sabato 3 maggio 2025

QED 108: l’euro e la compressione della democrazia

La notizia di cronaca è questa:

ed è un QED perché qui abbiamo sempre ammonito contro un ovvio dato di natura quando i lavori per comprimere la democrazia erano ancora in corso:

(qui) cercando anche di coinvolgere chi sulla difesa degli ultimo aveva fatto i soldi rifacendosi la verginità (ad esempio qui).

La compressione della democrazia è una conseguenza logica della compressione dei salari (cioè dell’euro) perché i salari sono la retribuzione della maggioranza. Punto.

Euro e democrazia, insomma, sarebbero compatibili solo se si votasse a minoranza, come fingevano di credere i troll del PD che in pandemia ci chiedevano di far cadere il Governo, e come genuinamente credevano gli scemi che gli andavano dietro seminando disfattismo.

Ma (per ora) si vota a maggioranza.

Si potrebbe chiedere: ma perché se in Germania i salari sono stati compressi nel 2004, la reazione repressiva si palesa solo il 2025. La risposta è articolata e credo istruttiva anche per noi, e consta di almeno tre pezzi.

Il primo aspetto è che, come abbiamo sempre detto, la compressione dei salari è meno percepibile se nel Paese che la mette in opera i salari sono relativamente alti, come era il caso della Germania, tanto più se viene accompagnata da politiche di sostegno finanziate in deroga alle regole europee (la famosa violazione delle regole europee da parte della Germania di cui parlammo qui). C’è quindi voluto un po’ di tempo perché i cittadini tedeschi prendessero coscienza e dessero vita a un movimento politico di contestazione dell’ordine costituito.

Il secondo aspetto è che affinché si diffondesse fra i cittadini tedeschi una piena coscienza del vicolo cieco in cui le politiche mercantiliste dei governo precedenti avevano messo il loro Paese, probabilmente occorreva che il ramo segato si schiantasse, trascinando loro nella recessione. Non possiamo aspettarci dai cittadini tedeschi quello che non abbiamo saputo fare neanche noi: preoccuparci per l’irrazionalità di un sistema quando colpisce altri, ad esempio i greci. Ma da quando colpisce loro, i cittadini tedeschi hanno votato massicciamente per AfD: un partito che ha ben chiaro come l’euro costituisca un problema, anche se, naturalmente, interpreta questo problema a modo suo, che non è necessariamente il nostro.

Il terzo aspetto è che quella prova generale di totalitarismo che è stata la pandemia, seppure non imprevedibile e non particolarmente stupefacente per chi qui l’aveva vista venire, ponendo in evidenza il tema dello scientismo anni prima che questo si manifestasse in tutta la sua virulenza, ha indubbiamente avuto l’effetto di aprire una gigantesca finestra di Overton. Una simile ingerenza nel processo democratico di un paese da parte di una istituzione sovranazionale sarebbe sembrata inconcepibile negli anni ‘90, ma forse anche negli anni ‘10, mentre oggi, dopo che ci hanno chiusi tutti dentro, dopo che lo Stato ha manifestato, per buoni o cattivi motivi, il suo volto autoritario, in qualche modo ci siamo abituati, tendiamo a considerare più normale un esito simile.

Ma è normale?

Ovviamente no.

E può funzionare?

Finché si manterranno le forme della democrazia, finché si cercherà di salvare le apparenze, altrettanto ovviamente no, perché se i cittadini capiscono che per cambiare la situazione devono portare il partito antisistema al 67%, in un modo o nell’altro ce lo porteranno, o ci proveranno, suscitando sempre più esplicite risposte repressive, fino all’abolizione delle elezioni in difesa della democrazia (che è un po’ come fare politiche di austerità per favorire la crescita o dotarsi di una valuta forte in difesa delle esportazioni, se ci pensate…). Gli elettori più progrediti, cioè quelli del paese dove la resistenza è cominciata prima, cioè voi, sanno che questa è una condizione necessaria ma non sufficiente, sanno che c’è tanto altro da fare e da costruire perché un’alternativa si realizzi, ma il consenso della maggioranza degli elettori, cioè il consenso da parte dei danneggiati del sistema, resta un elemento imprescindibile (finché si vorranno mantenere libere elezioni).

Capite bene che sto mettendo in conto che un domani si possa contestare l’utilità di libere elezioni. A quel punto sarà ovviamente impossibile contrastare pubblicamente la razionalità del sistema in cui siamo immersi. Per il momento forse lo è ancora, e quindi godetevi, con questo inevitabile QED, una bella giornata di sole.

Potrebbe andare peggio… Potrebbe piovere!

Ah, e il bicchiere mezzo pieno? C’è anche quello! A elezioni soppresse non dovremo più sorbirci non tanto la loro propaganda (che tanto già oggi è a reti unificate), quanto i loro troll, perché quando non si potrà più votare non sarà più necessario convincere le persone che votare non serve a niente!


(…se non ve lo fa capire quello che sta succedendo in Germania a cosa serve…)

venerdì 2 maggio 2025

Come si calcolano iSalari™️ (parte prima)

(...approfittando della risacca del ponte, riprendo questo post iniziato il 30 aprile e poi interrotto per questi motivi, con l'aggravante di questo incidente - incredibile: qualcuno considera gli operatori informativi delle forme di vita intelligenti! - e cerco di portarlo a termine, così la facciamo finita con le obiezioni degli utenti di ChatPD e mandiamo avanti il discorso sull'essenziale...)



Beppe88 ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Tesoro, mi si sono ristretti i salari!":

Buongiorno Professore, una domanda (forse un pò da dilettante, ma lo sono): cosa cambia rispetto ai grafici sull'andamento dei salari medi unitari mostrati in altri articoli del blog e che sembrano evidenziare un andamento diverso dei nostri salari (ossia totalmente piatto)? Mi riferisco per esempio a questo articolo:

https://goofynomics.blogspot.com/2024/11/la-kuestione-salariale.html

La differenza è legata alla produttività? Cioè nel grafico di questo post si considerano solo le retribuzioni lorde senza ponderarle per la crescita della produttività, mentre nei precedenti si considera l'andamento del costo del lavoro per unità di prodotto?

Grazie come sempre e buona giornata,

Giuseppe

Pubblicato da Beppe88 su Goofynomics il giorno 30 apr 2025, 11:14



Domanda più che lecita, e anzi scusate se per la fretta non sempre metto i link o addirittura la menzione dei database che uso. Facciamo tutti i passaggi, così imparerete a usarli anche voi, e questo vi permetterà di fare un referaggio (che non è un trollaggio) più accurato di quello che vi dico.

Intanto, vi dico dove non si trovano i salari. Non li troverete nel database del World Economic Outlook del Fmi. Non è immediato trovarli nelle International Financial Statistics, che hanno appena cambiato interfaccia, migliorandola (cioè peggiorandola per chi era abituato da decenni alla vecchia, come me): una volta c'era un indice delle retribuzioni nominali contrattuali, ci sarà ancora, ma ho solo due ore e un limitato numero di invocazioni della divinità a disposizione, non ho tempo di cimentarmi con quello che qualche ingengngniere ha trovato fosse un metodo più logico per raggiungere un'informazione che una volta era a portata di clic. Non ci sono nei World Development Indicators, dove se cercate "wage" (salari) vi esce questo:


cioè statistiche sul lavoro minorile e sull'inclusione, ma non il livello dei salari.

Ci sono invece nel Data explorer dell'OCSE, anzi, direi che ce ne sono troppi, perché cercando "wage" nel motore di ricerca:


ottenete 92 database:


e per arrivare a qualcosa di simile a quello che serve a noi dobbiamo necessariamente circoscrivere la ricerca ai conti economici nazionali:

ma non proseguiamo oggi questa pesca miracolosa. Ci sono nel database AMECO, dove li trovate selezionando la definizione di Pil dal lato dei redditi:


(l'ultima volta che abbiamo spiegato che cos'è il Pil è stata qui, per inciso, chi non lo sa fa bene a dargli un'occhiata e chi lo sa fa meglio, perché in realtà crede di saperlo; rinvio comunque al sito di Borsa Italiana per una sintesi efficace, così capirete perché per trovare i salari conviene cercare il Pil...). Il database AMECO ha comunque il limite di proporre solo dati annuali. I dati trimestrali si trovano ad esempio nel database Eurostat, che è poi quello che ho utilizzato io, andando a selezionare nell'albero 


la scomposizione del Pil trimestrale. Ci sono poi naturalmente nel database dell'Istat, che mette insieme i dubbi vantaggi (chiamiamoli così) delle Ifs (l'interfaccia è appena stata "migliorata") e dell'OCSE (fornisce troppi dati, quindi uno si perde), con un indubbio svantaggio: riporta solo dati italiani, com'è giusto che faccia un istituto nazionale di statistica, ma a noi serve poter confrontare con dati omogenei la situazione in diversi Paesi europei.

Fare riferimento all'Eurostat offre anche un vantaggio tattico nei riguardi dei piddini: per loro tutto quello che è "europeo" è migliore, quindi sconfiggiamo "i nazionalismi" tenendo per un momento da parte l'ISTAT, e cerchiamo di ricordarci rapidamente che cosa stiamo cercando.

Partiamo dalle definizioni italiane, ricordando che, in modo almeno per me un po' controintuitivo, le cose stanno così:


Il costo del lavoro, comprensivo degli oneri sociali (in particolare di quelli a carico del datore di lavoro), viene detto "reddito", mentre il reddito percepito dal lavoratore (al netto quindi degli oneri sociali) viene chiamato "retribuzione". In inglese le cose stanno invece così:


I redditi da lavoro dipendente intesi come costo del lavoro si chiamano "retribuzione dei dipendenti" (compensation of employees), of which salari e stipendi (wages and salaries), cioè quello che in italiano chiamiamo "retribuzioni lorde" (perché sono al lordo delle imposte anche se sono al netto degli oneri sociali) sono una componente, l'altra componente essendo i contributi sociali a carico del datore di lavoro (employer).

Alles klar?

In questo grafico:


utilizzavo appunto i Wage and salaries dell'Italia.

Prima di andare avanti, vi evidenzio un limite del database Eurostat: nella stragrande maggioranza dei casi non fornisce dati anteriori alla metà degli anni '90. Ora, noi sappiamo che la stasi del salari reali comincia all'inizio degli anni '80:


in ovvia sincronia con il divorzio Tesoro-Banca d'Italia, ma su campioni così lunghi non abbiamo dati trimestrali. Quello che occorre sono i dati annuali di AMECO il cui uso è stato illustrato qui (per cui chi vuole se lo va a vedere lì).

Torniamo a noi.

Mentre la definizione di Pil dal lato della domanda (consumi, investimenti, ecc.) viene fornita sia in termini nominali (prezzi correnti) che reali (prezzi costanti), la definizione dal lato del reddito viene fornita solo a prezzi correnti, perché non è ovvio capire quale indice dei prezzi usare per "deflazionare" salari e profitti. Di norma quindi nelle fonti non troverete i salari reali (real wages):


ma dovrete scegliere voi con quale indice dei prezzi deflazionare i salari per calcolare il potere d'acquisto dei lavoratori. La cosa, come vedremo immediatamente, comporta un livello di complessità in più, ma una cosa alla volta.

Intanto, vediamo come scaricare i Wage and Salaries. Se cliccate su questo link:


ottenete questa schermata:

cioè di default il database vi fornisce il Pil grezzo (non destagionalizzato) a prezzi correnti per gli ultimi 10 trimestri su 43 paesi (leggendo le informazioni in senso antiorario a partire da quella evidenziata.

A voi invece servono i Wage and salaries destagionalizzati a prezzi correnti per tutti i trimestri disponibili e per un solo Paese (Italy). Dovete quindi "customizzare" la richiesta e potete farlo cliccando sul pulsante blu in alto a destra nell'ultima schermata. Venite portati qui:


dove, ad esempio, cliccando su "Check all" selezionate tutti i periodi disponibili. Potete poi selezionare dalla lista a sinistra i vari elementi che desiderate modificare, e agire sul riquadro di destra per modificarli. Ad esempio, nel riquadro che vi consente di selezionare la variabile di interesse dovete fare così:


selezionando "Salari e stipendi". A questo punto la cosa più ovvia da fare sarebbe selezionare la misura a prezzi costanti, in questo modo:


ma il risultato sarebbe questo:


visto che per i motivi che vi ho specificato sopra i salari in termini reali non vengono calcolati. Quindi dovete selezionare la misura a prezzi correnti, ecc.

Alla fine di questa lunga storia dovreste ritrovarvi con questo risultato:

e trascinando "Time" sulle righe potrete riorganizzare le informazioni così:


in modo da vedere più dati:


dopo di che, utilizzando il pulsante "scarica":


vi ritroverete il tutto in un comodo foglio Excel:


Tutto cosa?

Il monte salari complessivo in milioni di euro a prezzi correnti. Quindi non i salari medi a prezzi correnti (per ottenerli dobbiamo dividere per il numero di lavoratori dipendenti o employee), non il monte salari a prezzi costanti (per ottenerlo dobbiamo dividere per un indice di prezzo), non i salari medi a prezzi costanti o "in termini reali" (per ottenerli dobbiamo dividere per il numero di lavoratori dipendenti e un indice di prezzo).

Cominciamo dagli indici di prezzo.

Possiamo utilizzare il deflatore dei consumi, quello del Pil (per restare nello stesso database), o l'HICP (indice armonizzato dei prezzi al consumo), e quello che volete. Nel grafico che tanto vi ha incuriosito utilizzavo l'HICP, ma in effetti la cosa più ovvia è utilizzare un deflatore, semplicemente perché li avete nella stessa base dati. Per ottenerli dovete selezionare invece di Wage and salaries una (o più) componenti di domanda, ad esempio la spesa per consumi delle famiglia:


e invece della misura a prezzi correnti, il deflatore. Ottenete questo:


cioè questo:


I due indici differiscono per ovvi motivi (il deflatore del Pil tiene conto non solo dei prezzi dei beni di consumo, ma anche dei beni capitali, delle importazioni, ecc.):


e quindi differiscono i tassi di inflazione calcolati usando le due serie. Si ritiene normalmente che per valutare il potere d'acquisto delle famiglie il deflatore dei consumi sia più appropriato, quindi useremo quello e i calcoli sono presto fatti:


Dividiamo il monte salari nominale per il deflatore dei consumi dell'anno corrispondente, a sua volta diviso per 100). Otteniamo così la serie depurata dall'effetto dei prezzi. Qui ve le rappresento entrambe:

Per oggi ci fermiamo qui: preferisco spezzare la lezione in quattro per motivi di salute mia e di comprensione vostra. Se ci sono cose poco chiare, potete intanto segnalarle nei commenti. Magari, prima di chiedere, gli interessati potrebbero provare a riprodurre quest'ultimo risultato: se qualcosa non torna, allora bisogna ragionarci. Potrei sempre aver sbagliato io...

ChatPD

Qualche tempo fa (ero ancora in servizio) nei dipartimenti universitari si discuteva se dotarsi o meno di software antiplagio. C’era insomma il problema che gli studenti, per tagliare corto, quand’anche non prendessero l’intera tesi da siti dedicati, comunque copiavano e incollavano nella tesi interi brani dal web, e questo fenomeno si sosteneva andasse contrastato acquistando un apposito strumento.

A mio avviso la spesa sarebbe stata inutile: semplicemente, se una frase sembrava scritta in italiano, era matematicamente (cioè probabilisticamente) certo che non fosse farina del sacco di uno studente uscito dalle scuole superiori italiane! E infatti, a riprova, io semplicemente “googlavo” quelle poche “pezze a colore” di italiano che rinvenivo nelle tesi, immediatamente rinvenivo la fonte primaria, convocavo lo studente ad audiendum verbum, gli chiarivo che con i superpoteri conferitimi dalla lettura dei libri senza figure lo avevo sgamato, gli spiegavo come deve regolarsi una persona intellettualmente onesta con le fonti, e ci lasciavamo da buoni amici.

Ora, esattamente come ieri se una frase di una tesi sembrava scritta da un italiano certamente era stata copiata dal web, così oggi se un commento social sembra scritto da un piddino certamente è stato elaborato dall’IA!

È in questo modo che ci siamo scrollati dai genitali esterni quel fastidioso troll che si era qui palesato come Dalmata (cioè come un erede morale di Ante Pavelic): ora, noi parliamo con tutti, anche coi nazisti (che non ci sono più), perfino (mi spingo a dire) con gli europeisti (che ci sono ancora), pur non condividendo le loro idee, e proprio perché non le condividiamo!

Della verbosità piddina dei LLM però facciamo volentieri a meno.

E non venitemi a dire che non è colpa dei LLM se sono garbage in - garbage out e quindi essendo il web egemonizzato da sterco piddino loro di quello si cibano e quello a loro volta defecano in gola a chi se ne serve! Grazie tante! Il problema non è questo, per il semplice fatto che i LLM essendo macchine non possono avere colpe!

Il problema (visibile, temo, solo a me!) è che nell’accademia italiana ci siano docenti che hanno bisogno di un software per percepire bruschi e vistosi scarti nel registro linguistico di uno studente, cioè, per dirla in un altro modo, che l’accademia italiana, nella sua “mejo gioventù”, è ormai popolata in netta preponderanza da persone che per sopravvivere nel sistema statunitense di promozione dell’iperspecializzazione hanno fatto il sacrificio di rinunciare a leggere libri senza figure. O, se vogliamo, con forse maggiore precisione: il problema è che l’accademia italiana è popolata di idiots savants per cui leggere un libro senza figure è un sacrificio.

Il discorso pubblico sull’IA è prevalentemente affidato a esseri simili (film già visto col clima e con la pandemia, peraltro, e prima ancora con la crisi dell’Eurozona).

Cosa può andare storto?

Chiedetelo a ChatPD!


giovedì 1 maggio 2025

San Domenico (il mio primo maggio)

 


(…ci riferiamo all’abate, cioè al noto fondatore di community del X secolo, che è passato anche per il mio feudo, dietro al monte omonimo. E anche da questa vita operosa ci sarebbero molte lezioni di politica da trarre…)

mercoledì 30 aprile 2025

La durezza del vivere

...eggnente!

Mi volevo rilassare un'oretta con voi prima di una riunione, e tanto per cambiare, appena aperto il computer, scoppiano due casini, uno qui, e uno qui (e più non dimandate).

C'è tanta manovalanza da fare, con senso di responsabilità, discrezione, e amore per il Paese. Ma soprattutto, come dico ai miei ex colleghi (accademici) per cercare di spiegare com'è cambiata la mia vita: qui è come essere in un pronto soccorso! Ogni due per tre arriva qualcuno con un problema inaspettato, spesso incomprensibile nella genesi e nella gestione (tipo questi o questi, o giù di lì...), tutti caratterizzati da somma urgenza (ci mancherebbe!), con i codici verdi che si lamentano cinque volte più dei codici rossi (ma solo perché hanno cinque volte più energie per farlo, ovviamente), e con l'aggravante che in undici casi su dieci tu avevi saggiamente e discretamente avvertito l'interessato di pensarci prima! Per non parlare di quello che ti cerca per dirti una cosa che tu già sai ampiamente, e siccome ti dedichi ad altri di cui invece non conosci i problemi ti fa cercare dal collega autorevole... Quello che chiamo l'effetto "oblò della lavatrice" (quando una persona ti si affaccia anche dallo sportello della dispensa, trasformando all'istante il tuo blando apprezzamento umano e professionale in un viscerale e sordo sentimento di odiosa ripulsa...).

Ma è vita questa?

Naturalmente sì, è la nostra vita, a modo suo appassionante (non vorrei dire divertente...): è un onore essere a supporto di chi le scelte deve prenderle, ma deve necessariamente delegare ad altri i compiti istruttori o di rappresentanza, esattamente come io delego alla mia squadra, che mi sono costruito con fatica nel tempo, il compito di istruirmi certe pratiche e di tenere aggiornati certi dossier, per poter a mia volta dare risposte fondate ai livelli superiori.

Una catena di affetti che è opportuno non interrompere (semicit.)! Una caterva di rogne da sistemare di cui, quand'anche non fosse impossibile parlare per motivi di riservatezza, non sarebbe comunque possibile dare una compiuta descrizione per vincoli di tempo, perché le vicende umane non sono solo private: sono anche incredibilmente complesse e piene di dettagli

Aiutare a risolvere un problema concreto dà una soddisfazione superiore rispetto a quella, puramente narcisistica, di pubblicare sulla rivista "importante". Ci sono però dei momenti in cui ti fermi e realizzi che essersi messo a servizio degli altri significa non essere più padroni del proprio tempo, ad esempio del tempo di rispondervi o anche semplicemente di leggervi con attenzione (per non dire di leggersi un libro o di fare gli ascolti di un disco), e questo un po', inevitabilmente, lo si rimpiange. Ma poi vedi come si spendono tutti gli altri compagni di squadra (per non parlare del capo), capisci che essere coinvolto è un privilegio, e ti rimetti a testa bassa a smussare gli angoli, perché si trovino le soluzioni migliori, perché si faccia il miglior pane con la farina che si ha.

Quindi, cari amici, la spiegazione di come ho fatto il grafico dei salari reali è rimandata a più tardi, ma se me ne dimentico ricordatemela. Di salari si parlerà molto, e la maggior parte delle volte a vanvera, quindi ci terrei a darvi delle solide basi statistiche.

E ora torno alle mie tempeste in un bicchier d'acqua (o di Montepulciano), che comunque, per chi ci è coinvolto, una loro pregnanza ce l'hanno, e ogni sensibilità va rispettata.

Questa è la durezza del vivere.

Tesoro, mi si sono ristretti i salari!

(...così, de bbotto, ci accorgiamo che esiste un problema di salari in Italia...)


 (...retribuzioni lorde di contabilità nazionale deflazionate con l'indice armonizzato dei prezzi al consumo, indice con base 1996:1=100, il quadrato rosso indica il periodo di illuminata gestione del PD in esecuzione degli ordini di Draghi, come documentato qui...)


Dal Vangelo secondo Matteo:


Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia decimatis mentam et anethum et cyminum et reliquistis, quae graviora sunt legis: iudicium et misericordiam et fidem! Haec oportuit facere et illa non omittere.

Duces caeci, excolantes culicem, camelum autem glutientes.

Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia mundatis, quod de foris est calicis et paropsidis, intus autem pleni sunt rapina et immunditia!

Pharisaee caece, munda prius, quod intus est calicis, ut fiat et id, quod de foris eius est, mundum.

Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia similes estis sepulcris dealbatis, quae a foris quidem parent speciosa, intus vero plena sunt ossibus mortuorum et omni spurcitia!

Sic et vos a foris quidem paretis hominibus iusti, intus autem pleni estis hypocrisi et iniquitate.

Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, qui aedificatis sepulcra prophetarum et ornatis monumenta iustorum

et dicitis: “Si fuissemus in diebus patrum nostrorum, non essemus socii eorum in sanguine prophetarum”!

Itaque testimonio estis vobismetipsis quia filii estis eorum, qui prophetas occiderunt.

Et vos implete mensuram patrum vestrorum.

Serpentes, genimina viperarum, quomodo fugietis a iudicio gehennae?


(...vado a parlarne a Coffee Break...)



martedì 29 aprile 2025

Produzione di eccezioni a mezzo di regole

Secondo gli operatori informativi, il dibattito oggi è riarmo sì, riarmo no (la terra dei cachi). Insomma, una versione riveduta e corretta del grande classico “burro o cannoni”, dove i cannoni sono quella roba indefinita che ormai solo loro (gli operatori informativi) chiamano Rearm EU (nel frattempo, la Commissione gli ha dato un altro nome, ancora più ridicolo), e la Lega, per buttarla un attimo in politica, sarebbe pro-burro e anti-cannoni. Chiusa la parentesi politica, specificando che in realtà la posizione della Lega è “burro e cannoni” (e mi sembra una posizione stranamente razionale, considerando chi sono i consiglieri di Salvini! 😉), vorrei fare una rapidissima riflessione con voi sul perché stiamo parlando di questa roba.

Perché stiamo parlando di riarmo?

E qui voi penserete: “Ma questo è scemo! Non lo vede che i cosacchi sono alle porte!?”

No: confesso che i cosacchi non li vedo, anche se, a tendere, vedo a sud del nostro Paese qualcosa di più pericoloso, perché potenzialmente più interessato a destabilizzare il Mediterraneo. Ma il punto non è questo. Il punto è che noi stiamo parlando di guerra e di riarmo perché per tenere insieme un sistema basato su regole che non funzionano abbiamo un disperato bisogno di violare queste regole costruendo delle eccezioni sempre più persuasive perché sempre più “eccezionali”.

Ora, il fondamento delle regole era la diffidenza dei paesi del Nord, che si credevano invincibili (e sono stati sconfitti dalla storia), nei riguardi dei paesi del Sud, che si riteneva fossero dei cialtroni (ma in questo momento noi siamo gli interlocutori privilegiati della potenza imperiale). I risultati delle regole, che ci dovevano garantire da un eccessivo incremento del debito al Sud, perché quelli del Nord non volevano pagarlo, li abbiamo visti nel post precedente, e sono stati un accumulo di debito paragonabole su scala storica solo a quello necessario a finanziare un conflitto mondiale (del resto, un conflitto mondiale c’è stato, anche se è stato un conflitto distributivo e non bellico).

Le regole avevano dei presupposti inconsistenti perché moralistici, non razionali, e quindi hanno avuto dei risultati disastrosi. Ma più in generale, è irrazionale pensare che l’azione di governo di una realtà complessa come uno Stato possa essere basata su regolette. In altre parole, altre regole (così come altre unioni europee) non sono possibili. Non è quindi strano che per tenere insieme un sistema simile si cerchi di aggirarlo indicando (come peraltro qui da tempo avevamo prefigurato) una serie di eccezioni sempre più assurde e distruttive a regole sempre più smentite dalla realtà fattuale.

Insomma: il problema non sono i cosacchi o gli houthi (che potenzialmente sono un problema). Il problema sono le regole, perché sono loro a richiedere la produzione di eccezioni. E finché non risolveremo il problema, saremo costretti ad andare di eccezione in eccezione (eccezione climatica, eccezione bellica, eccezione spaziale…) nel tentativo di giustificare caso per caso la necessità di restituire allo Stato e alla politica quella centralità che nel mondo delle regole gli si voleva togliere, ma che è indispensabile riaffermare in termini generali per una ordinata convivenza civile negli Stati e fra gli Stati.

Dixi.


lunedì 28 aprile 2025

Un trascurabile dettaglio (130 anni di debito pubblico)

Per aggiungere un trascurabile dettaglio all'analisi svolta nel post precedente, ho esteso il grafico da cui partono Reinhart e Sbrancia:


utilizzando i dati dell'Historical Public Debt Database del Fmi, integrati, a partire dal 2016, con quelli dell'ultimo database del WEO. Per pigrizia non ho ripetuto esattamente l'analisi di Reinhart e Sbrancia, nel senso che invece di prendere la loro definizione di paesi avanzati ed emergenti:


ho utilizzato gli avanzati e gli emergenti del G-20, cioè rispettivamente: Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Corea del Sud, Regno Unito, Stati Uniti (avanzati) e Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sud Africe e Turchia (emergenti). La cosa è meno innocua di quanto potrebbe sembrare, perché le serie aggregate sono calcolate come media aritmetica semplice dei rapporti debito/Pil dei rispettivi gruppi, per cui un Paese insignificante, col Pil di una piccola regione italiana, ma con un rapporto debito/Pil del 300% (in astratto) potrebbe far sballare i conti. Tuttavia, nonostante che i gruppi considerati siano più ristretti di quelli di Reinhart e Sbrancia, le dinamiche sono relativamente simili:


(manca il picco degli emergenti verso il 1991, probabilmente per il problema che vi dicevo), soprattutto per quanto riguarda noi. Nel frattempo, però, è passato del tempo. Aggiungendo i dati del WEO (proiezioni incluse) possiamo estendere lo zoom fino al 2030, e il quadro è questo:


Ora, per capirci, la terza globalizzazione, se la datiamo all'inizio degli anni '80, è iniziata qui:

e il messaggio che emerge da questo grafico, per quanto riguarda noi avanzati, vorrei condensarlo condividendo con voi un momento del cinema italiano più alto e più pregno di insegnamenti:

Diagnosi: una globalizzazione così noi non la reggiamo!

E non noi italiani: noi avanzati! Si vede bene anche dal disegnino (che fotografa la situazione al 2015, ora sarebbe peggio):


Il problema non sono naturalmente le sottocoppe di peltro, o Birillo (che mangia un chilo di macinato al giorno), ma il fatto che l'indipendenza della Banca centrale è intrinsecamente debitogena. Il motivo è molto semplice da comprendere per chiunque abbia familiarità con l'aritmetica del debito pubblico, che si riassume nell'equazione (4):

la cui derivazione è stata spiegata qui e sul cui significato vi ragguaglio brevemente: la formula dice che la variazione (il delta) del rapporto debito/Pil è approssimata dal prodotto della differenza fra il tasso di interesse reale r e il tasso di crescita reale (per gli amici: "la crescita") n, moltiplicato per il rapporto debito/Pil al tempo precedente, cui va sottratto il rapporto avanzo primario/Pil.

Ora, il problema è che l'indipendenza della banca centrale serve ad avere un tasso di interesse reale r positivo e piuttosto alto (per difendere la rendita finanziaria, o per moderare l'inflazione, si cerca di avere un tasso di interesse nominale superiore al tasso di inflazione), e al contempo conduce a un tasso di crescita del Pil basso (per abbattere il debito si cerca di innalzare l'avanzo primario a, ma questo ovviamente deprime la crescita n). L'impatto dell'indipendenza della banca centrale (e più in generale della fine della repressione finanziaria) sul tasso di interesse è ben documentato dalle stesse Reinhart e Sbrancia:


e anche questo grafico andrebbe esteso, perché dopo il 2011 abbiamo avuto una stagione di "tassi zero", ma con inflazione pressoché nulla, e ora le cose sono nuovamente cambiate. Se prendiamo la media dei tassi di interesse reali dei Paesi avanzati del G-20 nei WDI otteniamo questo risultato:


I dati del WDI iniziano nel 1961 e non nel 1945, ma l'andamento è molto simile: una stagione di tassi reali fortemente negativi, seguiti da un innalzamento brusco all'inizio degli anni '80, che poi è da dove i rapporti debito/Pil hanno cominciato a esplodere. Nella stagione dei "tassi zero" il tasso reale era comunque attorno al 2%: solo la sorpresa inflazionistica del 2021-2022 è riuscita ad abbatterli. Il motivo, naturalmente, è che anche se i tassi di policy erano nulli o negativi, quelli di mercato invece no, e con un'inflazione molto bassa, sotto al 2%, non è strano che in media i tassi reali fossero positivi, se pure non elevati come negli anni '80.

Quanto all'impatto sulla crescita delle politiche cortesemente suggerite dalle Banche centrali indipendenti (quindi, ad esempio, qui da noi dalla lettera della Bce di Draghi o dalla troika), esso è sufficientemente noto.

Il problema è che più il debito cresce, più è essenziale che r-n non sia troppo alto, e quindi, alternativamente, o che la rendita finanziaria abbassi le sue pretese (r piccolo) o che si crei più valore (n grande), ma la seconda soluzione (creare più valore) è sfavorita dal capitale, semplicemente perché quando si percorre quella strada si crea occupazione, e i lavoratori, sentendosi tutelati, alzano la cresta. Problema di non facile soluzione, non trovate?

Ad esempio, se d = 1.2 (come a tendere sarà per le economie avanzate), con r al 2% (0.02) e n al 1% (0.01) per non far crescere il debito bisogna avere un avanzo primario pari a 1.2 x 0.01 = 0.012 cioè al 1.2% (i conti sono presto fatti).

Ora, per avere un'idea degli ordini di grandezza e usando lo stesso metodo un po' barbaro delle medie aritmetiche semplici, il fattore r-n (quello che gli eruditi chiamano lo snowball factor, l'effetto "palla di neve", perché descrive in che condizioni la crescita del rapporto debito-Pil tende ad autoalimentarsi, come una valanga: semplicemente, quando la spesa per interessi sovrasta la diluizione del rapporto dovuta alla crescita...) nelle economie avanzate del G-20 ultimamente è stato una cosa così:


Si vede bene che siamo passati da valori negativi, prima degli anni '80, a valori in media positivi.  L'ordine di grandezza dall'inizio del secolo è di circa l'1%, quindi vale quanto ci siamo detti sopra: per annullare la crescita del debito occorrono avanzi primari protratti attorno all'1.2%.Il punto meriterebbe un maggior approfondimento anche statistico, ma insomma si capisce che quello che ci siamo detti del nostro Paese, perché lo confessava l'artefice del divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia, cioè che la crescita del debito è stata innescata da un innalzamento repentino di r-n, dovuta al fatto che il Tesoro era costretto a finanziarsi sui "mercati", e per sembrare credibile doveva fare politiche di contenimento della crescita e dell'inflazione, sembra essere una storia condivisa.

È anche una storia che ci ha portato da debiti pubblici in media attorno al 40% a debiti bene avviati verso il 120%, cioè a triplicare le dimensioni del debito in termini di Pil. Niente male, vero? Evidentemente non tutti sono riusciti, come siamo riusciti noi, ad avere una serie protratta di avanzi primari (che comunque non ci è servita a molto quando è arrivata la crisi del 2009, distruggendo in un attimo dodici anni di sacrifici).

Ora, il punto è esattamente questo: quanto più grande è lo stock di debito accumulato, tanto maggiore deve essere, a parità di altre condizioni, la quantità di risorse da destinare al suo servizio, cioè la quantità di entrate dello Stato che il Governo deve destinare ai detentori dei titoli (alla rendita finanziaria).

Non devo spiegarvi come si interseca questo discorso con quello che facevamo ieri. Non devo farlo io, perché lo hanno fatto nel loro paper Reinhart e Sbrancia! Siamo (noi advanced) a un livello di debito pari a quello con cui siamo usciti dalla Seconda guerra mondiale. La pandemia ha dato una bella spinta verso il 120%, ma già prima eravamo in crescita al 100% e oltre. Ora, o ci avventuriamo verso livelli giapponesi, ma bisogna esserci portati, o le strade, come spiegano le nostre autrici, sono tre: il default (come bancarotta vera e propria o come ristrutturazione del debito), l'iperinflazione, o la "repressione finanziaria" (regolamentazione dei mercati finanziari, e in particolare della banca centrale). Mi riferisco, più precisamente, alle strade intraprese storicamente, perché, come notano le autrici, in teoria ci sarebbero altre due opzioni, che però sono mutuamente esclusive: l'austerità o la crescita. Della prima abbiamo visto in pratica che non funziona, e della seconda abbiamo visto che è difficile averla con una banca centrale indipendente che ti chiede austerità e ti tira su il tasso di interesse.

Come sta andando con i dazi lo avete visto: "Potevate avere la rivalutazione o i dazi, vi siete opposti ai dazi, avrete tutt'e due!" Qui a tendere l'alternativa è fra default o "repressione finanziaria" (in particolare come mitigazione dell'indipendenza della Banca centrale). Non avrei dubbi su cosa scegliere, ma vedrete che si farà di tutto per fare la scelta peggiore. Se però non ci si riuscisse, se per una volta il buon senso prevalesse, ecco che si metterebbe finalmente in discussione la strana idea per cui uno Stato deve affidare la propria politica monetaria a un'istituzione, la Banca centrale, il cui scopo è fare lo sgambetto al ministero del Tesoro nell'interesse di pochi e non rispondendo a nessuno, e di motivi per metterla in discussione, questa strana idea, ce ne sono svariati: non solo, come sapete, agendo a modo loro le banche centrali indipendenti si sono dimostrate incapaci di raggiungere i propri obiettivi di inflazione e hanno ostacolato l'obiettivo di crescita, ma, come vi ho mostrato oggi, hanno anche creato un discreto problema di sostenibilità del debito in giro per il mondo!

Certo, non si può dire.

Ma non dobbiamo dirlo noi: lo dicono i dati!

Concludendo, quindi, la rinuncia al dogma della Banca centrale non è necessaria solo per evitare che riparta la giostra degli squilibri globali, come ci dicevamo ieri qui e questa mattina in diretta, ma anche per evitare che il debito si avviti definitivamente su se stesso. Ciò richiede un ambiente di crescita moderatamente inflazionistica, come quella che Trump vuole realizzare negli Usa rimpatriando le filiere strategiche, e noi dovremmo realizzare qui (ma potremo farlo solo abbandonando il delirio green e facendo un discorso pragmatico sulle fonti di energia).

Questo lo teniamo da parte per i prossimi quattordici anni, e vediamo se invecchierà bene come quest'altro. Non so se augurarmelo...


(...anch'io ho sofferto! Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d'ora...)

domenica 27 aprile 2025

Produzione di squilibri a mezzo di squilibri

Parafraso il titolo di un libro che mi venne imposto dal docente di storia delle dottrine economiche quando ero iscritto a filosofia. Potete immaginare quanto riuscissi a capire di un testo così tecnico, ma all’epoca funzionava così, non si era ancora affermata l’ideologia del facilismo, con le sue carte patinate e i suoi box riassuntivi dai colori tenui: i docenti universitari buttavano tutti in piscina e poi si interessavano a quelli che sapevano nuotare. Suona un po’ darwinista, e forse lo è (mi perdonerà Enzo che ho rivisto con piacere ieri sera), ma il fatto è che nella sua apparente scorrettezza quel sistema funzionava.

Oggi però non voglio parlarvi della conversione dei valori in prezzi (quindi non voglio neanche spiegare che cosa sia a chi ha la fortuna di non saperlo), ma di una conversione molto più semplice: quella degli euro in dollari, ponendo qui a voi in modo più articolato e disteso, una domanda che ieri ho posto a un amico in una conversazione privata, e poi, in serata, a una platea ristretta di studenti in un seminario altresì privato, dove ci siamo molto divertiti (nel senso eletto ed etimologico del termine):



La domanda parte dalle osservazioni di Paolo Torp al post su Unione Europea e squilibri globali, e in particolare dalla sua constatazione di quanto lucida fosse la visione che Geithner aveva del tema degli squilibri globali. Come penso di avervi ricordato più volte, e senza nulla togliere alla capacità analitica e alla chiarezza di esposizione di Geithner (o dei suoi stagisti), in tanta consapevolezza non v’era nulla di miracoloso. I global macroeconomic imbalances erano un tema di ricerca assestato e consolidato da anni negli Stati Uniti, arrivato poi qui con il consueto ritardo di fase della nostra produzione accademica, tant’è che due anni prima anch’io mi ci ero buttato per scrivere un lavoro sul ruolo svolto dalla Cina nella loro formazione.

Ora, nel post in questione ironizzavo sul fatto che all’epoca Geithner diceva al G20 quello che oggi Draghi balbetta in audizione.

A parte il ritardo di Draghi, in fondo non è così strano che eventually (che non significa "eventualmente", ma "alla fine", nonostante quello che pensano i colleghi che chiamano il pi greco “Pai” come le patatine e i decenni “decadi”) i due si ritrovino su una diagnosi condivisa. Diagnosi che poi è quella della migliore economia ortodossa ed eterodossa da sempre, e, con maggiore consapevolezza, in particolare dai tempi degli accordi di Bretton Woods, dove, come sapete, il contrasto fra le posizioni americana e inglese verteva essenzialmente su come strutturare il sistema monetario internazionale perché arginasse l’emersione di squilibri globali, ovvero sul tema, oggi di particolare attualità grazie alle posizioni espresse dagli esperti di Trump, della condivisione dei costi di quella struttura cruciale per lo sviluppo economico che è l'architettura finanziaria internazionale (ne parlammo occupandoci di Keynes, Draghi, Gollum e i tassi negativi).

Questa unità di visione attraverso il tempo è tanto meno strana in quanto Geithner e Draghi sono cuccioli più o meno riusciti della stessa nidiata globalista. Eventualmente (nel senso di eventualmente!) può apparire strano che posizioni simili siano espresse dal segretario al Tesoro di Obama e dagli esperti di Trump! Che cosa potrà mai avere in comune il presidente statunitense che Berlusconi definiva “abbronzato“, fulgida icona della globalizzazione, con l’attuale presidente statunitense? La risposta superficiale credo sia “niente!". Penso che ci possano anche essere risposte meno superficiali e più articolate (che però nessuno mi sta dando), ma intanto andiamo avanti con la domanda che ieri ho posto due volte: se per gli Stati Uniti, indipendentemente dall’orientamento politico di chi li conduce, gli squilibri globali sono un problema, è mai possibile che non si siano posti e non si stiano ponendo il tema del ruolo dell’euro?

Mi spiego.

Anche gli squilibri globali sono, a modo loro, un “bene” (cioè un male, un’esternalità negativa), e vale quindi per loro quello che vale per gli altri beni. Esattamente come una Volkswagen, così anche uno squilibrio globale, per poterlo esportare, devi prima produrlo. La fabbrica delle Volkswagen (o almeno la sua principale sede legale) è a Wolfsburg, quella degli squilibri è a Francoforte: è la BCE. Come vi ho documentato nel post sugli squilibri globali, un paio di giorni fa, e nei post cui esso rinvia, la “materia prima“ del colossale squilibrio commerciale esportato dall’eurozona a partire dagli anni '10 è costituita dai tanti squilibri regionali fra Germania e paesi appartenenti al mercato unico. Questi squilibri regionali, costruitisi grazie all’euro, si sono poi riversati sui mercati globali a causa dell'austerità, che aveva prosciugato la capacità del mercato unico di assorbirli. Il punto è che se in primis questi squilibri non ci fossero stati, nessuna austerità avrebbe potuto contribuire a esportarli! Ai neofiti e ai passanti ricordo in sintesi che l'euro ha permesso alla Germania di vendere le proprie auto (e le proprie lavatrici, e i propri sommergibili...) all'Europa periferica a un prezzo relativamente contenuto perché non influenzato dal marco forte, e ai paesi periferici di indebitarsi a tassi molto convenienti per comprare le auto tedesche perché distorti al ribasso dalla "credibilità" dell'Unione economica e monetaria: gli squilibri nascono così, per una duplice inibizione del meccanismo di formazione di un prezzo di equilibrio in due mercati importanti, quello valutario (che avrebbe naturalmente condotto a un cambio tedesco più alto) e quello finanziario (che avrebbe naturalmente condotto a tassi di interessi greci, portoghesi, spagnoli ecc. più alti). Può sembrare strano ai profani che quello che è stato descritto come un bene assoluto (i bassi tassi di interesse) si riveli un male (un incentivo all'indebitamento), ma per i professionisti due principi dovrebbero essere assodati: che non ci sono pasti gratis e che non esistono distorsioni benefiche del mercato...

Ora, qui bisogna rovesciare una frase a me tanto cara di Keynes ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo!”. Dobbiamo cioè chiederci se, perché e fino a quando gli Stati Uniti potrebbero volere il mezzo (cioè l’euro) visto il fine che realizza (cioè gli squilibri globali), fine al quale loro si sono sempre detti contrari in un’ottica assolutamente trasversale dal punto di vista degli orientamenti politici.

Ecco: mentre nella conversazione privata con uno di voi sono riuscito ad andare al punto in modo abbastanza rapido, ho seri dubbi che intervenendo al seminario io sia riuscito a farmi capire.  Come vi dicevo in un commento al post precedente, il costo di una accresciuta consapevolezza rischia di essere l'autoreferenzialità. Un costo che forse paghiamo anche qui: per farmi capire da chi è appena arrivato sono costretto a citare altri post di questo blog, il che, mi rendo conto, trasmette un senso di autoreferenzialità (ma ogni post in realtà cita letteratura e dati "esterni"), anche se è semplicemente un modo per tenere insieme il filo del discorso.

Faccio un esempio delle mie difficoltà nel dibattito di ieri sera, partendo da un argomento che ho sentito formulare, quello secondo cui “dobbiamo stare con Trump perché scardina il sistema”, cioè, in sintesi, “il nemico del mio nemico è necessariamente un mio amico”. Ora, non è che io non lo condivida, questo approccio, come sapete! Per me che sono entrato in politica con un unico obiettivo, quello di espellere gli occupanti abusivi del concetto di “sinistra”, qualsiasi cosa li faccia impazzire è naturalmente benvenuta! Tuttavia, mi fa un po’ sorridere che le persone che ragionano così siano le stesse che poi con fare pensoso e riflessivo affermano un’altra banalità, cioè che “di tattica si muore”. Il dibattito fra tattica e strategia ha una lunghissima dignità anche nelle scienze economiche e si riconduce al dibattito se il lungo periodo possa essere o meno considerato come la somma di tanti brevi periodi. Non è di questo che voglio parlare, dovrei studiare molto per aiutarmi e aiutarvi a capire questo dibattito, peraltro irrisolto, ma voglio solo stabilire il punto che “il nemico del mio nemico è mio amico” è un ragionamento intrinsecamente tattico: mi suggerisce come posso fare un danno al mio avversario, ma non mi definisce l’obiettivo che voglio raggiungere, sia esso la vetta del Monte Porrara o una più equa distribuzione del reddito.

Il dibattito di ieri sera era anche arricchito, e in qualche modo confuso, dall’apporto di diversi geopolitici, categoria che qui abbiamo trattato un po’ come gli ingegneri, liquidandoli affettuosamente e forse un po’ affrettatamente, e di cui mi piace evidenziare un paradosso: a quel che capisco, secondo loro la geografia dominerebbe in quanto determina l’accesso a risorse strategiche per lo sviluppo economico, ma l’economia sarebbe però una categoria trascurabile. Insomma: la geografia ci interessa perché determina l’economia che però non ci interessa. Sul primo pezzo della proposizione non posso che essere d’accordo, da persona che con la geografia lotta ogni settimana sulle creste delle montagne, e che quindi è in grado di capire perché Passo Lanciano o Forca di Penne si chiamino così - anche se oggi pochi li percorrerebbero per raggiungere le rispettive località eponime (sì, perché ci sarebbe anche quell’altro dettaglio: sulla geografia regna la geologia, ma il percorso che porta dai lenti movimenti delle placche tettoniche all’estrema volatilità del tasso di cambio è un pochino troppo lungo e oggi ce lo risparmiamo)! Sul secondo ho qualche dubbio. In effetti, quello che attribuisce a un particolare elemento della tavola periodica lo status di risorsa è la sua capacità di soddisfare bisogni che in alcuni casi sono determinati dalla biologia, ma in molti altri dall'economia. Pensate alle famose terre rare (che rare non sono): quello che le ha fatte diventare così cruciali è stata la risposta statunitense al surplus della Germania, il Dieselgate con il conseguente reindirizzamento dell'automotive tedesco verso il green (e connessa sceneggiata gretina). Come la definiremmo questa dinamica se non economica? E quindi viene prima l'uovo geografico o la gallina economica?

È un po’ come l’altro paradosso, quello secondo cui la volontà di potenza della politica è indirizzata a espandere la propria sfera di influenza economica, ma l’economia non conta perché c’è il primato della politica! Fatto sta che senza sghei non si armano eserciti, e il primato della politica va così a farsi benedire di fronte al primato della contabilità (che ha a più che vedere con l'economia che con la politica).

Non voglio però commettere l’errore dal quale vi metto sempre in guardia, quello per cui se sei un martello ogni problema ti sembra un chiodo. Non mi viene in mente nessun modo consentito dalla legge per vincere una partita a scacchi con un martello (mentre quello non consentito dalla legge è ovvio: suonarlo in fronte all’avversario, che poi è quanto regolarmente avviene sullo scacchiere internazionale)! Non voglio quindi sminuire assolutamente il ruolo di altri approcci analitici, considerando che le categorie economiche in 15 anni di riflessione non mi hanno consentito di trovare una risposta a questa semplice ma fondamentale domanda: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell’euro (e quindi dell’Europa)? È chiaro che a questa domanda non si può trovare risposta nell’ambito della mera ottimizzazione, soprattutto perché la funzione obiettivo ci è ignota, e il contesto è di informazione estremamente asimmetrica. Cercherò di promuovere un dibattito su questo tema coinvolgendo più competenze, ma intanto “mi verrebbe da” (cit.) dirvi in che cosa penso che la dimensione economica possa aiutarci, e per farlo vi ricorderò alcuni "fatti stilizzati" economici che secondo me dovrebbero essere integrati (e non so se lo siano) nel ragionamento "geopolitico" per dargli una piena rotondità. Perché sì, va bene la KernEuropa, vanno bene le "grandi potenze talassocratiche", va bene tutto, ma poi la sera, o almeno a mezzogiorno, qualcosa in tavola ci deve essere, e la categoria rilevante in questo caso è indubbiamente quella di distribuzione del reddito...

Parto da una delle cose in qualche modo “dissonanti“ con le categorie della mia professione che ho sentito ieri: l'idea che la globalizzazione sarebbe stata provocata dal crollo del muro di Berlino, e sarebbe il tentativo di dare una risposta al mutamento degli assetti geopolitici determinato da questo crollo. Ora, gli economisti sono abbastanza d’accordo sul fatto che la terza ondata di globalizzazione sia in realtà iniziata quasi un decennio prima, cioè all’inizio, non alla fine, degli anni ‘80, e si sia manifestata in termini istituzionali sotto forma di una liberalizzazione progressivamente indiscriminata dei movimenti di capitale (le "riforme strutturali", come oggi si direbbe, all'epoca furono quelle). La liberalizzazione era lo strumento che serviva al capitale per sconfiggere definitivamente il lavoro mettendo in concorrenza il penultimo con l’ultimo proletariato (fuori di metafora, portando i capitali a costruire fabbriche dove il lavoro costava di meno). Volendola buttare in politica, questo significa che la tromba della globalizzazione ha squillato non quando il blocco occidentale ha sconfitto i comunisti a casa loro, ma quando il capitale ha sconfitto il lavoro in casa propria. Volendola dire in un altro modo, in questa lettura la terza globalizzazione comincia quando il capitale ha vinto la lotta di classe, non è la battaglia che ha consentito al capitale di vincerla (ricordo agli interessati anche il post in cui abbiamo affrontato specificamente il tema delle caratteristiche strutturali di questa globalizzazione).

Ora, un geopolitico secondo me è assente giustificatissimo dai presupposti di questa interpretazione della realtà. Gli mancano almeno due elementi che noi invece qui possediamo. Il primo è la constatazione di un fatto: la crescita dei salari reali da noi termina alla fine degli anni ‘70 (quando i salari si fermano e la produttività prosegue per un po’ il suo cammino); il secondo è la nozione di che cosa sia la “repressione finanziaria” e di cosa comporti la sua affermazione o il suo smantellamento. Il primo fenomeno ve l’ho messo in evidenza fin dall’inizio e l’ultima volta nel post sull’Italietta della liretta, sul secondo ci siamo soffermati più volte, a partire dal post su produttività, salari, crisi, logaritmi, marxiani, onestà, che è comunque un post fondante di questo blog e che vi consiglio di rileggere anche per capire che il fenomeno dell’arresto dei salari reali non è circoscritto al nostro paese:


ma è un fatto stilizzato, anzi: il fatto stilizzato più significativo per caratterizzare le dinamiche del blocco occidentale, un fatto che non può essere eluso da spiegazioni che ambiscano a fornire basi solide a ragionamenti predittivi.

Mi viene qui in mente un altro paradosso: in tutte le conversazioni “geopolitiche” prima o poi salta fuori il concetto, assolutamente dignitoso e condivisibile, secondo cui l’ordine mondiale proposto, esposto, imposto, dalle cosiddette democrazie liberali non sia assolutamente l’unico modello di democrazia. Il paradosso consiste nel fatto che quelli che affermano questa indiscutibile verità nella stragrande maggioranza dei casi mettono in disparte, o proprio non considerano, il fatto che anche all'interno del perimetro delle democrazie liberali esistono diversi possibili atteggiamenti verso l’egemonia del mercato. Anche qui: non vorrei che l’essere un "martello" docente di politica economica mi facesse vedere ogni problema come il "chiodo" del rapporto fra Stato e mercato. Tuttavia, non porre al centro questo tema quando si ragiona dei rapporti politici in uno Stato o fra gli Stati mi sembra un errore. Ve la dico in un altro modo: magari nell’affermare che un altro mondo è possibile si dovrebbe partire dal chiedersi se un’altra Banca centrale sia possibile, il che presuppone la conoscenza del percorso storico che ha portato a questa indipendenza, e la capacità di trarre un bilancio sull'esperienza dell'indipendenza…

Ora, torno al punto cui volevo condurvi: la lettura secondo cui la terza globalizzazione inizia alla fine degli anni  ‘80 può naturalmente convivere con la datazione che del fenomeno danno economisti, se si aggiunge un passaggio, ipotizzando che l’Unione Sovietica fosse già tecnicamente morta all’inizio degli anni ‘80. In questo caso, però, il crollo del muro da elemento "fondativo" della terza globalizzazione andrebbe letto come evento di enorme portata simbolica (quella è innegabile), ma che i capitalismi occidentali non hanno avuto bisogno di aspettare per regolare i conti con i loro proletariati, o almeno per porre le basi istituzionali che consentissero loro di regolare questi conti in modo più spiccio (l’indipendenza della Banca centrale si afferma infatti all’inizio degli anni ‘80). Tuttavia, e qui vado al punto, per capire se sulla relazione con Trump si debba costruire una tattica o si possa articolare una strategia, cioè, in altri termini, per capire se Trump sta veramente scardinando l’ordine mondiale instauratosi alla fine degli anni ‘70 con la sconfitta del lavoro, cioè della classe media, e la vittoria del capitale, cioè del capitalismo dei fondi, credo sia fondamentale avere un’idea condivisa e argomentata di quando è iniziato questo ordine mondiale e in che modo. In altre parole, ho qualche difficoltà con chi mi dice che la terza globalizzazione è finita grazie a Trump, o comunque che Trump vuole porre fine ai suoi giorni (per quanto io possa trovare auspicabile questa prospettiva), ma non mi fornisce una datazione del suo inizio collimante con l’evidenza che vi ho mostrato, cioè con i principali fatti stilizzati riferiti alla distribuzione del reddito nel "primo" mondo!

L’argomento che pure ieri ho sentito, cioè che Trump vorrebbe scardinare tutto in quanto ha preso sul personale il fatto che gli abbiano sparato addosso, non mi sembra molto convincente, non ne fa di per sé “uno di noi”. Questo non tanto perché a quasi nessuno di noi (spero) qualcuno ha sparato addosso, quanto perché, come ampiamente dibattuto al tempo dei "punturini" parlando di quanto la storia insegna, la minaccia esistenziale diretta è comunque un fondamento molto labile per la costruzione di una solidarietà di classe. Sparare addosso a un miliardario non ne fa necessariamente un paladino della classe media, indipendentemente dal fatto che il colpo vada a segno o meno...

Insomma, non sono riuscito a capire bene, ma è un limite mio, in base a quale ragionamento datino ad oggi la fine della globalizzazione quelli che ne datano l’inizio dalla caduta del muro (e che quindi non riescono a spiegarci come mai la quota salari nei paesi occidentali sia scesa in picchiata dieci anni prima che il "comunismo" venisse sconfitto). Quello che so, però, e che qui credo sappiamo tutti, è che il dato veramente segnaletico non è tanto quello su cui, tanto per cambiare, i media vogliono che voi concentriate la vostra attenzione (“dazi sì, dazi no”), quanto il tema più complessivo del rapporto di questa amministrazione con le istituzioni della globalizzazione, e in particolare con l’indipendenza della Banca centrale.

Quella è la battaglia da seguire.

Qui abbiamo ampiamente discusso sul ruolo che l'indipendenza della Banca centrale gioca nell'orientare la distribuzione del reddito a vantaggio della rendita finanziaria (ad esempio, alle pagg. 267 e seguenti de Il tramonto dell'euro). Basti pensare che da noi l’indipendenza ha condotto alla lunga stagione degli avanzi primari, che sono stati altrettanti trasferimenti di risorse dei contribuenti ai percettori degli interessi sul debito (categorie che in alcuni casi possono coincidere, ma che proprio nel meraviglioso mondo dell'indipendenza si sono progressivamente disaccoppiate). Oggi il fronte di questa eterna lotta è destinato a scaldarsi ancora di più, per il semplice motivo che sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea gli orientamenti politici necessariamente conducono a tensioni inflazionistiche: non credo di dovervi spiegare nulla circa le tensioni inflazionistiche intrinseche nella strategia Green in cui l’Europa ha cercato salvezza e che rilutta ancora ad abbandonare in modo chiaro e definitivamente segnaletico, e penso di non dovervi spiegare che voler rimpatriare le fabbriche negli Stati Uniti, in cui il tasso di disoccupazione è vicino ai minimi:


significa accettare il rischio che ci siano tensioni inflattive, per l'operare della curva di Phillips, di cui parlammo spiegando lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro, e su cui siamo tornati recentemente per spiegare come si fa a far scendere i salari.

La domanda quindi diventa: questa promozione, consapevole o meno che sia, di un ambiente di crescita (nel caso degli Stati Uniti) o decrescita (nel caso dell'Unione Europea) moderatamente inflazionistica verso quale scenario ci porta? Per usare le categorie di Reinhart e Sbrancia, stiamo aprendo a una "liquidazione del debito pubblico" (e non solo pubblico), realizzata tramite la promozione di una crescita moderatamente inflazionistica e della regolamentazione dei mercati dei capitali, cioè della "repressione finanziaria", con il conseguente abbandono del dogma dell'indipendenza della banca centrale e la riappropriazione dello strumento monetario da parte dei governi, o ci trincereremo dietro il dogma dell'indipendenza (per quanto la sua applicazione non abbia praticamente mantenuto alcuna delle tante promesse fatte), innalzando i tassi di interesse e conducendo il sistema economico a un progressivo soffocamento (cioè giapponesizzandoci, per usare l'espressione di Krugman che vi ho ricordato parlando dei negazionisti del declino)?

La battaglia è questa, come ben sapete: nei miei testi e in questo blog il tema dell'indipendenza della Banca centrale (ma più in generale dell'esistenza di istituzioni indipendenti dall'espressione della sovranità popolare) e la sua declinazione locale, cioè il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia, è sempre stato centrale, perché indissolubilmente legato a una domanda che non è parente così distante di quella da cui siamo partiti: chi deve decidere sulla distribuzione del reddito? Questa decisione è tecnica o politica? Spetta a burocrati non eletti e privi di responsabilità politica o a rappresentanti dei cittadini, soggetti alla volontà popolare attraverso il processo elettorale (cioè quella cosa da cui Monti voleva proteggere le decisioni importanti, che per lui andavano appunto riposte "al riparo dal processo elettorale")?

Non sono mai riuscito a capire (per mia superficialità, s'intende) quanto i geopolitici "mettano a tema" (come credo direbbero) questa domanda, che però è la domanda fondativa del vivere comune. Fatto salvo Robinson Crusoe, che non aveva motivi di porsela (e che non a caso è diventato paradigma economico del modello neoclassico - quello che nel becero e disinformato dibattito nostrano viene chiamato "neoliberista"...), chiunque non se la ponga non è un cittadino particolarmente consapevole né uno studioso particolarmente illuminante dei processi sociali.

A questa domanda è legata la domanda da cui siamo partiti: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell'Europa? Immagino che i geopolitici (o i politologi, o gli ingegneri, o gli editorialisti dei grandi giornali in caduta libera) abbiano lettura diverse e tutte interessanti del significato del Trattato di Maastricht, ma dal punto di vista tecnico è piuttosto evidente che "la ciccia" è nell'articolo 104, quello che ha istituzionalizzato e formalizzato il "divorzio", cioè l'indipendenza della Banca centrale dal potere esecutivo. Quanto reggerebbe l'Occidente (immaginando che esso si componga di America settentrionale ed Europa) nel caso in cui gli Stati Uniti rinunciassero all'indipendenza della Banca centrale, per assicurare un regime di crescita moderatamente inflazionistica, e l'Europa reprimesse la propria crescita sotto la sferza di alti tassi di interesse? La repressione della crescita significa, come sapete, repressione delle importazioni, quindi promozione di surplus di bilancia dei pagamenti, quindi, ancora una volta, per finire da dove abbiamo cominciato, produzione di squilibri (commerciali) a mezzi di squilibri (istituzionali).

La posta in gioco è questa. Trump ha bisogno di una Banca centrale accomodante per realizzare il suo progetto di reindustrializzazione degli Stati Uniti, i cui sistemi d'arma, mi dicono gli esperti, dipendono ormai in modo preoccupante dalle tecnologie cinesi. Se il rimpatrio delle catene del valore strategiche, con le conseguenti tensioni inflazionistiche, venisse stroncato da politiche di alti tassi di interesse, l'intento strategico sarebbe frustrato. Lo sarebbe però anche se qui da noi si continuasse a esportare squilibri, magari sotto forma di carri armati VW!

Ecco: io alla domanda che da anni mi pongo (e che ieri ho posto due volte con scarso successo) ancora non so rispondere, ma qualcosa mi dice che vivrò abbastanza da vedere quale sarà la risposta della Storia. Come vedete, i temi posti tredici anni fa nel Tramonto dell'euro e più in generale nel corso della nostra lunga conversazione mantengono la loro centralità anche oggi che la crisi non si presenta sotto le categorie dell'economico (non è fallita nessuna grande banca, non si parla di spread, ecc.) ma del politico (la richiesta esplicita di Trump all'Unione Europea di scegliere in quale campo stare). Almeno in questo senso il tanto lavoro fatto e il tanto tempo passato insieme non sono stati inutili.

Buona domenica!