L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali...
Il post in cui estendevo all'Eurozona il grafico proposto da Milanovic (e nel 2015 da noi) sul declino dell'Italia (qui) ha scatenato una serie di troll di qualità scadente, peggiorata dal ricorso all'AI, come abbiamo visto qui.
Evidentemente, e comprensibilmente, il fatto che l'Eurozona sia un gioco a somma negativa, cioè il fatto che il danno inflitto al nostro e ad altri Paesi della "periferia" non sia compensato nella media della zona dai vantaggi conseguiti da altri Paesi del "centro", dà fastidio, perché smentisce frontalmente la retorica dell'unirsi per affrontare le sfide della globalizzazione (nel nostro lessico famigliare, la retorica dell'"oggi c'è la Ciiiiiiinah!11!", ma sono pochi a ricordare chi e quando pronunciò questa frase...), la retorica della locomotiva tedesca, ecc.
Per quanto possa capire questo fastidio, i tentativi di negare, anzi: di negazionare il declino dell'Eurozona sono destinati a fallire miseramente nel ridicolo (soprattutto, ma non necessariamente, se chi li perpetra è già ridicolo di suo). Infatti, da un lato l'arretramento relativo dell'Eurozona è ormai un "fatto stilizzato", cioè una tendenza espressa dai dati che si prende per assodata e incontrovertibile, quand'anche vi possa essere un dibattito teorico sulle cause che l'hanno determinata. Dall'altro, prima che questo simpatico esperimento sociale iniziasse, i più autorevoli economisti mondiali avevano prefigurato come sarebbe andato a finire. Devo a Marino Badiale il suggerimento di raccogliere in questo post i pronostici più autorevoli (tutti infausti, ovviamente). A Marino era chiaro che, data la particolare succubanza dei piddini al principio di autorità, a quell'ipse dixit che li dispensa dalla fatica - non a tutti accessibile - di pensare con la propria testa, un post simile avrebbe potuto essere utile. Mi piace riportarvi qui le parole di uno dei tanti economisti preveggenti, Krugman, secondo cui: "Il pericolo immediato ed evidente è che l’Europa diventi giapponese: che scivoli inesorabilmente nella deflazione, e che quando i banchieri centrali alla fine decideranno di allentare la tensione sarà troppo tardi" (sono parole di ventisette anni fa, le trovate ancora oggi sul sito del MIT).
Questa idea di un'Europa "giapponese" (in realtà, un po' peggio, ma non insisto ora su questo punto) si traduce, nel linguaggio giornalistico, in un ricorso sempre più frequente all'espressione "decennio perduto", che nella letteratura economica fino a una ventina di anni fa era associato, appunto, al Giappone.
Per quanto attiene a quest'ultimo, la locuzione lost decade credo sia stata lanciata da Hayashi e Prescott nel 2002, in un articolo che ha avuto (solo!) 1391 citazioni (qui una delle ultime), dando vita a una letteratura piuttosto cospicua (Scholar indica 24.500 lavori), dove i temi più discussi erano naturalmente la produttività (come ti sbagli?), o il più esoterico quesito se l'economia giapponese si trovasse o meno in una liquidity trap (spiegata - male - qui). Ma insomma, fra chi attribuisce la stagnazione a una LM orizzontale (trappola della liquidità), chi a una IS verticale, chi alla produttivitah (da Hayashi e Prescott in giù), c'è anche chi di questo decennio perduto dà la spiegazione che mi avete spesso sentito dare, riconoscendo l'importanza dei fattori internazionali e monetari, come Hamada e Okada:
Ora, non mi interessa qui dirimere in mezzo post quello su cui decine di colleghi stanno ancora dibattendo, ognuno col suo pezzettino di verità, anche se, col vostro permesso, conservo una preferenza umanamente scusabile per chi vede le cose come le vedo io. Semplicemente, evidenzio che a nessuno salta in mente di dire che gli anni '90 non siano stati un decennio perduto per il Giappone!
Nel caso dell'Unione Europea lo spettro del "decennio perduto" ha cominciato a ossessionare la letteratura scientifica una dozzina di anni fa grazie a Wright (2013) (per quel che mi risulta), seguito da Eichengreen et al. (2014). Alle sagge parole di Krugman, il primo a parlare di una giapponesizzazione dell'Europa, nessuno pensava più, a dire il vero, e il tono di questi articoli era esortativo: l'Europa può, o dovrebbe, ancora evitare il suo decennio perduto, si diceva (ovviamente evitando di menzionare l'euro, per non farsi incenerire dai referee). Fatto sta che oggi il decennio perduto, o, se volete, il declino dell'Europa (e in particolare dell'Eurozona, anche se, va detto, i due concetti sono largamente coincidenti, atteso che l'Eurozona a 20 esprime circa l'84,4% del Pil dell'Unione Europea a 27) è un dato di fatto ampiamente riconosciuto anche dalla stampa più mainstream. Al netto di alcuni buffi tentativi di farla più complicata di quello che è, come l'articolo di questa simpatica reporter secondo cui farebbe differenza calcolare la crescita a prezzi costanti in dollari o in valuta nazionale (la risposta ovviamente è no per i motivi spiegati nel post precedente, e fa un po' sorridere che un giornale così prestigioso cada in errori simili: forse siamo stati troppo severi col povero troll), il fatto che:
la crescita economica sia stata più lenta nell'Eurozona che negli Stati Uniti o in Giappone nessuno lo contesta (l'articolo da cui è tratto il grafico è questo), se pure si può supporre che nel caso in specie giochi un certo ruolo un intento agiografico:
e se si preoccupano loro qualsiasi gesto apotropaico sarà scusabile. Del resto, una banale ricerca di "Europe lost decade" vi confermerà che dubbi in merito possono venire solo a persone molto distanti dai temi del dibattito economico. Per sicurezza, comunque, mi sono rifatto il grafico coi dati del WDI, ottenendo lo stesso profilo:
Non stupisce quindi che chi cerca di negare questa evidenza condivisa debba necessariamente arrampicarsi sugli specchi facendo la figura dello sprovveduto.
Già da questo (cioè dal fatto che sia patrimonio comune della professione, nella sua dimensione specialistica e pubblicistica, il fatto che l'Unione Europea abbia perso un decennio di crescita) si capisce che per un economista incontrare un tizio che cerchi di argomentare il contrario fa lo stesso effetto di trovarsi a cena in un'ambasciata e vedere che il commensale di fronte si sta scaccolando le orecchie con la forchetta: se non l'ultima, è la penultima cosa che ti aspetteresti di vedere in un contesto simile! Ma la cloaca nera di Twitter ci ha insegnato che è possibile andare oltre.
E allora andiamoci. Prendo ad esempio un commento di Valerio Santoro su questo blog:
Valerio Santoro ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Ancora sul declino":
Se si ripete l'esercizio anche con Regno Unito e Stati Uniti, si otterranno parabole simili. Evidentemente, non può essere l'euro la principale causa di tale fenomeno.
Pubblicato da Valerio Santoro su Goofynomics il giorno 21 apr 2025, 09:53
Sicuro?
A me veramente sembra che non siano parabole e non siano simili: gli Stati Uniti tengono botta fino all'inizio della crisi dei subprime, e d'altra parte l'espansione della Cina, cui implicitamente la maggior parte dei negazionisti cerca di dare la colpa, inizia prima ed è un processo privo di sostanziali discontinuità: non c'è un'accelerazione visibile nel 2001. Un declino dal 2001 ce l'abbiamo solo noi.
Questo, veramente, l'avevo anche fatto notare nel post:
ma chi sono io per chiedervi di astenervi dalla porca rogna di dire la vostra prima di avere non dico capito, ma almeno letto la mia, o almeno quella del Financial Times?
Comunque, già che ci siamo, vi faccio vedere un paio di semplici elaborazioni descrittive basate sull'ultimo grafico. Se immaginiamo che nei prossimi anni il tasso medio di crescita sia quello registrato fra 2000 e 2023, cioè questo:
l'evoluzione delle quote del Pil ci porterebbe nel 2038 ad una quota di Pil mondiale a una cifra:
In realtà non credo che le cose andranno esattamente così, per i motivi che vi spiegai a suo tempo qui. L'idea che la Cina possa crescere per sempre fra l'8% e il 10% è semplicemente non compatibile con quanto sappiamo dell'economia. Lo si capisce meglio se si estende il grafico al 2069 (quando avrò 107 anni):
Ora, è vero che di cose che mai mi sarei aspettato di vedere quando studiavo macroeconomia ne ho viste parecchie: una è questa
Ma è pur vero che una simile esplosione della quota del Pil cinese su quello mondiale non la vedrà nessuno (nemmeno io, che mi sto attrezzando per campare fino a 107 anni), perché, come capite bene, prima di arrivarci necessariamente scoppierebbe un conflitto.
Naturalmente l'esperienza storica, come vi spiegavo commentando il referaggio fatto al mio articolo sulla Cina, presa sic et simpliciter non è di per sé un buon indicatore delle performance future. Il Fmi prevede per i prossimi anni un tasso di crescita dell'economia cinese attorno al 4%, per l'Eurozona all'1.2%, confermando per gli Usa il 2.2%, e già questo, ipotizzando la costanza nel tempo di questi tassi, cambierebbe molto il quadro, rendendolo meno palesemente assurdo:
(noi andremmo a una cifra nel 2047).Al netto di questo divertissement statistico, resta il fatto che, avendo di fronte a noi un contesto così solcato da profonde tensioni, ci siamo dati delle istituzioni che non ci aiutano a tener botta, e che il nostro declino, sul quale sarebbe urgente interrogarsi, e che viene apertamente discusso sia dalla letteratura scientifica che dalla pubblicistica più autorevole, qui viene ancora negato perché disturba un certo tipo di racconto.
… riparte la fiera del servo encomio, nel cui letamaio ogni tanto si rinvengono delle perle: persone che non vedevi da tempo e che non devono chiederti nulla (e cui magari hai dato qualcosa) ma eccezionalmente si ricordano di te (e questo fa piacere); persone con cui hai una consuetudine più frequente, ma a rischio di usura nella frenesia dei rapporti quotidiani (che per l’ansia di essere dappertutto e con tutti ti costringono a essere da nessuna parte e con nessuno), che si abbandonano a un messaggio più personale ed espansivo; persone di cui ti eri dimenticato e che ti fa piacere ricordarti.
Poi ci sono gli auguri inviati a tutta la rubrica (non rispondo), quelli messi in chat (posto un santino e archivio la chat), quelli che già dal venerdì santo ti seccano dicendoti “non voglio disturbarti il giorno di Pasqua“ (senza considerare l’opzione di non disturbare mai), quelli che sanno di non dover mandare vocali, ma te li mandano “perché è Pasqua“, costringendoti a rimettere in discussione due secoli e mezzo di civiltà giuridica da Beccaria in poi, e poi ci siete voi.
E siccome a voi voglio bene, e questo argomento lo abbiamo affrontato centinaia di volte su questo blog, se dimostrate di non sapere come si usa il numero di telefono dell’ecclesiarca, con affetto e per tutelarvi da possibili errori vi ritrovate bloccati. D’altra parte, se siete qui è perché volete andare controcorrente: quindi oggi Lui risorge, e alcuni di voi finiscono nel sepolcro dei bloccati.
Ah, a proposito: se un ci si vede, auguri!
(…mi dimenticherete quando vorrò essere ricordato: direi che più che una previsione è un fatto, perché qui forse un due per cento sa dove si trova e perché ci si trova. La cosa è assolutamente fisiologica e fa parte delle normali dinamiche umane. Per simmetria, però, chiedo - senza eccezioni - di non tritarmi i coglioni quando vorrei riposarmi…)
Per gestire le interazioni nella cloaca nera ci eravamo dati leggi e regole, riportate in questo post.
Quella che oggi fa al caso nostro, come vedremo più avanti, è la seconda legge, quella sulla baio in inglisc, detta anche sindrome di LinkedIn, che sarebbe questo ricettacolo di cretini autoreferenziali:
(penso di essere stato il primo a iscrivermi e il primo a cancellarmi in Italia: il video non è vero, perché è satirico, ma proprio per questo è particolarmente veritiero).
Come abbiamo amaramente constatato più volte, il baio è un cavallo (piuttosto diffuso), ma il "baio in inglisc" (altrettanto e più diffuso) è un somaro, o forse, visto che quasi sempre è specializzato, un cretino, dato che "oggi anche il cretino è specializzato" (come Flaiano aveva intuito), dal che desumiamo, peraltro, che tutti i cretini sono specializzati ma non tutti gli specializzati sono cretini (anche se trovare gli esempi del contrario è impresa progressivamente più ardua).
Con questa premessa, il cui senso si chiarirà leggendo, consentitemi di introdurvi l'argomento di oggi.
Il grafico sul declino dell'Eurozona:
introdotto in questo post, nella sua fredda e irrefutabile eloquenza ha dato parecchio fastidio. Eppure, un pattern, un andamento simile è esattamente quello che dovremmo aspettarci dall'Eurozona così come ce l'ha descritta Draghi! Per capire cosa intendo, però, occorre prima un breve ripasso de #lebbasi. Permettetemi quindi di ripetere brevemente che cos'è e come si misura il Pil. Questo servirà anche a fare un discorso di verità sull'intelligenza artificiale, strumento caro ai cretini naturali.
Che cos'è il Pil?
Di questo abbiamo parlato infinite volte (una delle ultime qui). In buona sostanza, in un'economia di mercato il valore della produzione realizzata in un determinato lasso di tempo coincide col valore delle remunerazioni erogate ai fattori produttivi che l'hanno posta in essere e col valore della spesa effettuata per acquistarla. I tre concetti devono coincidere: in un'economia di mercato si produce per vendere (quindi il valore della produzione coincide con la spesa) e si vende per guadagnare (quindi il totale della spesa coincide col totale dei redditi distribuiti). Ne consegue che i tre metodi di calcolo del Pil (quello del valore aggiunto, quello della spesa, e quello dei redditi), cui corrispondono tre diverse definizioni di Pil, conducono necessariamente allo stesso risultato. Una delle infografiche più chiare su questo tema è questa:
Ora, è parte della mia, e credo anche della vostra esperienza quotidiana, il fatto che chi parla di economia generalmente non abbia alcuna idea di che cosa sia il Pil.
Le distorsioni ideologiche della teoria della decrescita si basano appunto sul non comprendere che cosa sia il Pil, come spiegammo in uno dei primissimi post di questo blog (togliendoci dai coglioni una legione di invasati), semplicemente perché il mondo più pulito e come oggi si dice "sostenibile" che in teoria vorrebbero i decrescisti è un mondo con più, non meno Pil, dato che le tecnologie che consentono di ridurre gli impatti ambientali richiedono investimenti e consumi piuttosto ingenti (e quindi per definizione non puoi avere riduzione degli impatti ambientali senza aumento di Pil).
Un altro dato che emerge nitido a chi sa che cosa sia il Pil è che un incremento della spesa pubblica è in re ipsa un incremento di Pil. Il motivo è semplice: la spesa pubblica considerata nella definizione di Pil corrisponde ai consumi di servizi pubblici da parte dei cittadini (consumi collettivi), e siccome questi servizi pubblici non hanno un prezzo di mercato (il poliziotto che regola il traffico o interviene dopo un incidente non vi rilascia fattura, come non lo fa il medico di pronto soccorso o l'insegnante di vostro figlio), vengono misurati con un particolare criterio di imputazione: con la somma delle retribuzioni corrisposte a chi materialmente li eroga (i dipendenti pubblici). Capite quindi anche come questa spesa entri nella definizione di Pil dal lato delle retribuzioni (i consumi collettivi sono in re ipsa retribuzioni). Ovviamente questo non significa che "allora basta aumentare gli stipendi degli statali per fare Pil!" o altre sparate del genere. Significa però che quando si ipotizza che un aumento della spesa pubblica di un euro porti a 0.5 euro di aumento del Pil si sta dicendo che qualche altra voce del Pil diminuirà di 0.5 per effetto dell'aumento dei consumi collettivi, e di converso che quando si ipotizza che un taglio di un euro della spesa pubblica porti a una diminuzione di 0.5 euro del Pil si ipotizza che qualche altra voce di domanda aumenterà di 0.5 euro. Siamo sicuri che sia sempre così? In Grecia non è andata così, come hanno poi ammesso i criminali che l'hanno massacrata.
Infine, non vi sfuggirà che per mera necessità algebrica un taglio dei salari (cioè delle retribuzioni) è un taglio del Pil, anche perché è, per forza di cose, un taglio della spesa (se meno soldi vengono corrisposti al fattore lavoro, meno soldi vengono spesi dai lavoratori e meno soldi vengono fatturati dalle aziende) e quindi un taglio della produzione. Anche qui, è chiaro che il discorso non finisce qui: ma è da ignoranti non sapere, e da cretini non ammettere, che il primo effetto di un taglio dei salari è per definizione un taglio di Pil. Con questa informazione, il grafico del declino europeo diventa immediatamente più leggibile, se ricordiamo le parole di Draghi...
Come si misura il Pil?
Dobbiamo però fare un approfondimento sulle possibili misure del Pil.
Consideriamo per fissare le idee il calcolo dal lato della produzione (metodo del valore aggiunto). Ogni singolo Paese offre una quantità sterminata di prodotti eterogenei, non tutti materiali e tangibili (non ci sono solo merci ma anche servizi, e ci sono anche elementi intangibili come i marchi o i brevetti, che pure si scambiano...). Ovviamente, "sommare le pere con le mele" è impossibile! Quello che è possibile è sommare il valore delle pere e delle mele (e dall'acciaio, e di una cura canalare, e di un concerto, e di un appartamento, ecc.). Per ottenere il valore di una data produzione ci occorre sapere qual è il prezzo di mercato del prodotto, dopo di che moltiplicando le quantità prodotte per il loro prezzo si ottiene il valore monetario di quella produzione, che sommato ai valori di tutte le altre ci dà il valore complessivo del prodotto, cioè il Pil (che coincide con i redditi corrisposti ai fattori produttivi e con la spesa effettuata da residenti e non residenti per acquistare il prodotto realizzato).
Tutto chiaro?
In caso affermativo, siete già sopra il nono decile di chi parla di economia sui grandi media. In caso contrario rileggete, perché "io più chiaro di così non lo so dire" (cit.), o meglio: saprei certamente dirlo, ma non credo sia opportuno più di tanto per un docente seminare il degrado incoraggiando l'imbecillità. Magari non sempre si riesce a incoraggiare una riflessione, ma anche se potrei farvi il disegnino con una pera e una mela, i rispettivi prezzi, ecc., mi spiace, ma qui mi rivolgo a persone dotate di capacità di astrazione, che poi sono le uniche che possano capire. Alle altre puoi dare l'illusione di aver capito, ma senza astrazione non c'è comprensione.
Sorgono a questo punto almeno due ordini di problemi che i più acculturati di voi già conoscono, i più vispi avranno intuito, e per gli altri esplicitiamo.
Confronti intertemporali: pil nominale, reale e deflatore
Dice: non si sommano i prodotti fisici ma il loro valore e quindi occorrono i prezzi di mercato.
Sì, va bene, ma i prezzi cambiano per via dell'inflazione! E quindi: prezzi di mercato di quale anno?
Qui subentra la differenza fra Pil nominale e reale. Se la produzione di ogni anno viene valorizzata ai prezzi di ogni singolo anno (accettando quindi il rischio di scambiare per aumento della produzione un mero aumento dei prezzi) otteniamo il Pil nominale (il termine "nominale" in economia indica le grandezze calcolate a prezzi correnti). Se invece la produzione di ogni anno viene valorizzata ai prezzi di un determinato anno preso come base di riferimento (assicurando così che ogni aumento del Pil corrisponda a un effettivo incremento dei volumi fisici di produzione) otteniamo il Pil reale (il termine "reale" in economia indica le grandezze depurate dall'effetto dei prezzi, cioè calcolate a prezzi costanti, prendendo i prezzi di un anno base).
Se chiamiamo Y (maiuscolo) il Pil nominale e y (minuscolo) il Pil reale valgono queste relazioni:
dove p è il deflatore del Pil, un indice aggregato di prezzo che può essere utilizzato per calcolare il tasso di inflazione (gli altri indici utilizzabili sono il deflatore dei consumi privati e l'indice dei prezzi al consumo: la logica sottostante a ognuno di essi è diversa e diversi sono i risultati, ma qui si entra in sottigliezze per voi superflue).
Confronti internazionali: dollari e PPP
La differenza fra reale e nominale ci aiuta a intendere correttamente l'evoluzione del Pil nel tempo. Ad esempio, se siamo interessati a valutare la produttività, è chiaro che la misura che ci occorre è quella reale, perché altrimenti basterebbe una ventata di inflazione a farci sembrare più produttivi! I confronti intertemporali sono utilissimi e comunque centrali nell'agenda politica: tutte le gnagne dell'opposizione in questi giorni sono concentrate proprio su un confronto intertemporale, il tasso di crescita (che confronta il Pil di domani con quello di oggi, o quello di oggi con quello di ieri).
C'è un altro tipo di confronto però che riveste particolare importanza, e se guardate il grafico da cui siamo partiti capite subito qual è: il confronto internazionale.
Qui la difficoltà è dovuta al fatto che in Paesi diversi generalmente si usano valute diverse (salvo i casi miserevoli e miserabili di Paesi che decidono di concludere quel matrimonio infelice noto come "unione monetaria"), e quindi non avrebbe particolarmente senso confrontare direttamente i valori del Pil, sia esso nominale o reale, ognuno espresso in una diversa valuta, ovvero in una diversa unità di misura! Si ritornerebbe al caso delle mele e delle pere!
Per fare un esempio: se prendiamo il reddito pro capite in valuta locale (LCU, Local Currency Units) a prezzi correnti
sembrerebbe proprio che in Tanzania si stia meglio che negli Stati Uniti (questi dati e i successivi sul Pil sono tratti dai WDI), e che in Afghanistan non si stia poi così peggio rispetto all'Italia. Qui il problema non è tanto il tasso di inflazione, tant'è che se invece di prendere le serie a prezzi correnti prendiamo quelle a prezzi costanti il risultato è sostanzialmente inalterato:
(unica differenza: così pare che alle Bahamas si stia meglio che in Italia...). Le cose cambiano se misuriamo tutte le serie in dollari, e naturalmente potremmo farlo a prezzi correnti:
e già da qui si ottiene un quadro leggermente più compatibile con quello che sappiamo del mondo, ma ovviamente il confronto più sensato è anche in questo caso quello depurato dall'inflazione, cioè a prezzi costanti:
ancora più nitido. Il senso, molto semplicemente, è che 2.916.849 scellini della Tanzania equivalgono ad appena 1093 dollari a prezzi 2015, e quindi no: non sono più ricchi i cittadini della Tanzania (strano, vero?).
Ora, per avvicinarci al discorso del cretino specializzato, devo dirvi una cosa che da specializzato non cretino a me non sfugge, ma potrebbe sfuggire ad altri. Il tasso di cambio è un prezzo. Questo significa che se consideriamo serie misurate in dollari ai prezzi del 2015, stiamo in effetti parlando di serie misurate ai prezzi e al tasso di cambio del 2015.
In altre parole, se si raffrontano serie a prezzi costanti espresse in una comune valuta di riferimento (il dollaro) si effettua un confronto che è depurato non solo dagli effetti dell'inflazione, ma anche da quelli di apprezzamenti o deprezzamenti del cambio. Questo uno specializzato non cretino lo sa (e discende dalla definizione di tasso di cambio: prezzo relativo fra due valute), mentre un cretino specializzato potrebbe tendere a ignorarlo.
Cerchiamo di dare un senso ordinato a questa riflessione, con un esempio concreto, riguardante il nostro Paese. Lo facciamo con questa tabella, che riporta le varie misure del Pil nazionale e i loro rapporti:
Le colonne (a) e (b) sono in miliardi di euro, le (c) e (d) in miliardi di dollari, sulle altre vi darò ragguagli via via.
Siete pronti?
Nella colonna (e) abbiamo il deflatore del Pil p, cioè il rapporto fra il Pil nominale (a) e il Pil reale (b). Potremmo immaginarlo come il "prezzo in euro" del Pil italiano (anche se questo ragionamento è un po' impreciso, ma ci aiuterà).
Nella colonna (f) abbiamo il deflatore del Pil in dollari, cioè il rapporto fra il Pil a dollari correnti (c), che risente delle variazioni dei prezzi e del tasso di cambio, e il Pil a dollari costanti (d), che non risente né delle variazioni dei prezzi né di quelle del tasso di cambio. Potremmo immaginarlo come il "prezzo in dollari" del Pil italiano.
Se prendiamo il rapporto fra le colonne (e) (prezzo in euro) e (f) prezzo in dollari, abbiamo, nella colonna (g), qualcosa di simile al tasso di cambio espresso in euro per dollaro (quotazione incerto per certo).
In effetti, la colonna (h) riporta il tasso EURUSD, che è quotato certo per incerto, e quindi in dollari per euro, e la colonna (i) ne riporta l'inverso, cioè il cambio quotato incerto per certo (numero di euro per un dollaro), e si vede bene che le colonne (g) e (i) hanno sostanzialmente lo stesso andamento, con l'unica differenza che l'indice ricavato nella colonna (g) è normalizzato a uno nell'anno base dei prezzi (il 2015).
Da tutto questo però che cosa ricaviamo? Che il Pil espresso in dollari ai prezzi 2015 non risente della variazione del tasso di cambio. Infatti, se prendiamo il rapporto fra la colonna (b) (Pil reale in euro) e la colonna (d) (Pil reale in dollari) vediamo che questo rapporto è costante e pari al valore del tasso di cambio nell'anno base (2015).
Questo che cosa significa?
Significa che se rapportiamo le serie riferite a due Paesi calcolate entrambe in dollari ai prezzi (e tassi di cambio) del 2015 il rapporto non sarà influenzato né dalle inflazioni nazionali né dalle variazioni del tasso di cambio.
Ripeto: è una mera conseguenza del fatto che il tasso di cambio è un prezzo, e che quindi quando si parla di "prezzi 2015" si afferma che si sta utilizzando il cambio di quello specifico anno, per cui la serie in LCU e quella in $ differiscono solo di un fattore di scala costante: il valore del cambio in quel singolo anno. Il loro rapporto può essere alterato, nel senso di slittare verso l'alto o verso il basso, dalla scelta di un diverso anno base, che comunque manterrebbe invariata la dinamica crescente o decrescente del rapporto, cioè, per quanto ci riguarda qui, l'impietosa rappresentazione del nostro inesorabile declino.
Trattasi di mera aritmetica (e di basic economic reasoning, quello che ai somari, anzi, ai bai in inglisc non entra proprio in testa).
Potremmo a questo punto aggiungere un ulteriore elemento, volendo.
Vi ho già parlato del Big Mac Index costruito dall'Economist: lo abbiamo trattato nel post su Lampredotto, ed è un modo rozzo ma efficace di considerare il fatto che i prezzi non variano solo nel tempo, ma anche nello spazio, e che il tasso di cambio nominale non sempre riesce a tenere conto di questa variazione internazionale. Un modo più raffinato è utilizzato dalle Penn World Tables. In alcuni Paesi la vita costa di più (il potere d'acquisto di una certa somma di denaro è più basso), in altri costa di meno (il potere d'acquisto di una certa somma di denaro è più alto) e in linea di principio per impostare confronti internazionali sensati, oltre a non confrontare dati espressi in valute diverse, ma in una uguale valuta a prezzi e quindi tassi di cambio costanti, può avere un senso affidarsi alle stime del cambio a parità dei poteri d'acquisto.
Tornando all'esempio fatto sopra, la tabella diventerebbe:
dove constatiamo quello che di solito si constata in simili raffronti: nei Paesi veramente sfortunati generalmente il confronto a PPP fornisce un quadro lievemente meno fosco, perché è vero sì che in quei paesi si guadagna poco, ma è anche vero che di solito in quei paesi la vita costa (e spesso non vale) niente...
Questa roba qui, però, non altera drammaticamente il profilo temporale delle serie, semplicemente perché riflette caratteristiche economico-sociali che evolvono lentamente, troppo lentamente.
Tenetelo presente, perché ne parleremo subito dopo.
I babbei
Armati di questo bagaglio di nozioni che chi è qui da un po' già possedeva (ma saranno pochi quelli cui questo ripasso è stato inutile), affrontiamo ora un singolare pezzo di babbeo, lui:
La baio in inglisc ce l'ha, quindi sicuramente è un somaro. Ora godetevi lo scambio che inizia sotto questo mio tweet:
Simone dà subito la risposta giusta, ma il babbeo incompetente ovviamente non la capisce (e forse anche alcuni di voi, prima della lunga premessa, avrebbero avuto qualche difficoltà: ma non si sarebbero impancati a dar lezioni a uno che ha tre decenni di pubblicazioni scientifiche sulla materia, credo...). Del resto, se il rapporto fra due serie che per definizione sono misurate a tasso di cambio dell'anno base costante (cosa che solo i cretini ignorano) potesse essere influenzato dal tasso di cambio (cosa impossibile per definizione), il suo andamento dovrebbe essere dominato dalla variabilità del tasso di cambio, cosa che evidentemente non è, come si percepisce immediatamente mettendo accanto il rapporto in questione con la serie del tasso di cambio:
(i dati sul tasso di cambio vengono da Eurostat). Le due serie, com'è ovvio per chiunque non sia un baio in inglisc (cioè un somaro) non si parlano proprio, tant'è che il declino del Pil pro capite europeo in rapporto a quello mondiale inizia nel 2001 in una fase di protratto e violento apprezzamento del cambio, che va avanti fino al 2007! Per sette anni, insomma, il declino relativo del Pil è accompagnato da una violenta rivalutazione del cambio, esattamente come, del resto, nei cinque anni dal 1979 al 1984 una violenta svalutazione del cambio si era accompagnata a un sostanziale recupero del Pil pro capite europeo rispetto al dato mondiale. Evidentemente il babbeo non ha idea di quale sia il profilo temporale del tasso di cambio del dollaro nell'ultimo mezzo secolo: esattamente quello che ci aspettiamo da un "Investor/entrepreneur"!
Ma insomma, questo grafico, anche se l'ho voluto metter qui a futura memoria, è inutile per chiunque non sia un babbeo, per chiunque abbia un minimo di capacità di astrazione: mi spiegate in che modo un grafico costruito utilizzando serie in cui il tasso di cambio viene mantenuto costante potrebbe riflettere la variabilità del tasso di cambio (visto che questa è sterilizzata per costruzione)? Chiunque non fosse un cretino lo capirebbe.
La solfa invece va avanti:
(Simone Bonomi santo subito). Il babbeo, cercando di calciare la palla in tribuna con concetti che gli consentano di sembrare familiar with the matter, tira fuori la PPP, che, come gli fa notare Simone, non c'entra nulla. Per avere comunque (a beneficio dei meno esperti) anche un tangibile riscontro di quanto il passaggio alla PPP non cambi le cose, eccovi il grafico a PPP, che però parte dal 1990 (i dati antecedenti non sono disponibili sui WDI, anche se forse si potrebbero ricostruire con le PWT):
e anche qui si vede la stessa cosa: una crescita (debole) fino al 2001, una decrescita pronunciata dal change over in poi. Ma tutto è inutile, il babbeo insiste mostrando dati che non c'entrano assolutamente nulla (estratti da chissà dove, peraltro):
Lo stolido e pretenzioso babbeo, con la sua sicumera da "baio in inglisc", dimostra di non aver nemmeno capito quello che la legenda del grafico chiariva e che comunque avrebbe chiarito la lettura del post (ma figurati se un analfabeta funzionale simile si mette a leggere un post!): il mio grafico rappresentava un rapporto, che cazzo c'entra il fatto che il numeratore cresca? Neanche la differenza fra numeratore e frazione...
Con grande pazienza Simone spiega... ma lui insiste:
continuando ad avvitarsi su se stesso, fino a quando, all'improvviso, il genio! Ma prima, permettetemi una digressione.
Intelligenza artificiale e cretini naturali
Questa mattina ho ricevuto da un amico di a/simmetrie la segnalazione di un suo articolo all'insegna del veloavevodettismo (che è un po' la nostra maledizione) su un tema di grande attualità: i cretini naturali. Tutti i nodi dell'IA vengono al pettine, ci segnala Enrico. Non solo lugrin, ma anche ludiggital (che fra l'altro non è grin) s'ha mort, sostanzialmente perché
cioè perché, di converso, e per metterla con le parole di un informatico pratico:
La cloaca pullula di cretini che utilizzano l'IA (che è un raglio) per dirimere questioni in materie di cui nulla sanno. Ma come dice l'altro Enrico, quello teorico:
Un minus habens privo di alfabetizzazione economica al punto da non distinguere un rapporto dal suo numeratore e di non avere una contezza se pure elementare delle unità di misura dell'economia in che modo potrebbe trarre beneficio dall'utilizzo dell'IA per sostenere una conversazione economica?
In nessun modo, e infatti...
Babbei e IA (che è un raglio)
Immancabilmente e inesorabilmente entra nella conversazione l'IA, il micuggino digitale. Al nostro povero babbeo l'IA ha detto che:
Ora, qui si vede bene come l'IAG sia un realtà un amplificatore di cretinate piddine! Intelligenza infatti vorrebbe che si capisse che se la stessa unità di misura è utilizzata al numeratore e al denominatore il rapporto fosse adimensionale, ma lasciamo stare. L'amico insiste:
e qui la cosa si fa surreale. Inutile dire che l'amico attira l'immediato consenso dei suoi simili:
ma questa diventa rapidamente una breve storia triste, quindi la lasciamo stare:
Paulo maiora canamus: le origini del declino
Lasciato alle nostre spalle il mondo dei babbei incompetenti, e validato l'uso delle serie a dollari 2015 come perfettamente consone al nostro scopo (a detta della stessa IAG, peraltro, che andando a casaccio ogni tanto ci coglie), poniamoci invece qualche domanda seria sull'evidente declino europeo. Vi ricordo che il mio educated guess è che, rebus sic stantibus, fra circa quindici anni la quota dell'Eurozona sul Pil mondiale sarà a una cifra (e solo una cosa potrebbe evitare questo infausto destino: l'uscita della Germania dall'Eurozona, secondo la nostra storica proposta).
Lasciato il mondo delle contestazioni sciocche e disinformate di babbei e analfabeti funzionali poniamoci una domanda che potrebbe aiutarci a capire la natura del problema: il declino europeo è dovuto solo a quello italiano, o è comune agli altri Paesi? In altre parole, siamo noi ad aver zavorrato la zona, nonostante il forte impulso datole dalla locomotiva tedesca (daje a ride), o tutti i Paesi hanno cominciato a dare segni di affanno? La risposta a questa domanda dovrebbe essere abbastanza semplice, no? Ricordate le parole del Migliore?
(riportate qui). Dato che i salari sono Pil (nella definizione basata sul reddito), razionalmente ci aspettiamo che questa race to the bottom reciproca abbia riguardato tutti i principali Paesi dell'Eurozona, e in effetti è proprio così:
In Italia il fenomeno è stato più pronunciato, ma ha riguardato tutti, e si vede molto bene come in Germania il declino del Pil pro capite rispetto al valore mondiale, iniziato nel 1992, cioè con la rivalutazione del marco, si sia accentuato nel 2003, quello in cui sono entrate a regime le riforme Hartz, l'anno dell'aggressiva deflazione salariale competitiva che ha quasi mandato in cocci l'Eurozona sette anni dopo. Se la rivalutazione esterna non ha aiutato, la svalutazione esterna ha fatto peggio, e questo qualche indizio sulla natura del problema dovrebbe darcelo (in piena sintonia con le parole di Draghi).
Ora, è chiaro che il fatto che per definizione un taglio del salari sia un taglio di Pil non esaurisce il discorso, perché naturalmente ci sono effetti di secondo, terzo, ennesimo ordine. Per capirci, e riprendendo l'apparato analitico che abbiamo utilizzato per spiegare il miracolo lettone:
Y = C + I + NX = W + GOS + TS
un taglio di W (salari) potrebbe determinare un aumento di NX (esportazioni nette) sufficientemente elevato, nel qual caso l'austerità potrebbe, in astratto, determinare un aumento o almeno una ricomposizione del Pil (a vantaggio dei profitti): il flusso monetario in entrata via NX potrebbe più che compensare la distruzione di Pil via W, ovviamente determinando un aumento dei profitti GOS, e poi, magari, a ricasco, consentendo anche una redistribuzione su W. La scommessa era un po' questa, ma che cosa l'ha fatta fallire? Semplice! La fallacia di composizione, cioè il non capire che ci sono cose che funzionano finché le fai solo tu, ma non funzionano se le fanno tutti. La strategia beggar-thy-neighbour tedesca poteva funzionare se l'avesse praticata solo la Germania, che tra l'altro poteva permettersela perché, partendo dal reddito pro-capite più alto, poteva tollerarne una diminuzione senza generare uno stress sociale troppo intenso. In questo senso, la Germania razionalmente avrebbe dovuto impedire che gli altri Paesi aderenti al mercato unico la seguissero sulla strada della deflazione salariale: sarebbe stata la sua principale assicurazione del fatto che il suo surplus industriale avrebbe trovato uno sbocco nel mercato unico. Invece, come sapete, la Germania ha imposto (via sorrisetto della Merkel, austerità, ecc.) la deflazione agli altri, cioè ha tolto soldi dalle tasche dei propri clienti! Come sarebbe andata a finire era chiaro ad alcuni (lo sapete) e ad altri non sarà mai chiaro (lo constatate), ma chest'è! E siccome ciò che obbliga ad aggiustare la competitività deprimendo i salari è l'appartenenza all'Unione monetaria, finché esisterà l'euro proseguirà il declino dell'Eurozona, di cui, volta a volta, incolperemo i PIGS (ma abbiamo appunto visto oggi che loro non c'entrano: tutti sono andati giù insieme per i motivi illustrati da Draghi), la Cina, l'America, la Russia, i marziani (che non esistendo ci impediscono di vivere in un mondo in cui ogni Paese sia esportatore netto), e via dicendo.
In tutto questo, vorrei che non perdessimo mai di vista perché ci stiamo suicidando! Perché l'austerità non ha come obiettivo il consolidamento della finanza pubblica: quello è un pretesto, il vero obiettivo è alterare la distribuzione del reddito a favore delle rendite finanziarie:
Quello che vi ho sempre detto, cioè che l'austerità, la svalutazione interna, la svalutazione del salario, era per definizione una politica redistributiva, oggi si affaccia timidamente anche alla mente di quelli bravi. Guardate ad esempio questo lavoro:
assolutamente accessibile per chi è qui da un po'. Anche all'estero, col loro connaturato ritardo (non essere italiani è oggettivamente un handicap) cominciano a capire che il problema non è Italia-Germania 4 a 3, ma Capitale-Lavoro 1 a 0.
Credo sia interessante analizzare le sfaccettature che nei vari Paesi hanno spinto la sinistra a perdere di vista la difesa della quota salari, le diverse modalità e le diverse motivazioni di questo tradimento. Ci interessa sia da persone che vorrebbero tutelare il potere d'acquisto della propria remunerazione, sia, eventualmente, da politici cui il potere (molto relativo!) è stato consegnato appunto da questo tradimento, e che quindi devono interpretarlo e almeno fingere di porvi rimedio, se al potere vogliono restare per consolidarlo ed esercitarlo allo scopo di effettuare l'unica riforma strutturale di cui abbiamo bisogno. Insomma, si torna sempre alla conversazione con Luciano Canfora: per capire se e in che modo fare qualcosa di sinistra da destra è indubbiamente utile capire per quali motivi la sinistra si sia condannata a fare cose di destra (e nonostante le apparenze anche questa lo è: so che fa male ammetterlo, ma lo è...).
Bene.
Tanto vi dovevo per questo piovoso weekend di Pasqua. Come vedete, i temi di fondo sono i soliti, il problema resta il solito, la soluzione razionalmente e astrattamente è disponibile. Ci vorrà molto tempo e molta pazienza, ma alla fine la violenza dei fatti prevarrà sullo stupido egoismo di pochi. Guidare il Paese in acque così insidiose non sarà semplice: se ci riusciremo, sarà anche per merito di chi si sarà affidato a chi per primo ha dimostrato di capire che cosa stesse succedendo e come sarebbe andata a finire.
Mi arriva da una persona che stimo (perché se lo merita) un messaggio caloroso, direi quasi accalorato: “Bravo prof, è una gioia ascoltarla parlare finalmente liberamente”, con uno screenshot di questa trasmissione:
…e a questo punto mi sorge una domanda: ma che avrò mai detto? Nel dubbio, mi riascolto. Se notate qualcosa di strano, fatemelo sapere…
Vedendo questa intervista in onda oggi, la maggior parte delle persone si saranno dette che quelle sull’esito della visita del premier a Washington fossero delle parole di circostanza abbastanza scontate, e magari pronunciate per nascondere un certo dispetto da parte di chi avrebbe preferito un fallimento dell’alleato, sperando di trarne indirettamente un tornaconto. Se leggete i commenti su YouTube, capirete bene che cosa intendo.
I commenti al video potete leggerli, la mia agenda no, quindi ve la riporto qui sotto:
(beh, ovviamente non tutta! 😉).
Sì, è come vedete: l’intervista che pensavate fosse in diretta in realtà era stata registrata prima che il premier atterrasse a Washington. In studio qualcuno diceva a mezza bocca: “Magari facciamo attenzione, perché se poi Trump impazzisce e la visita è un disastro…”. E io, con la mia consueta e connaturata sicumera: “No, la visita non sarà un disastro: state tranquilli, le cose hanno una certa tendenza ad andare come dico io!”, e poi in intervista ho detto quello che sarebbe successo, e che in effetti è successo. Leggendo la rassegna stampa di questa mattina, mi sono poi reso conto che il comune sentire era in effetti quell’altro: il nome dei commentatori secondo cui Trump è un pazzo imprevedibile e la Meloni una sprovveduta è Legione!
Quello che è successo, però è un’altra cosa. Dopo anni in cui il PD ci ha raccontato a reti unificate che avevamo bisogno di farci prestare credibilità dall’Europa, rimosso il PD (che era il problema) a seguito di una catena di eventi che qui avevamo descritto, è l’Italia a prestare all’Europa la propria credibilità. In questo momento devo confrontarmi con legioni di puntacazzisti che, armati di un affilato temperino, mi fanno osservare, non senza una qualche plausibilità, che “però Meloni non ha detto la U-parola o la P-parola”, o magari, peggio ancora, che “però sul [outlet di qualche pezzo di merda] è scritto che Meloni…”.
Del fatto che sia l’Italia per una volta a prendere almeno simbolicamente (ma direi anche abbastanza sostanzialmente) la leadership del blocco regionale cui apparteniamo, e che questo, insieme all’upgrading del debito pubblico, sia un evento cui nella nostra vita biologica non abbiamo mai assistito, né ci aspettavamo di assistere, si tace.
Certo, sono assolutamente d’accordo, del giudizio dei mercati dovremmo in realtà fottercene (se fossimo in condizioni di farlo), anche considerando il fatto che, come vi ho insegnato io e non altri, il debito pubblico tutto sommato non è l’elemento diagnostico più rilevante sulla salute di un’economia (anche se è l’unico che la governance europea scruta ansiosa). Se non sbaglio, negli ultimi post stiamo parlando proprio di questo, no? Non vorrete mica venirmi a insegnare quello che so come un Gilberto Trombetta qualsiasi!? 😂
Guardo certi atteggiamenti con nostalgia, perché mi rendo conto che una volta erano anche i miei.
Nel frattempo ho imparato a vedere le cose anche da altre prospettive. Certo che l’obiettivo deve essere quello di svincolarsi dal progetto europeo. Ma chi ci è riuscito finora? Solo chi a questo progetto aveva prestato la lingua franca e soprattutto in questo progetto si era insediato in posizione di forte leadership. Gli inglesi se ne sono andati da Bruxelles, perché erano a Bruxelles. Noi, grazie al PD, a Bruxelles sostanzialmente non ci siamo mai stati se non passivi, subalterni, irrilevanti.
Farsi rispettare, piaccia o meno, è comunque un primo passo.
Ogni stagione della vita ha le sue semine e i suoi raccolti. Dalla mia stagione di puntacazzismo porto con me, come raccolto, il ricordo di chi ha avuto l’intelligenza di sopportare la mia supponenza e ascoltare il mio messaggio. E anche se, come è ovvio, la mia ammirazione, la mia riconoscenza e la mia lealtà vanno a chi ha spinto il proprio coraggio intellettuale fino a prendersi il rischio di coinvolgermi (perché era un rischio: i docenti universitari in politica raramente fanno una riuscita decente!), non per questo mi dimentico o sottovaluto anche gli altri, o meglio l’altra (per inciso, in questa rara foto d’epoca trovate anche gli unici due parlamentari sensibilmente e attivamente appassionati di musica barocca - ma all’epoca non lo sapevo)!
È stata quindi una previsione facile, quella di ieri, e ci tenevo a condividerla con voi, perché so che vi fa piacere essere in un luogo in cui trovate oggi quello che succederà domani, anche quando domani è oggi, e oggi… era ieri!
Questa domanda me la son sentita fare alla fine dell'ultima lezione tenuta alla Scuola di Formazione Politica della Lega, ma prima ancora me la sono sentita porre dai più disparati interlocutori cui risultava difficile capire, o, nel caso fossero piddini, ammettere, che l'aggiustamento macroeconomico in una unione monetaria avviene a spese dei salari nominali.
L'obiezione cretina dell'average Joe piddino è: "Ma i salari nominali contrattuali non sono scesi! Quindi caro Bagnai stai mentendo: tutt'al più potrai dire che c'è stato un aggiustamento dei salari reali, cioè che i lavoratori non sono riusciti a recuperare tutta la perdita del potere d'acquisto dovuta all'inflazione, ma una diminuzione dei salari nominali è impossibile!"
Strano però che dai dati risulti:
come vi ho mostrato qui. Come si spiega questo apparente paradosso, cioè il fatto che i sindacati non abbiano esplicitamente negoziato degli accordi salariali al ribasso, ma i salari nominali siano ugualmente scesi? Spiegarlo in effetti non è difficile, e lo facemmo a suo tempo qui, cioè in un post di questo blog scritto nel mese evidenziato in questo grafico:
La soluzione dell'arcano è immediata: i salari si fanno scendere con la disoccupazione.
Al piddino, essere autocentrato e quanto mai privo di empatia, questo dettaglio sfugge, ma a voi non sfuggirà. Il taglio dei salari nominali ovviamente non si verifica con il datore di lavoro che entra in azienda e ti dice: "Ho una brutta notizia per te: da domani ti pago di meno!". No. Funziona in un modo diverso: il datore di lavoro entra in azienda e dice: "Ho una brutta notizia per te: da domani te ne vai!"
In pratica non fa nemmeno esattamente così, ma insomma il risultato è comunque che tu te ne vai: e quando sei in mezzo a una strada, quando non guadagni nulla, è sufficientemente ovvio che per rientrare nel mercato del lavoro accetterai anche una mansione o comunque una paga più bassa. Ripeto: non è una grande novità. Gli economisti la chiamano curva di Phillips, qui ce ne siamo occupati svariate volte, soprattutto per contestare la bislacca teoria della Giovanna d'Arco della MMT secondo cui questa relazione non sarebbe esistita (ma le sfuggiva un dettaglio).
Mi è tornata in mente questa storia (e questa domanda) in relazione a uno scambio in calce al post precedente:
Come mai in Spagna la dinamica del costo del lavoro è così sostenuta, nonostante che la disoccupazione sia così alta?
Basta prendere i dati: quelli della disoccupazione sono qui e quelli del costo del lavoro sono qui (nota bene: ho scelto dal database Eurostat le stesse definizioni di disoccupazione e costo del lavoro utilizzate dalla procedura per gli squilibri macroeconomici).
In Spagna le cose stanno così:
La relazione inversa fra variazione del salari e tasso di disoccupazione, W = f(U), è ben evidente, ma è spostata molto a destra, il che significa che occorre un tasso di disoccupazione veramente molto alto, attorno al 20%, perché i salari accennino a flettersi (cioè perché il loro tasso di variazione diventi negativo, scenda sotto l'asse delle ascisse). Ci sta quindi benissimo che con una disoccupazione al 10% il tasso di crescita del costo del lavoro (nominale) sia attorno al 12%.
Vi risparmio (e quindi, nel caso ne siate al corrente, risparmiatemi) le infinite seghe mentali econometriche su come stimare o non stimare questa relazione: la prendiamo qui come mera sintesi descrittiva di dinamiche che certo non sono né lineari né bidimensionali, ma a ogni giorno basta la sua pena, e un R quadro del 61% ci dà sufficienti garanzie del fatto che il modello, pur nella sua semplicità, qualcosa del mondo ce lo sta raccontando.
Ma da noi le cose come stanno?
Stanno così:
La nostra curva di Phillips è spostata molto più a sinistra, il che comporta che già per tassi di disoccupazione attorno al 12% si possono avere tassi di variazione del costo del lavoro nominale negativi.
A cosa sono dovute queste differenze strutturali così marcate? A tanti fattori sociologici e economici, a partire, naturalmente, dalle istituzioni che regolano il mercato del lavoro. A dire il vero, gli indicatori OCSE sulla rigidità delle norme a protezione dei lavoratori sembrerebbero indicare maggiori tutele nel caso dell'Italia:
In teoria questo comporterebbe che i lavoratori italiani sarebbero in condizioni di resistere maggiormente alle pressioni al ribasso sui loro salari, e quindi che occorrerebbe un tasso di disoccupazione più elevato per farli cedere. Tuttavia, abbiamo imparato qui quanto possiamo fidarci dell'OCSE, e quindi non siamo poi così tanto stupiti che i dati indichino l'esatto contrario!
Una dotta disamina dell'effetto delle riforme "strutturali" sul mercato del lavoro spagnolo la trovate qui a cura dei nostri amici del Fmi, ma sinceramente dei casi altrui potevo occuparmene quando ero un docente universitario: ora che sono un parlamentare devo occuparmi dei casi vostri. Se qualcuno ha voglia di leggersela con l'intelligenza artificiale e di raccontarci in che modo "Carlo is correct!" si arrampica sugli specchi ben venga.
Intanto, riassumendo, mi avete chiesto un approfondimento e ve l'ho dato: non è strano che il cruscotto della MIP indichi in Spagna un tasso di disoccupazione e un tasso di crescita dei salari entrambi piuttosto elevati rispetto agli standard italiani: significa semplicemente che la curva di Phillips spagnola è più in alto di quella italiana.
Sul perché lo sia magari torniamo un'altra volta, o lo scopriremo dalla discussione che seguirà...
Ricorderete l'immortale scena in cui una delle tante di passaggio rimprovera a Woody Allen di aver creduto, nella sua ipocondria, di essersi preso un melanoma, e lui replica: "Ma avevo una macchia nera sulla schiena!", e lei controbatte: "Sì, ma era sulla camicia!"
Ieri anche il vostro ecclesiarca aveva qualcosa di simile a una macchia nera sulla camicia (il colore era un altro, non era la camicia e non era una macchia, ma insomma...), e quindi questa mattina ha colto l'occasione per vincere la pigrizia e fare tutte le analisi in programma (tutte negative, nel senso di positive, perché, sempre per citare il noto attore, passata una certa età le parole che è più bello sentirsi dire non sono "ti amo!", ma: "è benigno").
Con l'occasione, mi è venuto in mente (perché la mia ecclesia è naturalmente sempre in cima ai miei pensieri) che vi avevo promesso, qualche post fa, di farvi vedere le analisi dell'Europa, cioè come si stavano comportando i vari Stati alla luce degli indicatori della MIP (Macroeconomic Imbalances Procedure). L'idea era un po' quella di vedere, laddove arrivasse uno sgrullone (ad esempio una crisi finanziaria, perché la storia non è finita...), quali Stati membri sarebbero più esposti a rischi, almeno secondo le metriche dei nostri illuminati sovragovernanti.
Il quadro di sintesi è questo:
e come vedete noi siamo ultimi (cioè primi) a pari merito con la Polonia, mentre il maggior numero di analisi positive (cioè di segnali di allarme) lo consegue l'Irlanda, l'unica ad avere sei valori fuori scala.
Il quadro di dettaglio è questo:
Mi interessano e incuriosiscono le vostre considerazioni.
Come vedete, in alcuni casi i segnali che provengono da questo cruscotto sono o sembrano contraddittori. Ma questo difficilmente colpirà l'attenzione dei nostri amici piddini. L'unica cosa che avranno difficoltà ad accettare è che secondo la loro amata Leuropa l'odiata Italia (Paese di mandolinisti) sia la prima della classe...
Sul significato da attribuire a questa classifica potremmo esercitarci a lungo.