L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali...
Questa sera in seconda serata (da verificare caso per caso) andrà in onda sui principali canali regionali (specificati qui) la puntata di Roma InConTra alla quale ho partecipato lunedì scorso. Ho così finalmente conosciuto Enrico Cisnetto, rendendo felice il mio barbiere, che è anche il suo, e che ogni volta che mi vede mi chiede: "Ma Cisnetto lo hai incontrato?" E io: "Veramente no".
Adesso potrò dirgli di sì.
Questo però non è molto rilevante, e forse rischia di non essere interessante per voi nemmeno quello che ci siamo detti, nel corso di un'intervista comunque equilibrata, aperta, e (per me) piacevole. Mettiamola così: saranno pochi quelli in grado di apprezzare certe sfumature del dibattito, e per non toglier loro la sorpresa rinuncio ad anticipargliele, mentre agli altri applicherò la prima legge della termodidattica:
CI SONO COSE CHE SE POTESSERO ESSERE CAPITE NON ANDREBBERO SPIEGATE
(...sono quelli che guairanno: "Bagnai schiavo dei poteri fortiiiiiii! Bagnai ossequioso col potereeeeee!" e via dicendo. Ho già dato su Twitter, mobbasta...)
Detto questo, però, vi esorterei a guardare ugualmente la puntata per sentire non tanto l'Amen guru vostro, testis fidelis ac verus, quanto il personaggio, ben più importante, che parla prima di lui, cioè Mauro Masi, il quale, se non ricordo male (magari la puntata me la riguardo anch'io), partendo dalla domanda chiave del suo ultimo libro (già oggetto di altre analisi), tocca con grande leggerezza (nel senso positivo di laevitas) un tema non da poco, ovvero il fatto che le infrastrutture portanti della rete, e quindi del nostro vivere quotidiano, sono in mano a pochissime aziende, il che crea evidentemente un vulnus non indifferente alla nostra democrazia. In particolare Masi menziona il fatto (che non sono in condizione di verificare) che Obama, nel corso della sua carriera, avrebbe opposto il suo potere di veto solo due volte, e una di queste chiaramente su indicazione di Guglielmo Cancelli, a fronte di un provvedimento che avrebbe leso gli interessi di quest'ultimo.
Qui ne abbiamo parlato diverse volte, e fra l'altro io ero reduce da una discussione con un amico incontrato a Milano, il quale mi aveva riportato come in una conferenza tenutasi all'estero il capo dei servizi di un paese non appartenente all'UE aveva fra il serio e il faceto fatto notare come tutti noi possiamo avere l'assoluta certezza che le nostre email siano tutte sotto controllo (potenzialmente o attualmente?).
La domanda che qui ci riguarda è quella che pone un nostro lettore:
Io l'intervista a Bersani non ce l'ho fatta a leggerla. Ma andiamo alle
cose serie. Volevo dire al profe che la domanda (quella sulla buona
fede) che ho fatto al raduno del libro in piazza affari non era per lui,
era per Vladimiro. L'emozione però mi ha fatto un brutto scherzo perché
a lei avrei voluto far notare questa constatazione: il dibattito che
qui è nato, assieme alla presa di coscienza dei pochi che ne hanno avuto
la voglia, è stato esclusivamente grazie alla rete. Questa
disponibilità di mezzi lasciataci dalle elites francamente mi lascia
perplesso: è vero che siamo in un regime eurofascistoide, ma il
controllo dei "mezzi di informazione" (e internet lo ritengo uno di
questi) non è stato proprio capillare. Spero che in futuro non ci
saranno brutte sorprese. Adesso vado a dare il mio sostegno ad
a/simmetrie: scrissi che non potevo fare donazioni, ma dopo aver letto
"La deflazzione" pur non essendo un imprenditore (sono libero
professionista), e pur essendo non proprio in floride acque, ho deciso
di dare il mio modesto contributo.
Postato da Marcus in Goofynomics alle 28 ottobre 2015 00:36
Ribadito che della "buona fede" non ce ne frega un beneamato (per i motivi descritti nel post de cujus: il tradimento politico della sinistra è oggettivo, punto. La destra ha fatto la sua parte difendendo il capitale, il quale non mi pare se la passi troppo male di questi tempi, il che significa che chi è rimasto fregato è il lavoro, no?), e ringraziando doverosamente per il contributo (segue a breve rendiconto), vorrei riprendere e precisare il punto.
No, noi non siamo qui esclusivamente grazie alla rete. La rete è stata condizione necessaria ma largamente insufficiente, come dimostrano i risultati altrui. Siamo qui grazie alla rete e ad IO
(prego).
Resta il fatto però che se la rete non è sufficiente, essa è necessaria. E allora perché ce l'hanno messa a disposizione, come si chiede Marcus?
Qui di discorsi da fare ce ne sarebbero molti. L'idea che, anche a livello di quelle quattro o cinque aziende che controllano le infrastrutture di rete (in particolare, i social) e che quindi, oltre e prima di tracciare le nostre email, hanno su di noi tutte le informazioni che noi volontariamente forniamo loro, l'idea, dicevo, che anche a quel livello esista un coordinamento perfetto e una volontà unitaria è ridicola, e la lasciamo agli altri (a quelli che nonostante la rete hanno fallito, appunto)!
Se questo coordinamento unitario esistesse, allora potremmo supporre (e nelle fogne di Internet l'ho visto dire) che veniamo lasciati liberi di esprimerci solo perché in fondo non siamo scomodi per il potere. In fondo, siamo pochissimi (una minoranza di una minoranza di una minoranza), chi controlla il potere vero ha in mano i mezzi di informazione mainstream (telegiornali), quindi alla fine potremmo anche pensare che lasciarci qui, liberi di sfogarci fra noi, "gli" (a chi?) faccia più comodo che non reprimerci...
Tuttavia credo che questa idea valga quanto il presupposto sul quale è fondata: piuttosto poco. Il complottismo va bene per chi ragiona in termini di "buona fede", di intenzioni. Io sto cercando di educarmi ed educarvi a ragionare in termini di risultati. L'elemento psicologico del reato ha sicuramente rilevanza giuridica, e forse ne ha per Nostro Signore (le cui vie sono imperscrutabili), ma io sinceramente me ne strabatto di sapere cosa pensavano Prodi e Visco quando ci hanno cacciato in questo casino (peraltro, a Visco l'ho anche chiesto, ma solo perché mi trovavo lì, e la risposta nemmeno me la ricordo perché per me non è rilevante).
Vi propongo un'altra linea interpretativa, che è quella che mi suggeriva un amico esperto di comunicazione (sempre quello incontrato a Milano). Mi raccontava, questo amico, un aneddoto. Aveva avuto modo di sentire, per la sua attività, un certo stratega di una certa potenza che qui è stato più volte citato, il quale, dopo una certa rivoluzione colorata in un certo modo, era convinto che i problemi in una certa regione del mondo che è a est di alcuni paesi e a ovest di altri (come del resto è a nord di alcuni paesi e a sud di altri: vedete come sono prudente, da quando ho ascoltato Masi?), quei problemi fossero risolti per sempre.
Invece alla prova dei fatti non era stato esattamente così, il che aveva poi reso necessaria un'altra mano di vernice.
La lezione che il mio amico traeva è semplice e confermata da innumerevoli episodi storici: le potenze egemoni commettono fatalmente un atto di arroganza che le espone a reversal of fortune, rovesci della SStoria.
Quando noi abbiamo iniziato, inutile girarci intorno, il dibattito semplicemente non esisteva. Questo non significa che quanto ho cercato di portare alla vostra conoscenza fosse originale! Vi ho chiarito fin dall'inizio che non lo era. Significa però che a grandi linee le numerose, e non necessariamente coordinate, istanze alle quali il progetto eurista sostanzialmente fa gioco, potevano pensare che non sarebbe mai emerso dalla rete un dissenso così vocal (per dirla come loro), e che, al più, sarebbe bastato metter su un paio di baracchini di persone che facevano finta di essere contro (stranamente, tutte in provenienza da un punto cardinale che non ricordo, e tutte un po' progressiste, ma un po' anche no...), per intercettare quei pochi che si ostinavano a pensare con la testa loro.
Una bella rivoluzione colorata, di color bianco camicia (o rosa mani pulite, o trasparente coscienza pulita), tramite la quale incanalare e opportunamente castrare il dissenso.
Però il dissenso è emerso.
Potrebbe essere stata semplicemente una sottovalutazione da parte dei tanti (e scoordinati) avversari.
Se questa mia linea di interpretazione (che mia non è: è del mio amico) fosse corretta, cioè se lo spazio non ci è stato dato perché siamo innocui, ma ce lo siamo preso perché nessuno supponeva che lo avremmo fatto, allora adesso dovremmo assistere a una reazione.
E infatti assistiamo a una reazione, preannunciata da un amico (nonché mio storico personale: qualche piccolo lusso potrò pur concedermelo!):
Ci stanno arrivando, è solo questione di tempo. Sanno
benissimo che la rete, in tutte le sue declinazioni (come si deve dire
oggi), è per loro un "disturbo": circolano le notizie, le
interpretazioni, gli appuntamenti ecc. A palazzo Berlaymont (si fa per
dire, sono altri i palazzi che contano) saranno sicuramente preoccupati:
Portoghesi riottosi, Polacchi francamente disgustosi, per non parlare
degli Ungheresi paranazistoidi. Arriverà la stretta sui social, puoi
giurarci. Ciò che sta succedendo in Europa non è una "crisi" in senso
stretto, è un cambiamento epocale perseguito coscientemente senza che la
stragrande maggioranza se ne possa rendere conto (le parlano di bambini
morti, di disperati che fuggono dalla guerra, di diritti sacrosanti, di
adozioni di figli per tutti, di "diritto al figlio" e così via); la
gente è talmente frastornata che non può capire. Stanno cambiando,
rivoltandolo come un calzino, questo continente; e ottengono risultati
che un tempo si ottenevano solo con le invasioni e le guerre. Hanno
distrutto interi paesi, hanno scosso nelle fondamenta gli altri, hanno
impoverito la maggioranza degli europei e stanno convincendo i giovani
che va bene così (se tu nasci sotto la propaganda del Minculpop, di
Goebbels o della Disinformatia, tu non puoi che essere fascista, nazista
o comunista; per spezzare un vincolo del genere ci vuole un evento
traumatico, cioè una guerra). Quindi stanno facendo gli Stati Uniti
d'Europa a nostre spese, impoverendo noi e sommergendoci con una ondata
di rifugiati, che sono ideali per gli Stati Uniti d'Europa, tanti,
affamati, divisi, pronti a lavorare per due lire, pronti a sostenere
questa nuova "patria", in cui almeno non saranno massacrati da armi e
coltelli. In questo quadro io non credo più all'errore della sinistra.
Hanno perseguito un progetto ben preciso, e continuo a pensare che i
sindacalisti non potevano non sapere che cosa sarebbe accaduto con la
moneta unica. Tutti sapevano tutto. Nessuno chiederà scusa, perché non
ritengono di dover chiedere scusa per un progetto complesso che, certo,
conosce difficoltà, ma che nella sostanza è giusto. Sono ormai
straconvinto che anche gli esponenti più sensibili della sinistra
continuano a pensare che il progetto è buono, che sono sbagliati solo i
mezzi. Non c'è nessuno, dico nessuno (tranne Alberto, ovviamente, e gli
amici tipo Claudio Borghi), che prenda di petto la questione corruzione e
l'uso scandaloso che ne viene fatto in tv e sui giornali. È forse un
caso? Ma per niente: fa arcicomodo alla sinistra, anche a quella
sedicente o pretesa "radicale", perché le dà una copertura ideologica:
il progetto è buono, però bisogna debellare il cancro della corruzione,
della mafia, dell'evasione, per diventare una paese "serio". Hai mai
sentito qualcuno dire, negli Stati Uniti, che devono debellare la
corruzione, la mafia? Sono pieni di mafia e corruzione (basta vedere un
qualsiasi film americano), ma Tutti qui lo citano come un paese modello.
La corruzione serve al PD e agli "scissionisti", perché copre il fatto
che quelli al governo tagliano la sanità e quelli fuori del governo ti
offrono subito l'assicurazione integrativa (la fai direttamente alla
fine della spesa, perché la Coop sei tu, anzi è loro perché si prendono i
tuoi soldi). Questo lo faranno anche per le pensioni, ci vuole solo un
attimo di pazienza, Tito, il figlio di Vespasiano, ha un compito
difficile da espletare ma ce la farà.
Allora improvvisamente un raggio di luce attraversa il tuo cervello: ma
sbaglio o in Italia è rimasto in piedi solo il sistema delle Coop con
annessi i quattro esponenti più o meno loquaci che mandano in parlamento
(anzi ogni tanto ci mandano direttamente gli esponenti delle Coop, ma
guarda, povero Silvio nostro, povera stellina)? E ti dici, sì è così.
Allora smettiamola, cari Piddini e abbellimenti più o meno esterni:
avete fatto tutto questo, perché era frutto di un accordo, con l'Europa,
naturalmente, questa entità astratta che è come l'Araba Fenice, ma che
ci sta massacrando; in questo accordo voi avete scelto di essere l'élite
locale che fa il lavoro sporco per i padroni colonialisti, i quali vi
ripagano, visto che siete affidabili ascari, facendovi amministrare le
spoglie di ciò che vi lasciano e concedendovi il ruolo di "fornitori".
Non sono "traditori oggettivi": è un regalo definirli così. Sono solo
traditori, e non chiederanno mai scusa, non organizzeranno mai il CLN,
non usciranno mai dall'€, ma soprattutto non usciranno mai dal
parlamento.
Postato da Celso in Goofynomics alle 28 ottobre 2015 10:53
e immediatamente dopo annunciata da una che ho nel cuore (anche se onestamente non mi ricordo come sia fatta: nel caso ci fossimo incontrati di persona mi scuso...):
Postato da chiaraped in Goofynomics alle 28 ottobre 2015 10:52
Che ne dite?
Se la rete è così poco scomoda, o così tanto funzionale alle logiche del potere, perché darsi tanto da fare per controllarla?
La nostra speranza è e resta una sola: che di errori ne vengano commessi altri (nel senso di "ben altri"!), tali per cui si torni, in un lasso di tempo non eccessivamente lungo, a un sano equilibrio bipolare, il quale consenta al nostro paese di trovare una sua collocazione meno eteronoma nello scacchiere internazionale. Non è cosa del tutto impossibile, anche se ad oggi sembra (anche a me) poco probabile. Ricordate di quando al FMI volarono stracci? Il problema era: "Caro amico americano, ma noi, i brasiliani e gli indiani, cosa minchia c'entriamo col tuo desiderio di tenere la Grecia sotto il coperchio dell'euro? Lo capisci sì o lo capisci no che ci stai facendo violare i nostri statuti (cosa della quale ce ne strabattiamo quanto te) e soprattutto buttare nel cesso una barca di soldi (cosa che invece ci interessa)?"
Ecco.
Gli emergenti piano piano emergono.
Il degrado della situazione politica in Europa, determinato dall'euro, potrebbe anche far comodo agli Stati Uniti. Ma vedete, io la penso così: chi rompe paga, e i cocci sono suoi. Chi vuole gli squilibri se li finanzia, e i paesi sono suoi (vedi piano Marshall). A chi invece vuole gli squilibri, ma pensa di farseli finanziare dagli altri per sempre, dedico questo brano:
Verrà il tempo della censura: era prevedibile e non deve scandalizzarci, come non deve scandalizzarci il fatto che tutto quello che ci diciamo "riservatamente" sia controllato da qualcuno. Era così anche in qualsiasi paese dell'Appennino (finché sono esistiti paesi sull'Appennino).
Basta saperlo.
Sbrighiamoci a dire quello che abbiamo da dire finché possiamo dirlo: è stato bello, quindi non poteva durare! Poi vedremo il da farsi.
(...mentre preparo "Bagnai idiota!" - sufficit Diei malitia sua - mi pregio di sottoporre alla Vostra attenzione una mia riflessione sul tradimento della sinistra. Il tradimento è una categoria oggettiva e politica, e mi dispiace per chi afferma il contrario, anche se intuisco le sue ragioni - anzi: le intuiscono tutti! Il dato è che chi dichiara di voler fare gli interessi di una classe sociale, e poi propugna politiche oggettivamente favorevoli agli interessi di un'altra classe, oggettivamente tradisce - indipendentemente da quello che soggettivamente ritiene di star facendo - e questo tradimento è un fatto politico, perché ha conseguenze politiche - dato che altera i rapporti di forza - e comporta responsabilità politiche. Punto. La conseguenza pratica è che la sinistra che ha adottato l'euro - nel senso che se ne è fatta madre - dovrà passare da qui, come è stata costretta, dalla violenza dei fatti, a passare da qui - motivo per il quale mi citofona con quattro anni di ritardo. Ancora una volta, però, la destra è più svelta: a titolo di esempio, e passando a un contesto del tutto diverso, Blair ha chiesto scusa - se pure ipocritamente, ma l'ha fatto. Segno che la mia intuizione in termini di comunicazione politica era piuttosto avanti, as usual. D'altra parte, non ci vuole molto a capirlo. In un mondo europeo che si sta sgretolando, nessuno può affacciarsi alla scena politica in modo credibile senza prima fare una chiara e articolata ammissione di responsabilità. Farla più tardi significherà solo farla peggio e farsi più male. Ovviamente nessuno di quelli che io desidero capisca capirà. Chi capirà sarà la persona sbagliata - vedi alla voce Blair.
Il non capire questo dato, per me così evidente - non so per voi - discende, ancora una volta, dal rifiutarsi di leggere i fondamentali macroeconomici. Se lo si facesse, si capirebbe che questa è la crisi più grave dell'intera storia italiana e europea, e che quindi è un po' ingenuo pensare di affrontarla con le logiche della politica politicante di altri tempi: la mediazione, il dire e non dire, lo scaricare sugli altri le responsabilità. Qui la gente aspetta uno che dica: "Abbiamo sbagliato, si cambia rotta!" Siete ancora in tempo, compagni...)
(...con i ringraziamenti a Gustavo Cecchini per l'ottima organizzazione...)
(...ricevo da mi cuggino questo apologo che mi sembra una perfetta sintesi dell'atteggiamento di quegli "intellettuali" - e connesso "ceto medio intellettuale" - di sinistra nei confronti dei problemi economici: una pastrufaziana latitudine di visuali che ci si può permettere solo se e finché si hanno le chiappe al caldo, cosa che, come vedrete, non è assicurata per sempre...)
La conoscerai sicuramente. Ma mi sembra perfetta per l'euro.
Sherlock Holmes e il Dr. Watson vanno in campeggio.
Dopo una buona cena ed una bottiglia di vino, entrano in tenda e si mettono a dormire.
Alcune ore dopo Holmes si sveglia e con il gomito sveglia il suo fedele amico:
- "Watson, guarda il cielo e dimmi cosa vedi!"
Watson replica:
- "Vedo milioni di stelle..."
Holmes:
- "E ciò, cosa ti induce a pensare?"
Watson pensa per qualche minuto:
- "Dal punto di vista astronomico, ciò mi dice che ci sono milioni di galassie e, potenzialmente, miliardi di pianeti. Dal punto di vista astrologico, osservo che Saturno è nella costellazione del Leone. Dal punto di vista temporale, deduco che sono circa le 3 e un quarto. Dal punto di vista teologico, posso vedere che Dio è potenza e noi siamo solo degli esseri piccoli ed insignificanti. Dal punto di vista meteorologico, presumo domani sarà una bella giornata. Invece tu cosa ne deduci?"
- "Watson, qualcuno si è fregato la tenda!"
(...e voi, la conoscevate? Ah, a proposito: vi hanno già fregato scuola, pensioni e sanità. Cari Watson piddini, non sentite un certo frescolino?)
Sì, quello che aveva tollerato il doppio gioco di Luigi di Lussemburgo... No, non questo Luigi di Lussemburgo (ci siamo divertiti al suo matrimonio, vero? Bella festa...): questo, il conestabile di Saint Pol, cioè il nonno di Filiberta di Lussemburgo e per quella via bisnonno materno di Filiberto di Chalon-Arlay, che era, quest'ultimo, il nostro amico che non riuscì a evitare il sacco di Roma (perché non parlava la lingua: un problema tipicamente europeo), e i cui mercenari (che gli servivano a Napoli per risolvere un altro problemuccio) vennero schiantati dal freddo sull'altopiano delle Cinque Miglia, quello per il quale oggi devono transitare le partorienti dell'alta val di Sangro onde raggiungere l'ospedale di Sulmona, come mi spiegava la Scarpetta di Venere (semper laudetur).
Mi piace ricordarlo oggi con voi per affermare un principio che deve esserci di conforto e di stimolo: non è vero che la virtù non venga ricompensata. La bontà, e l'ascolto dei saggi consigli, spesso sono ricompensati, e la vicenda di Filippo ne è un esempio.
Nato a Digione nel 1396 da Giovanni Senza Paura, nel 1415 aveva 19 anni, e, come tutti i giovani, voleva imbrancarsi coi suoi coetanei. Ma venne dissuaso da papà. E fece bene ad ascoltarlo. Perché nel 1415 la gioventù francese non voleva andare il venerdì sera da Pizza Alex, con la Aixam, a sfoggiare jeans sdruciti, come oggi la gioventù pariolina (vedi alla voce er Palla): voleva andare il venerdì mattina ad Azincourt, a sfoggiare armature damascate, sventolando il proprio blasone. Che, va detto, nel caso di Filippo era un signor blasone: solo per leggerlo ci vuole un quarto d'ora:
Ecartelé: en I et IV d'azur semé de fleurs de lys d'or à la bordure componée d'argent et de gueules (qui est du Duché de Bourgogne) ; en II parti, en 1 bandé d'or et d'azur de six pièces, à la bordure de gueules (qui est de la Comté de Bourgogne), en 2 de sable au lion d'or, armé et lampassé de gueules (qui est de Brabant) ; en III parti, en 1 bandé d'or et d'azur de six pièces, à la bordure de gueules, en 2 d'argent au lion de gueules armé, couronné et lampassé d'or (qui est de Limbourg). Sur le tout d'or au lion de sable armé et lampassé de gueules (qui est de Flandres).
Ma papà je disse: "Leva mano!" (per la cuggina dell'economista: sarebbe la versione parenetica del "Dattelo in faccia!": chiedi al facinoroso per spiegazioni).
E lui, Filippo, che era buono di nome e di fatto, invece di uscirsene dal Prinsenhof sbattendo la porta come avrebbe fatto er Palla, disse "Oui, mon père", ritirandosi nei suoi appartamenti, che suppongo non fossero un troiaio come quelli del sullodato er Palla.
Per il figlio di un Senza Paura e il padre di un Temerario deve essere stato un bel sacrificio rinunciare alle scorrerie del venerdì mattina. Nelle sue vene scorreva un sangue ardente (compatibilmente con la latitudine). Ma ascoltò papà, il Sans Peur.
E ben glie ne incolse (capito, Palla?).
Perché da Pizza Alex, cioè, scusate, ad Azincourt, non ci sarebbero stati Oliviero, Jacopo e Mattia ad aspettarlo (oh, la sconcertante assenza di entropia dell'onomastica pariolina)... Eh no, ci sarebbe stato, e infatti c'era, Chicco Quinto, un nostro amico, che tutti conoscete, perché tutti conoscete il bel discorzetto che fece alla sua comitiva, discorzetto che spesso vi ho fatto anch'io, e che vi rifarò stasera a Bookcity (povero Vlad, cosa je tocca...).
Ve lo propongo in due versioni, quella per europei (grazie ad Alfonso Liguori che me l'ha fatta conoscere):
e quella per diversamente europei, facilmente accessibile via il tubo:
Che storia, quella di Azincourt! C'è, in nuce, tutta la storia che noi stiamo vivendo: quella dell'Unione (?) Europea (?).
Ma l'Unione Europea non c'era, purtroppo (altrimenti, come sapete, non si sarebbe combattuto):
ma c'erano, e si unirono per la giusta causa (o per quella sbagliata:
tanto, per noi, seicento anni dopo, una vale l'altra) una pletora di
stati relativamente indipendenti: il Regno di Francia, il ducato di
Bretagna, la contea di Champagne, il ducato di Borgogna, il regno di
Navarra, la contea delle Fiandre, il ducato di Aquitania, il ducato di
Lussemburgo, e spicci. Questo lo si ricorda ad erudizione dei tanti che
forse credono che la barriera di Ventimiglia, quella dove oggi
respingono i rifugiati, esista dal tempo di Carlo Magno...
E non c'era, purtroppissimo, l'euro (altrimenti, come sapete, non ci
sarebbero state le crisi), ma c'erano, dalla parte dei francesi, le armature, che dell'euro sono
mirabile metafora: pesanti, rigide, e concepite per proteggere (?).
Dall'altra parte, invece, c'era una cosa che secondo molti economisti protegge meglio: la flessibilità.
I fatti li sapete. La battaglia fu combattuta lungo l'asse dell'odierna dipartimentale 104:
I francesi venivano da Ruisseauville, e gli inglesi li aspettavano dalla parte di Maisoncelle. Dice: "Ma se l'Inghilterra è a nord della Francia, perché i francesi arrivavano da nord?". Perché gli inglesi volevano tornarsene a casa, visto che stava cominciando l'inverno (la guerra era attività prevalentemente estiva, per motivi che immaginate). Erano partiti dall'Inghilterra un po' sul tardi, il 12 settembre, e il 22 settembre avevano conquistato Harfleur (oggi un sobborgo di Le Havre, alla foce della Senna, non lontano da dove vado a insegnare), e ora ripiegavano dalla Normandia su Calais, in direzione Nord (nel dipartimento che oggi si chiama, guarda caso, Nord-Pas de Calais). Da quella città, che era inglese dal 1347, avrebbero potuto traversare facilmente la Manica.
Ma i francesi, per fare gli splendidi, sbarrarono loro la strada.
Questa, ovviamente, non era asfaltata. Si andava per campi arati di fresco. I nobili francesi erano a cavallo, e anche i fanti erano pesantemente armati. Gli inglesi, invece armati alla leggera. La notte del 24 la passarono tutti, inglesi e francesi, nobili e scudieri, sotto una pioggia torrenziale, tanto che dalla parte dei francesi (cioè a Ruisseauville, il paese del ruscello: nomen omen) la strada era diventata un torrente. Per gli inglesi fu facile piantare nel terreno ammorbidito dalla pioggia dei pali che ostacolassero la carica di cavalleria. Viceversa, per i francesi fu difficile andare alla carica in un terreno nel quale i loro cavalli affondavano fino al ginocchio. Tanto per non farsi mancare nulla, i francesi, mentre litigavano su chi dovesse stare in prima fila e più vicino al capo (che non era il re, Carlo VI, il quale come sapete aveva svalvolato, ma Carlo I, il conestabile d'Albret), avevano lasciato avanzare di 600 metri i francesi senza disturbarli. Non molto, ma abbastanza per trovarsi a portata di longbow (circa 300 metri, e a 100 metri foravano un'armatura).
Dopo uno scambio di convenevoli (tipo: "Se rinunci alla corona d'Inghilterra ti facciamo tornare in Inghilterra". E Chicco: "Scusa, ma allora che ci torno a fare?"), i francesi attaccano: travolti da una pioggia di frecce, e impantanati nel fango, i cavalieri della prima ondata intralciano quelli delle successive, trasformandoli in facile bersaglio. La sconfitta era quindi inevitabile, come lo era stata a Crécy e Poitiers (con dinamiche molto simili). Sarebbe però stato evitabile il massacro, perché, come ho cercato di spiegarvi, non è proprio esattissimo quello che quel sanfedista di Roberto Buffagni ci dice ogni tanto, ovvero che le élite europee ci hanno sempre oppresso, ma almeno una volta ci difendevano e rischiavano la pelle. Preciso: la pelle, sì, la rischiavano, più di adesso, ma sempre meno di un poveraccio, perché se eri molto ricco era abbastanza facile che laddove non ti stendesse una freccia o un'archibugiata o un tuo pari, ma finissi nelle mani di un poraccio (un fante), quello invece di ucciderti ti catturasse, in modo da ottenere un riscatto (ricorderete anche per quale infelice equivoco a Carlo il Temerario questa sorte non toccò...).
Insomma: non sarete sorpresi di sapere che chi aveva fieno in cascina di norma e in media trovava modo di cavarsela anche in quei tempi bui (?). Più sorprendente, viceversa, la dinamica del massacro. Perché gli inglesi erano tutti contenti di aver catturato così tanti baroni francesi: sò sordi (pensavano), e la cosa sembrava finita lì. Ma c'era un problema: i francesi catturati erano veramente troppi, e portarseli dietro creava una oggettiva difficoltà logistica. Ci si sarebbe potuti organizzare, se non fosse che, verso la fine della piacevole scampagnata, Ysembart d'Azincourt, un nobilastro locale, attaccò con 600 contadini le retrovie inglesi, impadronendosi della corona del re e di altri souvenir. Temendo un attacco alle spalle, Chicco (cioè Laurence Olivier o Kenneth Branagh, a seconda delle preferenze) ordina agli arcieri di disfarsi rapidamente dei prigionieri. Gli arcieri preferirebbero di no, non tanto per il sangue, ma per i soldi. E allora Chicco fa loro un'offerta che non possono rifiutare: chi si rifiuterà di uccidere i prigionieri verrà impiccato.
Mors tua, vita mea, e l'aristocrazia francese conobbe una subitanea crisi demografica. Ci lasciarono le penne Jean I, duca d'Alençon e conte del Perche, Edoardo, terzo duca del Bar e marchese di Pont-à-Mousson, Antonio duca di Brabante e di Limburgo, Filippo di Borgogna, conte di Nevers e di Rethel, e via dicendo. Quattro principi del sangue, una serie infinita di altri signori, una catastrofe.
Ma soprattutto una storia in tutto e per tutto europea, in tutte le sue sfaccettature, come mi accingo a dimostrarvi.
Il rifiuto della storia
Questo è il primo aspetto "europeo" della vicenda che oggi ci appassiona: il rifiuto assoluto e categorico di imparare dalle esperienze precedenti. Perché, santo Dio, c'era già stata la battaglia di Crecy, no? Combattuta dalle stesse parti (in senso geografico e politico), più o meno con lo stesso rapporto di forze, e persa più o meno nello stesso modo. E anche a Poitiers non era andata in modo tanto diverso.
Ma gnente...
Gli "europei" al passato proprio non guardano: lo trovano disdicevole. Bisogna guardare al futuro, ripetendosi che sarà roseo, che tutto andrà bene, perché non può andare che bene, perché deve andare bene, perché nel Manifesto di Ventotene c'è scritto che "La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà", che poi, nel caso qualcuno non lo notasse, è esattamente questo tipo di discorso, a chiara indicazione se non della matrice ideologica del manifesto, quanto meno della temperie culturale dell'epoca ("noi tireremo dritto", "è la Bce che traccia il solco e il Pd che lo difende", ecc.).
La cultura politica dell'ottimismo totale
(copyright Giandomenico Majone).
Dice: "Ma guarda che ha piovuto!"
Fa: "No, non ha piovuto! Siamo europei, siamo uniti, quindi splende il sole, il terreno è compatto, non è una poltiglia, e la nostra cavalleria spazzerà via quei quattro straccioni di Lancaster".
Ecco. Un altro dato europeo: il rifiuto del principio di realtà. Jean le Meingre, uno degli strateghi francesi, aveva predisposto un piano di battaglia che prevedeva di incontrare gli inglesi in campo aperto: non in una radura incassata fra due boschi. Insomma, ci siamo capiti: è la solita storia familiare a noi economisti, per cui se il modello non rispecchia la realtà, si fa finta che sia questa ad adattarsi (truccando i dati: esempi qui e qui). Ma gli arcieri inglesi erano referee più severi degli attuali accademici statunitensi (almeno a giudicare da quello che dice Romer qui parlando di un nostro amico), e avvicinarono bruscamente i baroni alla durezza del vivere...
Il delirio della competitività totale
Su questo ormai si è detto tanto: un mondo nel quale tutti esportano non è logicamente possibile. Allo stesso modo, non è strategicamente sostenibile uno schieramento nel quale tutti desiderano stare in prima fila. Pensate che la vanagloria dei baroni francesi era tale che i cv, pardon, gli stendardi da essi sventolati oscuravano completamente la vista ai fanti che in teoria, nella seconda fila, avrebbero dovuto sostenerne l'azione, approfittando dei varchi che si supponeva la cavalleria aprisse nelle linee nemiche (cosa che poi non accadde). Immagino i litigi per decidere chi dovesse arrotolare il proprio cv (pardon, stendardo) e metterselo nel baule.
Così come non si può essere tutti nella prima fila dello schieramento, non si può essere tutti esportatori netti.
I francesi lo impararono a loro spese, i tedeschi lo stanno imparando a nostre spese.
L'illusione del numero
Nota bene: non solo i francesi non vinsero nonostante fossero di più, ma addirittura vennero sgozzati come porci perché erano di più (e quindi era sconsigliabile sia tirarseli dietro, sia lasciarli in vita, in un contesto nel quale sembrava che ci fosse l'imminente pericolo di un attacco a tradimento). Questa idea che si deve essere tanti per combattere non funziona: non è così. Noi siamo pochi. I baroni sono tanti. E come sta andando lo vedete (risparmio link, tanto sapete di chi parlo)... Non è mai un'ottima idea mettere un nemico con le spalle al muro, quale che sia la sua consistenza numerica, e non è mai una grande intuizione strategica contare sul proprio numero, anziché sulla propria motivazione.
L'inganno della rigidità
Arco (flessibile e leggero) vince armatura (rigida e pesante) 6000 morti (francesi) a 600 (inglesi).
Ecco: sì, ripensandoci bene la battaglia della quale oggi ricorre il seicentesimo anniversario è proprio una metafora ideale di quanto ci sta succedendo, e di quanto ci accadrà: un progetto rigido, antistorico, gestito da una élite allucinata e divisa su tutto, fallirà.
Mi sembra logico, anzi: tautologico. In fondo sto dicendo che un fallimento (annunciato) è un fallimento (realizzato).
E ora vi lascio: devo andare a Bookcity, dove mi pare di aver capito che qualcuno si aspetti che io parli di economia, e io, invece, parlerò di un altro duca di Barbante, che era anche donzello di Montargis, principe di Oléron e di Viareggio.
Chi ha capito, ha capito.
A mia discolpa, potrò dimostrare che lo faccio su precisa richiesta di Vladimiro...
(...ah, voi non eravate al matrimonio di Luigi? Avete avuto un contrattempo?)
Nel mio primo video di una certa risonanza (Byoblu semper laudetur), il cui titolo (partorito da Claudio) venne ripreso da un'importante progetto educativo, e poi da un saggio di uno studioso che ci onorerà della sua presenza al #goofy4, affermavo: "chi dice che a fronte di una svalutazione del 20% ci sarebbe un'inflazione del 20% è un criminale". In un video successivo Byoblu (semper laudetur) montò questa mia asserzione insieme a quelle di un simpatico dilettante dell'economia internazionale (per quanto stimato professionista nel suo campo, che non è l'economia internazionale), il quale, pensando che le mie affermazioni (precedenti) fossero una risposta alle sue sconclusionate congetture (successive), prese cappello, e la cosa finì male per lui (ma potrebbe finire peggio, se io non fossi di animo mansueto. Ma sono di animo mansueto?).
Ci penso oggi non solo perché sto andando alla festa dell'IDV invitato dal nuovo responsabile economia (parola chiave: nuovo), ma anche perché, come ci ricorda il noto blogger del primo secolo, sufficit diei malitia sua: sconfitta per abbandono di campo l'armata Brancaleone degli adoratori della bisettrice del PUDE (geniale definizione di un altro Claudio, il Borghi Aquilini), ecco all'orizzonte l'ost dei deficienti della deflazione.
Qual è l'argomento di questi valvassori del grande capitale (al quale pensano di appartenere, e che invece a buon bisogno se li mangerà per poi evacuarli, come abbiamo visto accadere decine di volte)?
Semplice!
Deflazione vuol dire che i prezzi scendono, quindi con gli stessi soldi compro più beni, quindi è aumentato il mio potere d'acquisto.
Figata!
Capire cosa c'è che non va in questo ragionamento è facile, ma non banale, perché come vedrete, inter alia, ci apre qualche prospettiva sulla pochezza intellettuale di un'altra sconclusionata masnada di cialtroni: quelli che "l'economia non è una scienza".
Avete letto l'intestazione di questo blog? Quella storia della discesa e della salita? La prima cosa che insegno ai miei studenti è che l'economia è fatta di pezzi piuttosto semplici. Esempio: una cosa costa di più? Di norma e in media ne compri di meno. I pezzi quindi sono semplici, ma la scienza consiste nel saperli tenere sempre insieme. La seconda cosa che insegno loro, con scarsa speranza di essere compreso, è che delinquenti e deficienti cercheranno sempre e comunque di manipolare ideologicamente il discorso scientifico presentandolo in modo unilaterale, che poi, in economia, cioè nell'analisi degli scambi fra esseri umani, significa concentrarsi su un solo lato della transazione.
Il caso della deflazione è esemplare.
Chi loda la deflazione si pone, evidentemente, da un lato ben preciso: quello del consumatore che ha una certa cifra da spendere. Nel far così non si pone due domande strettamente correlate: e quella cifra da dove gli è arrivata? E il produttore del bene consumando (non è un gerundio: è un gerundivo), lui, è contento?
Partiamo dalla fine, dal produttore, così poi non dovremo interrogarci sul principio (cioè sull'origine del reddito del consumatore).
Il produttore, ovviamente, non è contento di vendere a un prezzo più basso. Anzi! Ce lo spiega molto chiaramente il primo uomo, Adamo (Smith), in quel libro che tutti dicono di aver letto, ma nessuno ha letto, tanto meno gli ominicchi dell'economia, perché non era, questo libro, sulla "frontiera della ricerca" (limitandosi ad essere, come tutti i classici, all'avanguardia dell'umanità):
"People of the same trade seldom meet together, even for merriment and diversion, but the conversation ends in a conspiracy against the public, or in some contrivance to raise prices".
(...invecchiando, anch'io veggio "come quei c'ha mala luce": la mia memoria a breve termine si sbriciola, ma quella a lungo è infallibile, e ci piazzo subito i nemici: ancora ricordo quando e dove lessi questa pagina, sul pontone del DLF a Ponte Margherita, abbacinato dal sole agostano e stordito dal frinire delle cicale: avevo ventitré anni e mi chiamavano, con quella bonomia scanzonata, affettuosa e dissacrante dei romani veri, "er professore": perché si vede che la mia vocazione era evidente a tutti, tranne che a me, cosa che, come sapete, accade anche delle corna...)
(...Rockapasso ovviamente è una santa, e comunque io prima di tornare a casa telefono: anche questo lo imparai su quel pontone, insieme a tante altre cose delle quali via via vi ho parlato...)
(...ah, a proposito: questa semplice e limpida verità - non quella sulla telefonata, quella sui prezzi - è espressa nella parte II del Capitolo X "Of wages and profits in the different employments of labour and stock" del Libro I "Of the causes of the improvement in the productive power of labour". Così, tanto per dire che di produttività e conflitto distributivo non è che ne abbia cominciato a parlare Carletto il marziano: quello che c'era da dire era ed è sempre stato piuttosto ovvio...)
(...scusate, un'altra parentesi: chiunque vi citi Smith, tranne me, non lo ha letto. Ve ne darò ulteriori dimostrazioni. Di due cose sono certo: di questa, e del fatto che morirò. Il resto è tutto opinabile...)
Allora, riprendendo il discorso: se i produttori aspirano così tanto ad alzare i prezzi, al punto che per farlo sono disposti a venire a patti coi propri concorrenti (conspiracy, oggi si direbbe "cartello"), e che questo chiodo fisso li ossessiona anche durante le ore di merriment and diversion, capirete bene che se li abbassano lo fanno obtorto collo.
E, devo dire, io i produttori li capisco.
Sarà forse perché non ho passato la gioventù a berciare slogan pseudoprogressisti, nella speranza che essi mi dessero accesso al fiorente mercato della libertà sessuale (prodotto tipicamente "de sinistra" alla mia epoca). Avendo risolto abbastanza presto (e bene) il problema dell'accoppiamento (ve lo racconto un'altra volta), ho potuto seguire un percorso intellettuale relativamente indipendente, che se non mi ha portato nelle redazioni dei quotidiani ossequienti verso il grande capitale via "cioèporcoddiocompagninellamisuraincui", mi ha però condotto oggi a non considerare sempre e comunque l'imprenditore come un nemico. Un nemico è qualcuno da eliminare, a prescindere da quali siano le sue ragioni. E infatti molti, a sinistra, hanno voluto l'euro perché sapevano che avrebbe eliminato tanti imprenditori-nemici, senza interrogarsi su cosa sarebbe successo a tanti dipendenti-amici (avete presente quel discorso sul tenere i pezzi insieme?), e ce lo hanno anche detto: ricordate quei discorsi sulla piccola impresa metastasi dell'economia, e sull'interclassismo visto come malattia della pelle (laddove D'Attorre, per esempio, ne da una valutazione diversa - e quindi, a seguire, rapida conversione a U dei vari Rodomonti - se sapeste quante risate mi faccio! Non state troppo in pensiero per me...). Io preferisco considerare i diversi attori economici come portatori di interessi non necessariamente allineati ai miei, e, pensate un po', sono così speranzoso nell'umanità da illudermi che se faccio lo sforzo di capire come ragiona chi ha interessi diversi dai miei, forse mi sarà più facile trovare con lui una composizione non violenta dei nostri interessi.
Detto da uno che in fondo è una combinazione convessa di Cimourdain e Javert, uno che comunque basta a se stesso, e la cui massima aspirazione è la solitudine, direi che è un'affermazione impegnativa! Approfittatene, durerà poco...
L'errore metodologico commesso dai vari deficienti, e dai loro ascari, gli epistemologi da bar, è banale ma radicale: non capire che il processo produttivo avviene nel tempo (cominciate a intuire la differenza fra scienza e opinione?). Eppure non ci vorrebbe molto ad afferrare che prima si acquistano le materie prime, poi le si trasformano - pagando chi lo fa - e poi si vende il prodotto finito. Se i prezzi, durante questo ciclo di produzione, scendono, credete che il produttore sia contento? Direi di no. I contratti (di lavoro, di erogazione del credito, di acquisto delle materie prime) sono stipulati in termini nominali, cioè non sono corretti per la variazione dei prezzi (fatti salvi, ovviamente, casi molto particolari e qui non rilevanti, come quelli di certi prodotti finanziari indicizzati all'inflazione). La rapida morale di questa favola è che in presenza di deflazione il produttore in buona sostanza si troverà a vendere i suoi prodotti sottocosto o giù di lì: ricaverà meno dalla loro vendita di quanto ha speso per acquistare i materiali e pagare i lavoratori.
Come pensate che reagirà, a questa aggressione del mercato, il produttore?
Come chiunque: difendendosi.
E come può difendersi?
Come chiunque: attaccando.
Dato che sul prezzo delle materie prime c'è poco da fare, perché non dipende né da lui, né dalle politiche economiche del paese, il produttore per difendere i propri margini non potrà fare altro che agire sul costo del lavoro: pagare di meno i lavoratori. E siccome questi, legittimamente, non sono del suo parere, il produttore sarà costretto a licenziarne alcuni, secondo il noto principio del colpirne uno per educarne cento, slogan ingiustamente attribuito alle BR, quando invece vediamo ogni giorno che esso riflette l'essenza più intima del libbberismo (con tre "b"): cosa c'è di meglio di un lavoratore in più a spasso, per convincere gli altri cento (a spasso pure loro) ad accettare un salario inferiore?
Ma questo, voi, qui, dovreste saperlo, perché io ve l'avevo detto prima che ve lo dicesse lui...
(...che tristezza vedere il commento di massimorocca sotto a quel post! Pensare che mi è toccato bloccarlo. Ma c'è chi ha fatto sacrifici peggiori - vedi alla voce Cimourdain - e sono ormai un efficiente elaboratori di lutti: questo mi chiede l'appostismo, che, come tutte le ideologie, è intrinsecamente totalitario...)
(...apro e chiudo una parentesi a beneficio di un'altra categoria di imbecilli - stultorum infinitus est numerum - quella dei materieprimisti, i dilettanti i quali sostengono che una svalutazione ci sterminerebbe facendo aumentare i prezzi in valuta nazionale delle materie prime. In realtà, i produttori sanno bene che, anche senza scomodare il cambio, una diminuzione dei prezzi delle materie prime può essere anch'essa perniciosa, anche se accade nella valuta di origine. Mi spiego: se un ciclo di produzione dura sei o sette mesi (dall'acquisto del materiale alla commercializzazione del prodotto), e nel frattempo c'è un crollo conclamato dei prezzi delle materie prime (come adesso), cosa pensate che farà l'acquirente? Chiederà lo sconticino. Piccolo problema: le materie prime sono state acquistate prima (lo dice la parola stessa: "prime"), a prezzo alto. Quindi sconticino de che? Lo sconticino, eventualmente, potrei fartelo fra sei mesi se le materie prime le comprassi oggi. E invece mi tocca farlo oggi, perché se è vero che i produttori in tempi normali si mettono d'accordo per tirare su i prezzi, è pur vero che con la crisi si scatena anche fra loro la guerra per bande (tecnicamente: politica di prezzo predatoria), e quindi vuol difendere la quota di mercato deve regolarsi di conseguenza. Naturalmente anche queste tensioni si scaricano a valle, per cui riprendiamo il discorso...)
La conclusione è che, naturalmente, se torniamo a vedere la cosa dal punto di vista del consumatore, il calo dei prezzi non sarà di alcun beneficio non solo a chi si trova nella "corner solution" (cioè perde il lavoro, e quindi il suo salario "schizza" verso l'origine degli assi cartesiani, nel punto di coordinate doppio zero - come la farina...), ma anche a chi si trova in posizioni intermedie, per cui mantiene il lavoro, ma deve subire un taglio, come ormai avviene ovunque. Anche perché, vedete, la deflazione è di pochi decimi di punto percentuale, ma stranamente (chissà perché?) i tagli di salario dei quali sentiamo parlare sono tutti dell'ordine di un 20%. Sarà forse perché questo è, a spanna, il differenziale di inflazione cumulato che dobbiamo recuperare rispetto ai padroni del vapore?
Ma no, son coincidenze, come quella che ieri mi ha fatto incontrare un imprenditore nemico (Guido Crosetto) al supermercato: ci siamo guardati negli occhi e mi ha detto: "il paese è morto".
Bene.
Capita la storia?
Credo di sì.
Chi è il cattivo?
Non c'è.
Perché io vi sto facendo un ragionamento scientifico, e fra l'altro nemmeno molto originale: come vi ricorderete, Keynes (fra i tanti altri) ha chiarito prima di me come e perché la deflazione non è nell'interesse dei dipendenti (earners), che anzi traggono beneficio dall'inflazione. Ma questo è un fatto, che prescinde dalle intenzioni (buone o cattive).
Ecco: altra piccola lezione di metodo. Ogni volta che vi raccontano una storia con un cattivo (e/o un buono) siete usciti dal dominio della scienza. I rapporti di forza sono rapporti di forza, non hanno in sé una dimensione etica. La loro composizione pacifica dovrebbe essere il fine della politica. Per evitarla, chi controlla l'informazione oggi vi racconta una favola, quella secondo cui la politica è corotta, se sò magnati tutto, castacriccacoruzzzione, e via andare, per cui la politica va sostituita o dalla tecnica, o dall'onestà (che ovviamente non si escludono a vicenda, pur essendovi qualche dubbio che la prima implichi la seconda, e la pressoché assoluta certezza che la seconda fattualmente escluda la prima...). La favola nella quale il cattivo è la politica ha un ovvio scopo, quello di convincervi che non avete bisogno di politica. Questa morale è conforme agli interessi di chi controlla l'informazione, che in democrazia è un bene prezioso, ma soprattutto costoso (vedi il dizionario), cioè agli interessi di chi ha tanti, ma tanti soldi, e quindi, per dirla con Keynes, non appartiene certo al mondo degli earner, e non appartienenecessariamente nemmeno al mondo dei producer, ma senz'altro appartiene a quello dei rentier, di quella comunità finanziaria internazionale che sta cercando di imporci un modello (s)piacevolmente statunitensi di organizzazione del nostro vivere (in)civile, secondo linee che credevo di aver tracciato in modo sufficientemente nitido qui.
Ho cercato di spiegarlo nuovamente ieri a Coffee Break, e forse ci sono riuscito (giudicate voi).
Riassumendo: parlare dei benefici della deflazione significa schierarsi dal lato del consumatore (cioè della domanda) senza considerare le ragioni del produttore (cioè dell'offerta). Un atteggiamento antiscientifico e tanto più sospetto in quanto chi ce lo propone abitualmente si schiera unilateralmente dal lato dell'offerta (cioè della produzione) per caldeggiare misure di "riforma" (via flessibilizzazione del mercato del lavoro) chiaramente volte a conculcare i diritti e le ragioni della domanda (cioè dei consumatori). Non vi sembra paradossale? Lo è, e questo paradosso è l'indicatore più evidente di una consapevole disonestà intellettuale in chi porta avanti ragionamenti che erano chiusi per Keynes negli anni '30 (e probabilmente anche per Smith negli anni '70 - del 1700, però...).
Ma naturalmente ci vuole un certo orecchio musicale per apprezzare certe dissonanze. Ma a voi v'ha rovinato er gèzz. Voi siete quelli per i quali un accordo di settima di quarta specie può avere funzione di tonica! Come faccio a farvi capire che chi oscilla opportunisticamente dal punto di vista del produttore (quando vuole difendere il calo dei salari) a quello del consumatore (quando vuola laudare il conseguente calo dei prezzi) lo fa per prendervi per i fondelli?
Ecco, cerchiamo anche capirci su due cose, prima di chiudere il discorso.
La prima è la fallacia di composizione. Il produttore che a fronte di una diminuzione dei prezzi spunta una diminuzione del "costo del lavoro", che lo faccia perché costretto o perché si crede fuuuuurbo (la dimensione soggettiva non ha alcuna importanza), di fatto si condanna a ulteriori diminuzioni dei prezzi, in una spirale che collassa in un punto: quello in cui deve licenziare tutti, e alla fine la fabbrichetta la porta avanti da solo (e sta succedendo anche questo).
Il secondo è che nulla succede esattamente per caso. Nel gioco che ho appena descritto i lavoratori perdono subito, e i produttori perdono dopo un po'. Questi ultimi, quindi, di questo gioco si fanno efficaci pedine, anche perché sapientemente subornati dal "sesomagnatitutto", dall'astio contro lo "statoladro" (guarda caso, chissà perché, aizzato proprio da quelli che autorevolmente decantano le virtù della deflazione, e fomentato dagli "onesti" di ogni forma e di un solo colore: il bianco camicia, che è qui da noi il colore delle rivoluzioni made in Usa). Ma naturalmente in economia non è possibile che tutti perdano! Non ho mai visto gettare soldi nel cratere di un vulcano: se si adottano regole che conducono oggettivamente alla distruzione di valore ostacolando le dinamiche del processo produttivo, comunque qualcuno ci guadagnerà. Chi? Naturalmente chi è in posizione creditoria netta, come spiega tanto bene Keynes. Guarda caso, l'attuale governo italiano è espressione diretta di istanze appartenenti a questo mondo.
Sarà così per sempre?
Se penserete che tecnica e onestà possano sostituire la politica sì. Ovviamente sarebbe una catastrofe, ma io guardo il bicchiere mezzo pieno: ve la sareste meritata.
Se l'è sicuramente meritata il fesso che, immancabilmente, interverrà accusandomi di aver fatto un elogio della corruzione e della disonestà. Se non ha capito che il mio discorso è totalmente diverso, direi opposto (perché è un richiamo alla prima onestà, quella intellettuale), non avrà ovviamente nemmeno capito qual è la sintesi di questo ragionamento: chi difende la deflazione è deficiente, cioè evidenzia un deficit. Se il deficit sia intellettivo o etico non saprei dirlo, dipende caso per caso, e non è comunque rilevante. Ma il punto è, amico imprenditore, che se non vuoi capire il discorso che ti ho fatto qui, e se preferisci credere che il problema sia che "sesomagnatitutto", non ci saranno limiti a quello che ti potrà accadere, e ti sarai meritato tutto. Se invece queste parole ti hanno fatto riflettere, e se la composizione pacifica del conflitto sociale non ti disturba, come prospettiva, allora mettiti una mano sul cuore, se tieni a sinistra il portafoglio.
Questo è l'unico progetto di divulgazione che cerca di prendere in conto le tue ragioni senza considerarti un nemico, senza far finta di difendere il tuo interesse, e senza far finta di credere che esso coincida con quello dei tuoi dipendenti. Ci sono aree di interesse comune, e ci sono ovvie aree di divergenza (vedi l'intestazione di questo blog): ci sono sempre state e sempre ci saranno.
Ma la morte di questo paese non fa comodo a nessuno, se non agli avvoltoi che vogliono cibarsi del suo cadavere.
Prova a pensare quanto ti conviene veramente.
Poi, se pensi che il suicidio dell'Italia non ti convenga, renditi conto di quanto ho fatto da solo, e, se sei un vero imprenditore, fai un investimento (le istruzioni sono qui).
E se invece sei un dipendente? Bè, in quel caso forse mi stai già sostenendo, e allora grazie: sto lavorando, come sai, anche per te.
E se invece sei l'amministratore delegato di una banca? Bè, allora questo discorso forse lo vedi come il fumo negli occhi (a meno che la tua banca non sia in procinto di essere comprata da una più grande, e tu cortesemente accomodato alla porta, nel qual csao due domande forse te le stai facendo). Sai com'è, non si può dispiacere a tutti. Ma chiunque tu sia, e per quanto tu sia convinto che la crisi non ti toccherà, sappi che questa tua convinzione è sbagliata.
Puoi scegliere fra comprare tempo, mettendo la testa sotto la sabbia (per eleganza non ti ricordo cosa resterà fuori), e comprare libertà, sostenendo questa voce.
(...a Martinet: è latino maccheronico. Però se me lo traduci in norreno mi fai un favore...)
Dopo infinite peripezie sulle quali rinuncio ad informarvi compiutamente, sono lieto di annunciarvi che il programma definitivo del quarto compleanno del nostro blog (che nel frattempo è diventato una conferenza scientifica di livello internazionale), è disponibile qui. Il relativo comunicato stampa, inviato ad alcune centinaia di malcapitati, qui.
Vedrete qualche ritocco nel panel politico, e poi mi è scomparso dal radar Jacques (che spero di incontrare de visu a Parigi fra una decina di giorni, e che è come me e come tanti abbastanza stanco - ho appena ricevuto una lettera che è un autentico tajo da parte di un collega ma non violerò la sua privacy, purtroppo per voi... Scompaio dal radar anch'io, sempre più spesso, ma ci sono stati sviluppi organizzativi che dovrebbero permettermi di riapparire presto più bello e più potente che pria - Bravo! - Grazie!).
Con l'occasione, vi informo sui prossimi appuntamenti, che sono, per quel che mi riguarda:
7) il 4 dicembre a Roma dei dissidentiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii (con Paolo Becchi);
8) il 5 dicembre a Firenze dai comunistiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii (ma non quelli del 31 ottobre)!
Dopo di che, dal 14 dicembre le settimane si divideranno in settimane sì (quella del 14) e no (quella successiva, e così di seguito). Nelle settimane "no" non ci provate: sarà no. In quelle sì non ci sperate: mi sono rovinato sufficientemente la salute, e temo che vi costerei troppo. Ma naturalmente la speranza è l'ultima a morire (o la penultima, fermo restando il mio proposito di arrivare ultimo)...
Ma non parliamo di cose tristi: prepariamoci con animo lieto al quarto genetliaco di un blog che, non dimentichiamolo mai, iniziò così e proseguì (fra l'altro) così... Tutte cose che nessuno vedeva, qualcuno perché non voleva vederle, e qualcun altro perché proprio non ci arrivava, e siccome non ci arrivava allora, ovviamente non ci arriva nemmeno adesso, e non ci arriverà mai (come la discussione al post precedente ha piacevolmente esemplificato).
Diffondete la lieta novella: ci sono ancora posti!
(...io sto meglio. Meglio della Spagna, e meglio di prima. Ma ci vuole veramente poco. Ho imparato che le vacanze servono, e anche lì, dopo tre anni, era facile prevedere una elevata produttività marginale. Ho imparato che non posso lavorare ogni sera fino all'una, quindi mi spiace per chi si è drogato di blog: cambiate pusher - anche perché i più "a ròta" sono, come da copione, i meno consapevoli, e hanno bisogno di questo blog soprattutto come luogo per leccarsi le ferite quando soccombono meritatamente negli scontri col piddino di turno. Ho imparato che il Signore manda avvertimenti: ha avuto la bontà di ricordarmi che ho dei parametri sballati, scegliendo, per delicatezza, quello meno letale, cosa della quale gli sono immensamente grato. Ora, quando incontro micuggino, parliamo delle nostre esperienze coi medici, e c'è da farsi delle gran risate: nella professione medica il piddinismo è almeno tanto diffuso quanto in quella insegnante - per non parlare dei miei amici di sempre, gli ingengngnieri! Ma i medici hanno sugli economisti il vantaggio del corpo a corpo... Comunque, grazie a roberto b anche i diversamente europei possono godersi il post di Agenor...)
In Spagna più nessuno si azzarda a utilizzare in modo
esplicito lo slogan con cui José María Aznar pretendeva di mettere a tacere
qualsivoglia voce critica sul suo governo, proclamando che "la Spagna sta
bene", punto. Nonostante ciò, è questo il messaggio che esplicitamente si
cerca di vendere in questi mesi che s'avvicinano alla campagna elettorale per
le elezioni politiche di novembre. Il dibattito sull'economia sta diventando
più animato, ma non più informato. La Spagna è il paese nel quale si parla di
meno del problema fondamentale dell'economia europea: l'unione monetaria, la
sua instabilità, l'inefficienza e la difficile sostenibilità.
Sette anni dopo la sua caduta in recessione, il paese
non ha ancora recuperato il livello del PIL che aveva nel 2008. Nella sua
storia non ha mai vissuto una recessione così lunga. Il paese che più ha
sofferto gli eccessi e i difetti di questo sistema monetario è anche quello che
sembra meno disposto a metterlo in discussione. Basterebbe domandarsi perché la
Spagna ha sofferto, e ancora sta soffrendo, una perdita di ricchezza, di
occupazione e di diritti maggiore di quella degli altri paesi
Dal momento in
cui è stata decisa la moneta unica, eliminando il "rischio di
cambio", i flussi di capitale all'interno dell'unione monetaria sono
schizzati in alto, crescendo del 500% in 6 anni. La maggior parte di questi
flussi erano diretti in Spagna, Sarebbe molto bello pensare che lo facevano
perché questo è un paese meraviglioso sotto molti aspetti e offriva le migliori
opportunità di investimento. Disgraziatamente però la "scienza triste" ci spiega che che tutto ciò era dovuto ai differenziali di
inflazione, i quali facevano in modo che lo stesso tasso di interesse nominale
fissato dalla BCE, si traducesse in minor tasso di interesse reale nei paesi ad
alta inflazione, come la Spagna, e maggiore in quelli a inflazione più bassa,
come la Germania. Questo ha prodotto un circolo vizioso di più capitali, più
domanda, più inflazione, minor tasso di interesse reale, che a sua volta
attirava più capitali, ecc.
E tutto ciò
andava avanti di fronte all'indifferenza o, peggio ancora, alla compiacenza dei
regolatori nazionali, ma soprattutto europei. I primi pontificavano che
"la Spagna va bene", i secondi che ciò era la prova che
l'integrazione economica europea funzionava. Nessuno si preoccupava del fatto
che squilibri così enormi nella bilancia dei pagamenti delle economie avrebbero
potuto esplodere mandandole in rovina.
Quando il panico
ha pervaso i mercati finanziari, dopo il fallimento della Lehman, il giocattolo
europeo s'è rotto e paesi come la Spagna si sono trovati di colpo con deficit
di conti correnti senza precedenti. Tutti i capitali che erano entrati in forma
così massiccia per sostenere quel deficit hanno smesso di farlo. Questo è il
momento tipico in cui avvengono le crisi della bilancia dei pagamenti: il paese
che ha accumulato un deficit commerciale perde la fonte esterna che lo
sosteneva e ha urgente bisogno di recuperare competitività e assorbire il
deficit. Invece il paese che ha accumulato un surplus di conto corrente non ha
alcuna urgenza di assorbirlo in modo altrettanto rapido. In questi casi la
ricetta standard, quasi sempre applicata dal FMI, prevede tagli fiscali per
moderare la domanda interna e svalutazione monetaria per recuperare la
competitività con l'estero. Il problema della Spagna è che, senza uscire
dall'unione monetaria, non ha potuto disporre della seconda misura.
Come si può
dunque recuparare rapidamente competitività relativa, persa in un decennio di
differenziali di inflazione, senza poter disporre dello strumento standard del
tasso di cambio? Ovviamente con la deflazione salariale. Quantunque si travesta
da inevitabilità tecnica, questa è una decisione politica. In un primo momento,
milioni di lavoratori vengono espulsi dai settori prima sostenuti da quei
capitali che adesso sono spariti. Il che di per sé aumenta la pressione su
coloro che lavorano accettando un salario più basso. E se ciò non basta, si
introducono dure riforme della legislazione sul lavoro al fine di abbassare
ulteriormente il costo del lavoro e ridurre la protezione giuridica dei
lavoratori. I milioni di disoccupati che desiderano il tuo posto ti
convinceranno ad accettare di venir pagato di meno per lavorare di più e con meno
diritti.
In teoria la
spesa pubblica per la sicurezza sociale potrebbe giocare un ruolo di
compensazione, ma così non è stato. Si parla molto di "austerità", ma
non è proprio corretto dire che in questi anni i governi spagnoli abbiano
praticato l'"austerità", intesa nel senso del taglio alla spesa
pubblica e della riduzione del deficit. Piuttosto, è avvenuto l'opposto.
All'inizio della crisi, la Spagna partiva da un livello di debito pubblico tra
i più bassi di tutto il mondo: 35% del PIL nel 2007. Da allora ha avuto un
deficit medio annuale dell'8% del PIL, livello praticamente unico in tutta
Europa, ben superiore al limite del 3% e a qualsivoglia criterio che possa
definire una politica di consolidamento budgetario.
La Spagna ha
triplicato il suo livello di debito pubblico, però questo non ha aiutato a
diminuire la disoccupazione, semmai è avvenuto il contrario: nello stesso
periodo in cui il debito pubblico triplicava, anche il tasso di disoccupazione
triplicava. A fronte d'uno stimolo fiscale medio dell'8% nel corso degli ultimi
8 anni, una crescita media negativa (vale a dire la recessione) è veramente
rabbrividente. Il fatto che quest'anno l'economia torni a crescere, a fronte di
uno stimolo fiscale di quelle proporzioni, non è sufficiente per considerarsi
fuori della crisi. Se si guarda la situazione con un minimo di freddezza, si
vede la storia d'un fallimento macroeconomico.
Dal punto di
vista dell'aggiustamento macroeconomico, in Spagna sono successe
fondamentalmente due cose. Primo, il debito pubblivo ha sostituito l'enorme
debito privato degli anni precedenti la crisi. Questa enorme quantità di spesa
pubblica non è stata diretta verso l'economia reale, bensì a tappare i buchi delle banche private.
Figura 1: Indebitamento pubblico e
privato, annuale in % del PIL.
Ma attenzione.
non delle banche spagnole che agivano da semplici intemediari, semmai delle
banche di altri paesi della zona euro, la cui esposizione verso la Spagna e
verso la sua bollaimmobiliare ha
raggiunto livelli senza precedenti nella storia europea. All'inizio del 2008,
l'esposizione delle banche di altri paesi della zona euro verso le banche
spagnole, ossia i capitali privati che entravano nel paese, era uguale alla
metà del PIL della Spagna, La metà di questi capitali, corrispondenti alla
quarta parte dell'intero PIL spagnolo, proveniva da banche tedesche. Il che
significa che la bolla immobiliare spagnola è stato il piatto ricco in cui
tutte le banche della zona euro, e in particolare di altri paesi, mangiavano.
Una volta
scoppiata la crisi, queste banche, soprattutto quelle tedesche, sono state di
fatto salvate con denaro pubblico spagnolo, che è servito a tappare i loor
buchi passando attraverso le abnche spagnole, che sono state unicamente degli
intermediari. Se non si capisce questo processo, si continuerà a fomentare una
sterile guerra interna alla Spagna, in cui i cittadini accusano i politici dei
tagli, i quali accusano le banche dei tagli e chiedono ai cittadini maggiori
sacrifici per essere più competitivi, senza rendersi conto che il bottino è
finito all'estero.
Il risultato è
l'enorme zavorra di un debito pubblico triplicato in 7 anni, che a partire da
adesso i cittadini spagnoli dovranno sopportare e cominciare a pagare (non fa
differenza se tutti assieme o divisi, se parti del territorio proclamano o meno
la loro indipendenza...). Qualunque sia il governo che uscirà dalle elezioni,
non avrà altro rimedio che iniziare ad aggiustare i conti e, a fronte di tassi
di crescita che non potranno mai compensare l'indebitamento medio degòli 8 anni
precedenti, dovranno tagliare in modo significativo ogni tipo di investimento
pubblico e aumentare le imposte. In Spagna la vera austerità deve ancora
arrivare.
Il secondo
processo è stato un brusco aggiustamento della bilancia dei conti correnti del
paese. Questo aggiustamento è stato realizzato comprimendo la domanda interna,
deprimendo l'economia e distruggendo il potenziale di crescita. La pressoché
perfetta simmetria tra l'output gap e la bilancia dei conti correnti ci dice
che questo aggiustamento è stato soltanto ciclico e non strutturale.
Figura 2: Bilancia dei conti
correnti e output gap, annuale in % del PIL.
Questo cosa
significa? Semplicemente che non è cambiata la capacità strutturale di
migliorare a livello internazionale laproduttività relativa della Spagna, che la sua bilancia commerciale
continua a dipendere unicamente dal livello di reddito della popolazione, che
il suo deficit di competitività estera continua a essere lo stesso, legato
soltanto alla capacità e alla volontà politiche di impoverire i cittadini
affinché abbiano minor potere d'acquisto, quindi si importi meno. Come
conseguenza, la posizione di investimento internazionale netto della Spagna
peggiora anno dopo anno ed è già la seconda peggiore dell'intera zona euro.
Nulla è cambiato
in Spagna né nell'unione monteraria in modo tale che possa rendere più
sostenibile la permanenza del paese nella zona euro. Rifiutandosi di mettere in
discussione la permanenza del paese in questa unione monetaria, l'attuale
classe politica spagnola nella sua totalità sta oggi assumendo una tremenda
responsabilità. Nessuno è disposto a guardare al cuore del problema, ad aprire
un dibattito sui costi e benefici xella permanenza nell'unione monetaria, e il
livello della discussione economica è veramente lamentabile. Tutto questo non è
di buon auspicio per le prossime elezioni politiche né per il futuro del paese.
Non volendo
ammettere che questo sistema di cambi fissi sta strangolando il paese e i suoi
cittadini, nei prossimi decenni la Spagna sarà costretta ad affrontare
periodiche crisi di perdita di competitività, che potranno essere risolte
unicamente con maggiore svalutazione interna, maggiore disoccupazione, maggiori
riduzioni di salari e diritti, maggior impoverimento e maggiore immigrazione
forzata dei suoi giovani migliori. Non vedere questa chiarissima prospettiva in
forza d'una qualunque arma di distrazione di massa (che sia la corruzione, o la
questione territoriale, o il racconto che la "Spagna va bene") è la
ricetta perfetta per condannarsi a essere un paese in via di sottosviluppo.
Agenor
(...con un caro saluto al nostro amico Furbini, che è anche lui una creatura di Dio...)