L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali...
(...aspettando i risultati delle elezioni in Sardegna...)
Da plurimi e convergenti indizi afferro quale sia stato il principale ostacolo alla capacità di coinvolgimento di questo blog, un ostacolo vecchio quanto il mondo, codificato dalla saggezza popolare (ex multis: pancia piena non crede al digiuno), un ostacolo oggettivamente insormontabile.
Spesso ci siamo ripetuti, citando Upton Sinclair, che era inutile cercare di far capire certe cose a persone il cui stipendio dipendeva dal non capirle. Questo è senz'altro vero. Forse è altrettanto e più vero che è impossibile cercare di far capire certe cose a persone convinte che esse non le riguardino.
Me ne sono reso conto leggendo qualche giorno fa su Sinistrainrete un articolo del Chimico scettico.
Urgono due premesse: la prima è che sì, ogni tanto leggo Sinistrainrete, è un aggregatore (o, come dice lui, archivio) di blog interessante, ovviamente in diversi gradi di lettura: può darsi che qualcosa sembri interessante a me per motivi diversi da quelli per cui sembra interessante a lui, ma questo poco importa. Chi vi scrive qui è lo stesso che ha aperto il blog tredici anni fa. Resto fra i blog consigliati da Sinistrainrete e credo che ci siano vari motivi per questa scelta che potrà sembrare strana a dei turisti del dibattito. Il primo di questi motivi è che "sinistra" non significa "PD", che anzi della sinistra è il contrario!
Seconda premessa: del Chimico scettico e del suo blog ho appreso l'esistenza durante la pandemia, anche se il blog preesisteva (risulta iniziato nel 2018). Ho sempre trovato il suo lavoro equilibrato e interessante, se non altro perché a differenza di un altro recente meteorite, Critica climatica, cita le fonti ed è più accorto nel reprimere eventuali pulsioni antipolitiche. Quindi non ce l'ho su con lui, al contrario!, e quello che segue non va letto come una : "Guarda quello [epiteto a piacere] del Chimico scettico che non si rende conto ecc.!", ma al contrario come uno sconsolato: "Guarda come siamo messi se perfino una persona pregiata come il Chimico scettico si è perso certi dettagli...".
Quali dettagli?
Faccio prima se vi riporto la frase che ha colpito la mia attenzione: "gli ultimi due anni mi hanno fatto capire com'è che il fascismo si è diffuso in Italia" (in questo articolo).
Ora, noi qui una riflessione sul pericolo di derive autoritarie di vario genere, più o meno assimilabili al "fascismo" storico, l'abbiamo avviata da tanto tempo e su diversi piani: soffermandoci desolati sul conformismo della professione scientifica, tutta pronta a mettere la propria firma sotto a un progetto (quello dell'unione monetaria) in cui i suoi esponenti più autorevoli avevano individuato più di un "effetto collaterale" (e ci dicevamo costernati che se al fascismo si erano opposti in dodici, all'eurismo nella professione accademica si era opposto solo uno); analizzando le conseguenze redistributive delle politiche di austerità (cioè di svalutazione interna) cui l'eurismo naturaliter conduceva, quelle politiche di cui oggi tutti dicono, più o meno convintamente, che fossero un errore, senza però chiarire quale motivazione questo errore avesse, ovvero quali ne fossero i risultati in termini di dialettica fra classi sociali (cosa che noi avevano fatto ad esempio qui, parlando della Lettonia, ma prima ancora qui...); riflettendo quindi sul legame storico fra politiche di austerità, polarizzazione del discorso politico e avvento dei regimi autoritari, un tema che oggi è mainstream, al punto che siamo già alle meta-analisi (cioè agli articoli che sintetizzano i risultati di un'intera letteratura: uno è questo, e vale la pena di dargli un'occhiata), ma che certo era altrettanto mainstream quando dicevo, inascoltato e incompreso sul "manifesto", che "nel lungo periodo le politiche di destra avvantaggiano solo la destra" (qui), o quando, un pochino (dieci anni) prima del meritorio lavoro di Galofré-Vilà e altri su austerità e ascesa del partito nazista, ci rendevamo conto che Hitler non era il prodotto della mitologica "inflazione di Weimar", ma dell'austerità (qui ad esempio ce lo documentava Alex), e ce ne preoccupavamo.
Insomma, la riflessione che mi veniva, leggendo le parole del pregiato Chimico scettico, era forse un po' ingenerosa, e sicuramente molto insidiosa (il rischio del paternalismo è sempre imminente, come, del resto, quello del grillismo). Potrei sintetizzarla così: ci sono tante brave, ottime persone che di questo:
non hanno mai saputo niente (o, peggio ancora, lo hanno metabolizzato aderendo distratte al racconto del mainstream, o magari alla consolante idea che "tanto qui non potrà succedere!"),e che da questo:
non sono (ancora) state attinte.
Ora, attorno a questa constatazione potremmo organizzare diverse riflessioni, ma non ho tempo di farlo in modo sufficientemente strutturato, quindi vi accontenterete.
La prima riflessione è che carità vuole non solo che ci si accorga del Male e lo si contrasti prima che esso ti colpisca personalmente, ma anche che non lo si invochi come strumento pedagogico!
Certo che se il povero Chimico scettico si fosse trovato in mezzo a una strada nel periodo in cui tanti imprenditori si sono tolti la vita forse una riflessione l'avrebbe fatta, ma forse anche no. Come dicevo oggi alla Scuola di formazione, se a molti è passato inosservato il fatto che il percorso storico del Pil invece che alla C di crescita ci ha portato alla D di depressione, ciò significa che essi evidentemente hanno mantenuto o aumentato le proprie posizioni di benessere relativo. Ma allora, visto che la somma deve sempre fare il totale, questo significa anche che moltissimi altri siano stati letteralmente frantumati dalla crisi, al punto da non poter neanche organizzare una riflessione, neanche abbozzare una presa di coscienza. Non è augurando a chi non ha capito di ritrovarsi come il pensionato greco che riusciremo a costruire la diffusa consapevolezza necessaria per cambiare traiettoria.
D'altra parte, la storia dei "punturini" contiene due lezioni importanti e complementari: la prima, per loro, è che puoi disinteressarti di quanto ti accade intorno, ma prima o poi la realtà busserà alla tua porta; la seconda, per noi, è che sulla presa di coscienza individuale, sulla reazione alla minaccia esistenziale diretta, non si può costruire alcun discorso politico di sufficiente respiro.
Insomma: il fatto che altri si accorgano che siamo in una situazione delicata è senz'altro positivo. Senza una corretta attribuzione di responsabilità, però, senza una corretta analisi, rischia di diventare un fatto episodico, effimero, di alimentare il pulviscolo degli "zero virgola". L'anomalia italiana esiste, ed è nel fatto che chi ci ha condotto da B a D sia ancora in Parlamento con percentuali ragguardevoli, il che significa che c'è una percentuale ragguardevole di italiani che ha visto difesi i propri interessi da chi ha portato il Paese in depressione, o, più probabilmente, che non ha maturato una coscienza sufficientemente lucida di quali siano i suoi interessi.
"La posizione del mainstream è in rapida evoluzione", è scritto nel nostro Dizionario.
Non è del tutto corretto.
Nonostante quanto si dice sull'accelerazione dei processi storici, la nostra personale Guerra dei trent'anni sta durando i canonici trent'anni: la posizione del mainstream evolve, ma in modo talmente lento che si rischia di essere vittime di change blindness, il fenomeno neuropsichiatrico che un nostro amico ci descrisse in un post di nove anni fa che vale la pena di rileggere, individuandolo come fondamento neurologico del metodo Juncker (descritto qui).
La change blindness, così, ci affligge due volte: quando ci nasconde le avanzate del nemico, e quando ci nasconde le sue ritirate. Nel secondo caso è forse anche più insidiosa, perché ci impedisce di occupare, rivendicandolo, il terreno abbandonato dal nemico. Succede ogni volta che loro dicono, come fosse chissà quale scoperta, chissà quale parto della loro fertile mente (senz'altro ben concimata), cose che dicevamo da sempre, semplicemente per averle lette nei libri su cui tutti abbiamo studiato. Ma appunto, se da un lato la lentezza del cambiamento ci impedisce di percepirlo, dall'altro questo non significa che esso non sia in corso. Sottolinearlo, prenderne atto, esserne coscienti, ci aiuta a dare un senso e una direzione alla nostra lotta. Aiuta anche a sfuggire alla trappola di portare avanti un discorso meramente notarile (la registrazione degli interminabili QED), che rischia di essere stucchevolmente autocelebrativo e mortalmente noioso (per chi scrive prima che per chi legge), e quindi, in definitiva, escludente, più che esclusivo (si può essere includenti ed esclusivi, ed è molto meglio che essere escludenti ed inclusivi...).
Vi ho ricordato più volte, e vi sarà anche venuto a noia, l'8 settembre di Giavazzi, che poi fu un 7 settembre, quello del 2015:
cioè che la crisi in cui eravamo impantanati non dipendeva dal debito pubblico, ma dal debito privato contratto con creditori esteri, cioè da squilibri di bilancia dei pagamenti.
(un po' effimera, se non condotta con il dovuto piglio), e per una impercettibile allusione nel post del 7 settembre:
Forse non occorreva dire molto di più, o forse sì, forse un minimo di approfondimento andava fatto, perché quando i Bocconi boys, sommi sacerdoti del controintuitivo, accondiscendono a registrare l'ovvio, dietro un motivo c'è, e non è detto che sia un motivo banale!
Oggi ci risiamo.
Non su VoxEU, dove un minimo standard di decenza devono mantenerlo, perché è letto anche da colleghi meno conformisti e subalterni di quelli nostrani, ma sul Corriere della Sera (che è un diverso genere letterario, come qui ben sappiamo), l'ineffabile ingegnere ci delizia con la profondità delle sue analisi, aggrovigliandosi in un coacervo di contraddizioni tenute insieme dal tenace mastice di un radicale disprezzo per la democrazia, che è poi disprezzo per il demos, cioè per voi. Accecato dall'odio verso gli sdentati, verso i redneck, verso i fascioleghisti, verso chi non la pensa come lui, cioè verso gli italiani (in Italia), il nostro migliore alleato, in questa battaglia in cui, essendo in inferiorità numerica, dobbiamo contare sulle forze dell'avversario, commette un errore clamoroso, questo:
Senza farsi né in qua, né in là, il nostro ineffabile ci dice quello che qui tutti abbiamo sempre detto e saputo, cioè che la retorica del debito pubblico "onere sulle generazioni future" non tiene. Il debito oggi può rendere migliore la vita dei cittadini di domani, semplicemente perché a fronte di questo debito, di queste passività, c'è necessariamente un credito, ci sono delle attività tangibili o intangibili di cui le generazioni future beneficiano (migliori infrastrutture, una migliore istruzione, ecc.). A differenza della volta precedente, però, in cui il generale Giavazzi si era semplicemente arreso all'evidenza, ammettendo che la crisi non poteva essere stata causata da un debito, quello pubblico, che era stabile o in diminuzione pressoché ovunque, questa volta le sue esternazioni necessitano di una lettura attenta. Motivazioni e intenzioni del cambio di orientamento non sono difficili da leggere e ci porteranno, come vedrete, a scenari che da tempo qui ci aspettiamo di dover affrontare.
Il presupposto è che oggi come ieri Giavazzi è saldamente dalla parte di politiche redistributive a favore del capitale, dalla parte dell'abbattimento dei salari reali a favore di profitti e rendite. Per un po' lo strumento di questo obiettivo è stato l'euro, con la deflazione salariale cui esso necessariamente conduceva. Ora che l'euro ha esaurito il suo potenziale distruttivo, perché la deflazione salariale ci ha riportato in equilibrio con l'estero, per proseguire sulla strada delle politiche Hood Robin occorre altro, e questo altro, come ci siamo detti, è il green, il proseguimento della lotta di classe al contrario realizzato sussidiando le imprese per gonfiarne i profitti, e abbattendo i salari reali tramite un innalzamento dei prezzi dei prodotti.
Politiche simili generalmente conducono a una crisi di domanda, ma di questo Giavazzi, che è offertista, non si cruccia, verosimilmente perché nemmeno se ne rende conto. La preoccupazione di Giavazzi è un'altra: che gli elettori europei votino contro politiche che li impoveriscono. L'indignazione di Draghi, pardon: di Giavazzi, di fronte a una simile mancanza di riguardo è palpabile, ma siccome entrambi desiderano (per il momento) mantenere un'apparenza di democrazia, un rimedio occorre trovarlo. La risposta è semplice: ai sussidi alle imprese vanno aggiunti sussidi ai lavoratori, un reddito di Giavazzanza finanziato con debito (rigorosamente europeo) che tenga tranquilli i lavoratori vicino al livello di sussistenza, e che "le generazioni future" ripagheranno perché in cambio avranno avuto un mondo più pulito.
Per bocca del suo pupazzo il ventriloquo Draghi ci fa finalmente sapere quale sia il debito buono: quello contratto per erogare sussidi, e per finanziare il riarmo! La logica sottostante è piuttosto chiara, e poco importa che i sussidi non siano di per sé un paradigma di spesa produttiva, e gli armamenti siano invece per definizione spesa distruttiva. Siamo ormai arruolati: un esito che non dovrebbe stupire chi mi segue da un po', perché non ho fatto molto per nasconderlo:
C'è ovviamente da preoccuparsi, per tanti motivi. L'assurdità dell'esercito unico europeo in un contesto in cui non si riescono a gestire con sufficiente tempestività e con obiettivi condivisi neanche quel minimo di strumenti economici che si sono messi in comune dovrebbe balzare agli occhi di tutti, e comunque l'abbiamo ampiamente sviscerata in altre sedi, analizzando la Security and Defense Union. Una declinazione del "più Europa" particolarmente inquietante. Dobbiamo però restare freddi e infilarci in questa crepa dialettica del mainstream, allargandola a nostro vantaggio. Del ragionamento tendenzioso e grossolano di Giavazzi dobbiamo tenere solo un pezzo: fare debito pubblico non necessariamente danneggia chi viene dopo. E a questa verità lapalissiana dobbiamo aggiungere un risoluto: anzi!
Anzi!
Non è danneggiando i genitori, abbassando il loro livello di reddito, di istruzione, di salute, che potrai salvare i figli! Non è abbattendo gli investimenti che si incrementa la produttività, e noi, come ricordai in aula al ventriloquo di cotanto pensatore, siamo stati l'unico fra i grandi Paesi europei ad avere investimento netto negativo, cioè distruzione di capitale fisico:
ovviamente in coincidenza con il massiccio taglio di investimenti pubblici di cui nessuno si ricorda:
Non è corretto dire che il debito pubblico "non è necessariamente" un "onere scaricato sui giovani di domani" che "dovranno ripagare il debito che oggi si emette". Non è vero perché i giovani domani non dovranno ripagare nessun debito: sarà il mercato a rinnovarlo, se domani ci sarà sufficiente crescita, e quindi sufficiente gettito fiscale, per pagare gli interessi, ma la crescita ci sarà se ci saranno sufficienti lavoratori e sufficiente capitale fisico. Ne consegue che le politiche di austerità non aprono, ma chiudono spazi fiscali nella misura in cui distruggendo capitale umano e fisico prendono il Paese meno produttivo, intaccano la sua capacità di creare valore, e nella misura in cui distruggendo reddito fanno crescere, anziché calare, il rapporto debito/Pil.
Lo abbiamo preannunziato, è successo, ora tutti possono vederlo coi loro occhi.
E quindi il debito non va contratto per tenere buone, sussidiandole, le vittime di politiche regressive, le vittime dell'austerità: va contratto per fare politiche progressive, di investimento e non di sussidio.
A loro fa paura che voi lo capiate e vi regoliate di conseguenza a giugno. Ve lo dicono pure! Più di questo che cosa volete?
Si dice che la storia si ripeta, e a noi che abbiamo visto e compreso la tragedia euro è fisiologico che le sue ripetizioni appaiano farsa. Fatto salvo il diritto di chi invece non c'era, e se c'era dormiva, di attribuire il nobile rango di tragedia a un dramma che ha per protagoniste le virostar o consimili gliScienziati, mi sembra importante che ripetizioni dello stesso schema narrativo (tragiche o farsesche che siano, o che le si vogliano considerare) vengano correttamente individuate come tali. L'unico vaccino contro le narrazioni è il riconoscerle. Solo questo può disinnescarne il potenziale retorico, cioè persuasivo, e consentirci di mantenere, a prezzo di un minimo input di ragionamento analogico, un decente equilibrio emotivo e mentale, una minima capacità di analisi razionale dei fatti e delle loro interpretazioni.
Per fare un banale esempio, nella diretta di oggi:
segnalavo che nel proporci il "vaccino" euro i "virologi" dell'epoca (Prodi & friends) trascurarono di attirare la nostra attenzione sui possibili effetti collaterali di cotanto farmaco. Del resto, lo stesso accade anche nella proposizione (o imposizione) del "vaccino" green: sembra che il litio si trovi a vil prezzo negli scaffali dei supermercati, sembra che le pale eoliche a fine vita si possano semplicemente ripiegare e mettere in tasca, ecc. Le narrazioni si aggirano nella landa incantata dei free lunch, dove tutto è possibile, e soprattutto lo è ghrhaduidamendhe (ricorda qualcosa?)!
Ma il mondo non funziona così.
Le controindicazioni del "vaccino" euro scaturivano, guarda un po', dal fatto che esso veniva proposto, cioè, possiamo anche dircelo, surrettiziamente imposto, a una platea di pazienti molto diversificata: pazienti giovani, in età dello sviluppo, e vecchi, pazienti obesi di debito o finanziariamente snelli, pazienti più o meno febbricitanti di inflazione, ecc. Si tratta, insomma, del famoso tema delle politiche one-size-fits-all, delle politiche a taglia unica. Può un unico tasso di interesse (o di cambio) andar bene per economie diverse o in fasi diverse della loro esistenza? Perché anche a parità di età, peso, e conformazione, altro è un convalescente e altro è un paziente nel pieno vigore. La risposta ovviamente è no, e la scienza, che, nonostante i validi sforzi dei gliScienziati, in fondo, nel lungo periodo, tende a riproporsi fastidiosamente come una versione formalmente corretta e validata del buonsenso, dava proprio questa risposta.
Come nel caso di altri "vaccini", anche nel caso dell'euro gli effetti collaterali non solo c'erano, ma erano anche stati correttamente individuati ab initio dalla scienza (che non è la sua cugina puttana, cioè Lascienza, come vi ho spiegato qui quando la medicina non vi interessava, ma lei si stava già interessando di voi). Non solo! Erano anche correttamente specificati nei "bugiardini" delle istituzioni, che appartengono, come le case farmaceutiche, al novero delle entità che non possono permettersi di non dire la cosa giusta mentre fanno la cosa sbagliata! La reputescion è tutto, e siccome carta canta e villan dorme (ma non dovrebbe!), ecco ad esempio che nel 1999 mamma BCE ci informava premurosamente del fatto che:
"Sta andando tutto bene, i prezzi stanno convergendo, in ogni caso sta andando meglio che da altre parti, ma se i prezzi dovessero divergere allora sarebbero necessarie le riforme strutturali".
Non è erdebbitopubblico a rendere necessarie le riforme strutturali, ma la mancanza di competitività, cioè l'aumento dei prezzi dei prodotti nazionali, per rispondere al quale è necessario causare disoccupazione, a fine di sbriciolare il potere contrattuale dei lavoratori, abbatterne i salari, e recuperare per questa selva oscura la competitività ch'era smarrita. Era questo lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro, che avevamo descritto nel 2012, e che oggi chiunque può leggere nei dati.
da cui deriva l'apprezzamento del tasso di cambio reale del Nord (il prezzo dei beni del Nord in termini dei beni del Sud):
cui corrisponde una ricomposizione degli squilibri esterni (il saldo della bilancia dei pagamenti che torna positivo al Sud) e della posizione finanziaria netta sull'estero, come abbiamo visto qui:
Messo in un altro modo, l'effetto collaterale sgradevole della moneta unica era che essa implica un tasso di cambio unico (quello fissato dalla Bce), ma non un tasso di inflazione unico. Possono esistere differenziali di inflazione anche rilevanti fra i vari Paesi, e questi differenziali possono determinare squilibri che vanno però curati con riforme strutturali (leggi: disoccupazione) perché un tasso di interesse unico non può essere utilizzato per mitigare tassi di inflazione diversi!
Chiaro il punto?
Se la Ruritania ha l'inflazione al 6% e la Cracozia all'1%, e i due Paesi sono Stati membri di un'unione monetaria con obiettivo di inflazione al 2%, i casi sono due:
1) se comanda la Ruritania, la Banca centrale unica alzerà il tasso di interesse fino a quando l'inflazione ruritana non scende al 2%. Nel frattempo, in Cracozia l'elevato costo del denaro causerà un crollo del credito e quindi degli investimenti (cioè della spesa per macchinari e attrezzature, che le imprese normalmente finanziano con credito bancario) e anche della spesa per consumi (nella misura in cui le famiglie dopo aver pagato il mutuo non avranno più soldi da spendere). Morale della favola, alla fine la Ruritania avrà i prezzi sotto controllo e la Cracozia sarà in recessione.
2) se comanda la Cracozia, i tassi di interesse verranno tenuti bassi, per rianimare l'economia e il processo inflattivo in Cracozia, e la Ruritania vedrà il proprio tasso di inflazione salire ulteriormente o quanto meno non convergere rapidamente al 2%, ma così facendo perderà competitività e andrà in deficit di bilancia commerciale verso la Cracozia, accumulando debito estero e aprendo le porte a una crisi finanziaria.
Come sapete, noi siamo la Cracozia, la Germania è la Ruritania, e comanda la Ruritania, motivo per cui i tassi sono alti e noi cresciamo meno di quanto potremmo, avendo un'inflazione tendenziale che ormai è sotto l'1%.
Perché per così tanto tempo questo fenomeno, che tutti i libri di testo descrivono, è stato poco (o comunque meno) evidente?
Semplicemente perché in un ambiente in cui l'inflazione era mediamente bassa, erano mediamente piccoli gli scarti fra i tassi di inflazione. Se escludiamo l'ipotesi di deflazioni drastiche (cioè di tassi di inflazione negativi e forti in valore assoluto), allora capite subito che un'inflazione media al 2% la avremo in contesti in cui i singoli tassi vanno dall'1% al 3% (a spanne). Difficile immaginare un contesto in cui una media del 2% risulta da tassi che vanno dal -6% al 10%! Tutto può essere, ma...
Viceversa, quando l'inflazione media viaggia sul 10% (poniamo), allora è facile che ci possano essere scarti elevati, che questo 10% sia la media fra (poniamo) il 15% in un paese e il 5% in un altro. Insomma, senza andare su cose troppo tecniche come questa:
si intuisce che fra il livello dell'inflazione e la sua dispersione (incertezza) una qualche relazione esiste.
I periodi di bassa inflazione, che tanti mali hanno portato, fra cui le varie ZIRP, un bene però ce l'avevano, ed era quello di garantire una dispersione tutto sommato sostenibile fra tassi di inflazione, cioè di mitigare la necessità di politiche monetarie, di livelli di tasso di interesse, diversificati per Paese.
Ma ora le cose non stanno proprio così...
Ve lo mostro (come promesso) con un grafico che raffigura il livello medio e la dispersione dell'inflazione, quest'ultima calcolata con l'indicatore più semplice, il range, cioè la differenza fra i tassi di inflazione massimo e minimo registrati negli SM (Stati Membri) dell'Eurozona:
Si vede bene che la situazione attraverso cui siamo passati di recente e da cui non siamo ancora completamente usciti ha rappresentato e rappresenta un momento di stress unico nella storia dell'Unione monetaria, con differenziali di inflazione che si sono avvicinati ai 20 punti percentuali a metà 2022:
Ora le cose stanno un po' meglio, ma siamo ben lontani da una situazione sostenibile:
(i dati, variazioni tendenziali su rilevazioni mensili, sono di Eurostat).
Con 6 punti di differenziale fra il Paese con inflazione più sostenuta e quello con inflazione più bassa, che siamo noi, non si regge a lunghissimo. Ma tirar su i tassi sperando che la Germania si avvicini abbastanza rapidamente dal 3.8 al 2 (perché della Slovacchia anche chi se ne frega, credo pensino a Francoforte!) quando noi siamo allo 0.5 comporta, ovviamente, che qui si soffra parecchio. I tassi di interesse reale in Germania sono ancora sostenibili: da noi molto meno, con una serie di conseguenze, ad esempio sull'accumulazione del debito pubblico.
E attenzione! Un pezzo di questa eterogeneità è dovuto al legame fra volatilità e livello dell'inflazione, per cui si può pensare di curarlo agendo come che sia sul livello (banalmente, se bombardassimo tutta l'Eurozona con un sufficiente numero di testate nucleari l'inflazione convergerebbe ovunque a zero, come tutto il resto: la Lagarde per fortuna non ha testate ma solo tassi, e quindi può causare danni più contenuti, ma resta il punto che sempre dal causare un danno devi passare). Un altro pezzo però è semplicemente eterogeneità! Fateci caso: i Paesi più sfortunati in termini di inflazione, nei due esempi che vi ho fatto, sono due Paesi di recente ingresso: Estonia e Slovacchia. In effetti, nel grafico precedente ho considerato quei Paesi (come tutti gli altri) solo dalla data del loro ingresso, ma se rifacessimo il grafico come se l'attuale Eurozona "a venti" fosse nata appunto a venti, cioè come se la Croazia, l'Estonia, ecc., fossero entrate nel 1999, il risultato sarebbe stato questo:
In altri termini, l'attuale episodio di elevatissimi scarti fra l'inflazione massima e minima non sembrerebbe più un caso eccezionale ed isolato, ma il terzo di una serie.
Contro questi banali dati dell'esperienza storica ed economica non si può fare nulla. Anche cianciare di "bilancio pubblico federale" o simili ha poco senso. Non è con la politica di bilancio che riesci a riassorbire in modo rapido simili squilibri nominali, perdite di competitività così rapide. E in ogni caso, a che ti serve il bilancione unicone europeone se il problema è il "fine tuning" a livello nazionale? A nulla, perché per usare in modo differenziato a livello nazionale una massa battente di risorse disponibile a livello sovranazionale occorrerebbero livelli di solidarietà impensabili ora e irrazionali sempre!
Quindi, miei cari amici, ma de che stamo a parlà?
Ci vuole tanta pazienza, e per indurvi ad averla vi ricorderò che i fatti hanno la testa dura, e che, per nostra fortuna, non siamo noi quelli che li stanno prendendo a capocciate!
Non vi intratterrò a lungo e preferirei non intrattenervi per nulla. Purtroppo però da un lato non posso dare per scontato che l'ovvio sia tale per tutti, e dall'altro mi infastidisco quando qualche tardivo enunciatore dell'ovvio viene portato sugli scudi come un novello Keynes (o Marx, o Smith). Mi corre quindi l'obbligo questa sera di repertarvi succintamente l'ovvio.
Una proposta di policy che preveda da un lato massicci sussidi pubblici alle imprese per sostenerne i profitti, e dall'altro un'erosione del salario reale, realizzata inducendo coattivamente i lavoratori ad acquistare beni più costosi, determina in re ipsa una redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, ed è quindi la cara vecchia lotta di classe al contrario che avevamo imparato a riconoscere, in diverso contesto, nel post genetico di questo blog.
Il green è questo: sussidiare, nel nome di un fine superiore, aziende che non hanno mercato, e comprimere, nel nome di un fine superiore, i salari reali dei lavoratori dirottandone la spesa su prodotti più cari (vuoi a causa delle innovazioni tecnologiche - fuori mercato - che incorporano, vuoi a causa della tensione inflattiva che l'eccesso di domanda di alcune materie prime necessariamente determina e determinerà).
Si può argomentare che ciò conduca a un mondo migliore, in particolare che nel lungo periodo, quando sarete tutti morti, questo condurrà a un mondo di energia facile e a buon mercato, al Paradiso Terrestre. Qualcuno potrebbe essere interessato ad argomentarlo ma a me qui e ora non interessa discuterlo. A me qui interessa solo evidenziare il fatto che la proposta green come oggi è articolata si traduce in una politica redistributiva fortemente regressiva, che danneggia i ceti deboli e avvantaggia il grande capitale. Questo è il motivo per cui piace tanto al WEF, non certo la devozione al Grande Capro o altre baggianate da bollicina di metano social.
Per chi sta qui queste dovrebbero essere #lebbasi, i ferri del mestiere!
Nel diciannovesimo post di questo blog avevamo messo bene in evidenza il legame fra ecologismo e austerità, e quello che scrivemmo in quel post che all'epoca fece molto discutere resta tutto valido. Tout se tient: i gatekeeper salvatori di Ursula erano anche quelli della decrescita e della biowashball. L'invito a comprimere i consumi nel nome di un fine superiore era strettamente connesso alla necessità di rendere socialmente accettabili (in nome di un fine superiore) politiche di compressione dei consumi, cioè, appunto, l'austerità, la distruzione di domanda interna necessaria a riequilibrare la nostra posizione netta (meno reddito, meno consumi, meno importazioni, meno deficit estero).
Il green è solo una versione esasperata e per certi versi caricaturale (dall'austerità dei Savonarola decrescisti alle treccine della bimba climatista) della stessa storia.
Con questo non si vuole negare alcunché. Semplicemente, si vuole far notare che, come già fu con l'euro, i saccenti coglioni soloni "progressisti" sono gli utili idioti di un progetto regressivo che colpisce per prime le classi sociali che la "sinistra" nasceva in qualche modo per proteggere, un progetto che presenta rilevanti margini di irrazionalità all'interno della propria stessa metrica (se il problema è la CO2, allora facciamo i conti su quanta ne produce un'auto elettrica nel suo ciclo di vita), un progetto che avrebbe alternative che nessuno vuole considerare, e che poi sono quelle di cui vi parlavo nel Tramonto dell'euro:
Il secondo punto di questa lista è quello che oggi si chiama "mitigazione", una strada che nessuno vuole intraprendere perché è fatta di investimenti pubblici diffusi sul territorio e che generano occupazione: ma alle grandi imprese i sussidi (che hanno una ricaduta concentrata e diretta nei loro profitti) fanno molto più comodo degli investimenti (che hanno una ricaduta diffusa sul territorio), e quindi il discorso prevalente è orientato nel modo che sappiamo: quello di una nuova economia di comando green e ESG il cui scopo è riproporre, in altre e più nobili vesti verdi, quello che detto da Warren Buffet agli utili idioti verdi sembrerebbe inaccettabile (ma sono loro i primi a contribuire alla sua concreta realizzazione)! Una volta che il discorso è orientato così, la politica ha difficoltà a imprimere un corso diverso, quand'anche lo volesse, e comunque non può agevolmente farlo, non in una colonia governata a botte di direttive e regolamenti decisi altrove (un altrove dove i cittadini si sono ampiamente rotti i coglioni e lo stanno dimostrando, peraltro...).
Come Carlo Cipolla ci ha spiegato, si può essere stupidi in una infinità di modi, e quindi, come dire: accomodatevi, l'ospitalità è sacra! Vi esorto però a evitare un particolare modo di essere stupidi: venirmi a dire che sono un negazionista. Io qui non sto parlando del problema, ma delle soluzioni, anzi, dell'unica soluzione che viene proposta, e vi sto dicendo che questa proposta redistribuisce soldi dalle vostre tasche a quelle di chi le ha già piene (e vi sto anche dicendo che non sarebbe l'unica proposta, e che ce ne sarebbero di meno regressive in termini di distribuzione del reddito).
Chi nega questo semplice dato economico non è un negazionista: è un coglione. E come diceva la mia nonna, pe' malati c'è la china, pe' verdi non c'è medicina!
E ora dite la vostra, che io la mia l'ho messa a verbale.
P.s. del giorno dopo: sto mandando in spam tutti i commenti che mi suggeriscono l'imperdibile video del prof. Shapiro della Chattanooga University il quale dimostrerebbe che ecc. (fregnaccia naturalistica a piacere). Qui il tema è un altro e sono grato a chi si atterrà ad esso.
(...per il collegio analogico parto nel pomeriggio, domani si inaugura l'allungamento della pista dell'aeroporto di Pescara - che speriamo non sia la premessa di un'invasione di locuste, ma consenta di connettere i nostri distretti industriali con il resto del mondo - e oggi sono a casa a fare lavoro d'ufficio. Mi è venuto però in mente un modo diverso di dirvi una cosa che vi dico da sempre, e comincio la giornata da qui, dal mio collegio digitale...)
Ogni tanto mi chiedo se il post più citato di questo blog (più citato da me, intendo), cioè il primo, "I salvataggi che non ci salveranno", sia stato letto e compreso da qualcuno. Spero di sì, contro ogni evidenza. Qualche giorno fa l'amica Durezza del vivere ci segnalava che nel dibattito pubblico francese si fa strada la coscienza della fragilità della situazione:
e il nostro amico GioMacone, volendo essere colto, diceva probabilmente il contrario di quanto intendesse dire. Essoterico è infatti ciò che si rivolge all'esterno della comunità, ciò che può essere comunicato ai non iniziati, come esoterico è ciò che si rivolge all'interno, che è comunicabile o comprensibile solo agli iniziati. Rivolto pro bono pacis a tutti un invito a non fare i colti, soprattutto se si è di sinistra (ormai quella roba lì non è più nel vostro DNA, lasciate perdere...), e ricordato che l'uso della punteggiatura è il marker sovrano della familiarità coi libri senza figure (o dell'assenza di tale familiarità), evidenzio che il mio intervento era chiaramente esoterico: usava il nostro linguaggio, dove le "parole macedonia" e la pronuncia ggiornalistica (erdebbitopubblico, detto tutto d'un fiato) vengono usate come espediente espressivo per evidenziare i luoghi comuni da bar, e puntava il dito su un dato che chi non ha fatto "il percorso", il gradus ad Parnassum, non può intravedere, ma che alla fine di questo post non potrete ignorare.
Anche se sono tiepidamente convinto dell'opportunità di fare conversioni e quindi di sbattersi per parlare essotericamente (la verità è che le conversioni le faranno, come sempre, le bombe: lo scrittore Céline prevarrà sul pittore Luca 15,7, e sarà inevitabile un passaggio per Genesi 19,24), oggi non è agli altri che parlo, ma a noi, perché mi sembra più importante evidenziare il senso di un percorso, la consapevolezza di ciò che sappiamo o almeno dovremmo sapere, la giustezza delle nostre intuizioni. Mi affretto però a mettervi in guardia da un rischio, il solito: quello che avete capito, o credete di aver capito, usatelo innanzitutto per mettere in salvo voi stessi, poi per tentare (invano) di aprire qualche mente, ma mai come corpo contundente, come "veritah" da brandire come una clava. Non serve a nulla e squalifica voi e il messaggio che credete di portare.
Allora, torniamo al punto.
Le esternazioni di Moscovici evidenziano un dato in qualche modo rassicurante: tredici anni dopo gli occhi sono ancora autisticamente puntati nella direzione sbagliata, quella, appunto, de "erdebbitopubblico". Insomma, tutti guardano questo grafico:
Figura 1
(fonte: EUROSTAT) e, per carità, l'operazione ha un senso, se non altro perché la fanno tutti! Nei mercati finanziari la reputazione gioca un ruolo essenziale, e noi sappiamo che it is better for reputation to fail conventionally than to succeed unconventionally, dal che consegue che è senz'altro meglio, se si vuole sembrare degli esperti affidabili, concentrarsi su indicatori che raccontano solo un pezzo della storia, se è il pezzo di cui parlano tutti gli altri. È proprio l'importanza della reputazione nella dinamica dei mercati finanziari a determinarne l'intrinseco conformismo, con le note conseguenze, e già questo dovrebbe farci riflettere su quanto sia intrinsecamente stupido affidare le nostre sorti a un'istituzione (il mercato finanziario) che funziona così, su un'istituzione che mentre fa della diversificazione del rischio un mantra (scientificamente fondato) tende endogenamente alla concentrazione delle opinioni, per una inesorabile dinamica sociologica, con tutto quello che ne consegue in termini di fragilità finanziaria. Ma tanto, quando il mercato fallisce, il conto lo appoggia a noi (e dobbiamo anche ringraziarlo)!
Letta nella metrica del rapporto debito/Pil, e schiacciata dall'ordine di grandezza degli ultimi sconvolgimenti, la storia sembra essere quella di un fallimento del nostro Paese, di un successo della Germania, e, appunto, di una "fragilità" della Francia.
Questa storia di rapporti al Pil ha senz'altro un senso.
Il problema del debito pubblico non consiste nel fatto che le generazioni future dovranno "ripagarlo", come dicono i cretini, ma nel fatto che le generazioni presenti dovranno rinnovarlo a scadenza (quest'anno si va per i 400 miliardi di scadenze), e questo problema è facilissimamente risolvibile se il Paese emittente è in grado di dimostrare che saprà onorare il pagamento di interessi, cioè "servire" il debito. Il servizio del debito assorbe risorse, ovviamente. Detto in francese: sossòrdi. Ne consegue che la capacità di un Paese di generare valore, cioè la sua crescita, è la migliore garanzia per i creditori internazionali. Il discorso naturalmente è più complicato di così (stiamo trascurando che in un mondo di crescita e piena occupazione il lavoro cercherà di tirare la coperta della distribuzione del reddito dalla propria parte, lasciando al freddo la rendita finanziaria, per cui nonostante che la crescita sia la migliore garanzia che il capitale ha di essere remunerato, tendenzialmente il capitale tifa recessione per tenere sotto controllo il suo antagonista), ma teniamolo per ora a questo livello di semplicità e ripetiamolo in sintesi: il problema del debito non è ripagarlo ma servirlo, e, come diceva Domar, il problema del servizio del debito è essenzialmente quello di ottenere la crescita del reddito nazionale, del PIL.
Non è solo roba da archeologia keynesiana e non sono solo le parole di un fasheesta nazixenoomofobleghista professorino di provincia come me, ovviamente. A beneficio dei cretini segnalo che è esattamente quello che dice Moscovici, se pure in modo implicito, laddove nel suo intervento si inquieta perché:
(devo tradurvelo?).
Quindi sì, il rapporto al Pil de "erdebbitopubblico" un senso ce l'ha in quanto indicatore della nostra capacità di servire il debito, che poi è esattamente il motivo per cui avremmo dovuto evitare questo disastro:
Figura 2
(documentato nel post sulla sostenibilità del sistema pensionistico). A questo proposito, mi piacerebbe farvi osservare che dal 2000 a prima della nostra crisi il nostro debito/Pil era in lieve discesa e quello degli altri in lieve salita, e che l'avvio dei debiti nazionali su traiettorie fortemente divergenti è stato il risultato della crisi, o meglio della sua gestione, con l'austerità. Lo si vede bene, questo, alla fine della Figura 1, dove è chiaro che sospendendo le regole l'Italia è riuscita a riportare sotto controllo molto rapidamente il suo pur elevato rapporto debito/Pil.
Il punto, però, è sempre quello: stiamo parlando di una variabile relativamente poco rilevante, e ne stiamo parlando in un modo relativamente poco appropriato.
Cominciamo dalla seconda osservazione: l'inappropriatezza deriva dal concentrarsi esclusivamente sul numeratore. Non ci vuole molto a farlo capire, e ve lo faccio vedere in due modi diversi. Intanto, se non avessimo ucciso il Pil con l'austerità, cioè se a partire dal 2008 il Pil nominale fosse cresciuto allo stesso tasso di crescita medio sostenuto nel periodo dell'euro, la situazione oggi sarebbe questa:
e i relativi calcoli sono qui:
(fonte: IMF), dove Y è il Pil nominale storico, D il debito pubblico, g la crescita del Pil nominale (media 2000-2008 uguale a 3.76%), Y* il Pil nominale controfattuale (cioè quello che dal 2009 cresce al 3.76%), D/Y il rapporto debito/Pil storico e D/Y* il rapporto debito/Pil controfattuale, cioè costruito usando Y*.
Anche questo grafico non è il parto di un nazixeno ecc. di provincia, ma è stato presentato under Chatham House rules da un prestigiosissimo civil servant in una sede behind enemy lines (il che significa che Essi, come li chiamerebbe Luciano, sono perfettamente consapevoli del vero problema, anche se in pubblico non possono nemmeno farlo sospettare)!
A scanso di equivoci, certo, lo so che la crisi c'è stata per tutti, ma negli altri Paesi l'impatto sul Pil nominale è stato considerevolmente diverso:
In Francia la crescita nominale si è circa dimezzata, in Germania è aumentata, da noi si è ridotta a meno di un quarto di quello che era prima della crisi, ed è sufficientemente ovvio che l'assassinio degli investimenti pubblici da parte di Monti-Letta-Renzi-Gentiloni è stata magna pars del problema:
Con un denominatore (il Pil) così perturbato da eventi esogeni (l'austerità), forse può sfuggire quale sia la reale dinamica del numeratore (il debito). Sono qui per aiutarvi! È questa:
Fatto 100 il debito nel 2000, quello italiano è quasi raddoppiato, passando a circa 200 (204, per la precisione), quello tedesco invece pure (è passato da 100 a 205), mentre quello francese è più che triplicato, passando da 100 a 339. Vista così l'anomalia francese, su cui noi insistiamo da più di un decennio (vi ricordate il QED 10 e tutte le sue successive conferme?), fa veramente paura, e sicuramente il nostro caro amico Moscovici:
un pochino sta stringendo...
Voi direte: ma la Francia partiva da una posizione avvantaggiatissima, quindi anche se ha più che triplicato il suo debito pubblico sctaapposct, non c'è probblema, ecc. Non nego che la nostra situazione sia più delicata, ma voi i debiti pubblici di Italia, Francia e Germania li avete mai visti? Sono qui:
e non mi pare che da questo angolo di osservazione emerga un'assoluta anomalia italiana, o sbaglio? L'anomalia resta quella del Pil, di cui sappiamo le cause: le dissennate politiche di Monti, Letta, Renzi, Gentiloni.
E a questo punto, però, avrei voluto che almeno uno di voi si fosse posto una domanda, che certamente nessuno si è posto: "Sì, va bene, ma perché parliamo di questo? Perché insistiamo sul debito pubblico quando noi, qui, sappiamo, tu ci hai dimostrato, che il vero problema è quello estero, e che l'indicatore da monitorare, conseguentemente, non è il saldo pubblico, ma quello estero, come del resto sosteneva lo stesso Economist in tempi non sospetti?"
Eh già, perché?
Ma, il perché ve l'ho detto sopra: perché quando si è incasellati in un frame comunicativo che non si ha la forza di sovvertire, qualche volta può essere utile abbandonarsi alla corrente! Facciamo finta che il problema sia il debito pubblico, e non quello privato contratto con creditori esteri: in ogni caso, l'analisi che vi ho proposto sfata qualche luogo comune, e aiuta a concentrarsi sulla vera anomalia (quella del Pil).
Ma noi qui sappiamo che il vero problema è il debito privato con l'estero, e in generale il debito estero (pubblico o privato). Il motivo era noto prima ed è evidente adesso: in caso di crisi, sul debito pubblico interviene la Banca centrale, magari obtorto collo, perché altrimenti salta tutto, mentre è un po' difficile immaginare che una Banca centrale rifinanzi le aziende! Per quello ci sono le banche, e eventualmente il problema che una Banca centrale deve porsi è come non farle fallire. Vi ricordate il ui are not ier to cloze spredz?
Con tutto il rispetto per la perspicacia dell'ispettora Clouseau, non poteva andare a finire diversamente. Ma il fatto che chi ha un grosso debito estero poi vada a gambe all'aria lo abbiamo invece visto accadere mille e una volta ed è stato sancito anche da quelli bravi nel loro personale 8 settembre, che fu un 7 settembre:
E allora, se la mettiamo in termini del debito veramente pericoloso, quello estero, la Francia come sta?
Sta così:
Figura 3
Non è una grossa novità: questo grafico sintetizza tutte le cose che sapete o dovreste sapere: la correzione, grazie all'austerità, della nostra posizione netta sull'estero (ne avevamo parlato qui):
l'incapacità della Francia di uscire dalla trappola dei deficit gemelli, di recuperare competitività, essendo a casa loro socialmente insostenibile una cura da cavallo come quella inflitta a noi, e il parassitismo della Germania, che dopo aver recuperato competitività con una riforma del mercato del lavoro finanziata in deficit nel 2003 (come spiegato qui) ha beneficiato in modo parassitario della propria fama di "porto sicuro" (safe haven) e delle politiche della Bce (che ha sostenuto il suo debito - che non ne aveva bisogno - quanto quello dei Paesi in crisi), ottenendo un duplice e connesso vantaggio: quello della svalutazione dell'euro, che le ha consentito di accumulare surplus esteri fino a oltre 2000 miliardi di euro, e quello dei tassi negativi, che le hanno consentito di far diminuire il proprio debito.
Ma quello che non vi ho mai fatto vedere, e conseguentemente non avevo visto nemmeno io, è l'inesorabile e inquietante sprofondo rosso dei Bleus:
Non so se il nostro vecchio amico Pierre (Moscovici) lo abbia capito o meno, ma lui dovrebbe preoccuparsi di quella roba lì. Certo, la Francia non è un'Irlandetta o una Spagnetta qualsiasi, ne sono assolutamente consapevole: gli attacchi dei mercati hanno anche una dimensione geopolitica e sotto questo profilo la Francia ha sicuramente delle garanzie. Resta il dato economico: la Francia è un grande Paese con un enorme problema di competitività che non sa come risolvere e non sta risolvendo, mentre noi il nostro problema di debito estero lo abbiamo risolto, se pure a costo di aggravare il problema del debito pubblico uccidendo il Pil (ma sopravvivendo alla sua morte).
Della situazione francese avevamo osservato soprattutto il dato di flusso (la persistenza del saldo estero negativo della Francia, l'ultima volta qui):
ma osservare il dato di stock, cioè l'accumulazione di questi saldi negativi in un gigantesco debito estero netto, di dimensioni mai raggiunte nel nostro Paese, è abbastanza frightening, come direbbe uno bravo. Non a caso di questi numeri nessuno vi parla: i mercati sono corretti, non amano rovinare le sorprese! Io, invece, che sono dispettoso, adoro farlo, come ben sapete...
Mi avvio a concludere (cit.).
Mi resta solo da dirvi perché è rassicurante il fatto che tutti guardino nella direzione sbagliata, e per di più con delle lenti deformanti! Ma è semplice: perché questo ci garantisce che l'asteroide (finanziario) arriverà e farà il suo lavoro. Quale? Beh, gli asteroidi della reputazione tendono a fottersene: la loro reputazione non è data da quello che dicono (non parlano!), ma dalla loro massa, che a giudicare dai grafici qua sopra è piuttosto ingente. Possiamo immaginare quindi che il loro impatto sarà purtroppo (spiace) più grave per i fragili, piuttosto che per quelli che chi vuole mantenere alta la propria reputazione di analista finanziario deve definire fragili. È già successo, ricordate? Quando arrivò l'ultimo asteroide, attorno al 2010, chi ci rimise le penne per prime furono Irlanda e Spagna, i due Paesi col debito pubblico più basso e il debito estero più alto (cioè la posizione netta negativa più elevata).
Ovviamente noi siamo per la composizione pacifica dei conflitti, per il prevalere della razionalità economica, e per una nuova Bretton Woods, come lo sono tanti altri, che però dimenticano quali cogenti forze spinsero tutti a sedersi attorno a un tavolo nel 1944, mentre i Sovietici entravano a Vilnius e i marines sbarcavano a Guam (dove invece oggi, per diversi motivi, sbarcano soprattutto giapponesi).
Bene intendenti pauca.
(...ah, ove mai non fosse chiaro, la Figura 3, cioè lo sprofondo rosso del debito estero francese, spiega perché l'ispettora Clouseau, dopo aver detto che lei non era lì per cloze spredz, ha dovuto correre a cloze spredz, altrimenti le banche francesi scoppiavano come pop cornz. Detto fattualmente: a me le polemiche non interessano...)
Ogni tanto sospetto che dovrei vincere queste mie avversioni se volessi aspirare al ruolo di autentico politico di territorio. Lo scopo del gioco, mi sembra ormai evidente, non è infatti tanto quello di essere presenti, quanto quello di dimostrare con l'aiuto del signor Pan di Zucchero che si è stati presenti: un bel selfie sorridenti, un post punteggiato di "Bene!", "Avanti!", "Andiamo a vincere!", e l'omo campa... Non suonino a critica queste parole, perché non lo sono: bisogna fare il pane con la farina che si ha, in chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni, ecc. Se questo è quello che il general public percepisce come presenza politica, in quel beauty contest keynesiano cui l'attività politica si è ridotta (ricordate? "It is not a case of choosing those which, to the best of one’s judgment, are really the prettiest, nor even those which average opinion genuinely thinks the prettiest. We have reached the third degree where we devote our intelligences to anticipating what average opinion expects the average opinion to be."), se lo scopo del gioco non è tanto essere presenti (cui bono, visto che gli stessi elettori che ci chiedono mirabilia sono quelli che ci hanno condannato all'irrilevanza?), se lo scopo è mostrare che si è stati presenti, sottrarsi a quest'ultima bisogna alla fine danneggerebbe la squadra, che viene giudicata non per quello che fa o non fa, ma per quello che la gente si aspetta che debba fare (e quindi "Bene!", ecc.).
Va poi detto che "l'onorevole non mi risponde al telefono!" è un genere letterario: per quanto tu possa essere presente e assiduo, il vittimismo grillino, fatto per metà di una radicale incomprensione del lavoro parlamentare, e per l'altra metà dell'irriducibile convinzione di essere il perno del cosmo, è una costante biometrica (non mi spingo fino all'antropometrica) ineliminabile! Ma come ogni cosa per cui non c'è soluzione, anche questo è un non problema.
So far, so good...
D'altra parte, questo blog è nato per lasciare una traccia nei cuori delle persone, non nelle loro bacheche.
Non ve lo dico per sancire la mia definitiva rinuncia a lasciare una traccia nei vostri cervelli (non mi arrendo)! Volevo invece sottolineare che ci sono circostanze, momenti, incontri, che mi sembrerebbe di prostituire se mi compiegassi a darne il resoconto standard del bravo politico presente nel (le bacheche del) territorio. Di quei momenti posso riferire solo qui, in questo non luogo, un luogo cui l'inesistenza e l'irrilevanza conferiscono un'intimità particolare, quella che mi ha consentito di condividere con voi in passato tanti momenti della mia vita familiare e professionale, e a voi di condividere con me e tutti noi momenti della vostra. La chiamiamo umanità, anche se, visto che in un processo di tempo homo si è identificato con vir, possiamo presumere che "umanità" sia diventata una parola di odio, una parola di-vi-si-va, ed è comunque una facoltà cui in molti hanno abdicato, forse perché sordamente consapevoli del non potersela permettere.
Volevo oggi riferirvi brevemente di uno di questi incontri.
Qualche giorno fa dovevo recarmi a Lama dei Peligni.
Non pensate a Toledo: la "lama" dei Peligni non era quella impugnata dai Peligni, non è quella di una spada, ma quella della Murgia (quella vera), e i Peligni forse nemmeno c'erano arrivati, scollinando dal valico della Forchetta, a Lama, perché la Valle Peligna in realtà è dall'altra parte della Maiella, come voi ben sapete, e il territorio di Lama pare fosse occupato dai Sanniti, in particolare dai Carricini, quelli di Juvanum, che sarebbe questo:
Insomma: il nome di questo bel paese di un migliaio di abitanti contiene un doppio equivoco, il che non toglie che ci si viva bene, almeno dal Neolitico, e che, anche se magari non ne avete mai sentito parlare, esso sia legato a cose di cui potreste aver sentito parlare, come questa, già teatro di una brutta storia, che oggi sarebbe considerata bruttissima (e andrebbe censurata) perché scritta da un fasheesta.
E io che ci andavo a fare?
Mentre in macchina scendevo dalle propaggini della Montagna d'Ugni, aggiravo Palombaro, mi intrufolavo dietro lo stabilimento del noto pastificio (immediatamente intercettato da una security più efficiente di quella del #goofy), risalivo da Civitella Messer Raimondo (questo Raimondo qui, che una traccia nella storia l'ha lasciata, al tempo della contesta fra aragonesi e angioini), in effetti la stessa domanda tormentava anche me! Preciso: sapevo di andare a sostenere due amici, due candidati alle elezioni regionali, ero anche curioso di sostare in un Paese dal quale ero passato forse solo una volta, salendo da Fossacesia a Pescocostanzo (due bei posti, ma non ditelo troppo in giro, che sul turismo non la penso come la Hollberg ma molto peggio, anche perché io so di cosa parlo), questo lo sapevo.
Ma non sapevo che cosa avrei detto, né che cosa avrei dovuto dire.
Sì, i nostri candidati de quo sono due eccellenti persone e si sono date da fare in consiglio regionale, portando risultati, e naturalmente lo avrei ribadito con convinzione. Peccato che questo fatto, pur non essendo scontato, lo sembra. Vale qui il:
Teorema di Bagnai sulla neutralità elettorale dell'emendamento.
Ipotesi: sia data una Repubblica parlamentare.
Tesi: nessun emendamento per quanto rilevante ha mai spostato né mai sposterà un voto.
Dimostrazione: quando le cose vanno bene, il cittadino pensa che ciò gli sia dovuto, e ha perfettamente ragione di pensarlo!
...che è poi il motivo per cui devo nascondere, con grande sforzo, un sorriso di infastidita accondiscendenza quando vedo laggente sbattersi ultra vires per far approvare una cosa del cui merito, se ha un senso, sarà il Governo ad appropriarsi (vedi il caso della mia proposta di legge sul contante o di quella di Claudio sui vandali o dell'emendamento di Molinari sull'IRPEF agricola), mentre i diretti interessati si limiteranno a dire che non va bene e che volevano di più (vedi il caso dell'emendamento sulle multe ai vaccinati). Questo teorema di neutralità mina alla radice una delle retoriche che furono alla base dell'adesione al governo Draghi, e in generale di ogni scelta "governista": "laggente ci votano perché noi amministriamo bene, quindi andiamo al Governo e #facciamocose, che la gente ce ne sarà riconoscente!"
Sì, è vero che, per come ho imparato a conoscerli, i nostri amministratori esprimono una buona cultura amministrativa, sanno attrarre e utilizzare fondi (i famosi fondi italiani erroneamente detti "europei", perché di europeo in quei fondi c'è solo l'uso assurdo che se ne fa, come sottolineato qui), è tutto vero, è tutto giusto.
Ma è il mondo a essere ingiusto e irriconoscente!
Purtroppo non funziona così, perché la normalità ha due difetti insanabili: mentre assicurarla richiede uno sforzo titanico, essa stessa resta impercettibile. Chi si accorge delle cose normali? Chi si chiede quanto lavoro ci sia dietro? Chi si predispone a ringraziare per questo sforzo? Nessuno. Ne consegue che in un Paese in cui le cose stanno andando così:
(come ci siamo detti a fine anno), e in cui quindi la maggioranza soffre, se pure talora inconsapevolmente, quello che devi dare non è un emendamento, o un fondo "europeo" con annessa pecetta propagandistica da apporre sull'uscio, ma un'alternativa.
Queste riflessioni rispondevano anche a un'altra domanda: mi sarei dovuto addentrare nei problemi del paese, raccogliendo aneddoti dai miei militanti, o da qualcuno dei tanti amici sindaci circonvicini che frequento (poco più sopra ci passo le vacanze, ed è sempre una buona idea essere amici dei sindaci di posti meravigliosi), e magari prepararmi un discorzetto su cose che chi mi ascoltava comunque conosceva meglio di me? Forse anche no, non era il mio ruolo, ma eventualmente quello dei candidati, e forse non era nemmeno quello di cui chi avrei incontrato avrebbe avuto bisogno, quand'anche non sapesse e non fosse possibile illustrargli che il suo destino era di finire in C e non in D...
Questa, e altre cose, rimuginavo mentre parcheggiavo e entravo nella sala del consiglio comunale, che ospitava l'incontro. L'atmosfera era piacevolmente accogliente, quasi natalizia. In poche decine di uomini di ogni età, che riempivano l'ambiente raccolto, si trovavano il bambinello, un angelico lattante biondo non (ancora) interessato alla politica, ma già capace di stare in società, la Madonna sotto forma di connessa giovane madre, e i pastori, uomini dai volti incisi come le valli della montagna madre che guardano verso il mare, molti più anziani di me. Quasi tutti ignoti, tranne un mio ex studente (ce n'è sempre uno: in dodici anni di insegnamento si semina più di quanto si possa immaginare), gratificato a suo tempo da due 29 (non ricordavo di essere così bastardo...), e un paio di nostri amministratori e militanti. Entravo in quella sala con una certa rispettosa circospezione: ero arrivato tardi di pochi minuti, avevano già cominciato a parlare (in Abruzzo non so mai su quale fuso regolarmi, se su UTC+0 o UTC+1: quella era la sera di UTC+1...), non volevo distrarre i colleghi che stavano parlando, e non volevo nemmeno fargli fare brutta figura. Ero anche un po' overdressed, perché venivo dritto dall'inaugurazione dell'anno giudiziario, dove non sarebbe stato il caso di presentarsi underdressed (anche se, per dirla tutta qui dove nessuno la legge, secondo me in Italia questo me lo sono letto solo io, ma capisco che molti possano trovare Saint Simon o Proust delle letture inutili, e alla fine questo è il meno rispetto al fatto che molti mi credono ancora in Senato...), e non avrei mai voluto che quel mio essere incravattato in un completo a tre pezzi potesse essere letto come il tentativo di rimarcare un rango o di frapporre un diaframma.
In quattordici anni di esposizione in contesti pubblici ho sempre parlato a braccio, non mi sono mai scritto un discorso, ma spesso l'ho trovato scritto sulle pareti delle aule che mi hanno accolto. Ed è andata così anche questa volta. Di fronte a me, accanto alla porta d'ingresso, campeggiava ben visibile una lapide dedicata alla memoria dei patrioti della Brigata Maiella, una storia che per qualche strano motivo, come ho detto a Pietransieri nel commemorare questi morti, resta un po' nascosta nel panorama culturale degli italiani, come l'Abruzzo resta nascosto nella loro geografia mentale.
E così, quando mi hanno dato la parola, ho detto ai miei rappresentati, perché comunque in Parlamento sono io a rappresentarli, quello che mi frullava per la testa. Ho detto loro che immaginavo il legittimo orgoglio del sindaco comunista che il 25 aprile del 1989 affiggeva una lapide per ricordare il sacrificio di quei patrioti, e anche, possiamo dircelo, per appropriarsene politicamente, senza sapere che 198 giorni dopo quel gesto nobile, per quanto certamente venato da una scusabile scorrettezza, un altro manufatto sarebbe crollato, lasciando "lu sindache" orfano della sua casa politica, e avviando quel processo storico che avrebbe portato la sinistra a cercare protezione in un altro referente esterno: in assenza di ideologia e finanziamenti dell'Unione Sovietica, la sinistra, per governare a dispetto degli elettori, si sarebbe posizionata sotto l'ombrello dell'Unione Europea.
"Perché alla fine", dicevo ai miei rappresentati, "l'Unione Europea è un'Unione Sovietica che ce l'ha fatta. Ma voi, dicevo ai più anziani, voi vi potete immaginare un Breznev venire a dirci che dal 2035 dobbiamo passare tutti all'auto elettrica, e il distretto industriale di Atessa si fotta? Vi potete immaginare un Andropov dirci che dobbiamo sostituire la farina di solina con quella di grillo, e gli arrosticini con la carne coltivata? Potete concepire un Černenko che ci impedisca di vendere una casa a meno che prima non ci spendiamo un pozzo di soldi in prodotti cinesi per renderla "verde"?"
"No", proseguivo, "una cosa simile era al di fuori di quanto fosse lecito concepire anche nel peggiore degli scenari, quello in cui i cosacchi avessero abbeverato i propri cavalli alle fontane di Piazza San Pietro. Ma dove non sono arrivati i gerarchi russi, sono arrivati i tecnocrati europei. E come ci sono riusciti? Facendoci abbassare la guardia. Perché al tempo dei due blocchi era chiaro che il mondo era diviso in due, che potevi stare di qua o di là, il riferimento ideologico "di là" era la difesa del lavoro (sull'efficacia di questa difesa si può discutere), il riferimento ideologico "di qua" era la difesa del mercato (tradotto in pratica come socialismo dei ricchi, quello che socializza solo le perdite), ma insomma si capiva che una tensione esisteva, che niente era dovuto, che bisognava impegnarsi e lottare, e per organizzare e indirizzare questa lotta c'erano i partiti. Poi ci hanno detto che era tuttapposct, e non dovevamo preoccuparci: la nostra libertà era al sicuro perché aveva vinto la democrazia, cioè noi. Ma il mondo è ancora diviso in due, e per capire chi è l'avversario dobbiamo guardare chi attenta alla nostra libertà: l'Unione Europea. Tanti lo hanno capito e tanti lo stanno capendo, per cui, se quello che vi ho detto vi suona sensato, sostenete il partito di chi vi ha portato a questa riflessione. La lotta per avere più libertà, oggi, è la lotta per avere meno Europa. E quella lapide ci racconta che anche ieri non è che le cose stessero in modo molto diverso."
Contrariamente a quanto potessi aspettarmi, a conferma del fatto che chi parla col cuore parla al cuore, il discorso, non particolarmente più lungo di così, pareva convincesse i presenti. Mi sono poi fermato a parlare con loro, entrando nella granularità dei dissidi e delle bizze che sarebbe tanto meglio poter comporre e sedare. La vita è fatta anche di questo. Che però ora, in questo meraviglioso mondo pacificato e unipolare, stiamo subendo livelli di condizionamento esterno semplicemente inimmaginabili al tempo del conflittuale mondo bipolare, questo lo avevano capito tutti, forse perché, prima che mi materializzassi nel mio completo a tre pezzi, lì non ci aveva pensato nessuno.
E ora, dopo aver condiviso con voi queste scene dalla vita di provincia, queste memorie del mio collegio analogico, con voi che siete il mio collegio digitale, vi saluto e torno a occuparmi di griglie: griglie di emendamenti, griglie di pareri, griglie di audizioni, griglie di nomine. Non è robba che sse magna: è un noioso lavoro, e qualcuno deve pur farlo.
(...ricordatevi quello che ci disse Jacques Sapir: fino al giorno prima tutti erano convinti che il sistema non funzionasse, e tutti erano convinti che sarebbe durato per sempre...)
(...amo la Hollberg, anche se finora non ho avuto il tempo di scriverglielo. Perché purtroppo le cose stanno come dice lei. Le strade dove camminavo da bambino, per mano ai miei genitori, emanano oggi il lezzo dell'etnico e del fashion - sapete quando si passa per il duty free in aeroporto? L'odore delle botteghe, dei rosticceri, dei droghieri, l'incenso delle chiese, la resina dei cipressi, tutto è annichilito dal rullo compressore delle economie di scala, dei franchising, dei grandi numeri. Amo il mio collegio perché conserva delle sacche tenaci di autenticità: e qualsiasi autenticità, qualsiasi radice, anche se formalmente non tua, è meglio della fintaggine. Del resto, anche in centro a Roma, città che non ho mai sentito veramente mia nonostante ne abbia tanto amato la cultura nelle sue varie stratificazioni, ormai soffro per quella presenza opprimente. Forse l'Abruzzo è protetto dall'essere terra di passaggio. Guardate la Puglia, luogo di arrivo un tempo delle pecore - a Foggia - e oggi dei turisti - in Salento. Tutto bellissimo: la Natura e l'Arte. Ma quando cominci a voler piacere a qualcuno di diverso da te, e che in fondo non conosci, ti addentri in un territorio impervio e ostile dove sei destinato a subire molte perdite, prima fra tutte quella dell'autenticità. Forse ne soffri solo tu, perché per definizione chi proviene da un altro humus non è in grado di percepire il danno fatto. Certi processi vanno gestiti prima che il danno sia fatto. Dopo è inutile parlare di filiere corte e di presidi slow food...)