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sabato 1 luglio 2023

La semplice macroeconomia kaleckiana di Nanterre: Pil, consumi e Francia

Da qualche tempo sto cercando di farvi capire che la situazione degli altri Paesi europei è meno rosea di quanto i nostri cari operatori informativi cerchino di lasciar trasparire. La facile profezia sul "segare il ramo" si sta materializzando coi suoi tempi, che sono purtroppo quello della Storia, la cui lentezza non deve indurci a dubitare della logica dell'Economia. La mortifera ideologia dell'austerità (cioè la difesa ultra vires della quota distributiva del capitale) non può che condurre a una cronica insufficienza di domanda, cioè a un mondo di poveracci e di scarsa remunerazione del capitale. Un circolo vizioso che non ha nulla di originale e che spiega le cicliche eruzioni di violenza da cui è punteggiata la storia dell'umanità. I periodi di una prosa terminano con un punto, quelli della Storia con una guerra.

Anche se l'attenzione di molti si concentra sulla potenza egemone, quella tedesca, per una serie di motivi, fra cui l'indubbia rilevanza del Paese, la sua penetrazione nel tessuto della nostra economia, il fatto che lo conosco bene e che ho una lunga esperienza diretta e indiretta di esso, da qualche tempo, da ben prima del gigantesco QED di Nanterre, stavo cercando di attirare la vostra attenzione sulla Francia, che, a differenza della Germania, è, come sappiamo da tempo, una vittima diretta delle rigidità determinate dalla moneta unica. Il suo deficit estero cronico le avrebbe (e le ha) imposto, come qui ci dicemmo tanti anni fa, politiche regressive (Hood Robin policies): togliere ai poveri per sostenere la competitività del Paese, dando ai ricchi. Il povero Macron di queste dinamiche oggettive sarebbe stato vittima, come avevamo detto qui e ribadito qui, non necessariamente nel senso che ne sarebbe stato travolto, ma nel senso che la loro gestione sarebbe stata sempre più complessa, a mano a mano che le tensioni sociali (nell'immagine del mio amico del post precedente, la pressione del vapore nella pentola a pressione) si fossero rivelate più esplosive.

La ciurma awanagan-gianniniana, qui degnamente rappresentata dall'amico Marco con la "m" maiuscola, travolta dal proprio livore antiitaliano (quel Paese così ingrato da non attribuire una laurea honoris causa ai millantatori!), ma anche gli intelliggenti (sic) come Valerio, intrisi, questi, di diverso ma coassiale livore verso questo popolo di mandolinisti che si attarda oziosamente su un blog insignificante (e che peraltro non c'è) invece di inchinarsi alla superiorità del loro pensiero forte, ha reagito a questo discorso coerente e dalle lunghe radici abbandonandosi alla tentazione (cit.) del "micugginismo": m'ha detto micuggino che in Francia sta bbene, m'ha detto Numbeo (e che cazzo è? Ma perché non andare sul sito dell'Eurostat?) che il Pil in Francia è più alto, ecc.

Tutte osservazioni assolutamente inconferenti, come vi mostro con un semplice esempio numerico, sintetizzato da questa tabella:


Immaginiamo che in Cracozia ci siano 10.010 (diecimiladieci) abitanti, di cui 10 ricchy e 10.000 poveri. Com'è noto, i ricchy hanno ovunque una bassa propensione al consumo. Se guadagni un milione, difficilmente spenderai 750.000 euro in pane (il rischio del diabete si concretizzerebbe rapidamente), e all'obiezione che però i ricchy possono comprare champagne, si può obiettare che con 750.000 euro di champagne puoi farci il bagno nella Jacuzzi tenendola spenta, ma certo non dissetarti, a meno che tu non voglia fare la fine dell'immortale autore de Il corvo. Come capite, la diversa propensione al consumo di ricchy e povery è un dato fisico, oggettivo. Naturalmente quasi nessun modello economico ne tiene conto, a parte quelli kaleckiani, come questo. Nell'esempio ipotizzo che in Cracozia i ricchy consumino il 20% del loro reddito (risparmino l'80%) e i povery il 90% (risparmino il 10%). Se 10.000 povery guadagnano 1.000 eury il totale dei loro redditi è 10 milioni, esattamente come il totale dei redditi dei 10 ricchi che guadagnano un milione a testa. Il Pil della Cracozia quindi nello scenario di base è 20 milioni (di cui 10 guadagnati dai ricchy e 10 dai poveri), con 11 milioni di consumi.

Passiamo ora allo scenario "M'ha detto mi cuggino che er Pille in Francia è arto" (lo scenario degli awanagan-gianniniani e degli intelliggenti).

Basta immaginare che il reddito dei ricchy raddoppi, passando a due milioni a coccia, e quello dei povery si dimezzi, passando a 500 eury a cranio.

A questo punto, i ricchy da soli fanno 20 milioni di reddito (cioè bastano i ricchy a raggiungere il reddito della baseline, dello scenario precedente), cui si aggiungono i 10.000x500=5.000.000 milioni di reddito dei povery, per un totale di 25 milioni (ovvero: il Pil è aumentato del 25% da 20 a 25 milioni, e analogamente il Pil pro capite - visto che gli abitanti sempre quelli sono: il conto fatelo voi!). I consumi, però, sono diminuiti, passando da 11 milioni a 8 milioni e mezzo: questo perché si sono dimezzati i redditi della popolazione a più alta propensione al consumo.

Questo spiega perché quando un economista vede questo grafico:



(tratto da qui) immediatamente visualizza questo:


mentre quando un ingengngniere awanagan-gianniniano o un intelliggente vedono lo stesso grafico immediatamente vanno su Numbeo per cercare di dimostrare a Bagnai che ha sbagliato (ignari del fatto che Bagnai se ne strabatte), e fanno la figura dei peerla (ma non dobbiamo infierire noi dove Natura si accanì).

Capito, pirlottoni? Vi voglio bene, ma (o anche perché) non ce la potete fare! Andate a parlare di calcio al Bar dello Sport, il vostro giardino di Academo, cercando di scalarne la tabaccaia, ma qui è meglio che lasciate perdere: non siete buoni nemmeno come sparring partners!

Oh, poi io lo so che siete autolesionisti, quindi aspetto con trepidazione, soffocando gli sghignazzi, la vostra relazione di minoranza. Nel frattempo, i normodotati, ove mai non lo avessero già capito, hanno un quadro chiaro della situazione: del fatto che il cuggino di Marco stia bene rigorosamente all'interno della "cerchia dei Navigli" di Parigi ce ne possiamo tranquillamente strabattere. L'ultimo visiting a Paris XIII l'ho fatto nel 2017 e già allora mi dissero di non muovermi da solo dalla metropolitana alla facoltà perché era pericoloso (e in effetti durante un seminario venimmo interrotti dalla notizia che un collega si era fratturato la mascella - nel senso che lo avevano corcato di botte - nel tentativo di difendere lo zainetto del suo computer dalle affettuose attenzioni di un nuà - noir - vi risparmio le contorsioni logiche cui si sottopose il messaggero, dovendo recare tale infausta notizia in un'università de sinistra).

Non sono 10 super ricchy (di cui la Francia abbonda) a rassicurarci:


(qui): ove mai volessero farlo, non saranno Arnault, Bettencourt, Saade, Pinault e Wertheimer ad arginare centinaia di migliaia di diseredati che non hanno nulla, o troppo poco, da perdere, e cui il Governo letteralmente non sa in quale lingua rivolgersi! L'unico modo che avrebbero a disposizione per farlo sarebbe assoldare dei mercenari, ma se lo facessero (e dovranno farlo) li userebbero per difendere se stessi, non Macron! Si ritireranno nell'Ile Saint Louis, trasformeranno coi fondi del PNRR il Ponte Luis Philippe, il Pont Marie et il Pont de Sully in ponti levatoi, e tanti saluti! Per i punti a Sud, come sa chi conosce Parigi, basterà qualche cavallo di frisia e una trentina di ragazzotti dotati di fucili a pompa.

Chiaro il concetto?

Poi va da sé che i moti si sopiranno, fino alla scintilla successiva, in un'alternanza risonante di fasi acute e fasi croniche. Ma anche la Francia è soggetta al peccato originale. Rimuovere gli effetti senza rimuovere le cause è un esercizio tanto nobile quanto disperato. Le riforme, alla Francia, servono:


Lo vedete, poveri ciucci miei!, che in termini di conti esteri è sistematicamente sotto di noi, con tutto che l'energia per lei non è un problema? Quindi agli scalmanati che stanno mettendo a ferro e fuoco le città (non solo les cités) della Francia Macron può dire quello che vuole, ma quello che dovrebbe, e alla fine dovrà dirgli, e che anche se non gli dirà loro capiranno, se non lo hanno già capito, purtroppo è: "Siete già incazzati ora? Pensate quanto lo sarete di più quando, non potendo lasciar cedere il cambio, sarò costretto a tagliarvi ulteriormente i salari per tentare di limitare l'indebitamento estero!"

Tutto qua.

Come vi ho sempre detto, il tempo è dalla nostra, o, per lo meno, non è dalla loro: e questa non è Schadenfreude, è economia, e non è strateggiah: è strategia.

venerdì 22 dicembre 2017

Un canto di Natalia (Treccani #3)

(...a volte la scadenza dei sospesi è determinata dalla scelta del titolo...)



Io: "A questo proposito ho avuto piacere di sapere che la Pesco significa integrazione a livello di difesa. Sottolineo...".

Amato: "Questa è una cattiveria!"

Io: "Sì, naturalmente! Lei è esperto di cattiverie, provo a superarla." (applausi) "Mi permetto di ricordare che anche l'euro significa integrazione, e l'onorevole Amato sa benissimo che fare integrazione senza Stato è stato un problema, e tornando al discorso di Nathalie Tocci, che ha sottolineato la serietà del tema "difesa", presumo che fare l'integrazione della difesa senza uno Stato possa essere un problema ancora maggiore. Quindi, questo un po' mi preoccupa. Però non voglio parlare di questo perché non è il mio campo".

Tocci (non parla nel microfono).

Io: "Eh?"

Tocci: "Non c'è alternativa".

(al minuto 44:55)





Gentile dottoressa,

trovo finalmente il tempo di commentare la sua replica alle preoccupazioni da me espresse durante il dibattito alla Treccani. Una replica che mi ha lasciato (quasi) senza parole (in verità, quello che dovevo dire l'ho detto, e l'unico a non capirlo è stato un lettore del mio blog che si atteggia a intellettuale, un tal Serendippo: fortunata lei che si tiene fuori dal dibattito social, risparmiandosi le punzecchiature di simili tafani!). La mia parziale afasia non dipende tanto dal fatto che io considerassi la sua replica dialetticamente molto valida, quanto dal fatto che essa costituiva una tanto gigantesca, quanto (ne sono assolutamente certo) involontaria, mancanza di riguardo verso i due interlocutori più anziani e più autorevoli di noi seduti al nostro tavolo.

Mi spiego.

La sua posizione è cristallina: dobbiamo commettere quello che già sappiamo essere un tragico errore (creare un esercito senza Stato dopo aver creato una moneta senza Stato e aver assistito al suo fallimento), e questo perché "non c'è alternativa". Suppongo che questa sarebbe stata la sua posizione anche riguardo all'integrazione monetaria, laddove a 15 anni la avesse annoverata fra i suoi interessi (io quell'età, che per me arrivò e rapidamente trascorse nell'anno in cui lei nacque, mi interessavo solo di musica). Ma questo non è poi così importante, se non per il fatto che in questo caso sappiamo che un'alternativa ci sarebbe stata: ce la mostrano i vari paesi con opt-out o membri dell'ERM2, dei quali partitamente ho riferito nella mia relazione. Tuttavia, a me non interessa discutere con lei le possibili alternative (o meglio: mi interesserebbe moltissimo, nonostante io sia incompetente, solo che questa non è la sede). Mi preme viceversa sottolineare perché questo suo atteggiamento nei fatti è stato brutalmente liquidatorio verso i nostri commensali al tavolo della scienza.

Intanto, l'ambasciatore Armellini, nella sua relazione molto intensa, che devo ancora compiutamente assimilare, aveva fatto un certo sforzo per porre in chiave dialettica l'Europa della Thatcher e quella di Spinelli. Devo dire che dal mio punto di vista, alla luce di alcune pessime letture che ho fatto (e che naturalmente le sconsiglio), questa dialettica non è esattamente hegeliana: la dialettica hegeliana prevede una tesi e un'antitesi, ma purtroppo, dopo aver letto Barra Caracciolo, non riesco a porre Spinelli in antitesi alla Thatcher. Li vedo in una stretta continuità/contiguità ideologica, saldamente inseriti in quel filone di pensiero che, come ho appreso da un'altra pessima lettura, origina dal tentativo del capitalismo di rinsaldare le proprie posizioni variamente intaccate dal carnaio da lui provocato un secolo fa (questo tentativo, riuscito, sarebbe quello che gli ingenui "di sinistra" chiamano "neoliberismo", e che tutto è salvo che "neo": fa però comodo a chi ha tradito i propri ideali e i propri elettori scusarsi col pretesto di aver dovuto affrontare un nemico nuovo...). Ma, ancora una volta, non è questa la sede per entrare nel merito degli argomenti di Armellini, sia perché qui desidero intrattenermi con lei, sia perché qui non mi interessa la polpa degli argomenti, ma lo scheletro logico che li sostiene. Facciamo quindi finta che Spinelli sia l'antitesi della tesi Thatcher (o viceversa). Di fatto, lei, con la sua lapidaria e un tantinello sprezzante chiosa TINA ha liquidato non me, ma lo sforzo fatto dall'ambasciatore Armellini di problematizzare l'evoluzione del progetto di integrazione europea, per il semplice fatto che se non c'è alternativa, allora l'unica Europa della quale disponiamo non solo in termini storici, ma in termini logici (il razionale è reale) è questa Europa ed è appunto l'Europa della Thatcher: la statista alla quale, come lei certamente non ignora, dobbiamo questo simpatico slogan.

Insomma: lei, come me, non vedeva un possibile momento di sintesi nel ragionamento di Armellini. Tuttavia, fra noi permangono interessanti differenze. Intanto, lei lo ha dichiarato (magari involontariamente), io invece no, perché mi riservavo un ulteriore spazio di riflessione prima di annientare così un altro relatore! A qualche settimana di distanza, posso dire che io non vedo possibile sintesi perché non vedo antitesi, mentre mi sembra che lei non veda sintesi perché non vede, anzi: nega, la dialettica: in un mondo senza alternative, per definizione la dialettica non ha cittadinanza. La sua sentenza, quindi, oltre all'ambasciatore, liquidava alcuni secoli di filosofia della storia. Naturalmente, senza proporre un'alternativa (in questo caso a Hegel).

Ma questo atteggiamento era ancor più irriguardoso, certamente non nelle intenzioni, ma nei fatti, verso il moderatore del dibattito, Giuliano Amato. Questi, fra l'altro, è stato un importante politico italiano. La sua affermazione che "non c'è alternativa" sminuiva, anzi: annichiliva sotto il peso di una insanabile inutilità, di un siderale vuoto di significato, tutto il progetto di vita dell'onorevole Amato, e questo per un motivo molto semplice, che ho espresso altrove: dove non c'è alternativa, non c'è politica. Quindi, nel dire in faccia all'onorevole Amato che "non c'è alternativa" lei di fatto rinfacciava a lui, e, con lui, a tutta la classe politica italiana, due colpe delle quali non saprei dire quale sia la più grave: quella di non aver saputo creare, per propria inettitudine, delle alternative praticabili a un progetto del quale i politici stessi (come ho documentato nella mia relazione) vedevano tutti gli evidenti limiti, o, in alternativa, quella di aver accettato di rivestire un ruolo che circostanze oggettive svuotavano di significato, tradendo quindi coscientemente il mandato ricevuto dai propri elettori di assicurare il benessere e la stabilità del paese.

Lei è stata un po' crudele, forse un po' troppo...

Certo, anch'io non ho risparmiato critiche a quella classe politica, quando ho fatto osservare quanto fosse paradossale l'interpretazione secondo cui l'Europa (come voi chiamate l'Unione Europea) avrebbe, fra i diversi valori aggiunti fittizi che le si attribuiscono (promuovere la pace, favorire lo sviluppo economico,...) anche quello di moralizzare la politica di paesi periferici come il nostro, che nella favoletta dei giornali padronali sarebbero affetti da una endemica corruzione. Perché mai, ho chiesto, i rappresentanti asseritamente corrotti di Untermenschen ontologicamente corrotti avrebbero accolto con tanta solerzia e felicità l'arrivo di regole destinate a "moralizzarli"? Forse l'idea che "Leuropa" ci è essenziale per moralizzarci andrebbe analizzata con un minore ingenuità. Il corrotto che si autoemenda fa abbastanza sorridere chiunque "del senso suo sia signore" (prendo in prestito da un autore europeo): la political economy del progetto europeo non è così ingenuotta, dietro c'è molto altro: in particolare, c'è la solita vecchia storia del conflitto distributivo, aka lotta di classe.

La deflazione dei salari, cui il progetto di integrazione ci condanna, non è un atto di cattiveria gratuita: è semplicemente la logica conseguenza del desiderio dei potenti di inflazionare i propri profitti! Non c'è nulla di male, basta saperlo, e regolarsi di conseguenza. Sarebbe opportuno quindi smetterla di ripetere un po' a pappagallo la storia che "c'è tanto debito pubblico signora mia". Questa storia, che personalmente confutai nel 2011, ora è confutata da tutta la professione. L'austerità non ha consolidato la finanza pubblica perché quello non era il suo scopo, perché in recessione quello scopo non ha senso, e perché se anche lo si volesse raggiungere l'austerità non sarebbe lo strumento più appropriato. Lo scopo del tagliare i redditi dei lavoratori (perché questo fa l'austerità) era, banalmente, tagliare i redditi dei lavoratori. Il suo preconcetto economico che l'integrazione della difesa è essenziale perché fa risparmiare soldi pubblici quindi poggia su basi analitiche estremamente fragili dal punto di vista economico, e questo non solo in termini "tattici", cioè congiunturali, ma anche in termini strategici.

La verità è che nel mondo liberista, nel mondo thatcheriano che a lei piace, o del quale comunque riconosce più o meno a malincuore (vis grata puellae) l'egemonia (per dispensarsi dal compito ingrato di pensare alle alternative), l'unica spesa pubblica ammissibile è quella bellica. Vede, la spesa pubblica ha questo di male, agli occhi dei liberisti: non il fatto che esponga il risparmiatore al rischio di default, perché lo Stato che non riesce ad esercitare la diligenza del buon padre di famiglia genererebbe instabilità finanziaria. Queste scemenze dei nostri pennivendoli "zero tituli" sono abbondantemente smentite dalla stessa voce del padrone (basta leggere: a proposito, ogni tanto, prima di leggere, anche consultare il curriculum di chi scrive, e l'assetto proprietario della testata, costituisce una utile forma di igiene del pensiero. Perdoni la pedanteria...). Il peccato originale della spesa pubblica, per i liberisti, è che essa crea e soprattutto ridistribuisce reddito nella direzione sbagliata: cioè a vantaggio delle classi subalterne. Lo stato sociale questo fa, e lo stesso debito pubblico, se lei ci pensa un attimo, altro non è che l'opportunità offerta a risparmiatori privi di mentalità speculativa di trasferire valore nel tempo preservandolo dall'inflazione (lasci stare che le élite tedesche, per loro disegni spero da lei chiaramente leggibili, vogliono imporre l'idea che il debito pubblico sia, anzi: debba essere, un investimento rischioso al pari di altri. L'Economist ci dice che non lo è, e il buon senso ci dice che non deve esserlo). Naturalmente, i liberisti (con alcune fulgide eccezioni, qui rappresentate) sono pragmatici. Sanno cioè, pur vituperando Keynes, che una politica di bilancio attiva in certe circostanze (diciamo: sempre) è necessaria. L'unica alternativa praticabile per loro (sì: c'è un'alternativa anche per quelli che TINA), l'unica alternativa allo stato sociale, intendo, è il keynesismo bellico, che ha una serie di interessanti caratteristiche: intanto, manda a morire quelli che potrebbero eventualmente beneficiare della ridistribuzione top-down. Quest'ultima, quindi, ancora una volta, non avviene, per abbandono di campo (di battaglia) da parte dei potenziali destinatari. Nonostante questo, il keynesismo bellico è particolarmente efficace perché, pensi un po', risolve il problema del coordinamento internazionale delle politiche economiche. Anche questa non è un'idea del tutto nuova, anzi! Toporowski ci ha ricordato che è stato Kalecki nei primi anni '30 del secolo scorso a evidenziare come un altro, determinante, vantaggio del keynesismo bellico è che chi spende in armi obbliga gli altri a fare altrettanto, il che realizza nei fatti quel coordinamento delle politiche fiscali che oggi popola solo i sogni dei cosiddetti europeisti.

Ma, vede, è destino che i sogni degli europeisti siano l'incubo degli europei.

Il mondo che lei auspica, quello di un esercito unico senza Stato, ci condurrà fatalmente a una guerra imperialista. Si realizzerà così una elegante simmetria: così come la moneta unica è servita a esportare all'estero i nostri squilibri economici (perché, dopo aver spremuto i paesi periferici, la Germania, facendo svalutare l'euro, ha rivolto la sua insensata sete di surplus all'esterno dell'eurozona), l'esercito unico ci servirà a importare dall'estero squilibri geopolitici: assisteremo, sul nostro territorio, a quella "sola igiene del mondo" che pensavamo di aver esternalizzato per sempre. Ma mentre i paesi nei quali andavamo a combattere, progressivamente, si rinforzeranno e si pacificheranno sotto l'influenza di altre egemonie e con il beneficio di politiche economiche razionali, noi, governati da regole economiche irrazionali e affidati a egemoni acefali, torneremo all'epoca delle guerre di religione: quell'epoca che venne chiusa dalla creazione degli stati westfaliani, e che il tentativo di abolire questi stati, pur fallendo, riaprirà.

Non c'è alternativa?

Questo non lo credo. L'alternativa c'è, c'è sempre. Ma in sette anni di dibattito una cosa penso di averla imparata: non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. E quindi temo che questa alternativa dovrò continuare a cercarla probabilmente non da solo, ma quasi certamente non in sua compagnia: lei continuerà a cantare il canto del "non c'è alternativa", precludendosi la possibilità di immaginare e gestire le alternative che comunque la storia ci imporrà con il suo consueto garbo. Un po' mi dispiace, ma col tempo ho sviluppato una discreta capacità di elaborare lutti.

Per me è stato comunque un piacere fare la sua conoscenza.

Alberto




(...e tre: chi manca?...)