(...i "fatti di Genova" hanno avuto una certa rilevanza:
Personalmente non solo perdono e compatisco i "fattoni" che li hanno animati, ed esprimo loro vicinanza, nella loro consapevolezza, confusa e inesprimibile, di essere stati fottuti da chi avevano scelto come riferimento ideologico (l'asinistra), ma sono anzi profondamente grato loro per il successo che hanno assicurato alla nostra iniziativa politica, dandole il meritato risalto (siamo a oltre 18.000 visualizzazioni del mio intervento nella diretta Twitter del "deputato Borghi").Ha avuto molto meno risalto, anche per mancanza di una diretta streaming, il discorso di Omegna, che ai fatti di Genova era strettamente connesso, e che vi riassumo qui di seguito...)
To put things in perspective
Se lo scopo della politica fosse intercettare il consenso, questo blog non sarebbe mai stato un progetto politico, perché, come sa chi ci è passato e soprattutto chi ci è rimasto, il vostro consenso di lettori mi interessava quanto il vostro consenso di elettori: zero. Per questo motivo vi ho sempre parlato con onestà intellettuale, il che ad alcuni è piaciuto e ad altri no, ma non si può dispiacere a tutti.
Se però lo scopo della politica, invece che andare a brucare bovinamente le praterie del presunto consenso (oggi rappresentato da "il grande centro..."), fosse quello di indicare una direzione, di prefigurare scenari e di indicare le possibili strategie per gestirli, allora questo blog è, dalla sua nascita (cioè da quando previde il fallimento del Governo Monti) e senza averlo minimamente desiderato, praticamente l'unico laboratorio politico del nostro disastrato Paese, o almeno io non ne conosco altri dove una serie di sviluppi economici e politici siano stati anticipati con tanta inesorabile precisione.
Ve ne cito solo tre, e poi svilupperò l'ultimo: il primo è appunto il fallimento di Monti, previsto nel giorno in cui questi si insediò, il secondo è l'alleanza fra 5 Stelle e PD, prevista nel settembre 2016 (e tutti mi prendeste per matto), il terzo è il ritorno dell'inflazione, previsto a marzo 2020 e per i motivi che il Fmi ci ha poi spiegato col consueto ritardo nel 2022.
Stiamo parlando, ne converrete, di tre fatti marcanti di questo scorcio di secolo, se pure a diversi livelli di importanza.
Il fallimento dell'austerità, che ora tutti ammettono compunti mentre si apprestano giulivi a reiterarlo (old wine in sustainable bottles), è un fatto di rilevanza innanzitutto europea: fuori dall'Unione Europea nessuno è stato così tanto autolesionista, e i motivi oggettivi di questa strana torsione suicida sono qui stati discussi in lungo e in largo (non possiamo ogni volta ricominciare da capo, se qualcuno è interessato a recuperare ci sono delle buone letture, purtroppo sempre attuali). Certo, questo fatto europeo ha avuto rilevanza globale in quanto ha trasformato un pezzo un tempo florido di terre emerse nel buco nero della domanda mondiale (definizione qui introdotta a gennaio 2016 e qui illustrata a giugno 2016). Quello che nessuno vi ha detto (tranne i numeri che qui vi ho mostrato) è che la "stagnazione secolare" è in buona parte spiegata dal fatto che l'Eurozona abbia deciso di camminare col freno tirato...
La prevedibilissima (ma solo qui prevista!) fusione fra il partito delle banche e quello degli "useful idiots" è un fatto di rilevanza innanzitutto italiana, ma molti sembrano aver dimenticato quanto questa fusione sia stata determinante, anzi: "decisiva" (cit.) per le dinamiche politiche europee. Quelli che "votare non serve, non vi voto piuuuh!" mi pare abbiano dimenticato che se è grazie alla Lega che il talebano della decrescita, Timmermans, non è diventato presidente de jure della Commissione, d'altro canto è grazie ai 5 Stelle che ne è diventato il presidente de facto, per interposta signora von der Leyen. È stato quel pugno di voti "decisivi" a consegnare le nostre imprese, le nostre case, le nostre vite al delirio di una ideologia green a misura di sistema industriale franco-tedesco, che non a caso tante ferite sta portando al tessuto industriale del nostro martoriato Paese, è stato quel pugno di voti "decisivi", quel tradimento dell'interesse nazionale, a restringere seriamente il nostro raggio di azione politica. I voti sono numeri, il resto sono illazioni.
Il ritorno dell'inflazione, infine, è un problema di rilevanza globale. Lo abbiamo previsto in anticipo, e ora che tutti ci hanno raggiunto stacchiamoli di nuovo ragionando su cosa esso comporti in termini di scenari futuri, dividendo il tema in due: come andrebbe gestito, e come verrà gestito. Prima di affrontare questi due aspetti, però, vorrei spendere qualche parola su come e perché è lecito attendersi che l'inflazione sia destinata a essere un fenomeno se non strutturale, almeno molto persistente.
La persistenza dell'inflazione
A Genova, dopo il momento "fronte del porto", ho potuto godere di un più piacevole e altrettanto istruttivo momento "jet set" (ovviamente fuori dalle telecamere), incontrando a un evento privato alcuni imprenditori, fra cui alcuni lettori di questo blog (apro e chiudo una parentesi per farvi notare che in quella caricatura de "er popolo" incontrata al porto nessuno sapeva di questo progetto - altrimenti non sarebbe stato lì a fare il ragazzo pon pon del PD - mentre nella classe imprenditoriale vera qualcuno ci legge: lascio a voi le interpretazioni). Caso vuole che mi sia trovato seduto accanto a un illustre commentatore dei fatti economici e politici, uno di quelli abbastanza manovrieri da riposizionarsi per tempo su tanti temi. Ma la differenza fra "manovriero" e "anticonformista" c'è, e salta all'occhio: il manovriero passa tempestivamente da un conformismo al successivo! L'attuale conformismo è: "tranquilli, ora i prezzi delle materie prime scenderanno, e tutto tornerà come prima". L'amico manovriero cercava di convincermi, e io non cercavo di "sconvincerlo": la ragione, a Roma, sappiamo di chi sia, e per questo l'elargiamo a mani piene!
Qui fra noi, però, nel chiuso di questa stanza virtuale, approfittando del fatto che nessuno ci vede né ci ascolta, possiamo dirci almeno due motivi per cui l'inflazione sarà persistente, più uno per cui potrebbe esserlo: asimmetrie, transizione, reshoring.
Asimmetrie
Il primo motivo per cui l'inflazione da offerta tenderà a essere meno volatile (cioè più persistente) di quanto alcuni sperano è stato qui oggetto di tante ricerche: l'asimmetria della risposta dei prezzi, in particolare di quelli energetici, a shock nei costi delle materie prime. Semplificando, il noto fenomeno secondo cui quando il costo del petrolio sale il prezzo della benzina sale, e quando il costo del petrolio scende il prezzo della benzina non scende. Non è né una leggenda metropolitana né un discorso da bar: è un dato di fatto che abbiamo discusso qui, prima di pubblicarlo in fascia A qui:
Sempre con l'aiuto dell'associazione a/simmetrie (che con l'occasione vi invito a
continuare a sostenere) abbiamo anche dimostrato che questo fenomeno non riguarda solo l'Italia, ma si presenta, in vario grado,
in Europa, e
negli Stati Uniti. La letteratura scientifica sul tema è vastissima, ma il nostro contributo non è stato lavoro inutile, visto che su questo tema le posizioni non sono del tutto univoche, come
deve essere quando si parla di posizioni scientifiche, perché la scienza è democratica (i coglioni non lo sono, ma questo è un altro discorso).
Tornando a noi, questa asimmetria implica che anche qualora i costi delle materie prime tornassero alla casella di partenza, l'indice dei prezzi al consumo, che è il riferimento per il calcolo dell'inflazione, continuerebbe a crescere. Non è una novità: è quello che è sempre successo e che succederà anche secondo gli scenari come sempre rosei e (necessariamente) stilizzati del Fmi, che mi pregio di sottoporvi:
Come vedete, si prevede che l'indice dei prezzi al consumo continuerà a crescere nei prossimi cinque anni a una media del 2%, nonostante il prezzo al barile sia previsto in diminuzione a una media del 7% . Lo si vede meglio esprimendo gli stessi dati in tassi di variazione:
Da che dipende questo "strano" fenomeno? Se il reale è razionale, una spiegazione ci sarà, e in effetti non è difficile da comprendere. I motivi sono due:
- come ricordato sopra, quello che sappiamo della dinamica dei prezzi dell'energia ci dice che essi non scendono altrettanto rapidamente di quanto i costi calino (quando cala il barile, non cala subito il prezzo alla pompa),
- quello che sappiamo della formazione dei prezzi in mercati oligopolistici ci dice che un aumento dei costi variabili non viene immediatamente traslato sui prezzi per il consumatore finale. Una parte dell'aumento dei costi (inclusi quelli dell'energia) viene assorbita da riduzione dei margini: gli imprenditori si rassegnano a guadagnare di meno per non perdere quote di mercato.
Di conseguenza, quando il prezzo del barile scende, siccome quello della benzina scende meno, le imprese continuano a traslare progressivamente sui prezzi al consumo quella parte di aumento dei loro costi che non hanno traslato interamente e immediatamente a seguito dello shock. La combinazione di questi due effetti rende persistenti gli effetti sull'inflazione al consumo di uno shock di offerta anche transitorio. Non è una novità: è sempre andata così e si vede nei dati.
Guardate ad esempio l'andamento del prezzo al barile e dell'indice dei prezzi al consumo del nostro Paese:
Si vede molto bene come l'indice dei prezzi abbia continuato a crescere (inflazione positiva) anche mentre il prezzo del petrolio smetteva di crescere o addirittura scendeva in modo più o meno brusco. Lo si vede meglio, anche qui, se usiamo i tassi di variazione (che fra l'altro ci aiutano a confrontare correttamente gli ordini di grandezza):
La figura rappresenta la variazione percentuale tendenziale (mese su stesso mese dell'anno precedente) del prezzo al barile (in blu, scala di sinistra) e dell'indice dei prezzi al consumo (in arancione, scala di destra). Si individuano molto bene i noti shock del 1973 (guerra dello Yom Kippur) e del 1979 (rivoluzione iraniana). Si vede anche bene come l'attuale shock, quello che ha portato il prezzo al barile a 62 dollari nell'aprile 2021 dai 16 dell'aprile 2020, in termini percentuali è stato di gran lunga il più rilevante della serie (tralascio le varie considerazioni sul fatto che oggi il mix energetico è cambiato, il gas è molto più importante che negli anni '70, per cui un confronto fra l'entità dei due shock di offerta andrebbe condotto in modo molto più articolato). Volevo però attirare la vostra attenzione su come a seguito degli shock l'inflazione sia andata decrescendo in modo meno che proporzionale rispetto al decremento dei prezzi del greggio.
Quindi, ricapitolando: non è detto che se il costo delle materie prime energetiche torna alla casella di partenza, quello delle fonti di energia (benzina, gasolio, gas) faccia altrettanto, e non è detto che la traslazione dell'aumento di questi costi sui prezzi finali cessi immediatamente (dovendo gli imprenditori ricostituire gradatamente i margini che hanno compresso). Quindi è lecito aspettarsi un po' di persistenza dell'inflazione.
Transizione (ecologica)
Qui non si discute del fatto che sia meglio respirare aria pulita piuttosto che particolato e bagnarsi in acque limpide piuttosto che torbide (con l'occasione ricordo agli analfabeti da talk show che "piuttosto che" è locuzione con valore avversativo, non disgiuntivo). Affermazioni di questo tipo sono non politiche, per il semplice motivo che non trovereste nessuno disposto a sostenere il loro contrario (il modo migliore per capire se qualcuno parla senza dirvi nulla è verificare se il contrario di quanto vi sta dicendo abbia senso...).
Qui ci si limita a ricordare quanto ampiamente discusso ad esempio in Materia rara, ovvero il fatto che la transizione ecologica, per i tempi e i modi con cui è stata imposta, implica una enorme pressione sulla domanda di una variopinta tavolozza materie prime, per lo più metalli. Non c'è solo il litio, di cui tutti si ricordano: c'è anche l'acciaio (nelle torri e nelle turbine eoliche, ad esempio), c'è naturalmente tanto rame (per ovvi motivi, visto che si parla di elettricità), c'è tanto silicio (e non un silicio qualsiasi ma quello di grado solare, visto che si parla di fotovoltaico), ci sono polimeri e fibre di varia natura.
Oltre al fatto che nessuno si chiede da dove possano venire e dove possano andare a finire queste materie prime (ad esempio: quali Paesi ne controllano il mercato? Come sarà possibile riciclare questi materiali?), resta il fatto che nessuno sembra preoccuparsi di un dato economicamente ovvio: questa enorme pressione della domanda non potrà non riflettersi sui prezzi per lunghi anni a venire. Non è solo perché non abbiamo il nucleare che l'energia in Italia costa così tanto: ci sono anche i simpatici oneri di sistema, che sono, appunto, il finanziamento della transizione
(su cui l'Italia era già autolesionisticamente avanti rispetto ad altri Paesi europei asseritamente "verdi", come qui
abbiamo sempre fatto notare).
Ora, è molto difficile che con l'aumento dei costi della transizione (in termini di aumento delle materie prime necessarie per realizzarla) possano diminuire gli oneri per cittadini e imprese, non trovate? Quindi anche da questa parte avremo pressioni strutturali sui prezzi.
Reshoring
La pandemia dovrebbe averci insegnato molte cose. Dico "dovrebbe" perché la memoria del cittadino/elettore è corta, ancor più di quanto siano effimeri i proclami degli influencer/politici. Dovremmo aver capito che tanti diritti che davamo per acquisiti in realtà non lo sono, ma questo era scritto sulla quarta di copertina del Tramonto dell'euro e ora è inutile tornarci (spiace per i "punturini", che certi passaggi se li sono persi e a giudicare da come si comportano sui social sono destinati a diventare i nuovi "onestih").
Dovremmo soprattutto aver capito che il fallimento della globalizzazione non è solo quello del modello che abbiamo descritto qui:
un modello in cui le crisi finanziarie sono strumento di gestione via "riforme" e "fate presto" del conflitto sociale derivante dalla compressione della quota salari, a sua volta innescata dalle delocalizzazioni e dall'allungamento delle catene del valore, a sua volta reso possibile da una sregolata mobilità internazionale dei capitali. Certo, da questo modello deriva una minaccia esistenziale per ognuno di noi (che si traduce nel progressivo scadimento del nostro tenore di vita, nella fornitura insoddisfacente di servizi pubblici essenziali come la scuola e la sanità, ecc.), ma è inutile girarci intorno: molti, soprattutto nelle fasce tutelate (dipendenti pubblici con stipendi relativamente congrui) di tutto questo non se ne sono minimamente accorti e se ne sono ampiamenti battuti la ciolla mentre chi ci andava di mezzo erano altre fasce sociali (i lavoratori autonomi, i dipendenti privati).
Ma c'è un altro fallimento della globalizzazione difficile da ignorare anche per i tutelati (o supposti tali): se la logica delle economie di scala ti porta a concentrare tutte le produzioni nei luoghi in cui il costo del lavoro è più basso, poi magari capita che quando dalla Cina parte un virus (o vairus che dir si voglia) e hai bisogno (o credi di aver bisogno) di mascherine, improvvisamente realizzi che queste sono tutte prodotte in Cina, e che questa non è un'ottima cosa, perché le agognate mascherine da lì non riescono ad arrivare, vuoi perché i porti di partenza sono chiusi causa vairus, vuoi perché tutte le merci del mondo, in omaggio a questo bel modello di organizzazione della produzione, per arrivare qui passano da un budello largo 200 metri dove una nave lunga 400 metri si è intraversata...
Ora: la lezione della slide non credo che l'abbiano capita in molti (sicuramente non i fregnoni di Genova, o la gentaglia che "non ti voto piuuuh perché l'infame lasciapassare verdeeeh"). Soffermiamoci allora sull'altra lezione, quella della Ever Given. Questa lezione l'ha capita qualcuno? E le sue implicazioni sono chiare?
In altre parole: qualcuno si sta interrogando sul fatto che la pandemia ha rivoluzionato il concetto di "bene strategico", richiamando la nostra attenzione sul dato che anche prodotti "a basso valore aggiunto" come le mascherine (o i tubi per i respiratori, o le siringhe, o quel che è), possono diventare strategici, e che quindi il mantra secondo cui noi dovevamo concentrarci sull'economia della conoscenza e sui segmenti di produzione ad alto valore aggiunto, quel mantra, è una solenne scemenza? Dal grano ai ventilatori meccanici, sono infiniti i beni per cui l'illusione di poterli reperire immediatamente a buon prezzo in quel grande ed efficiente mercato che è il globo è molto pericolosa. Detto in altri termini: se la lezione della Ever Given fosse stata capita, dovremmo disporci a produrre di nuovo in casa nostra le cose che ci illudevamo di poter in ogni caso comprare in giro per il mondo grazie alla nostra monetona fortona.
Ma se (dico: se) questa lezione è stata compresa, e conseguentemente ci si dispone a un periodo di accorciamento delle catene del valore, cioè di reshoring, dobbiamo renderci conto che anche da questa parte derivano pressioni strutturali sui prezzi. La mascherina, il ventilatore meccanico, la siringa, il cavatappi, il lanciagranate, quel che l'è, prodotto in Italia da un italiano ha il vantaggio di non dover viaggiare (inquinando) per migliaia di chilometri, ma lo svantaggio (per il consumatore) di essere prodotto da persone il cui reddito medio pro capite è ancora 2,9 volte quello dei cinesi (se calcolato in dollari nominali), o 2,3 volte se calcolato a parità di potere d'acquisto.
Quindi, il reshoring, l'accorciamento delle catene del valore, implica che alla corsa al ribasso della globalizzazione (ti pago poco, tanto puoi comprare i beni a basso prezzo prodotti in Cina) si sostituisca una corsa al rialzo (produco in Italia, quindi devo pagarti abbastanza altrimenti non riesci a comprare i beni prodotti). Indipendentemente da come lo si vorrà gestire, cioè indipendentemente da chi sarà chiamato a pagarne il conto, se avverrà il reshoring comporterà necessariamente anch'esso una pressione strutturale sui prezzi finali dei beni.
Sintesi
Tre forze (l'adeguamento dei prezzi al consumo a shock di offerta asimmetrici, il costi della transazione energetica e i costi del reshoring) lasciano supporre che il fenomeno inflattivo possa essere persistente. Come dovremmo gestirlo e come sarà gestito?
Come dovremmo gestire l'inflazione strutturale
"Chi ha le comodità e non se ne serve, non trova confessore che l'assolva". Partiamo dalla saggezza popolare. Nel capire che cosa dovremmo fare beneficiamo di una bussola infallibile: la Banca d'Italia. Approfittiamone!
Certo, c'è quel dettaglio che il suo ago indica costantemente il Sud: ma non è un problema. Per fortuna abbiamo avuto, nella lunga sequenza di fallimenti bancari e di riforme pensate male e peggio fatte, un segnale importante. Siamo stati avvertiti, e quindi sappiamo che se vogliamo andare a Nord, basta fare il contrario di quello che questo autorevole organo di indirizzo politico privo di responsabilità politica e di legittimazione democratica ci esorta a fare. Per farla corta: se la Banca d'Italia ci esorta a non indicizzare i salari:
la risposta corretta all'inflazione strutturale sarà
certamente una qualche forma di indicizzazione dei salari. A me basterebbe anche questo, ma siccome a molti di voi probabilmente e legittimamente no (soprattutto perché per metodo rifiuto di parlare al grillino che è in tutti voi facendo notare che se guadagni mezzo milione l'anno non è sorprendente che la rincorsa dei salari ti sembri futile...), sarà il caso di sviluppare il ragionamento, per far capire bene come mai questa è la soluzione che chiunque crei valore (sia esso un dipendente o un imprenditore) dovrebbe considerare con attenzione (e quindi chiunque sia un
rentier ovviamente guarda con sfavore).
Anche qui, articolerei il ragionamento in passi successivi: perché in questa fase storica è cruciale adeguare i salari, e quale può essere lo strumento più efficiente per farlo.
Le ragioni per un adeguamento dei salari
Può essere utile sgombrare il campo dall'argomento "anni '70" secondo cui siccome l'adeguamento dei salari va a vantaggio dei dipendenti, allora esso sarà necessariamente a svantaggio dell'imprenditore. Le cose non stanno esattamente così, per almeno due ordini di motivi:
- l'instabilità del quadro geopolitico mondiale suggerisce nell'interesse delle imprese di riequilibrare le politiche commerciali restituendo centralità al mercato interno, il che comporta passare da un modello di crescita export-led a un modello di crescita wage-led;
- le pressioni inflazionistiche strutturali determinate da transizione ecologica e reshoring, se non riflesse adeguatamente nei salari, implicano che per sostenere i propri consumi le famiglie dovranno ricominciare a indebitarsi, determinando un nuovo ciclo di instabilità finanziaria causata dal debito privato.
Sul primo punto, ribadisco un concetto qui espresso tante e tante volte: chi campa sulla domanda altrui (esportando) si espone agli altrui problemi. Qualsiasi fonte di instabilità politica o economica nei Paesi "clienti" si riflette inesorabilmente sugli esportatori (ne abbiamo anche parlato recentemente qui). In un periodo che si preannuncia come piuttosto instabile dal punto di vista geopolitico, alimentare la domanda interna, quella dei residenti, con adeguati livelli retributivi è una mossa strategicamente avveduta, che va in primo luogo a beneficio delle imprese. Ne sono testimoni in negativo le imprese vittime delle sanzioni, quelle che oltre al problema di dover fronteggiare i costi elevati delle fonti di energia importate, hanno anche il problema di non poter più fatturare esportando nei Paesi sottoposti a sanzioni. Forse adesso queste imprese preferirebbero potersi rivolgere alla domanda dei lavoratori residenti: peccato che dopo decenni di stagnazione dei salari questi ultimi non arrivino a fine mese neanche acquistando prodotti di primo prezzo cinesi!
I dati ci confermano che il nostro Paese è sempre più dipendente dalla domanda estera:
la cui quota sul Pil cresce lentamente ma inesorabilmente (dal 26% del 2001 al 33% del 2021), mentre la Cina ha dimezzato la quota delle esportazioni sul Pil dal massimo del 36% raggiunto nel 2006 (dopo l'ingresso nel WTO avvenuto nel 2001) al 18% del 2020. Sono dati su cui occorrerebbe riflettere.
D'altra parte, la posizione secondo cui i costi "della guerra" (perché c'è ancora chi racconta che l'aumento dei prezzi delle materie prime sia dovuto alla guerra, cosa che abbiamo dimostrato non essere vera) devono essere sostenuti da "tutti" (cioè dai dipendenti) è particolarmente irrazionale. In un momento in cui la domanda estera è caratterizzata da volatilità di natura geopolitica, la domanda interna diventa un elemento essenziale di crescita, e se non sostenuta da retribuzioni adeguate può essere finanziata solo a debito, aprendo a nuove crisi finanziarie, anche queste negative per le imprese perché prima o poi si traducono in una fiscalità più aggressiva e in restrizioni al credito.
C'è poi un altro problema, di ordine più generale: il trade-off fra due parole d'ordine europee, sostenibilità e inclusività. Come qui abbiamo fatto notare da subito, la transizione ecologica costa, perché costano i prodotti "green", e quindi richiede (e produce) crescita del Pil, non decrescita. Resta da capire come questa crescita venga distribuita tra salari e profitti. Ecologia e reshoring alla fine si risolvono entrambi nella stessa cosa: costringere i lavoratori ad acquistare beni più costosi. Chi promuove queste rivoluzioni dovrebbe essere esplicito su come intende gestirne le conseguenze: vogliamo tirarceli a bordo, i lavoratori, ad esempio mettendo anche loro in condizione di acquistare un'auto elettrica? Oppure vogliamo scegliere la scorciatoia secondo cui "non si comprano le auto ma la mobilità", così se per qualche motivo vuoi scappare da qualche parte magari non puoi farlo perché ti disattivano la app che compra "mobilità" (mentre ovviamente l'upper class avrà le sue auto e andrà dove gli pare)? Vogliamo ridurli o esasperarli divide di questo genere? Vogliamo raccontare di essere "inclusivi" mentre escludiamo, o vogliamo includere (e la prima delle inclusioni è quella economica)?
Chiunque abbia interesse a vivere in una società stabile, in cui una platea ampia di consumatori possa accedere senza difficoltà a prodotti di consumo durevole, dovrebbe riflettere su questo.
Le ragioni per l'indicizzazione dei salari
Oggi l'adeguamento delle retribuzioni passa principalmente per il rinnovo dei contratti (qui trovate le principali statistiche sui rinnovi). I CCNL (contratti collettivi nazionali di lavoro) di solito hanno durata triennale e non sempre il loro rinnovo è agevole. Lo dimostrano le statistiche sulla "vacanza contrattuale media" (il periodo in cui i lavoratori restano "scoperti" prima del rinnovo successivo), che è di 17 mesi, che salgono a 30 se la si calcola sui soli dipendenti in attesa di rinnovo, i quali sono, a loro volta, il 55,4%, fra cui il 100% dei dipendenti pubblici. Si può intuire che non sia facile mettersi d'accordo su come disciplinare rapporti economici per un periodo così lungo. L'economia è caratterizzata da incertezza, e nessuno ha particolarmente voglia di rimanere fregato. Naturalmente, con l'incertezza aumentano le difficoltà nel mettersi d'accordo. Immaginate, ad esempio, come debba essere complesso mettersi d'accordo oggi sui livelli retributivi dei prossimi tre anni! Se già lo era al tempo della "stabilità", ora che siamo di fronte a un'inflazione potenzialmente diretta verso le due cifre, molto elevata ma soprattutto molto variabile e quindi molto incerta, ragionare su come chiudere un contratto non deve essere semplice. Mi sembra chiaro quindi che la conflittualità tenderà ad aumentare, per il semplice motivo che i lavoratori tenderanno a voler incorporare le loro aspettative di inflazione nei livelli delle retribuzioni nominali.
Ed è esattamente per questo che in circostanze simili sarebbe utile reintrodurre un meccanismo di indicizzazione!
Come dice Mario Nuti qui: "In times of rapid inflation, especially of accelerating inflation, wage indexation defuses inflationary expectations and allows the negotiation of a lower nominal wage than would have to be fixed if there was no protection from future inflation", ovvero: "quando l'inflazione cresce rapidamente, e in particolare quando accelera, l'indicizzazione disinnesca le attese di inflazione e consente di chiudere il contratto a un livello di salario inferiore a quello che si sarebbe dovuto concordare se non ci fosse stato un meccanismo di protezione dall'inflazione futura".
Chiarisco il punto con un esempio. Se al momento del rinnovo il salario è 100, e l'inflazione è in rapida crescita verso il 10%, il lavoratore idealmente cercherà di chiudere da qualche parte verso 130, per evitare di trovarsi fra tre anni col 30% del salario in meno in termini di potere d'acquisto, ma naturalmente il datore di lavoro cercherà di tenersi molto più basso, per evitare uno squilibrio immediato dei propri conti economici. Se però da qualche parte sta scritto che l'eventuale inflazione viene recuperata, allora si può tranquillamente chiudere da qualche parte fra 100 e 110 (ripeto: sono dati del tutto di fantasia), sapendo che poi, ex post, il salario si potrà tranquillamente adeguare, preservando il potere d'acquisto del lavoratore. I vantaggi per il datore di lavoro ci sono e sono di due ordini: si garantisce minore conflittualità, ed evita uno squilibrio dei conti economici. Il meccanismo di indicizzazione infatti recupera l'aumento dei prezzi solo quando si verifica. Ma se si è verificato un aumento dei prezzi, di norma e in media si sarà verificato anche un aumento dei ricavi, cioè il datore di lavoro avrà la liquidità con cui provvedere ad adeguare le retribuzioni.
Per questo motivo, ricorda sempre Nuti: "when wage indexation was first introduced in Italy in 1947, the President of Confindustria (the Confederation of Italian Industrialists) shipowner Angelo Costa actually greeted it as a major anti-inflationary measure", ovvero: "quando l'indicizzazione dei salari venne introdotta in Italia per la prima volta nel 1947, il presidente di Confindustria, l'armatore Angelo Costa, la salutò come una misura decisiva contro l'inflazione". Un dato che ci ricordano anche Cassani e Craveri qui:
Era, ovviamente, un'altra Confindustria...
Quindi l'indicizzazione è una panacea? Ovviamente no: ho aperto questo blog per dimostrarvi che in economia non ci sono free lunch, e questo vale anche per l'indicizzazione, che ha una controindicazione: ratificando lo shock inflattivo (traslandolo sui salari), contribuisce a renderlo persistente (perché consente ai lavoratori di continuare ad acquistare beni, sostenendo la domanda). L'adozione di un meccanismo di indicizzazione si aggiungerebbe quindi alle altre forze che oggi stanno rendendo persistente l'inflazione. Ma anche qui bisogna avere una visione equilibrata. Certo, il rischio di una spirale "prezzi-salari" esiste, ma questo meccanismo viene spezzato dalla logica dei rinnovi contrattuali. Sempre seguendo Nuti: "nominal wages are not fixed forever but are normally re-negotiated periodically. Inflation-proofing through indexation, if triggered by a shock after negotiation, will exhaust its effects completely at the next wage settlement. The new nominal wage will be determined by the relative negotiating strength of employees and employers and other fundamentals prevailing at that later time, regardless of how much the nominal wage might have risen in the intervening period thanks to wage indexation", cioè: "i salari nominali non sono fissati per sempre ma normalmente vengono rinegoziati periodicamente. Il meccanismo di difesa del potere d'acquisto tramite l'indicizzazione, se attivato da uno shock inflattivo successivo al rinnovo del contratto, esaurirà completamente i suoi effetti al prossimo rinnovo. Il nuovo salario nominale sarà determinato dal potere negoziale di datori di lavoro e dipendenti e da altri fondamentali prevalenti in quel momento, indipendentemente da quanto i salari nominali siano cresciuti nel frattempo grazie all'indicizzazione".
Aggiungerei un'altra osservazione: quello che negli anni '80 poteva sembrare un problema (la persistenza dell'inflazione), oggi sarebbe un'opportunità. Il mancato rispetto da parte della Bce dell'obiettivo di crescita dei prezzi al 2% è stato, per il nostro Paese, come per altri Paesi debitori, una pesante zavorra sul rapporto debito/Pil. Con un banalissimo calcolo si può verificare che se la Bce avesse mantenuto la sua promessa fin dal 1999, assicurando un'inflazione media del 2%, invece dell'1,7% realizzato, oggi il rapporto debito/Pil sarebbe inferiore di 10 punti percentuali. Questo con solo lo 0,3% in più di inflazione. Non è una bufala né una verità scandalosa: è un mero dato di fatto, tant'è che anche il direttore del debito pubblico, Davide Iacovoni, lo ammette al minuto 10:50 di questo podcast (suggerirei di tenerlo da parte).
E allora?
E allora mentre da una parte dobbiamo ammettere che la Bce, col perenne fallimento delle sue promesse e delle sue previsioni (qui):
ha di fatto messo a rischio la stabilità finanziaria dell'Eurozona generando un contesto deflattivo assolutamente avverso ai debitori (e quindi anche ai creditori) pubblici e soprattutto privati, d'altra parte quello che sappiamo dei grandi processi storici di rientro dal debito ci suggerisce che l'unica soluzione non traumatica a disposizione è quella di favorire un contesto di crescita stabile e moderatamente inflazionistica: è quello che abbiamo imparato leggendo questo working paper, suggeritomi da uno di voi al tempo in cui questa era una community (qui):
Insomma: per assicurare stabilità finanziaria e sociale non abbiamo bisogno di più Europa (e della sua austerità suicida), ma di più inflazione: un'inflazione stabile, che sia favorevole a una gestione ordinata dell'economia e a un rientro graduale del debito, come quello che si verificò dopo la Seconda guerra mondiale:
L'indicizzazione dei salari servirebbe anche a questo: a rendere il processo inflattivo ordinato, evitando strappi e favorendo un rientro ordinato anche dagli squilibri finanziari causati dalla terza globalizzazione. Ve lo dico in un altro modo: senza un'inflazione moderata, attorno al 4%, e quindi una crescita nominale attorno al 5%-6%, rientrare dalla montagna di debito che ci sta franando sotto sarà impossibile. Le altre possibilità sapete quali sono (se avete letto il working paper): iperinflazione o default. Nessuna delle due mi sembra particolarmente attraente. Quindi l’indicizzazione non solo ci dà stabilità finanziaria attraverso un processo inflazionistico meno volatile che facilita il rientro dal debito, ma ci dà anche stabilità macroeconomica assicurando un mercato interno alle nostre PMI. Se vogliamo il reshoring, questo è un pezzo del pacchetto. O pensiamo che gli operai possano comprare beni italiani con gli stessi stipendi con cui a malapena resistevano comprando paccottiglia cinese!?
Come gestiremo l'inflazione strutturale
Ecco, questo è un altro discorso. Per capire come andrà a finire (male) basta leggere i giornali, o seguire certe dinamiche su Twitter. Non appena abbiamo cominciato a toccare questo tema, i vecchi utili idioti, e i loro nuovi volenterosi assistenti (i punturini, quelli che Claudio chiama "stronzi" e io "gentaglia") si sono scatenati. Il nervo scoperto è lì: l'idea di evitare una crisi trovando un punto di equilibrio meno irrazionale fra capitale e lavoro ovviamente infastidisce chi è consapevole che, con un po' di armi di distrazione di massa, potrà far pagare a lavoratori e PMI il costo della prossima crisi!
Si andrà così di luogo comune in luogo comune, cercando l'incidente che consenta ai nostri cari alleati di metterci definitivamente sotto tutela. Quindi, in primo luogo per controllare un'inflazione da offerta si reprimerà la domanda alzando i tassi di interesse. In questo modo si paleserà che il reshoring interessa solo a chiacchiere: ai guardiani di certi equilibri in realtà la globalizzazione va ancora benissimo così com'è, visto che il conto è per voi... Se si volessero veramente riordinare le catene del valore, accorciandole per motivi di sicurezza strategica, occorrerebbe un contesto creditizio espansivo (bassi tassi) non restrittivo (alti tassi), per il semplice motivo che questa operazione richiede una mole massiccia di investimenti. L'innalzamento dei tassi sarà quindi non solo il segno dell'attacco al nostro Paese (incidentalmente), ma soprattutto il segno che mentre ci viene proposta un'immagine del mondo fatta di due blocchi contrapposti, l'imperatore del Bene non ne vuole sapere mezza di smettere di fare affari con quello del Male! Non è una grande novità, ed è sotto i nostri occhi, ma non è inutile ricordarlo.
Naturalmente ricominceranno i discorsi economicamente infondati, riappariranno i pagliacci dell'economia (e i meno brillanti di voi saranno contenti, perché i pagliacci della virologia scompariranno), questa volta sotto forma di spirale prezzi-salari, anziché di spirale svalutazione-inflazione. Nonostante il grande uso di spirali, la madre dei coglioni è sempre incinta, ma anche qui non c'è nulla di nuovo. Se il 2021 è stato un altro 2011 (con molti personaggi in comune), è ovvio che il 2022 sia un nuovo 2012 (e lo si vede dai troll che stanno riapparendo), e così via. Piccolo problema: qui abbiamo sempre giocato in un altro campionato, e ora siamo attrezzati per imbastire un minimo di difesa. Molto dipenderà anche da voi, ma di questo parleremo quando sarà il momento.
Intanto, benvenuti nel prossimo dibattito...