sabato 4 ottobre 2025

55 anni di salari italiani trimestrali

Dal mio letto di dolore proseguo l'operazione di spietramento delle mie calzature.

Oggi torno su un tema che qui abbiamo affrontato più volte, e che quindi voi, ma solo voi, in Italia conoscete bene: quello della dinamica salariale nel nostro Paese. La motivazione principale per tornare su questo argomento risiede nella lista di oscene stupidaggini che trovate in commento a questo mio post su Facebook. Non mi riferisco, sia ben chiaro, alle espressioni di dissenso rispetto alla mia valutazione politica, che dovrebbe esservi anch'essa ben familiare, e che in estrema sintesi potrebbe essere riassunta così: staremmo meglio se i sindacati facessero, e soprattutto avessero fatto, i sindacati (difendendo i salari), invece di fare i partiti politici (difendendo l'Unione Europea). Naturalmente per chi, come voi, capisce che questi due obiettivi (salari e Unione Europea) sono incompatibili (per i motivi ultimamente espressi anche da Draghi, cioè perché l'Unione Europea costringe a farsi concorrenza sui salari), questa mia affermazione è banale e scontata.

Si potrebbe portarla a un livello più sofisticato di approfondimento ragionando sul fatto che con la delegittimazione e lo smantellamento dei partiti politici, corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 49), nei fatti i sindacati sono rimasti l'unico altro corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 39) a mantenere una struttura organizzata e finanziata. Si può quindi sostenere che il fatto che ormai esercitino una funzione di supplenza rispetto ai partiti nel "determinare la politica nazionale" (art. 49) in senso complessivo, invece di concentrarsi sulla gestione del conflitto distributivo, è anche l'esito di dinamiche tanto perverse quanto oggettive, è anche il riempimento di un vuoto lasciato dall'antipolitica, oltre a essere certamente l'espressione delle velleità parlamentari di personaggi dello spessore di Landini (non questo, che di spessore ne aveva, ma questo...). Fatto sta che l'oblio dei diritti dei lavoratori è nelle cose, lo abbiamo visto (e fra breve lo rivedremo) nel tracciato dei salari, ed è sulle motivazioni di questa negligenza, non su quelle del concomitante impegno in politica, che ci si dovrebbe porre una domanda.

Questa però è materia politica e quindi aperta alla discussione: non ce l'ho con le povere pecore che per un motivo o per l'altro non capiscono che è stato il pastore a portarle al macello, non ce l'ho con chi ritiene di doversi occupare di battaglie altrui avendo rinunciato a combattere le proprie, o per giustificarsi del non averle combattute: va tutto bene! Quello che è veramente desolante è la disinvoltura (e la protervia) con cui chiunque si avventura in materia economica non avendo la benché minima idea di quali siano i concetti chiave, le unità di misura, le definizioni delle variabili, per non parlare della loro dinamica e delle interazioni fra esse previste dalla teoria economica, o semplicemente conseguenti dalla loro definizione! Mi sembra evidente che su queste basi una soluzione realmente democratica dei conflitti è preclusa (altro tema che qui ci è dolorosamente familiare). Di fatto, da molti commenti capirete che pochi sanno che cosa si intende per salario reale, e quindi che cosa ci racconti la sua dinamica: c'è chi chiede di depurarlo dall'inflazione (!), c'è chi sostiene che se il potere d'acquisto è rimasto costante dagli anni '80 non dobbiamo lamentarci (!), e via andare...

Lo scopo di questo post è duplice.

Da un lato voglio riprendere la "Breve ma veridica storia dei salari italiani" (che quindi vi consiglio di rileggere), per due motivi:

  • perché da quando l'abbiamo scritta, a maggio 2025, si sono aggiunti due punti dati (corrispondenti ai primi due trimestri del 2025), e voglio vedere se nel primo semestre di quest'anno si è mantenuto il trend di recupero del potere d'acquisto che avevano evidenziato, e se abbiamo recuperato i valori pre-pandemia;
  • perché voglio estenderla all'indietro, fino al 1970, utilizzando i vecchi dati di contabilità nazionale trimestrale (io non butto mai nulla), in modo da vedere se questi dati trimestrali di fonte ISTAT restituiscono lo stesso profilo visto in "La crisi dei salari e la produttività" (che quindi vi consiglio di rileggere), cioè una crescita lungo tutti gli anni '70 che si arresta all'inizio degli anni '80 su livelli sostanzialmente prossimi a quelli attuali.

Dall'altro, siccome sappiamo che la flessione dei salari (e quello che c'è a monte, cioè l'aumento della disoccupazione, e ancora a monte il taglio degli investimenti pubblici, cioè l'austerità) serve a recuperare competitività, cioè a migliorare la propria bilancia dei pagamenti e la propria posizione finanziaria netta sull'estero, voglio aggiornare l'analisi fatta in "La ricchezza esterna delle nazioni" (quando l'abbiamo scritto c'era ancora Draghi!), per vedere se il recupero dei salari si è già riflesso in una perdita di competitività e ha già cominciato a compromettere la nostra posizione debitoria netta nei confronti del resto del mondo.

Procederò quindi estendendo separatamente i due grafici e evidenziandone le principali caratteristiche. Per snellezza di trattazione, la metodologia (che trovate comunque nei post citati qua sopra) sarà descritta in appendice.

Breve ma veridica storia del salari italiani: aggiornamento

Il grafico aggiornato al secondo trimestre 2025 e esteso fino al primo trimestre 1970 è questo:


(dettagli tecnici in appendice). Elenco le caratteristiche più apparenti:

  1. la crescita dei salari reali sta proseguendo, dopo una pausa nel primo trimestre del 2025, il livello raggiunto nel secondo trimestre 2025 è 6822 euro a trimestre ai prezzi 2020 (rispetto ai 6791 dell'ultimo trimestre 2024), ma siamo ancora dell'1,5% al disotto del livello pre-pandemia (quello dell'ultimo trimestre 2019, pari a 6928. Quindi bene, ma naturalmente non benissimo (ci mancherebbe altro!), e il rallentamento dell'economia mondiale non aiuterà (ricordate? Per distribuire valore bisogna produrlo);
  2. il profilo dei dati trimestrali sui 55 anni considerati è quello che emerge dai dati annuali: crescita vigorosa fino all'inizio degli anni '80, poi un primo arresto, poi di nuovo crescita fino al 1992, poi una flessione, poi una stasi fino alla crisi finanziaria globale, poi una flessione, poi una stasi fino alla pandemia, poi un'altra flessione, e poi la ripresa di cui parlavamo. Diciamo però che il fasheesmo, cioè Giorgia, a occhio e croce con la stasi dei salari c'entra poco. Quando questa è iniziata, lei aveva quattro anni, e per quanto possa essere stata pestifera non credo che riuscisse a perturbare le variabili macroeconomiche.

Il massimo storico, pari a 7347, resta nell'ultimo trimestre del 2005.

Più avanti entriamo nel merito di tutte queste caratteristiche, mettendole in relazione con i cambiamenti strutturali dell'economia italiana, con i governi in carica, ecc.

La ricchezza esterna delle nazioni

Estendendo al 2024 il grafico (che qui si fermava al 2020) otteniamo:

In questo caso le cose vanno decisamente meglio. Nonostante la ripresa dei salari, nel 2023 e 2024 prosegue il deprezzamento reale (cioè l'aumento della competitività) del nostro Paese e conseguentemente migliora la sua posizione netta sull'estero, che è diventata creditoria (positiva) nel 2021 e che nel 2024 ha raggiunto il massimo da quando siamo entrati nell'euro (ma in effetti è il massimo storico, almeno dal 1970, come potreste verificare al solito posto). L'andamento a specchio delle due variabili, previsto dalla teoria economica, è assolutamente confermato dai dati. Si vede anzi che quando nel 2022 il deprezzamento reale si arresta per un anno, la posizione netta sull'estero peggiora lievemente.

Nota bene: siccome una diminuzione della disoccupazione, o un aumento dell'occupazione, fa aumentare i salari, quindi i prezzi, e quindi fa apprezzare il tasso di cambio reale (che è il rapporto fra i prezzi nazionali e esteri), e quindi diminuire la competitività, e quindi peggiorare la bilancia dei pagamenti, e quindi aumentare l'indebitamento estero (o diminuire l'accreditamento estero), non è per niente banale avere simultaneamente il massimo storico dell'occupazione e della posizione  (creditoria) netta sull'estero.

Non lo dico per fare i complimenti alla mia maggioranza, che secondo me nemmeno se ne rende conto (sentite mai qualcuno parlare del vero debito, quello estero?). Lo dico perché siamo qui per parlare di economia, e questa configurazione dei fondamentali macroeconomici è piuttosto inedita e merita di essere evidenziata.

Qualche commento

Partirei dai più ovvi.

Intanto, i salari reali sono i salari nominali depurati per l'effetto dei prezzi. A benefici dei piddini che mi commentano su FB, ricordo che "reale" in economia non è il contrario di "immaginario", ma di "nominale o a prezzi correnti". Il salario reale cioè misura il potere d'acquisto, la "quantità di cose" (res) che puoi comprare col tuo salario. 

Quindi:

  1. non ha senso chiedere di depurare dall'inflazione il salario reale, perché per definizione già ne tiene conto;
  2. non ha nemmeno senso dire che se rimane costante va tutto bene.

Il secondo punto merita un approfondimento.

No, non è corretto dire che se il potere d'acquisto dei salari resta costante allora siamo a posto, per il semplice motivo che per il lavoratore non è un gran vantaggio poter comprare la stessa quantità di cose in un mondo in cui ci sono più cose da comprare! In altri termini, non è detto che quando non crescono i salari reali (la parte di prodotto che va ai lavoratori) non cresca l'economia (e quindi il prodotto totale)!

Se calcoliamo il rapporto fra il monte salari e il prodotto interno lordo otteniamo un rozzo indicatore della quota salari (variabile di cui ci siamo occupati in diverse occasioni):


e constatiamo un altro dei "fatti stilizzati" che i lettori di questo blog conoscono bene, ma l'average Joe piddino non vorrà mai ammettere: al tempo dell'inflazione a due cifre negli anni '70 della liretta e della svalutazione (secondo l'immaginario distorto dei piddini), la quota salari si è mantenuta o è andata crescendo, mentre lungo tutti gli anni '80 e fino alla metà degli anni '90 la quota salari è andata diminuendo, questo perché a partire dagli anni '80, mentre la produttività continuava ad aumentare, la remunerazione reale del lavoro restava costante. Quello che vedete nel grafico soprastante, in altre parole, è la conseguenza di quanto vedete in questo grafico:


che forse ricorderete (ve lo avevo mostrato un anno addietro parlando de "La crisi dei salari e la produttività"). In estremissima sintesi, mentre la corsa dei salari reali si è arrestata con il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia (all'inizio degli anni '80), cioè con le politiche di disinflazione, quella della produttività si è arrestata con l'ingresso nell'euro, cioè con le politiche di deflazione, il che comporta che dall'inizio degli anni '80 alla metà degli anni '90 la quota salari sia diminuita, cioè il tenore di vita delle classi salariate non sia rimasto costante, ma sia arretrato in termini distributivi (la relazione fra produttività, salario reale e quota salari voi la conoscete perché ho dovuto spiegarla a un collega che non la conosceva), in concomitanza del resto con l'aumento della disuguaglianza.

Questo dibattito non è meramente teorico, è anzi dannatamente pratico! Quello che ci dice infatti è che se in termini di salario medio in termini reali oggi siamo tornati ai livelli del 2013, che poi erano quelli del 1988, in termini di quota salari siamo tornati ai livelli del 2010, che poi erano quelli del 1970! Questo spiega come nonostante una dinamica dei salari in crescita i lavoratori non percepiscano un effettivo beneficio, e naturalmente fa capire ancora meglio quanto sia lontana la radice del problema.

Ovviamente non mi fiderei troppo di questi calcoli fatti "sulla carta del prosciutto". Se però prendiamo la variabile "adjusted wage share" calcolata dal database AMECO, con riferimento a variabili diverse (AMECO rapporta i redditi da lavoro dipendenti nominali al Pil nominale e aggiusta ulteriormente per il rapporto fra occupati dipendenti e totale degli occupati) otteniamo una dinamica sostanzialmente simile:


con un declino lungo tutti gli anni '80 e '90 che sarà piuttosto difficile recuperare, in un mondo in cui il capitale ha decisamente più del solito il coltello dalla parte del manico.

In ogni caso, credo sia sufficientemente ovvio che né la mitologica "inflazzione a due cifre" né la temibilissima "svalutazzione" hanno un rapporto immediato e diretto con la dinamica della quota salari, o semplicemente dei salari reali. I salari reali, come qui vi ho fatto vedere fin dall'inizio, sono andati crescendo (e la quota salari è cresciuta o si è mantenuta comunque stabile) nel periodo dell'esecranda "inflazzione a due cifre", come mi pregio di farvi nuovamente vedere su dati trimestrali:


ma anche:


talché pare proprio che contrariamente a quanto credono i piddini, nel lungo termine l'inflazione sia piuttosto amica che nemica dei lavoratori, e sui motivi ci siamo dilungati (ma se qualcuno ha dubbi, sono qui per rispondere). Aggiungo che i salari reali sono diminuiti con l'austerità fra 2011 e 2014, ma non con la svalutazione competitiva dell'euro fra 2015 e 2020! Insomma, il meraviglioso mondo di Drindrin resta una fola per bimbi sciorni (ma rigorosamente col pieiccdì).

Conclusioni

In Italia la crisi salariale va avanti da decenni: la colpa non è del fasheesmo (nel senso di Giorgia), ma, come sappiamo, di un esito del conflitto distributivo per tanti motivi sfavorevole ai lavoratori, per via del quadro complessivo della terza globalizzazione, e, nel nostro contesto regionale, della necessità di competere al ribasso sui salari cui prima dell'euro costringeva anche il Sistema Monetario Europeo. Va da sé che poter trasferire sul mercato valutario una parte dell'aggiustamento macroeconomico aiuterebbe, ma, come del resto dimostrano anche i grafici che abbiamo visto (o rivisto) non è detto che sarebbe risolutivo. La discesa della quota salari, o, se volete, la stasi del salari reali, è iniziata infatti quasi venti anni prima della moneta unica, e se da un lato è vero che il vincolo esterno monetario era già in opera (attraverso il meccanismo di cambi fissi ma aggiustabili dello SME), è pur vero che all'epoca una parte dell'aggiustamento poteva ancora essere scaricata sui cambi (come accadde nel 1992). Nell'unione monetaria il sentiero che la politica economica può percorrere è particolarmente stretto, come ricordava il buon Pier Carlo. Credo converrete con me che lui questo sentiero lo ha percorso con minori risultati del Governo attuale, sia in termini di dinamica salariale, che in termini di assetto dei conti con l'estero. Avere al tempo stesso il massimo storico dell'occupazione e della posizione netta sull'estero non è senz'altro merito di questo governo: probabilmente è molto più merito del fiscal overkill messo su dal PD e dalla troika. Fatto sta che le accuse fatte a questo governo di aver causato la crisi salariale "perché non ha approvato il salario minimo" sono piuttosto ridicole, ne converrete. Non è questo che dicono i numeri.

Qualcuno potrebbe obiettare: "Certo, ma i numeri dicono anche che si potrebbe fare di più! In fondo abbiamo recuperato un buon margine di competitività, potremmo anche spingere di più sul meccanismo deficit-investimenti pubblici-crescita-occupazione-aumento dei salari, senza compromettere troppo i nostri conti con l'estero!" Questo argomento ha una sua tenuta logica ed è esattamente quello che farei anch'io da professore. C'è però un pezzo di complessità del reale che temo sfugga anche a voi. Nei modelli econometrici la spesa pubblica è una variabile, G, che si può far aumentare o diminuire con un clic. Nella realtà, ci sono di mezzo non solo la Ragioneria Generale dello Stato e le regole europee, ma anche il codice degli appalti, la Corte dei Conti, i bandi europei, gli uffici dei ministeri, delle regioni, delle province e dei comuni, dove il personale non c'è, o è troppo anziano, o non è abbastanza formato (perché c'è stato il blocco del turn over, ricordate?), o è troppo scojonato, perché solo l'anno scorso sono stati allocati dieci miliardi per un primo rinnovo dei contratti. Vi ricordate quando pareva crollasse il mondo perché avevamo proposto un deficit al 2,4%? Vi ricordate poi come andò a finire? Che si spese l'1,6%. Come mai? Perché la macchina amministrativa di cui disponiamo, logorata da anni di austerità a trazione PD, non è in grado di assorbire il carico di lavoro necessario per seguire la mole di spesa che astrattamente sarebbe necessaria per rimettere in piedi la baracca. Avrebbe senso far ripartire la solfa dello spread, attirare su di noi invece su chi se la merita (Francia e Germagna) l'attenzione dei mercati, per fare promesse di stimolo di bilancio che poi non saremmo in grado di mantenere? Varrebbe la pena di sostenere in anticipo il costo dell'incertezza sui mercati, senza poter incassare a valle il beneficio dello stimolo di bilancio, solo per far contento er sor Perepè, il compagno Rizzovich, e Foffoletta647827 su Twitter?

Può darsi che secondo voi questo sia essere keynesiano. Non credo che funzioni così, ma ove mai fosse, devo dirvi che preferisco, per me e per voi, essere giorgettiano, o semplicemente napoleonico: "Non bisogna mai interrompere un nemico mentre sta facendo un errore!". Ripeto: perché dovremmo schiantarci sui mercati noi, ora che stanno shortando gli OAT?

"Ma er popolo soffrono, laggente ci hanno fame!"

Beh, sì, questo credo di saperlo, ma è pur vero che siamo in democrazia, e quindi se ci troviamo su un sentiero stretto questo in qualche modo è avvenuto per scelta del popolo sovrano, cui a questo punto, nel suo interesse, dobbiamo sconsigliare di buttarsi di sotto (per questo basterebbe un PD qualsiasi, che ovviamente correrebbe in soccorso degli angioini)! Sapete benissimo che cosa penso di questo percorso: non l'ho scelto, lo trovo irrazionale, ve ne ho spiegato i limiti in lungo e in largo. Ma finché i commenti al grafico dei salari reali sono quelli che ho suscitato su Facebook, vi assicuro che non avremo (e infatti non abbiamo) la forza politica di fare una cosa che in questo momento tra l'altro è inutile: forzare delle regole che... stanno logorando i nostri nemici!

Quindi alle lamentationes de "er popolo" (che ha quello che desiderava) si provvederà, come è giusto, ma mantenendo un quadro ordinato e mantenendo margine di competitività. Ognuno di noi, istintivamente, tende a ragionare in modalità BAU (business as usual). Eppure dovreste sapere, perché è un po' che ne parliamo, che sono dietro l'angolo una guerra e una crisi finanziaria (whatever comes first).

Non è il momento migliore per farsi notare.

E se Foffoletta647827 ci toglierà il follow, ce ne faremo una ragione: non sapendo chi è, ignoriamo l'entità del lutto che dovremmo elaborare, ma possiamo precauzionalmente stimarla a zero e tirare dritto.

Dichiaro aperta la discussione generale (già immagino gli iscritti a parlare...).

Appendice

Per estendere fino al 1970 le serie di contabilità nazionale ho usato una vecchia versione della contabilità trimestrale dal 1970q1 al 1996q3 che avevo usato per un aggiornamento di questo modello. Naturalmente le serie erano in miliardi di lire anziché in milioni di euro. Inoltre la base dei prezzi era in quel caso il 1990 anziché il 2020. Ne consegue che rifacendo i calcoli separatamente sui due database veniva fuori una roba simile:


con una evidente soluzione di continuità, determinata dai due fattori sopra ricordati (diversa valuta, diversa base dei prezzi) e da una serie di revisioni minori, ad esempio nei criteri di revisione degli occupati. Per ottenere una serie relativamente uniforme ho convertito tutto in euro usando il noto cambio irrevocabile (666 lire per euro) e ho retropolato indice dei prezzi e occupati dipendenti utilizzando i tassi di crescita delle vecchie serie, applicati al primo valore delle nuove. Naturalmente all'ISTAT storcerebbero il naso, ma qualora desiderassero applicarsi loro al compito di ricostruire le serie di CN trimestrale fino al 1970 non credo che con metodi molto più sofisticati otterrebbero risultati particolarmente diversi, tanto più che qui quella che ci interessa è l'informazione "a frequenza zero", su cui le revisioni di cui vi parlavo non impattano (come non impatta la conversione in euro, che è semplicemente una moltiplicazione per una costante).

Quanto alla ricchezza esterna delle nazioni, i tassi di cambio reale vengono da qui e la posizione netta sull'estero viene da qui. Come ricorderete dal post del 2022, l'indicatore di competitività è dichiaratamente discutibile: si tratta del tasso di cambio bilaterale fra Italia e Germania, che quindi misura la competitività rispetto a un particolare partner commerciale, mentre la posizione netta è riferita all'intero resto del mondo. Fatto sta che per le caratteristiche strutturali della Germania e per il peso che ha nel nostro commercio questo indicatore è molto esplicativo delle vicende del nostro indebitamento estero, con un coefficiente di correlazione attorno a -63%.

Astensione e risultato elettorale

Chiedo scusa! Metto qui a verbale del Dibattito un'osservazione che ho visto fare a pochissimi: me stesso

il prof. Magnani:


e un'altra persona di valore che sicuramente non vuole essere nominata (nel senso: non qui! Magari in un cda sì, e ne avrebbe tutti i presupposti, ma non nel blog...).

Tengo la formulazione di Carlo: fino a qualche anno (ma forse mese) fa, con un'astensione pari a metà degli aventi diritto in una regione tradizionalmente rouge la sinistra avrebbe vinto con 20 punti di distacco (60 a 40). Il fatto che abbia perso con 8 punti (44 a 52) è una assoluta novità, soprattutto se consideriamo l'azione di disturbo dei partituncoli, alcuni dei quali, per quanto di ideologia "comunista", nei fatti assolvono al compito di sottrarre voti a noi (mi riferisco a Rizzo & Co.).

Pare quindi che a scoraggiarsi, o magari addirittura a votare a destra, siano stati gli elettori di sinistra.

Sarà una tendenza locale o nazionale?

Lo scopriremo presto, osservando le prossime due regioni "progressiste": Toscana e Puglia. Sarà interessante poi tirare le fila del discorso, cosa per la quale mi affiderò a Claudio, l'unico analista elettorale di cui mi fidi ex post, avendo avuto plurimi benefici dal fidarmene ex ante! Se dovesse emergere qualcosa di simile a una effettiva presa di coscienza da parte degli italiani dei danni catastrofici che il PD ha inflitto al Paese ne sarei sorpreso (mi rammarica dirlo), ma naturalmente molto lieto. In realtà credo che una consapevolezza a questo livello non ci sia, non ci possa essere (lo vediamo nel prossimo post), e quindi o il fenomeno che si è manifestato nelle Marche è destinato a restare estemporaneo, o, se si consolida, ci sarà da interrogarsi sulle sue ragioni. Probabilmente, il fatto che il "progressismo" si manifesti come l'occuparsi delle sorti di qualsiasi popolo tranne che del proprio potrebbe aver giocato un ruolo, per quanto la presa emotiva di questo messaggio possa essere forte sugli sprovveduti o su coloro cui non incombe il compito di portare la pagnotta a casa (i cosiddetti "ggiovani"). Chiamiamola eterogenesi dei fini! Ci piacerebbe che il voto fosse guidato da un apprezzamento corretto da parte degli elettori delle effettive dinamiche di classe, ma possiamo tranquillamente accontentarci del fatto che esso sia guidato da una ripulsa istintiva, sempre da parte degli elettori, delle dinamiche di classe fasulle che vengono proposte loro dai "progressisti", purché il risultato sia quello che deve essere!

E intanto l'abbiamo messa a verbale, a beneficio delle vostre osservazioni, e di quelle altrui che eventualmente vorrete riportarmi.

venerdì 3 ottobre 2025

I migranti climatici

(...ma putemm vince la guerr nu?...)


Ulisse ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Esiste un diritto umano a immigrare?":


Caro Professore,

ho ascoltato in differita le dirette di ieri.

È sempre un privilegio ascoltarla e leggerla.

È riuscito anche a citare il Marco Papa di 300 e mezzo. Meravigliosa citazione in dialetto pescarese. Mi sono commosso.

Ciò detto.

Mio papà, che alla veneranda età di 86 anni va ancora in azienda la mattina alle 6 (lui si che si meriterebbe l'onorificienza di cavaliere del lavoro), mi raccontava, quando ero bambino, dei suoi 11 anni in Svizzera, a Berna. Avevano 3 mesi per cercare lavoro e se non lo trovavano li rimettevano sul treno senza troppe cerimonie. La manodopera italiana era ricercatissima e pagata dignitosamente (inoltre il cambio marco/lira permetteva di costruire in Italia, nel caso specifico in Abruzzo, le basi per una vita più che dignitosa. Il mio paese è stato costruito con le rimesse degli immigrati). Ma non esisteva che venisse commesso un reato da un immigrato o che qualcuno fosse privo di titolo di soggiorno.

Quei racconti mi danno la misura di quanto siano stupidi i paladini dell'accoglienza nostrani. Non sanno di cosa parlano quando parlano di immigrazione e di emigrazione.

Il nostro paese ha un apparato sanzionatorio che, nei fatti, è molto blando. Gli stranieri, soprattutto quelli che delinquono, lo sanno e ne approfittano. E il paese di ritrova in una situazione sempre peggiore. Dove regna il caos.

Diritto di immigrare? Gli stupidi paladini dell'accoglienza non capiscono il concetto di coesione culturale di un popolo e quindi non capiscono il concetto di invasione e disintegrazione socio-culturale. È questo ciò a cui stiamo andando incontro.

Ma soprattutto, quando affermano il diritto di immigrare, dicono implicitamente che gli stranieri, nei loro paesi, non possono avere una vita dignitosa. E non capiscono che questa è una forma di razzismo molto sottile.

Io, che gli stranieri me li faccio amici, posso assicurare che ce ne sono molti che sono tanto meritevoli. Ma quelli meritevoli, spesso, e quando non c'è guerra o dittatura nel loro paese (gli afghani di etnia azara si guardano bene dal tornare in Afghanistan) non vedono l'ora di tornare a casa loro. Come mio padre.

Possibile che non riusciamo a trovare il modo di selezionare gli immigrati meritevoli?

Pubblicato da Ulisse su Goofynomics il giorno 30 set 2025, 23:22


(...dopo essere sceso infinite volte di corsa dai miei monti - Porrara, Secine, Pizzalto, ecc. - dopo essere sopravvissuto perfino alla Rava del Ferro - dove però ho corso poco! - martedì scorso, poco prima di questa diretta, ho fatto un inglorioso tonfo correndo a Villa Glori. Attila Gualtieri, aka l'incompetente, che sta buttando giù alberi peggio dell'uragano Vaia (anche a Villa Glori), ha lasciato lungo il vialetto della villa una insidiosa radice su cui il mio lubrico piè si è impuntato, condannandomi a una caduta rovinosa. Ho smorzato l'impatto abbozzando una capriola, ma nel girarmi di fianco per distribuire il peso mi devo essere contuso il torace. Lì per lì non ho sentito nulla, mi sono rialzato con una certa elasticità, ho proseguito la corsa, poi ho condiviso con voi qualche considerazione, ma dopo, arrivato in ditta, ho cominciato a sentire un certo dolore al costato. Dopo una notte difficile, mercoledì mi sono fatto vedere: nonostante le malelingue, sono bello dentro! Le costole ci sono tutte, candide e intatte, ma la contusione mi fa un male cane e quindi oggi, invece di assistere a due convegni cui ero particolarmente contento di prendere parte, per poi salire a pestare la prima neve sulla Majella - ma è meteo, amici, non clima! - me ne sto a letto a risolvere nell'immobilità e con l'immobilità una serie di arretrati. Immaginerete quanto mordo il freno, ipercinetico come sono. Ho deciso di sfogare la frustrazione per questa mia forzata inerzia togliendomi alcune benne di sassolini dalle scarpe, e cominciamo da una delle più colossali stronzate lievi imprecisioni che ci vengono propinate da iBuoni(TM): quella dei migranti "climatici"...)


Trovo l'osservazione di Ulisse particolarmente corretta e pregnante: uno dei due argomenti utilizzati per presentare l'immigrazione come un dato di natura, come un fenomeno ineluttabile e prepolitico, a una più attenta considerazione si rivela essere una sottile manifestazione di razzismo e una inconsapevole ammissione della propria incapacità di comprendere, o scarsa volontà di risolvere, il problema. Perché mai infatti gli abitanti di una delle parti più ricche di risorse del globo sarebbero in qualche modo costretti ad abbandonarla per incapacità di trarne sostentamento, tanto più ora che le nostre dissennate politiche, quelle che ci condannano a morire di fame oggi per non morire di caldo domani, hanno fatto lievitare oltre ogni più sfrenata immaginazione il prezzo di materie prime la cui strategicità un tempo sarebbe stato difficile prevedere?


(...il prezzo del petrolio è il Crude Oil (petroleum), simple average of three spot prices; Dated Brent, West Texas Intermediate, and the Dubai Fateh, US$ per barrel, quello del rame è il Copper, grade A cathode, LME spot price, CIF European ports, US$ per metric tonne, entrambi espressi come indici a base 100 nel 1980, provenienti dal solito database. La Repubblica Democratica del Congo - non a caso un posto tranquillo! - è il secondo produttore mondiale di rame...)

Presumere che in mezzo a tanta bonanza gli autoctoni siano incapaci di provvedere al proprio dignitoso sostentamento significa affermarne implicitamente un qualche deficit intellettuale o culturale. Ma siamo sicuri che questa sia una linea di argomentazione fondata e accettabile?

Una volta la sinistra non dico che si proponesse di risolvere, ma almeno "metteva a tema il" (come dicono loro), cioè parlava del (come dicono le persone normali) problema del colonialismo, dello sfruttamento dei popoli africani, del loro diritto all'autodeterminazione, e di cosa fare per accompagnarli lungo un percorso virtuoso. Oggi il massimo di elaborazione che ci perviene da cotanti intellettuali è una sorta di riedizione for dummies del principio dei vasi comunicanti, quella secondo cui è ovvio che loro debbano venire qui, perché lì sono tanti e qui siamo pochi.

Ma perché la sinistra italiana è regredita verso argomentazioni così infantili e controvertibili?

(...a mero titolo di esempio: è certamente vero che in Africa sono tanti, ma hanno molto più spazio a disposizione di noi, tant'è che la densità della loro popolazione per km quadrato è la metà della nostra...)

Per chi segue il lavoro che stiamo facendo qui da anni la risposta è chiara: la sinistra italiana ha smesso di riflettere sull'autodeterminazione dei popoli africani quando ha deciso di rimuovere psicanaliticamente quella dei popoli europei, cioè quando si è venduta al progetto europeo, a quella mascheratura di una politica di deflazione e di recessione antioperaia, onde ottenere dalla sponda de leSocialdemocrazieeuropee(TM) un sostegno per governare in casa propria contro il volere dell'elettorato (ultimo episodio eloquente: i sorrisetti di Sarkozy; letteratura rilevante: i lavori di Kevin Featherstone). Qualcuno, negli anni '10 di questo secolo, si sarebbe potuto chiedere perché mai impietosirsi per il destino dei bantù e non per quello dei greci, e quindi, per non far venire strane idee all'elettorato piddino, si è preferito dimenticare i bantù! Si è insomma lasciato cadere con eleganza il tema nodale, che è quello di cosa si possa fare per accelerare il cammino dei popoli verso una effettiva indipendenza, per evitare che quel discorso potesse applicarsi anche al popolo che la sinistra italiana in cuor suo più disprezza: quello italiano.

Il fatto è che in Africa questa indipendenza passerebbe, ovviamente, da una cosa che nessuno vuole, e in cuor loro men che meno gli ideologi climatisti e a scendere tutti i volenterosi carnefici della filiera climatista: il riappropriarsi delle risorse africane da parte dei popoli africani. Perché sul climatismo c'è chi mangia a quattro palmenti, e una condizione necessaria, ma non sufficiente, per continuare a farlo è proseguire sulla strada dello sfruttamento coloniale dell'Africa, che oggi vede come protagonista indiscussa la Cina (ma con molto maggiore intelligenza di quella dimostrata dagli europei nel XIX secolo). Il piano Mattei, che colpevolmente non ho mai studiato e di cui non saprei effettivamente argomentarvi i contenuti (ma se interessa posso studiare), ha se non altro il pregio di comunicare qualcosa che una volta era una cosa di sinistra: aiutiamo i popoli africani a progredire a casa loro!

Perché, vedete, qui si intersecano vari livelli di sinistre contraddizioni, che vale la pena di enumerare.

1) Risorse o minus habens?

Una è quella evidenziata da Ulisse: dare per scontato che una popolazione che vive in un territorio così ricco sia ineluttabilmente condannata ad abbandonarlo, consegnando ad altri tanta ricchezza, significa presumere che questa popolazione sia fatta di minus habens: è quindi oggettivamente una forma di razzismo, nemmeno tanto implicito. Ma se l'incapacità dei popoli africani di vivere dignitosamente a casa loro fosse veramente dovuta a una qualche forma di deficit intellettuale o culturale (come affermano quelli secondo cui l'immigrazione è un ineluttabile dato prepolitico), allora crollerebbe la retorica de imigrantichecipaganolepensioni, atteso che difficilmente coi contributi di lavoratori a basse competenze, basso valore aggiunto e conseguentemente bassa remunerazione si potrebbe pensare di sostenere l'onere pensionistico di una popolazione relativamente più evoluta. O no? In altri termini, se non riescono ad essere "risorse" a casa loro, perché mai dovrebbero esserlo a casa nostra, dove qualcuno ce li indica come la panacea di tutti i nostri mali (trascurando come sempre l'aritmetica)? Ma anche, di converso: ammesso che possano essere risorse a casa nostra, perché non dovrebbero esserlo anche a casa loro, dove fino a prova contraria c'è più bisogno? Di questo vogliamo parlare? Su questo qualcuno ci informa?

2) Ogni immigrazione a casa nostra è un'emigrazione a casa altrui

Aggiungo che è ovviamente contraddittorio stracciarsi le vesti per la nostra pretesa incapacità o contrarietà ad assicurare un ipotetico diritto all'immigrazione altrui, e al contempo stracciarsi le sottovesti per l'effettivo problema causato dell'emigrazione dei nostri giovani. Quello che per noi è un problema, cioè la nostra esportazione di capitale umano, il fatto di investire somme ingenti nella formazione di giovani cui non diamo opportunità di lavoro (e quindi possibilità di contribuire alla prosperità collettiva) in patria, evidentemente lo sarà anche, e in misura tanto maggiore quanto più essi sono arretrati, per i Paesi africani, o no? Quelli che imigrantichecipaganolepensioni non se lo pongono il problema di chi pagherà le pensioni agli africani? E allora vogliamo porre la questione nei termini corretti, che non sono quelli di assicurare il diritto all'immigrazione, ma di assicurare il diritto di restare a casa propria, come solo Benedetto XVI ha fatto nel dibattito pubblico occidentale (a meno che io non mi sia perso qualche cosa)? Va da sé che in determinate circostanze, riconducibili alla protezione umanitaria, l'accoglienza resterà un dato non negoziabile (e chi lo nega?). Al contempo, l'accoglienza non può essere vista o addirittura imposta come unica valvola di sfogo di evidenti squilibri strutturali cui dobbiamo porre rimedio innanzitutto a casa nostra, per il duplice ottimo motivo che a casa nostra abbiamo maggiori possibilità di incidere che a casa altrui, e che se non risolviamo i nostri problemi, condannandoci a un lento declino, non potremo assicurare nemmeno la protezione umanitaria (che costa).

Resta sullo sfondo la stucchevole retorica colpevolizzante, elemento costitutivo di ogni pensiero magico, sciamanico, o religioso: dobbiamo accoglierli perché è colpa nostra se stanno male (ma non dobbiamo riflettere su come farli stare meglio)! Non stanno male per colpa mia, né credo per colpa di nessuno di voi, e non è abolendo una vera riflessione, razionale, non deamicisian-sentimentale, sui problemi di questi popoli che potremo tacitare le nostre coscienza. Oddio, il piddino a dire il vero è di facile contentatura: gli basta di potersi sentire buono, e per lui il problema è risolto. Per sentirsi buono, poi, gli basta chiedere agli altri di accogliere indiscriminatamente chiunque nei loro quartieri, come sappiamo. Ma proprio chi, a meri fini di autoflagellazione, riconosce l'eredità storica del colonialismo, dovrebbe esercitare maggiore solerzia nell'individuare le forme che lo sfruttamento prende nella contemporaneità (e l'ecologismo è una di queste), e nel proporre strade alternativa.

Invece l'unica riflessione e l'unica proposta è quella thatcheriana: there is no alternative, l'immigrazione non è oggetto di valutazione politica né può essere oggetto di gestione politica, se non "a valle", perché è un indiscutibile dato di natura.

Che cosa può andare storto di fronte a cotanta profondità di ragionamento e di proposta?

Gli argomenti di natura economico-demografica utilizzati per argomentare l'ineluttabilità dei flussi in entrata da noi sono quindi tutti riconducibili a una matrice razzista, perché non saprei come definire altrimenti (ha ragione Ulisse) una simile radicale sfiducia nella possibilità dei popoli africani di ridiventare padroni del proprio destino. Ma credo sfugga, o almeno non ho sentito mai nessuno rilevarlo, che anche gli argomenti di natura ambientale sono ugualmente razzisti.

Mi spiego: avrete sentito parlare pure voi di migranti climatici, no? L'argomento è una diversa declinazione del TINA (there is no alternative) immigrazionista: sopra ci siamo occupati del "devono venire qui perché sono più di noi", ora vorrei spendere due parole sul "devono venire qui perché da loro fa più caldo che da noi". Insomma: l'idea che l'alluvione umana, come quella idrica, dipenda dal clima, e quindi non possa essere gestita se non con la "transizione", cioè con lo sfruttamento coloniale delle risorse africane (che invece, come sto cercando di far capire, è più un pezzo del problema che della soluzione...).

Bene.

Questa dell'immigrazionismo "climatico" è una gigantesca puttanata, una cretinata che può essere affermata solo da persone totalmente digiune di geografia, tanto ignoranti quanto razziste. La premessa (duole doverla fare) è che il clima equatoriale è caratterizzato dall'assenza di stagioni e da temperature stabili su una fascia fra i 25 e i 30 gradi centigradi, quindi, certo, relativamente calde rispetto alle nostre temperature non estive. Ad esempio, in questo momento a Kinshasa ci sono 32 gradi, con un'umidità del 51%, quindi non particolarmente elevata (non tale da qualificare questa come una giornata umida), mentre a Roma abbiamo una giornata decisamente più fresca e secca, con 19 gradi e umidità al 34%. Noterete che siccome qui fa fresco, oggi nessuno ci sta dicendo che "devono immigrare da noi perché da loro fa caldo". Dato che il piddino è in grado di immedesimarsi coi problemi dell'altro solo quando questi sono i suoi problemi, nei Paesi a clima temperato questo tipo di analisi ha una sua stagionalità: si presenta di solito in estate! Fatto sta che è proprio in quelle circostanze che l'immigrazionismo climatico dimostra tutta la sua fallacia. In un'estate calda, infatti, la situazione a metà giornata di solito si configura così:


(ho preso a caso uno dei miei tanti screenshot: questo è del 19 luglio 2023). Non so se notate l'elegante paradosso: quando il piddino, flagellato dal solleone nostrano, viene a dirci che "dobbiamo accoglierli perché cercano rifugio dalla crisi (?) climaticaaah!11!", a Kinshasa fa più fresco che alla Valle del Sole di Pizzoferrato! Questa cosa non succede per caso (e infatti di screenshot simili rigurgita il mio telefonino), ma per due ben precisi elementi che solo chi è ignorante come una zappa può, appunto, ignorare (come li ignorerebbe una zappa)!

Il primo è che il continente africano è sì più esposto al Sole (avendo un'ampia fascia tropicale), ma capita che nostro Signore, nella sua imperscrutabile sapienza, lo abbia innalzato più dell'Europa rispetto al livello delle acque. Il secondo è che gli africani non sono scemi, e ovviamente potendo scegliere vanno a insediarsi in altura, dove fa più fresco. Se prendiamo le prime dieci capitali europee e le prime dieci capitali africane la situazione è questa (vi metto i conti che ho fatto sulla carta del prosciutto, così potete verificarli):


L'elevazione media dei principali insediamenti in Africa è dieci volte quella dei corrispondenti insediamenti europei (Pretoria è più alta di Gamberale, Addis Abeba è all'altezza della Forchetta di Maiella...), e siccome il gradiente termico verticale è di 0,65 gradi centigradi ogni cento metri, vedi bene che qui ci scappano 6,5 gradi centigradi di differenza a vantaggio proprio di quei Paesi da cui, nell'epos piddino, si scapperebbe "a causa del caldo".

Va da sé che a questa statistica non attribuisco un particolare valore dirimente, ma rimango estasiato dall'ignoranza di quelli che mentre amano atteggiarsi a profondi intellettuali, da un lato ignorano i lineamenti più elementari di quella scienza tanto bistrattata che è la geografia (dovrebbe essere noto che l'Africa subsahariana è un gigantesco altopiano, con quel che ne consegue) e dall'altro - in qualche modo prevedibilmente! - vedono nell'africano un "buon selvaggio" incapace di scegliere in modo razionale il luogo in cui insediarsi. Eppure, se il Sahara è un deserto, questo significa, per definizione, che non c'è nessuno! E ci sarà pure un cazzo di motivo se in un continente di oltre un miliardo e mezzo di persone il luogo più caldo è deserto, no? Sarà perché gli africani, non essendo scemi, nella misura del possibile preferiscono insediarsi altrove, giusto? Quindi l'idea che "poverini, dobbiamo accoglierli perché a casa loro fanno 50 gradi" (massima estiva nel deserto del Sahara) andrebbe un po' rivista, magari dando ogni tanto un'occhiata all'app del meteo sul cellulare (che essendo fatto anche di coltan dovrebbe ricordare alle anime belle l'esistenza dell'Africa equatoriale).

Ecco, scusatemi, questa cosa era un po' che volevo dirvela, e non so perché mi è venuto di farlo oggi. Aspetto le vostre valutazioni.