(...
machedavéro del giorno...)
Gentilissimo
professore,
non è stato un
po' cattivo ieri a Coffee Break con l'Accademia della Crusca? In fondo Lei nei
Suoi libri divulgativi ha adottato scelte linguistiche in linea con quanto
l'Accademia auspica, le stesse che a suo tempo fece Galileo, che nei suoi
scritti preferì usare termini italiani comuni invece del latino e del greco.
Le scrivo questo
non per fare l'avvocato della Crusca ma perché, siccome nel mio piccolo sto
cercando di "fare proselitismo" proprio in quell'ambiente, non vorrei
dover lottare, oltre che con i soliti pregiudizi "desinìstra" tipici
dei letterati, con una chiusura "per reazione" (Bagnai ci ha offeso
quindi non lo ascoltiamo!)
Cordiali saluti
Con immensa stima
Vorrei chiarire
un concetto.
Giunto a questo
punto, le mie priorità sono cambiate.
Dopo anni nei
quali ho assistito allo strazio del mio popolo, anche lì, in quello studio
televisivo (ricorderete la vicenda della famiglia sfrattata, con annessi e
connessi), nei quali sono stato messo a parte di tragedie umane, di carriere
spezzate, di famiglie disgregate, di affetti vulnerati, nei quali ho constatato
il progressivo e in molti casi irreversibile degrado del patrimonio industriale
e tecnologico, e quindi culturale, del mio paese, dopo che ho assistito alla
desertificazione di interi territori nei quali persone normali, miei fratelli,
facevano una vita normale, quella che vorrei fare io, le mie priorità, appunto,
hanno subito una lieve alterazione, della quale vi parlo, subito dopo aver (pacatamente)
risolto un equivoco.
La crusca svolge
un’importante funzione fisiologica: quella che svolgono le eleganti perifrasi
della relativa accademia. Perché dovrei dire “salvataggio dall’interno” invece
di bail-in quando il bail-in è una confisca? Le parole ci sono, usiamole! Non
vogliamo dire bail-in? Bene. Allora diciamo calcolatore (invece di PC), refrigeratore
(invece di freezer), e confisca (invece di salvataggio dall’interno). Io non ho
tempo di pronunciare perifrasi così involute, che non chiariscono il concetto
(la parola che lo chiarisce c’è già), e fanno solo perdere tempo. Io non ho
tempo. O meglio: io il tempo lo avrei, perché in fondo, come agli accademici,
come a tutti gli accademici, a me lo stipendio è stato solo congelato da sette
anni (o nove? Non ricordo perché me ne batto il cazzo, che è voce della lingua,
se lo è il suo complemento, il culo, del quale sappiamo tutti la collocazione
nell’opera del nostro padre Dante…). Mi è stato congelato, ma non mi è stato
tolto, come agli sfrattati che andranno sotto un ponte (ma i loro figli in una
casa famiglia).
Forse non è
chiaro.
Non è che perché
io insegno economia io sia anche tenuto anche occuparmene, e occuparmene come
lo sto facendo, parlando con chiunque e ovunque, col tassista e col
confindustriale, col manager e col politico, col disoccupato e col miliardario,
col tedesco e col portoghese, ovunque nel mondo, di persona e su Twitter, in
ogni singolo cazzo di momento della mia vita. Potrei anche semplicemente
insegnare economia punto. Così, di converso, non è che perché uno si occupa di
iotacismo debba necessariamente ignorare che sta vivendo in un paese sotto
attacco. Cristo: qui abbiamo il massimo linguista storico mondiale, che però,
guarda caso, nonostante ormai parli broccolino (perché nemo propheta in
patria), si ange e si accora per il destino della sua patria. Il che significa,
in primo luogo, che percepisce a quale sinistro destino essa sia condannata.
Io potrei
tranquillamente occuparmi di stimatori consistenti della matrice di covarianze alle
basse frequenze spettrali, e starei pur sempre facendo l’economista. Ma non l’uomo. E
siccome sto facendo l’uomo, e non l’accademico, non ho tempo, perché siccome da
uomo ho dei simili (da accademico credo di poter dire di no), e siccome i miei
simili soffrono (gli accademici non ancora, non è ancora arrivato per me il
momento di godere), io avverto una insopprimibile urgenza di correre in loro
soccorso, a loro, ai miei sempre meno cosiddetti simili.
E quindi, fatto
salvo il principio che dico il cazzo che mi pare perché sono in un paese libero
e perché sono fiorentino (e quindi l’accademico di Crotone o di Pordenone me lo
appendo comunque al cambio iuris et de iure), mi riservo anche il diritto di
dire bail-in, quando si sa di cosa si sta parlando, anziché salvataggio dall’interno,
perché così faccio prima.
Fra l’altro,
offuscando il concetto (che è quello di “confisca”) certa gente ci fa capire da
che parte sta, e a occhio e croce non mi pare che sia la nostra, cosa della
quale Qualcuno si ricorderà a tempo e luogo.
Sì.
Aveva ragione
Brigitte.
I nostri nemici
sono gli intellettuali.
E i nemici non si
destinano al proselitismo: si destinano alla sconfitta.
Ci attendono
tempi oscuri, nei quali sarà necessario provvedere almeno all’illuminazione
stradale. Noi abbiamo esperti del settore. Io non voglio proseliti. Io non
voglio giustizia, perché so che non la avrò, che non c’è possibile giustizia,
qui, per il male che ci è stato deliberatamente fatto, nell’indifferenza più
totale di chi pensava di avere le terga al riparo. Io voglio vendetta, perché
so che per averla non dovrò fare niente: Dio odia gli imbecilli più di me, sa
meglio di me cosa farne, e lo farà. Basta semplicemente che io non faccia nulla
per far salire sull’arca chi non se lo merita.
E chi non se lo
merita?
Quelli con l’eguccio
vulnerabile, che uno scherzo goliardico basta ad ulcerare. Oh, l’insopportabile
tedio della seriosità! Quando l’università era libera, quando si
autodeterminava, quando non occorreva spendere giornate in umilianti procedure
burocratiche di “valutazione” di questa fava, insomma: nel medioevo, la
goliardia, la dissacrazione, era parte del suo spirito. Ma quanto più
subalterna e gregaria si è fatta l’accademia, tanto più ha pensato di
rinsaldarsi nella propria autostima con la seriosità, con il sussiego. Poi ci
sono quelli che trovano sia boria constatare che alcune previsioni erano
corrette e altre errate. Quelli, insomma, che preferiscono sentirsi dire una
menzogna rassicurante, che non li costringa a mettere in discussione il loro sistema
di valori. E poi ci sono quelli che non sanno distinguere l’umiltà dalla
modestia, cioè i mediocri. Quante persone abbiamo sentito spacciare abominevoli
cazzate come verità rivelate, senza esercitare alcuno spirito che non fosse
quello di prevaricazione (in assenza di quello critico), trincerandosi dietro
un reticolato di IMHO? IMHO sta beata minchia!
Nessuna opinione è umile.
Tutte
le opinioni sono arroganti.
I fatti, cioè la metrica, la misurazione, il
teorema di Pitagora, sono umili. Ma sono anche impegnativi, e hanno la testa
dura.
Il mio linguaggio
è urticante?
Bene!
Repulsivo?
Meglio!
Divisivo?
Amplius, Domine!
Vedo che non è ancora
chiaro: nelle crisi qualcuno perde e qualcuno guadagna, giusto? E allora, per
essere sicuri di non perder troppo, non ci conviene essere troppi. Più fessi
andranno incontro allo sterminio, più noi, che sapremo quando shortare (pija su, Bran Academy…), ci salveremo. Le rivoluzioni non si fanno dal basso, ma dall’alto.
Oltre un certo punto, fare proselitismo diventa irrazionale.
Quando i tempi
diventeranno maturi, questo blog diventerà privato. Quello che avrò da dire
vorrò dirlo solo a chi penso se lo meriti, perché lo avrò guardato negli occhi.
Per il momento, farà da filtro la mia pacatezza. E voi godetevi lo spettacolo.
Amen.
(…bene, caro, ora il tuo compito è, in certo
qual modo, più semplice…)
(…non sia mai che
i miei post non contengano una proposta costruttiva. Ecco: vi spiego cosa dovrebbe fare, secondo me, oggi, un accademico. La prendo
un po’ larga…
Tous les soirs
avant de se coucher il avait pris l’habitude de lire quelques pages de son
Diogène Laërce. Il savait assez de grec pour jouir des particularités du texte
qu’il possédait. Il n’avait plus maintenant d’autre joie. Quelques semaines
s’écoulèrent. Tout à coup la mère Plutarque tomba malade. Il est une chose plus
triste que de n’avoir pas de quoi acheter du pain chez le boulanger, c’est de
n’avoir pas de quoi acheter des drogues chez l’apothicaire. Un soir, le médecin
avait ordonné une potion fort chère. Et puis, la maladie s’aggravait, il
fallait une garde. M. Mabeuf ouvrit sa bibliothèque, il n’y avait plus rien. Le
dernier volume était parti. Il ne lui restait que le Diogène Laërce.
Il mit
l’exemplaire unique sous son bras et sortit, c’était le 4 juin 1832 ; il alla
porte Saint-Jacques chez le successeur de Royol, et revint avec cent francs. Il
posa la pile de pièces de cinq francs sur la table de nuit de la vieille
servante et rentra dans sa chambre sans dire une parole.
Le lendemain, dès
l’aube, il s’assit sur la borne renversée dans son jardin, et par-dessus la haie
on put le voir toute la matinée immobile, le front baissé, l’œil vaguement fixé
sur ses plates-bandes flétries. Il pleuvait par instants, le vieillard ne
semblait pas s’en apercevoir. Dans l’après-midi, des bruits extraordinaires
éclatèrent dans Paris. Cela ressemblait à des coups de fusil et aux clameurs
d’une multitude.
Le père Mabeuf
leva la tête. Il aperçut un jardinier qui passait, et demanda :
— Qu’est-ce que
c’est ?
Le jardinier
répondit, sa bêche sur le dos, et de l’accent le plus paisible :
— Ce sont des
émeutes.
— Comment des
émeutes ?
— Oui. On se bat.
— Pourquoi se
bat-on ?
— Ah ! dame ! fit
le jardinier.
— De quel côté ?
reprit M. Mabeuf.
— Du côté de
l’Arsenal.
Le père Mabeuf
rentra chez lui, prit son chapeau, chercha machinalement un livre pour le
mettre sous son bras, n’en trouva point, dit : Ah ! c’est vrai ! et s’en alla
d’un air égaré.
[…]
…à l’instant où
Enjolras répéta son appel : — Personne ne se présente ? on vit le vieillard
apparaître sur le seuil du cabaret.
Sa présence fit
une sorte de commotion dans les groupes. Un cri s’éleva :
— C’est le votant
! c’est le conventionnel ! c’est le représentant du peuple !
Il est probable
qu’il n’entendait pas.
Il marcha droit à
Enjolras, les insurgés s’écartaient devant lui avec une crainte religieuse, il
arracha le drapeau à Enjolras, qui reculait pétrifié, et alors, sans que
personne osât ni l’arrêter ni l’aider, ce vieillard de quatrevingts ans, la
tête branlante, le pied ferme, se mit à gravir lentement l’escalier de pavés
pratiqué dans la barricade. Cela était si sombre et si grand que tous autour de
lui crièrent : Chapeau bas ! À chaque marche qu’il montait, c’était effrayant,
ses cheveux blancs, sa face décrépite, son grand front chauve et ridé, ses yeux
caves, sa bouche étonnée et ouverte, son vieux bras levant la bannière rouge,
surgissaient de l’ombre et grandissaient dans la clarté sanglante de la torche,
et l’on croyait voir le spectre de 93 sortir de terre, le drapeau de la terreur
à la main.
Quand il fut au
haut de la dernière marche, quand ce fantôme tremblant et terrible, debout sur
ce monceau de décombres en présence de douze cents fusils invisibles, se
dressa, en face de la mort et comme s’il était plus fort qu’elle, toute la
barricade eut dans les ténèbres une figure surnaturelle et colossale.
Il y eut un de
ces silences qui ne se font qu’autour des prodiges.
Au milieu de ce
silence le vieillard agita le drapeau rouge et cria :
— Vive la
révolution ! vive la république ! fraternité ! égalité ! et la mort !
On entendit de la
barricade un chuchotement bas et rapide pareil au murmure d’un prêtre pressé
qui dépêche une prière. C’était probablement le commissaire de police qui
faisait les sommations légales à l’autre bout de la rue.
Puis la même voix
éclatante qui avait crié : qui vive ? cria :
— Retirez-vous !
M. Mabeuf, blême,
hagard, les prunelles illuminées des lugubres flammes de l’égarement, leva le
drapeau au-dessus de son front et répéta :
— Vive la
république !
— Feu ! dit la
voix.
Une seconde
décharge, pareille à une mitraille, s’abattit sur la barricade.
Le vieillard
fléchit sur ses genoux, puis se redressa, laissa échapper le drapeau et tomba
en arrière à la renverse sur le pavé, comme une planche, tout de son long et
les bras en croix.
Des ruisseaux de
sang coulèrent de dessous lui. Sa vieille tête, pâle et triste, semblait
regarder le ciel.
Une de ces
émotions supérieures à l’homme qui font qu’on oublie même de se défendre,
saisit les insurgés, et ils s’approchèrent du cadavre avec une épouvante
respectueuse.
— Quels hommes
que ces régicides ! dit Enjolras.
Courfeyrac se
pencha à l’oreille d’Enjolras :
— Ceci n’est que
pour toi, et je ne veux pas diminuer l’enthousiasme. Mais ce n’était rien moins
qu’un régicide. Je l’ai connu. Il s’appelait le père Mabeuf. Je ne sais pas ce
qu’il avait aujourd’hui. Mais c’était une brave ganache. Regarde-moi sa tête.
— Tête de ganache
et cœur de Brutus, répondit Enjolras.
Puis il éleva la
voix :
— Citoyens ! ceci
est l’exemple que les vieux donnent aux jeunes. Nous hésitions, il est venu !
nous reculions, il a avancé ! Voilà ce que ceux qui tremblent de vieillesse
enseignent à ceux qui tremblent de peur ! Cet aïeul est auguste devant la
patrie. Il a eu une longue vie et une magnifique mort ! Maintenant abritons le
cadavre, que chacun de nous défende ce vieillard mort comme il défendrait son
père vivant, et que sa présence au milieu de nous fasse la barricade
imprenable.
Un murmure
d’adhésion morne et énergique suivit ces paroles.
Enjolras se
courba, souleva la tête du vieillard, et, farouche, le baisa au front, puis,
lui écartant les bras, et maniant ce mort avec une précaution tendre, comme
s’il eût craint de lui faire du mal, il lui ôta son habit, en montra à tous les
trous sanglants, et dit :
— Voilà
maintenant notre drapeau.)
(…ma voi non porterete altra bandiera che
quella della vostra mediocrità: anche se voi vi credete assolti…)
(... ci sono due "c'est vrai" nella letteratura francese. Uno è quello di Albertine, quel "c'est vrai" che "donnait l’étrange impression d’une créature qui ne peut se rendre compte des choses par elle-même, qui en appelle à votre témoignage, comme si elle ne possédait pas les mêmes facultés que vous", come qualcuno qui ricorda - Rockapasso, ne sono certo, ricorda anche come prosegue quella pagina. Un altro è quello di Mabeuf. E io quel "c'est vrai" non posso leggerlo senza che mi sgorghino lacrime, come stanno facendo ora, in un Freccia Rossa che ha novanta minuti di ritardo, all'annuncio del quale ferve, fra i miei compagni di viaggio, una sommossa che mi permette di piangere in pace, dopo una giornata molto, molto lunga. Chi ha detto che gli italiani non fanno rivoluzioni?...)