a raggiungere 11,9%. Meglio di 19,5%, direte voi. Certo! Ma sono sempre quattro punti in più del 7,7% iniziale. E non finisce qui, perché bisogna anche vedere
come è diminuita la disoccupazione. Guardate il numero di occupati, N (sono milioni). Nel 2008 era 1,05. Scende a 0,9 nel 2009, quando il tasso di disoccupazione è al 17%, e rimane sostanzialmente lì: 0,89 nel 2013, quando la disoccupazione è all'11%.
Ma... Ma... Ma...
Ma se gli occupati rimangono fissi a circa 900.000 unità, come fa la disoccupazione a scendere?
Così:
(i dati si riferiscono alla popolazione in età lavorativa, 15-64).
Nota: sopra ho riportato medie annuali, mentre qui, per pigrizia, vi illustro la dinamica col dato dell'ultimo trimestre (il che non cambia molto). Dal paese se n'è andato circa il 10% della popolazione in età
lavorativa, che corrisponde a circa il 10% della forza lavoro, che
corrisponde a grandi linee alla diminuzione degli occupati (pari a circa
l'11%). Ah, certo, sono diminuiti anche i disoccupati, di circa il 2%.
Va anche detto che, date le dimensioni della Lettonia, con tre o quattro
testate nucleari piazzate bene si sarebbe anche potuto portare la
disoccupazione a zero, volendo.
Ma le testate nucleari inquinano.
La svalutazione interna no: ha solo determinato un esodo della popolazione lettone. Ricordate il discorso fatto nel post precedente? Ecco, potremmo riprenderlo anche qui, con l'apposito disegnino:
(vi ho riportato per memoria la Grecia, altro grande successo della svalutazione interna). Il tasso di migrazione netta della Lettonia è molto più impressionante di quello della Grecia, ne converrete.
Bene: siamo arrivati alla fine del post, un post dove abbiamo richiamato diversi temi di questo blog.
Il principale è lo sdegno verso i traditori di sinistra, quelli che difendono il cambio fisso sulla base di una concezione vetusta del conflitto sociale, che ignora come
il grimaldello per scassinare diritti e tutele dei lavoratori siano le crisi provocate dal cambio fisso, e non la svalutazione del cambio flessibile. Il cambio fisso provoca crisi, le crisi provocano il "fate presto". Il resto lo avete visto succedere diverse volte, ormai...
L'inflazione non è nemica dei lavoratori, come sosteneva quel simpatico fascista (sotto il fascismo) di Einaudi: no, è piuttosto amica dei lavoratori, come sosteneva
quel keynesiano di Keynes, il quale aveva anche capito che l'inflazione è nemica dei
rentier, che a loro volta sono amici dei fascismi, e qui il cerchio si chiude (astenersi quelli che
"la destra sociale" o vi scateno Correttore di bozzi).
Chi vuole il cambio fisso vuole l'aumento della quota del capitale, non di quella del lavoro. Sul perché uno a sinistra debba porsi un obiettivo simile (che non è molto saggio nemmeno per un liberale) io sinceramente non saprei darvi lumi: non faccio né lo storico, né il politologo, né lo psichiatra. Ma i numeri so metterli in fila, e credo che li abbiate capiti bene anche voi.
Poi, in questo post abbiamo richiamato un'altra simpatica caratteristica del meccanismo nel quale siamo coinvolti, già evidenziata nel post precedente: il fatto di rendere necessaria la deportazione dei lavoratori per lenire il costo sociale della disoccupazione, indispensabile per favorire la "flessibilità" (cioè il taglio) dei salari. Nel caso lettone questa dinamica è evidente. Va detto che i popoli dell'Est superano con una discreta scioltezza le barriere linguistiche (non è del tutto un loro merito, perché se sei in Lettonia e parli il lettone, con tutto il rispetto, l'inglese ti tocca studiarlo: se ti rifiuti, ti restano da leggere solo due mattoni come la Divina Commedia e la Ricerca del tempo perduto: i due capolavori più noti della letteratura lettone...).
Ma va comunque detto che sentir definire l'esodo di un decimo della popolazione come un grande successo è cosa che suscita un lieve fastidio.
Ecco, ora vi lascio. Reprimendo questo lieve fastidio, cercherò di dire nel modo più delicato e professionale possibile al gentile collega
cosa penso del suo lavoro.
E voi godetevi la famiglia.
(...
mentre io contengo la mia emotional response...)
(...
sì, sono razzista. E sono anche fragile: mi si rompono subito i coglioni...)