(...settantaquattro: è un numero difettivo e odioso. Nonostante la scelta sia casuale, e nonostante io non stia per parlarvi di divisori, ma di moltiplicatori, non ci poteva essere numero più appropriato per quello che in effetti è il QED del sesto KPD, nonché, letterariamente, la naturale prosecuzione di "Sparecchiavo...". Fatto il punto nave per i nuovi lettori, che crescono in quantità e qualità, "o buon Appollo, al solito lavoro fammi del tuo valor siffatto vaso, come dimandi a li mortacci loro"...)
Riccardo Barbieri Hermitte è una persona elegante, competente, e preoccupata, certo a modo suo (come ognuno di noi), ma con una convincente parvenza di sincerità, per le sorti del paese. Ho avuto modo di ascoltarlo in una sola occasione, e, sperando che questo non gli rovini la carriera, devo dire che ho apprezzato al 99% la sua analisi, l'1% essendo il rituale inchino ai luoghi comuni dovuto alla necessità tattica di farsi scusare per aver detto con compostezza ma fuori dai denti alcune verità spiacevoli sul nostro paese (perché agli abitanti del nostro paese torna sgradito sentirsi dire che questo ha fondamentali economici sani: più esattamente, tornava sgradito ad alcuni degli astanti, membri di quelle élite che dalla proclamazione dell'inferiorità etnica dei propri cittadini traggono la legittimazione per espropriarli - tendenza assolutamente bipartisan, peraltro, come da noi chiarito molto tempo addietro notando la celeste corrispondenza di economici nonsensi fra il nuovo filosofo di Treviri e il salvatore della Patria...).
Alfredo (nome di fantasia) era invece "er meccanico" più vicino a casa. Non si può dire che fosse elegante, se non nella misura in cui potremmo definire "eleganza" la naturale, innata capacità di essere a proprio agio, e in particolare di indossare abiti appropriati, in ogni circostanza. La tuta sporca di grasso, leggermente oversize per garantire libertà di movimento agli arti, ma soprattutto a una rimarchevole panzetta (la libera circolazione dei trigliceridi...), non sarebbe stata vista con occhio indulgente attorno a un tavolo direzionale di BoA! D'altra parte, te ce vojo vedé a tte a tuffarti nelle viscere de "la màghina" con una bella cravatta a sette pieghe... C'è anche il caso di fare la fine di Isadora Duncan, che noi non auguriamo a nessuno, nemmeno a quelli che spingendo troppo in là, oltre il muro del razionale, la difesa dei propri porci interessi di parte, l'hanno resa inevitabile a molti. Sulla competenza... non mi pronuncio, rinviando a un grande classico della letteratura italiana (che, pensate, mi è stato consigliato dal Gaddus...).
Ma torniamo a Barbieri Hermitte. Voglio precisare che quando parlo della sua competenza non mi riferisco specificamente a quella scientifica. Devo farlo per correttezza: non essendoci molte pubblicazioni scientifiche del dottor Barbieri Hermitte in giro, se non facessi questa precisazione la mia affermazione potrebbe essere interpretata in modo antifrastico come sarcasmo, soprattutto alla luce di quanto sto per raccontarvi. Quando parlo di competenza intendo questo: una lunga esperienza dei mercati acquisita presso i mercati, cioè presso i soliti noti: JP Morgan, Morgan Stanley, Merril Lynch, e anche Algebris, che nel CV non c'è... ma il paese è piccolo, e la gente mormora, anche quando non ce ne sarebbe motivo (e comunque non ce n'è mai bisogno)...
Presso tutte queste istituzioni prestigiose, che hanno legittimo scopo di lucro, il dottor Barbieri Hermitte ha svolto ruoli di responsabilità che non avrebbe potuto svolgere se non avesse avuto le competenze necessarie per produrre reddito. Insomma: è una persona che sa senz'altro fare tante cose che io non so fare, come lo sono tante altre persone (ad esempio Jago), tutte persone che per questo motivo suscitano la mia curiosità intellettuale e il mio rispetto umano (a differenza dei tanti cialtroni buonisti che circolano anche nel mio settore: i tanti economisti invenduti per mancanza di acquirente, che difendono la causa "giusta" nel modo sbagliato). Naturalmente, dal fatto che Jago sappia scolpire bene non consegue che egli sappia come me suonare mediocremente, e così dal fatto che il dottor Barbieri Hermitte sappia fare tante cose complicate che io non so fare, non discende che lui sappia fare alcune semplici cose che so fare io, cosa alla quale, fino a poco tempo fa, credo lui potesse facilmente rassegnarsi.
Poi è successa una cosa interessante, che credo non sia sfuggita all'attenzione di molti di voi (come non è sfuggita all'attenzione di Palombi e Di Foggia, a pag. 16 del Fatto Quotidiano del 26 aprile scorso, quando, incalzato dal mio personale Sturm und Drang, ero a Libberopoly in cerca di solitudine - motivo per il quale dovetti dire a Marco: "penZace tu..." e lui ci pensò egregiamente...).
Sì, avete capito. Sto parlando proprio del famoso box a p. 17 del Programma Nazionale di Riforma, la terza parte del Documento di Economia e Finanza 2017. A futura memoria, eccovelo qui:
Sintesi: premesso che, come voi sapete (e dovrebbero sapere anche i politici) Monti decise di "aggredire" la spesa pubblica in modo del tutto pretestuoso, ovvero non per "consolidare" conti pubblici che erano del tutto sostenibili, ma per generare la disoccupazione necessaria al riequilibrio dei conti esteri (via calo dei salari-miglioramento della competitività-riduzione delle importazioni-aumento delle esportazioni), ne consegue che questa medicina, somministrata sulla base di una diagnosi volutamente errata, ha causato enormi danni al paziente. I danni sono quantificati nella tabellina come scostamenti percentuali dallo scenario di base, che non si sa bene quale sia. Se prendiamo per buono quello che il Fmi forniva all'epoca (cioè quello del secondo World Economic Outlook del 2011, riportato a base dei prezzi 2010 dall'originaria base 2000), la perdita di Pil reale sul quadriennio in questione può essere quantificata come segue:
Quel tesoro del Tesoro ci propone ben due controfattuali (al prezzo di parecchie migliaia di euro estorte dalle nostre tasche): uno standard, e uno con frizioni finanziarie.
E cosa saranno mai queste frizioni finanziarie!?
Sono la geniale scoperta, recentemente fatta dagli economisti (poi dicono che l'economia non è una scienza...), secondo cui capita che in caso di crisi bancaria le banche siano restie a prestare non solo i soldi che non hanno, ma anche quelli che hanno, perché temono di non rivederli indietro. Geniale, vero? Dite la verità: senza il brillante articolo di Gertler e Karadi (2011) voi non ci sareste mai arrivati! Consolatevi: gli economisti del Tesoro (chi sono? Hanno pubblicato il loro modello? È stato sottoposto a peer review? Si può sapere come è fatto? Perché sarebbe anche un problema di democrazia, sapere su quale base informativa l'esecutivo prende le decisioni che ci riguardano, non vi pare?...), gli economisti del Tesoro, disais-je, pur conoscendo l'articolo, ci sono arrivati solo sei anni dopo. Sei anni dopo cosa? Dopo Gertler? No: sei anni dopo questo, dopo il primo QED, quello in cui chiaramente dicevo (inascoltato) che l'austerità avrebbe provocato un serio deterioramento della qualità dei crediti (ovvero un aumento delle sofferenze).
Io parlavo di sofferenze quando i cialtroni parlavano di debito pubblico: sì, i cialtroni che hanno deliberatamente condannato a morte la nostra economia.
Come mai, nei controfattuali di quel tesoro del Tesoro, l'impatto delle manovre recessive di Monti è più drammatico (arrivando a una perdita cumulata di quasi 300 miliardi di euro sul quadriennio 2012-2015) se si considerano le frizioni finanziarie? Ma è semplice: perché questi scenari tengono conto del fatto che quando le banche non prestano, l'unico settore che può iniettare liquidità nel sistema economico è quello pubblico, e quindi in queste circostanze l'austerità (ovvero la sterilizzazione della spesa pubblica, diventata una fonte di liquidità necessaria per il funzionamento del sistema) ha impatti finanziari devastanti. Insomma: quando le banche non vogliono mettere soldi in circolo, solo lo Stato può farlo, e se glielo impedisci è morte per imprese e persone: le aziende non possono pagare i fornitori, che non possono pagare i dipendenti, che non possono pagare il mutuo, mettendo in ulteriore difficoltà le banche, che quindi vogliono mettere in circolo ancora meno soldi, ecc.
L'austerità in queste circostanze è un salasso praticato a un paziente anemico.
Noi siamo andati oltre! Siamo arrivati all'assurdo che lo Stato non solo non iniettava liquidità con un piano di investimenti pubblici (o anche semplicemente innalzando gli stipendi pubblici, cosa che, come sappiamo, ha un impatto positivo sugli investimenti privati: ce lo dice Marattin, prestigiosamente pubblicato qui!), ma addirittura si rifiutava coi pretesti più vari di dare agli imprenditori quanto spettava loro, nonostante glielo chiedesse addirittura la lue! Eh, già, perché, chissà per quale motivo, i nostri Quisling ascoltano il Treponema bruxellensis solo quando questo chiede di tassare iniquamente: mai quando chiede di pagare giustamente.
Ora, ci sono diverse considerazioni da fare, a margine di questo simpatico episodio.
La prima è stata svolta da Palombi, ed è la più pregnante in termini politici: è del tutto evidente che dietro una critica così esplicita e radicale delle "riforme" messe in atto dal Padre della Patria su richiesta del treponema ci deve essere una intenzionalità politica, che penso anch'io (come Palombi e Di Foggia congetturano) sia quella di mettere in guardia Bruxelles contro il grave rischio di instabilità politica che potrebbe conseguire dall'imposizione oggi di un simile piano di risanamento. Traduzione pratica: si vota a febbraio (la lue ci andrà con la mano leggera, Gentiloni farà la sua manovra che non concluderà nulla, poi arriverà Renzi alla riscossa... e magari farà un sorprendente - per gli altri - patto pecorino con gli ortotteri...).
Ma questa roba mi interessa tanto quanto. Le cose che vorrei farvi apprezzare sono altre.
Intanto, questo box di quel tesoro del Tesoro, che ci fa la carità (anonima, perché così deve essere la carità) di dire le cose come stanno, non aggiunge nulla a quanto sapevamo, ed è in effetti un autorevole (...) QED di quanto ci eravamo permessi di dimostrare anni addietro col modello di a/simmetrie (ora pubblicato su rivista peer reviewed con nome cognome e indirizzo degli autori: male non fare, paura non avere, converse is true). Le politiche di austerità sarebbero state controproducenti: in recessione non ci si deve proporre di ridurre il rapporto debito/Pil ma di stabilizzarlo (come affermato qui in Italia fra gli altri da Realfonzo), e questa stabilizzazione, siccome deve agire non solo sul numeratore (debito), ma anche sul denominatore (Pil), richiede in particolare un aumento, anziché una diminuzione della spesa pubblica, soprattutto quando questo rapporto eccede il 100%. Il motivo è alla portata di qualsiasi imbecille (tranne i tanti pagati per non capirlo in giro nelle redazioni): quando il rapporto debito/Pil è maggiore di uno, anche laddove la riduzione di Pil conseguente a quella della spesa fosse uno a uno (un euro di Pil in meno per ogni euro di taglio di spesa), il rapporto aumenterebbe comunque, per i motivi da noi illustrati qui. Suggerimento: 3/2 è maggiore di 4/3. Se non ci credete (o siete iscritti all'ordine dei giornalisti), una calcolatrice vi aiuterà. Sottrarre uno sopra e sotto fa aumentare il rapporto, e questo è quello che succede al rapporto debito/Pil quando si fa austerità con un moltiplicatore pari a uno.
Se poi consideriamo che in un modello keynesiano standard il moltiplicatore è maggiore di uno (nel modello di a/simmetrie è vicino a 1.8 in condizioni recessive, valore che sembrava elevato a Francesco Lippi semplicemente perché ignorava la letteratura rilevante, da Candelon e Lieb in giù...), capite che, nei termini stilizzati che vi ho proposto, da 4/3 si passa direttamente a 3/1 (che sarebbe 3).
Non è quindi strano che il nostro modello, dove il moltiplicatore è maggiore di 1.5, valutando cosa sarebbe successo se si fosse tentato di stabilizzare il rapporto debito/Pil, anziché di diminuirlo, giungeva alla conclusione che in questo modo si sarebbe evitata una perdita di Pil quantificabile in 127 miliardi di Pil in due anni. Cifra non così lontana dai 97 miliardi risultanto dagli scenari di quel tesoro del Tesoro. La differenza può essere spiegata dal fatto che il Tesoro confronta lo scenario "pessimale" (le politiche di Monti) con uno scenario "business as usual" (cioè valutano il danno di quello che si è fatto rispetto a cosa sarebbe successo non facendo nulla), mentre noi valutavamo lo scenario "pessimale" confrontandolo con quello ottimale (cioè cosa sarebbe successo se si fosse operato per stabilizzare il rapporto debito/Pil). La differenza sono 30 miliardi nel primo biennio, che alla fine ci sta: come dire che un modello veterokeynesiano, di quel tipo così tanto disprezzato dagli ignoranti, alla fine dice esattamente le stesse cose che quegli esercizietti da ingengngnieri falliti che vanno sotto il nome di DSGE sono costretti a dire, perché se i dati dicono una certa cosa, alla fine con quale modello li interroghi non conta, purché tu sia intellettualmente onesto (il problema è sempre e solo questo, come ormai sapete avendo visto innumerevoli esempi).
L'unica differenza fra il modello veterokeynesiano che "nella letteratura accademica non si usa più" (lo farò presente all'editor di Economic Modelling) e i modelli dei poracci che avrebbero voluto essere astrofisici ma non erano abbastanza portati per la matematica, è che il primo dice le cose mediamente con tre anni di anticipo, come vi sto dimostrando, il che poi significa che gli altri sono ritardati: arrivano con tre anni di ritardo...
Ora, c'è una cosa da apprezzare in questo QED. Certo, in termini giornalistici (e anche in termini fattuali) è interessante sottolineare l'enormità della perdita che Monti ci ha inflitto (i famosi 300 miliardi). Ma in termini scientifici, intellettuali, ci sono cose più stuzzicanti da rilevare.
La prima ve l'ho detta: alla fine, i "neoclassici" (quelli che Keynes chiamava i "ricardiani") sono costretti dalla violenza dei fatti a dire cose keynesiane, a pena di irrilevanza scientifica (e anche politica). Dopo sette anni di crisi, chi dice che il cielo è verde lo fa a suo rischio e pericolo, il primo rischio essendo il più grave in un società così attenta alla reputazione e alla credibilità: il rischio del ridicolo (e direi che in questo caso il rischio si è convertito in certezza). Per tutelare la propria inesistente credibilità, gli "scienziati" sono costretti a ricorrere ad artifici retorici parenti stretti della scoperta dell'acqua calda ("in una crisi bancaria le banche sono in crisi"), che presentano come assolute e pregnanti novità, magari infiocchettandole con un po' di inglese (fainancial fricscion...), per occultare sotto questo fumogeno il fatto che le conseguenze delle politiche scellerate prese dalle istituzioni cui appartengono erano ampiamente prevedibili e previste (questo blog ne è la prova). Come ho già avuto modo di dire, "what have we learned from the crisis" is the new "ho solo eseguito gli ordini". Da questa crisi gli economisti post-keynesiani non hanno imparato nulla che non sapessero già, e lo stesso vale per i pre-keynesiani (da Alesina in giù: praticamente tutti). Questi ultimi, però, devono far finta di aver scoperto cose che non sapevano, per pulirsi la coscienza dalla responsabilità politica delle scelte "tecniche" che hanno direttamente consigliato o indirettamente appoggiato.
La seconda è che anche se i numeri dello scenario "con frizioni" sono impressionanti, quelli dello scenario "senza frizioni" non lo sono meno. Attestare una perdita cumulata di 100 miliardi (99.4) in un quadriennio significa affermare una sola e unica cosa: che l'austerità espansiva è una colossale scemenza, smentita dai dati. Agli ignoranti che oggi consigliano di ridurre il debit pubblico aumentando il surplus di bilancio (magari con una bella patrimoniale), ricordiamo che non solo il nostro debito pubblico è sostenibile, ma anche che oltre all'esperienza, e alla scienza, oggi perfino la politica, con il boxetto gesuitico e tardo di cui ci stiamo occupando, certifica che l'austerità è self defeating. Lo dice così, in inglese, per non dirlo in italiano, cioè per non dire che per diminuire il rapporto debito/Pil bisogna aumentare, non diminuire la spesa pubblica. Questo chi non è ignorante lo sa, e chi è ignorante farà meglio a leggersi in fretta (e in ginocchio sui ceci) la letteratura scientifica più recente (pubblicata su Topolino, ovviamente: tutte idee strampalate di un oscuro accademico di provincia)...
Cosa c'entra in tutto questo il dottor Barbieri Hermitte? Direi ben poco, perché il disastro non l'ha fatto lui, e anche perché non era suo lavoro occuparsi di astrusa letteratura accademica, mentre esplorare le implicazioni pratiche di questa letteratura, cioè fare il lavoro che facciamo qui, sarebbe stato, e tuttora sarebbe, il lavoro degli economisti del Tesoro (chi?).
Credo che oltre che elegante sia anche persona spiritosa (alla fine, in un mondo così paradossale esserlo conviene, e credo che lui di convenienza se ne intenda: vedi alla voce esperienza dei mercati finanziari...). Apprezzerà quindi se dico che, mentre uno sbigottito Palombi mi riferiva del simpatico box incitandomi a commentarlo (lui, che mi imputa di avere un atteggiamento troppo "ginnico" nei riguardi della realtà, ma paradossalmente era così smanioso di commentare un documento che io programmaticamente mi ero rifiutato di prendere in considerazione: a che pro indugiare sulla produzione legislativa di un governo colonizzato? Non basta forse aver descritto in anticipo le intenzioni del governo colonizzatore?...), mentre uno sbigottito Palombi mi parlava del "box a pagina 17", e io in debito d'ossigeno arrancavo verso quota 2285, improvvisamente emergeva dalle profondità del mio sconforto la plastica immagine del dottor Barbieri Hermitte senza cravatta, in tuta oversize, proprio quella di Alfredo, patacca per patacca, che in un greve dialetto romanesco, invece dell'italiano assolutamente corretto e affilato che gli conosco, mi apostrofava con le parole che tante volte erano suonate all'orecchio di mio padre come una condanna a morte: "Dottò, sò 'e frizzioni. Che glielo dico a ffà? Come 'e tocco so ssordi. Solo pè aprilla fanno trecento mijardi...".
E così, fra un ministro che sparecchiava con la gonna in capo mentre la sechiular staghgnieiscion faceva "i su homodi", e un chief economist che smonta le fainanscial fricscion in tuta da meccanico, il nostro paese va in malora, e le nostre case verranno espropriate (perché imporre una patrimoniale a chi non ha reddito significa di fatto espropriargli il cespite su cui insiste l'imposta), per trasformarci in un popolo di nomadi più "fluidi" e ricattabili di chi ha un ubi consistam (paradossale conseguenza di una crisi che nasce perché il governo degli Stati Uniti voleva mettere un tetto sopra la testa di ogni cittadino), e per somministrare, coi nostri soldi, una cura palliativa al vero malato d'Europa, del quale oggi non si parla più, perché è stato deciso con quali soldi salvarlo: coi vostri.
Ovviamente non basterà, e alla fine si arriverà alle armi (tutto il gran parlare di eserciti che si fa in questi giorni serve solo a prepararvi all'inevitabile - che poi, proprio perché inevitabile, è una cosa alla quale in fondo arrivare preparati non è che conti così tanto...). It must be war: sono parole di Keynes, cioè parole vere.
Ma voi, che mi leggete di questo eravate già informati. A gennaio dissi che avrei passato l'anno a dire "ve l'avevo detto" (hashtag: #vlad), e così sta accadendo.
Triste soddisfazione...
(...che rima con "si apra la discussione...")
(...ogni tanto, quando vado a trovare i miei, cioè ogni tantissimo, vedo Alfredo: sta ancora lì, inossidabile. Saranno passati trent'anni. Non c'è che dire: "dottò sossòrdi" è una frase che allunga la vita, oltre al conto in banca...)
L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali...
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giovedì 1 giugno 2017
domenica 19 giugno 2016
Sechiular staghgnieiscion (the unpleasant Keynesian arithmetic of secular stagnation)
Oggi desidero parlarvi di un tema che si intreccia per vari fili alle vicende della cronaca recente, nonostante il nome con il quale è stato introdotto nel dibattito alluda a dinamiche di lunghissimo periodo, remote dalle contingenze del quotidiano.
Mi riferisco alla cosiddetta stagnazione cosiddetta secolare.
Non mi interessa in questa sede affrontare il merito o il demerito teorico delle argomentazioni di chi propone questa tesi (noto solo che visibilmente si sta arrampicando sugli specchi), quanto descrivere i dati, fare qualche semplice esercizio aritmetico, e soprattutto evidenziare due punti politicamente rilevanti.
Il primo è facilmente desumibile dal post precedente. Dopo aver avallato, in totale subalternità alla Bce, un programma economico il cui fondamento era sconfessato dalla stessa Bce ancor prima che Monti cominciasse ad applicarlo (spettacolo!), un programma cioè che era destinato a fallire rispetto all'obiettivo dichiarato (la crescita) secondo le stesse analisi di chi ce lo imponeva, ecco che a Melisenda Mascetti, attonita nel contemplare il desolante spettacolo del campo di macerie che questo programma inevitabilmente ha prodotto, non resta altro che appellarsi a un fatto esogeno: l'arrivo (da dietro) del sottohoho Giovannone, aka secular stagnation.
Il secondo punto ha a che vedere con l'argomento secondo il quale "sì, l'euro è stata una scelta sbagliata, ma non possiamo correggerla perché ci sarebbero conseguenze sistemiche". Insomma: l'euro sarebbe TBTF (too big too fail). Con la "f" di fuck, ovviamente. Argomento prediletto dai piddini di fascia "alta" (quelli informati, come il nostro amico dombas), il quale, come tutti i loro argomenti, è una spada a doppio taglio (che loro, per non sbagliare, impugnano dalla lama).
I dati
Allora, cominciamo dai dati, che vengono da qui (per chi vuole divertirsi).
Questo è l'andamento del Pil mondiale per grandi paesi o macroregioni:
e queste sono le quote dei paesi/macroregioni sul Pil mondiale:
Solo su questi due grafici ci sarebbero da fare altri 1400 post, ma non voglio abusare della vostra pazienza. Notate alcune cose che sapete: la stagnazione del Giappone a partire dalla fine degli anni '80, dopo gli accordi del Plaza (che poi è il motivo per il quale Krugman preconizzò che l'Eurozona sarebbe diventata giapponese); molto evidente (anche perché in giallo: scelta di Excel!) l'espansione della Cina; molto evidente anche la stagnazione dell'Eurozona dall'inizio della crisi e la relativa compressione della sua quota di mercato.
Nota bene: vi esorterei a rifuggire da interpretazioni causali affrettate, del tipo "l'Eurozona s'è ristretta perché la Cina si è allargata". Sarebbe così, come ci siamo detti mille volte, se il mondo fosse una torta di formato predefinito, dove chi allarga la propria fetta lo fa necessariamente a scapito di quella altrui. Ma la fetta cinese si è allargata perché hanno prodotto di più, non perché ci hanno "rubato" quanto producevamo, e così, forse, anche la nostra fetta potrebbe essersi ristretta perché potremmo (uso il condizionale) esserci dati delle regole che ci strangolano. Sono solo ipotesi, per ora, e, come vedremo, non è facile valutarle nemmeno partendo dai dati (mentre è facilissimo farlo partendo dalle ideologie: ma per questo ci sono i demagoghi dalle mille verità in tasca, quelli per i quali l'euro ci protegge).
Possiamo analizzare in dettaglio l'andamento delle quote dei due attori principali: Stati Uniti ed Eurozona:
Se vi conosco, credo che vi aspettaste un tuffo catastrofico in seguito alla crisi. Ma ovviamente non può essere così, e perché? Ma per il semplice motivo che se un'area che è fra un quinto e un quarto dell'economia mondiale va a picco, il totale mondiale si restringe anche lui, o comunque cresce di meno, e quindi il rapporto fra il Pil dell'area considerata e quello globale non va drammaticamente a fondo (perché si riducono sia numeratore che denominatore). Qui una cosa è chiara: la tendenza per noi è decrescente (il che significa che cresciamo meno della media mondiale), e lo è più o meno dalla fine degli anni '70 (diciamo, dall'inizio della terza globalizzazione). Altro dettaglio: si vede che negli ultimi tempi le cose progressicamente peggiorano, e che dopo un periodo di relativa stabilità, fra 1997 e 2001, in cui la quota del Pil dell'eurozona sul totale mondiale è stabile, dal 2002 inizia un declino piuttosto marcato, che precede la crisi, e che non accelera con essa (contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare).
Qui ci sarebbe, certo, molto da studiare, ma i primi due elementi salienti che mi vengono in mente rispetto a quel periodo sono le riforme Hartz (cioè la sterzata deflazionistica impressa dalla Germania a proprio beneficio), e, per altri versi, l'entrata della Cina nel WTO. Quest'ultima però non sembra affliggere particolarmente gli Usa, che erano più interconnessi di noi alla Cina. Credo quindi che anche con noi c'entri meno di quanto comunemente si vuol far credere.
In ogni caso, andiamo a vedere come si è evoluto nel tempo il contributo dell'Eurozona alla crescita dell'economia mondiale. Il metodo lo abbiamo descritto qui, parlando del contributo (inesistente) della Germania alla crescita europea.
Vi fornisco intanto qualche statistica descrittiva, partendo dai tassi di crescita reale:
Cominciando dall'ultima colonna, negli anni '60 il mondo cresceva al 5.5%, con Giappone, Europa (qui rappresentata dai paesi che poi sarebbero entrati nell'Eurozona, quindi esclusa in particolare la Gran Bretagna), e resto del mondo (ROW) più veloci degli Usa: rispettivamente, 10.4%, 5.8%, 4.8% e 4.7%. Come sapete, non c'è nulla di strano: è la convergenza, bellezza! Sì, proprio quella cosa ignorata dai cialtroni che pubblicano grafici come questi!
La crescita mondiale poi si smorza in modo più o meno monotòno (altra cosa che "er modello" tutto sommato prevede). La Cina, quando può (cioè dalla fine degli anni '70) comincia a convergere pure lei, con una fiammata di crescita al 10% che naturalmente compensa il rallentamento dei paesi "avanzati".
La tabella vi propone anche due scomposizioni per sottoperiodi. La prima considera il periodo precedente alla terza globalizzazione (1960-79), poi quello precedente all'avvio dell'unione monetaria (1980-1997), e infine il periodo dell'unione monetaria (1997-2014; do per scontato che voi sappiate perché scelgo il 1997 come anno d'inizio). La seconda suddivide ulteriormente la storia dell'Unione Economica e Monetaria, dal 1997 al 2001, dal 2002 (riforme Hartz) al 2008 (inizio della crisi), e poi dal 2009 all'ultimo dato disponibile (crisi). Non entro nel commento di ogni dato, se non per notare che nel periodo della crisi l'unica zona afflitta da crescita negativa è quella che ha adottato la moneta che porta la pace e la prosperità (l'euro). I motivi vi sono noti, quindi sorvolo.
Naturalmente, a questi scarti fra tassi di crescita corrispondono evoluzioni delle quote di mercato delle singole aree sul Pil globale, che vedete riassunte qui:
Qui parto, col vostro permesso, dal basso: nell'ultima sezione si vede come l'Eurozona sia quella che ha subito la perdita più pesante di quota di mercato: meno cinque punti fra 1997 e 2014, a un tasso sostanzialmente costante (quello che avevamo visto nell'ultimo grafico). Negli anni '90 l'Eurozona era ancora un quarto dell'economia mondiale (il 25%), mentre ora è un quinto (il 20%). Gli Stati Uniti hanno tenuto botta (dal 27% al 26% in media di decennio).
Ora vorrei analizzare con voi il contributo della crescita dell'Eurozona alla crescita mondiale. Il contributo di una parte alla crescita (o alla recessione) del tutto dipende da due elementi: quanto è rapida la crescita (o la decrescita) della parte, e qual è la sua quota rispetto al totale.
Vi è mai capitato di sentirvi dire da una donna (o da me): "Mi sono messa a dieta ma mi sono dimagriti solo i lobi delle orecchie?" Capite bene che siccome i lobi dell'orecchio, se va bene, saranno uno 0.01% del peso totale, il fatto che essi si riducano poniamo del 30% non fornisce un risultato apprezzabile...
Ora, con l'Eurozona le cose stanno esattamente all'opposto. L'Eurozona è un pezzo piuttosto grosso dell'economia mondiale: era un quarto, resta comunque un quinto nonostante un paio di decenni di supremazia germanica. Quindi quello che le succede influisce sulla crescita totale. Vi propongo prima di esaminare cosa è successo, e poi di studiare un paio di controfattuali (cioè: cosa sarebbe potuto succedere se fossimo stati meno autolesionisti). I dati sono incontrovertibili. Le simulazioni hanno i loro limiti: evidenzierò quelli di cui sono consapevole, e ovviamente chi sapesse fare di meglio è bene accetto.
Partiamo dai dati, che sono questi:
Spiegazione: negli anni '60 il mondo cresceva in media di cinque punti percentuali all'anno, dei quali uno attribuibile agli Usa, due all'Eurozona, uno al Giappone, e due al resto del mondo (il contributo della Cina era virtualmente nullo). A beneficio dei sadici anali feticisti del decimale, in fondo al post riporto la tabella senza arrotondare all'intero più vicino: è meno leggibile, ma perché privare di questa innocente perversione i nostri cortesi lettori?
Notate un paio di cosette: il contributo dell'Eurozona alla crescita mondiale va a zero sostanzialmente in questo secolo (era ancora pari a un punto nel periodo 1997-2001, quindi prima facie dovremmo concludere che il cambio fisso da solo non è bastato a castrarci); il contributo del Giappone va a zero prima, negli anni '70, ma anche questo non ci stupisce, perché nonostante una dinamica di crescita a quei tempi pari alla nostra (il 4.1% in media annuale), la quota del Giappone era circa la metà di quella dell'Eurozona: insomma, il contributo a livello mondiale del Giappone appare solo se cresce almeno a due cifre, come succedeva negli anni '60; la Cina invece all'inizio era talmente piccola, in termini di valore aggiunto, da non contribuire significativamente nemmeno quando cresceva a due cifre, come ha fatto sostanzialmente dagli anni '80 in poi (negli anni '80 la media è solo 9.8%, ma ci siamo capiti...).
La cosa più interessante è però analizzare il contributo percentuale delle singole aree alla crescita totale. Ovvero: fatta 100 la crescita del mondo, le singole aree per quanto hanno contribuito?
La risposta è qui:
Negli anni '60 e '70 l'Eurozona (capiamoci: l'area che poi sarebbe diventata l'Eurozona: se lo fosse già stata le cose sarebbero state diverse!), l'Eurozona, dicevo, dava un contributo alla crescita mondiale superiore a quello di Stati Uniti e Giappone. Circa il 28% della crescita economica del mondo era spiegato dalla futura Eurozona (un terzo, per capirci). Questo contributo crolla dall'inizio di questo secolo (passando al 12% nel primo decennio e al 5% nel decennio attuale). Più precisamente, l'Eurozona, che aveva contribuito per il 28% alla crescita mondiale fra 1960 e 1979, contribuisce per solo il 19% fra 1980 e 1997, e poi per il 12% fra 1997 e 2014. Tuttavia, questo 12% è il risultato di andamenti piuttosto diversificati nel tempo. Fra 1997 e 2001 l'Eurozona ha una performance non così disprezzabile, e vicina ai risultato storici, contribuendo al 22% della crescita mondiale (contro il 20% registrato negli anni '80). Poi, fra le riforme Hartz e lo scoppio della crisi, il contributo scende di quasi 10 punti, al 13%. Dallo scoppio della crisi, diventa negativo: -2%.
Questo è quello che intendevo quando dicevo che l'Europa stava diventando il buco nero della domanda mondiale (un paio di anni fa). Come avrebbe detto Berlusconi: noi stiamo remando contro.
Le tesi sulla sechiular staghgnieiscion vanno valutate against this backdrop, cioè tenendo conto di questo fatto statistico (il suicidio dell'Eurozona), e considerando il dato politico che questo suicidio non è dovuto a una grande moria delle vacche (la tesi preferita dalla stampa di regime, e da Melisenda Mascetti), ma al fatto di esserci dati delle regole economiche per cui l'unico meccanismo di aggiustamento che ci rimane rispetto a shock macroeconomici globali è tagliarci i redditi (che quindi calano), come abbiamo spiegato e rispiegato (qui una spiegazione a prova di idiota, almeno nelle intenzioni). Detto in altre parole, non ha alcun senso invocare la secular stagnation come spiegazione di quanto ci sta accadendo se prima non teniamo conto dell'impatto che la deliberata distruzione di domanda (cioè di redditi da spendere) da parte dei politici dell'Eurozona ha avuto sull'economia globale. Se, al netto di questa distruzione di domanda, assistessimo a un effettivo rallentamento del mondo, allora potremmo parlare di "secular stagnation" (o di grande moria delle vacche, o whatever...). Ma se non teniamo conto di (i fighi dicono: controlliamo per) questo evento, allora dobbiamo applicare il rasoio di Occam. Dichiarare che il reddito del mondo cala per motivi esoterici quando un quarto del mondo si è amputato per propria decisione il reddito in effetti è moltiplicare le spiegazioni praeter necessitatem.
Chiaro?
Questa valutazione può essere effettuata in diversi modi, più o meno sofisticati, e necessita comunque di un modello, con tutti i limiti metodologici del caso. D'altra parte, anche ignorare l'esistenza del problema che l'Eurozona pone al mondo presenta dei limiti, e non solo astrattamente metodologici: anche concretamente politici.
Vi propongo due esercizietti fatti al volo (o più esattamente: in volo. Il primo l'ho fatto andando a Parigi e il secondo tornando da Barcellona).
Il primo controfattuale
Nel primo controfattuale verifico dove saremmo oggi se l'Eurozona avesse reagito dopo la crisi del 2008 come reagì dopo la crisi del 1992. Vi ricordo che anche in quelle circostanze ci fu una crisi a settembre (nel 1992 la crisi dello Sme, nel 2008 la crisi Lehman), seguita da un anno di recessione (nel 1993 fu il -0.6%, nel 2009 il -4.5%). Nei cinque anni successivi al 1994, però, l'Eurozona crebbe al 2.45%. Viceversa, fra 2010 e 2014 la crescita media è stata dello 0.6%. Il perché lo sappiamo: a causa delle politiche di austerità rese necessarie dall'euro. La simulazione che vi propongo è meramente aritmetica, e risponde alla domanda: dove saremmo oggi (noi, e il mondo), se l'Eurozona avesse reagito alla crisi del 2008 come reagì a quella del 1992? Cioè: se nei cinque anni successivi all'ultima recessione la crescita dell'Eurozona fosse stata pari a quella sperimentata dopo la penultima?
Va da sé che questo esperimento ha degli ovvi limiti metodologici: intanto, anche nel 1992 era partito un impulso recessivo dagli Stati Uniti, ma era stato di proporzioni molto inferiori rispetto allo shock del 2009 ((-0.1% nel 1991 contro -2.7% nel 2009). Non c'era stata una crisi finanziaria globale, i mercati erano meno interconnessi, viceversa c'era uno stress finanziario locale determinato dalla necessità di finanziare la felice riunificazione tedesca, ecc. Questo significa che ipotizzare una ripresa con valori del tasso di crescita simili a quelli sperimentati storicamente è probabilmente esagerato: anche senza le politiche suicide di austerità, probabilmente oggi saremmo cresciuti un po' di meno. D'altra parte, se questa ipotesi distorce i risultati al rialzo (nel senso che esagera l'impatto recessivo sull'economia mondiale della nostra mancata crescita), il fatto di condurre un esperimento puramente aritmetico, in cui si modifica solo il sentiero di crescita europeo, senza tener conto del fatto che l'economia europea è un volano per l'economia mondiale (perché una nostra maggiore crescita avrebbe significato maggior domanda di beni, e quindi maggiori redditi, nel resto del mondo), distorce i risultati al ribasso.
In ogni caso, il risultato sarebbe stato questo (espresso come scarto del controfattuale dallo scenario storico):
Vi presento i risultati "tagliati" per decenni, perché lo "shock" (la maggior crescita europea rispetto allo scenario storico) viene analizzato a partire dal 2010 (primo anno dopo la recessione). Ovviamente in tutti i decenni precedenti lo scostamento del controfattuale dallo storico è nullo. Nel decennio in cui viene applicato lo shock, cioè, rectius, nel quinquennio fra il 2010 e il 2014 (fino a dove arrivano i dati), risulta che se l'Eurozona fosse cresciuta allo stesso ritmo sperimentato nel quinquennio 1994-1998 avrebbe avuto 1.8 punti percentuali di crescita in più, e il mondo 0.4 punti di crescita in più (arrivando a una crescita del 3.2%, pari a quella degli anni '80, o del periodo 2002-2008). Tutto questo senza considerare gli spillover (come dicono i fichi) sulle altre economie.
Già! Questo 0.4, come vedete, riporterebbe le lancette della crescita indietro di un trentennio, cioè a un periodo nel quale né a Melisenda, né tantomeno a Larry, sarebbe mai venuto in mente di parlare di sechiular staghgnieiscion.
Chiaro, no, perché mi girano?
Altri due controfattuali (col modello globale)
Bene: ora facciamo un altro esperimento. In questo caso, utilizzo il modello dell'economia mondiale che ho costruito per il mio studio sugli squilibri globali. Sì, mi rendo conto che fa pensare a questa cosa qui:
ma in realtà è una cosa molto meno seria: è solo il risultato di un percorso di ricerca iniziato con il modello dell'Unione Europea, proseguito aggiungendo un modello degli Stati Uniti, e infine un modello della Cina.
#cosedilavoro, come dice quello.
Il modello attualmente è dormiente, per un motivo molto semplice: non abbiamo abbastanza risorse per tenerlo aggiornato, cioè per fare con un minimo di criterio quelle ricerche che nessuno vuole fare (perché "nun se pubblicheno bbene" o semplicemente perché sono contrarie ai desiderata della dominant social force behind the authority), ovvero per rispondere a quelle domande alle quali nessuno vuole rispondere e che quindi nessuno si pone, come ad esempio: "Ma siamo veramente sicuri che sia un problema di stagnazione "secolare", e non il risultato di una scelta politica a caso (l'euro)?". Sul discorso delle risorse però torniamo un'altra volta, se volete: tanto per dire, ho anche un modello dell'India nel cassetto (veramente, ce l'ha Christian), ma se passo le giornate a spiegarvi che 2+2=4 chiaramente anche lui fa la muffa. Eppure sarebbe interessante utilizzarlo...
In ogni caso, il database è aggiornato fino al 2006, e quindi me ne son potuto servire per simulare l'impatto sul tasso di crescita globale di un taglio della spesa nell'Unione Europea considerando un orizzonte di sei anni, dal 2001 al 2006, che corrisponde come durata a quello lungo il quale abbiamo sperimentato l'austerità (dal 2011 al 2016).
Il problema, qui, come in ogni scenario di simulazione (compreso il precedente), è quello di quantificare lo shock. Nel primo controfattuale ho agito direttamente sul tasso di crescita dell'economia europea. Avendo a disposizione un modello che prevede fra le variabili la spesa pubblica europea (diverse voci di spesa, in effetti), posso simulare direttamente l'austerità europea (cioè il taglio della spesa) per vedere come agisce sul tasso di crescita dell'economia europea, e poi, a valle, su quello dell'economia mondiale.
A questo scopo, ho fatto due ipotesi: una, standard, di riduzione della spesa pubblica nominale in proporzione pari all'1% del Pil nominale, e una più ambiziosa, applicando al modello lo scostamento dal trend della spesa pubblica nominale durante gli anni dell'austerità (ve lo spiego meglio dopo). Negli esperimenti di simulazione ho tagliato solo la componente "consumi intermedi" dei consumi collettivi, ovvero gli acquisti di beni e servizi da parte delle amministrazioni pubbliche. Non è una scelta ideologica: è semplicemente che Barcellona e Roma sono piuttosto vicine, quindi non avevo tempo per implementare scenari più complessi e realistici (ad esempio: taglio della spesa per beni e servizi più blocco dei salari pubblici più...).
Veniamo alla prima simulazione (shock standard, riduzione dell'1% della spesa pubblica nominale). L'impatto sul mondo è riassunto da questo grafico:
Nota bene: questi sono scostamenti percentuali delle variabili dal loro livello "non perturbato". Il grafico ci dice quindi che un taglio alla spesa pubblica nominale dell'Unione Europea parì all'1% del Pil europeo riduce il Pil mondiale (linea blu) di circa lo 0.2% (dato compatibile col fatto che l'Europa, nel periodo campionario utilizzato per la simulazione, è pari a circa il 20% del mondo). Per confronto con il discorso fatto finora, vi faccio vedere anche cosa succede in termini di tassi di variazione delle variabili (cioè del Pil reale: GDPV indica il Pil, in inglese GDP, in volume, V, cioè a prezzi costanti, cioè in termini reali):
Per capire come interpretare questi risultati, che sono espressi, appunto, in tassi di variazione, facciamo riferimento al dato mondiale (variabile WLDGDPV, quella tracciata in blu nel grafico), e ricordiamoci due cose, che potrebbero sono normalmente di ostacolo alla comprensione dei risultati anche per i colleghi più esperti (o espertoni):
1) la differenza fra livelli e variazioni;
2) il fatto che i prezzi esistono (e si muovono per riportare il mondo in equilibrio).
Se:
a) abbasso dell'1% la spesa pubblica in Europa,
b) il moltiplicatore non è lontano da uno (per cui anche il Pil europeo scende più o meno dello stesso ammontare)
c) l'Europa è il 20% dell'economia mondiale,
allora il Pil mondiale scenderà dello 0.2%. Ai livelli delle variabili succederà cioè questa cosa qui:
dove la riga "% deviation" è appunto quella rappresentata nella figura "Percent deviation" (non è che ci volesse molto...). Vedete quindi che nell'anno dello shock (qui il 2001) il Pil europeo si contrae dello 0.91%, quello mondiale dello 0.18%, ecc. Questa riduzione dello 0.18% nel primo anno corrisponde a una minore crescita di pari importo (la tabella precedente ha qualche sfasamento dovuto a minimi errori di arrotondamento, e vi indica 0.19% di minore crescita per il mondo). Nel secondo anno (il 2002) lo scostamento in europa tende impercettibilmente a chiudersi: 0.90 invece di 0.91, mentre si propaga alle altre parti del globo (Usa, Cina), e quindi a livello mondiale lo scostamento rispetto al livello aumenta (in valore assoluto) da -0.18 a -0.19. Questo significa una ulteriore minore crescita, ma solo di -0.01 (come vedete dalla tabella precedente).
Ora, con riferimento alla tabella dei tassi di crescita, vedete che dopo sei anni l'impatto complessivo del taglio di un punto di Pil della spesa pubblica europea è negativo per tutte le aree mondiali, con la possibile eccezione degli Stati Uniti, dove la cumulata degli scarti della crescita è 0.04 (e infatti dal grafico si vede che gli Usa "rimbalzano" sopra l'asse orizzontale, che indica il punto in cui il sentiero controfattuale è uguale - scostamento zero - a quello simulato). In termini di crescita complessiva però non è un bagno di sangue: solo uno 0.07% in meno, pari (nel 2006) a circa 27.3 miliardi di dollari ai prezzi del 2000 su un Pil mondiale di 37777.3 miliardi di dollari. Il risultato teorico c'è (le scelte politiche dell'Eurozona influenzano l'economia mondiale con moltiplicatore positivo, per cui se noi tagliamo, il mondo cala anziché crescere), ma la rilevanza pratica no.
Solo che questo non è quello che è successo.
Quello che è successo è più simile a quanto vediamo in questo grafico:
Spiegazione: in azzurro la spesa pubblica complessiva dell'Eurozona, tratta dalla solita fonte (sono miliardi di euro). In rosso, la stessa variabile, se dal 2010 in poi fosse rimasta sul trend sperimentato nel decennio precedente, con una crescita del 4% all'anno (per gli ingengngnieri: 3.93%). Naturalmente fino al 2010 si vede solo la linea rossa, perché ricopre esattamente quella azzurra. Poi la storia è quella azzurra (la spesa pubblica si ferma), e in rosso c'è il controfattuale (cosa sarebbe successo se la spesa non si fosse fermata, se non si fosse "distrutta domanda"). In nero lo scostamento fra storico e controfattuale. Dopo sei anni, nel 2015, la spesa pubblica effettiva a livello di Eurozona è di circa 1000 miliardi inferiore a quanto si sarebbe avuto in caso di mantenimento della tendenza storica.
Uno shock non indifferente, che corrisponde a uno scarto dal sentiero storico che va da -0.8% del Pil nominale nel primo anno (entità non dissimile al -1% che abbiamo simulato prima) fino a -8.9% nel sesto anno. E qui la differenza è abbastanza notevole, come notevole è l'impatto sula crescita.
Vi fornisco la tabella in termini di tassi di crescita:
Gli impatti, come vedete, sono meno trascurabili.
A livello europeo, dato che ogni anno ci si scosta un po' di più dal valore tendenziale, ogni anno si ha un po' meno crescita aggiuntiva. L'impatto massimo è nel secondo anno, in cui si hanno addirittura 2.01 punti di crescita in meno. La cumulata della mancata crescita sui sei anni della simulazione è -6.35 punti, che diviso sei fa -1.06. Un risultato quasi uguale e contrario rispetto a quello della prima simulazione, quella senza modello, dalla quale risultava che se l'Europa fosse cresciuta dopo lo shock del 2008 allo stesso tasso sperimentato dopo la crisi del 1992 la crescita media nei cinque anni dopo la crisi sarebbe stata superiore di 1.8 punti. Più sotto discuto in dettaglio i pro e i contro dei due metodi, fornendo elementi per valutare se i metodi adottati sottostimano o sovrastimano l'impatto dell'austerità. Intanto, il fatto è che fra 2009 e 2014 la crescita cumulata dell'Eurozona è stata di circa -0.1%. Se in questi sei anni l'Eurozona fosse cresciuta alla media del periodo 1993-2008 (cioè al 2%), avremmo avuto una crescita cumulata di oltre 12 punti percentuali. In altre parole, rispetto al risultato ottenuto il modello fornisce un impatto sulla crescita pari a circa la metà di quello effettivamente sperimentato, il che in parte dipende dal non considerare le altre fonti di stress macroeconomico che si sono presentate (la crisi globale), e in parte da una probabile sottostima degli effetti dell'austerità.
Il messaggio, comunque, non cambia di molto: buona parte della mancata crescita (cioè dell'appiattimento della linea arancione nel primissimo grafico di questo post) è senz'altro un male che ci siamo fatti da soli, rispondendo con l'austerità, cioè in modo prociclico, a una crisi esogena.
Al mondo questa nostra bella idea di tagliarci le palle per far contenta la Merkel costa un -1.28% di crescita cumulata, cioè, in termini di media annuale, circa un -0.2%. Anche qui gli ordini di grandezza sono simili a quelli visti nella prima simulazione (quella "aritmetica"). Diciamo che senza austerità saremmo cresciuti al 3% tondo, nonostante lo shock "epocale".
Sechiular staghgnieiscion?
Le simulazioni del modello sono più sofisticate di quelle condotte col primo controfattuale, ma hanno anch'esse una serie di limiti, che evidenzio solo per far capire ai cretini che ne sono consapevole (rinuncio a sperare che qualche persona intelligente voglia contribuire in modo costruttivo: dopo cinque anni so cosa aspettarmi dalla mia professione: qualche furtiva stretta di mano nei corridoi di dipartimento, qualche cenno clandestino di solidarietà, e poi il vuoto pneumatico - o qualche simpatica coltellata alla schiena: sì, insomma, è una professione come le altre, come la vostra!):
1) una parte consistente del mondo (circa il 47%, quasi la metà) è considerata esogena, il che smorza gli effetti di retroazione del moltiplicatore (cioè non considera il fatto che l'Europa faccia da volano alla crescita altrui, con retroazioni sull'economia europea quando gli altri crescono di più). Verosimilmente, questo distorce verso il basso l'entità dei risultati, anche considerando che consideriamo esogeni mercati per noi importanti, come molti emergenti;
2) sono esogene anche le quote di mercato dei diversi paesi/blocchi considerati (anche se nel medio periodo è difficile che queste varino drammaticamente);
3) il campione considerato non è quello storico, ma, come vi ho detto, è anticipato di circa 10 anni (la simulazione inizia nel 2001 anziché nel 2010). Dato che il modello è nonlineare, ciò può condizionare i risultati (per capire cosa intendo, potreste rileggervi questo post);
4) l'entità dello scostamento rispetto al trend potrebbe non essere una misura sensata dell'austerità intesa come "taglio", come "manovra": una parte della riduzione di spesa rispetto al trend potrebbe essere determinata da dinamiche endogene (ad esempio, visto che la spesa è quella nominale, dalla riduzione dell'inflazione). In questo senso la misura che sto considerando potrebbe sopravvalutare l'entità effettiva dello shock. Va però detto che la spesa pubblica è naturaliter anticiclica: in condizioni di recessione gli stabilizzatori automatici tendono a farla crescere (sussidi di disoccupazione, misure di integrazione dei redditi, politiche attive sul mercato del lavoro), e quindi l'ipotesi di mantenimento del trend storico è un'ipotesi di per sé prudente;
5) l'austerità non è stata implementata solo riducendo le spese per l'acquisto di beni e servizi, ma anche e soprattutto le spese per stipendi, e inasprendo la pressione fiscale (non considerata dalle mie simulazioni): nelle simulazioni non si considerano quindi effetti di composizione che potrebbero amplificare gli effetti sistemici delle scellerate manovre piddine.
6) varie ed eventuali.
Se avessi abbastanza risorse, farei un lavoro più accurato. Direi che l'ordine di grandezza dell'impatto dell'eurodelirio sulla crescita mondiale, alla luce di quanto abbiamo visto e considerati i vari caveat, potrebbe non essere molto lontano dal mezzo punto (il risultato del controfattuale "semplice"), ma se anche fosse lievemente inferiore la cosa non cambierebbe molto: in effetti, quello che questi risultati mostrano è che le politiche deflazionistiche europee esercitano un significativo impatto globale, e che prima di formulare astruse congetture sarebbe opportuno dedicarsi a calcolare con maggiore precisione qual è il conto che il complesso finanziario-industriale alemanno sta facendo pagare all'economia mondiale. Se aspettiamo che lo capiscano i nostri alleati, poi potrebbe essere Dresda, e sarebbe un vero peccato.
Too big to what?
Concludo con una nota di attualità. Avrete tutti visto i cialtroneschi scenari catastrofisti sul Brexit. Scenari per lo più basati sul nulla, come abbiamo avuto modo di apprezzare in alcuni post precedenti, e animati solo dalla smania ideologica di dimostrare che l'esperimento nel quale ci hanno coinvolto non può essere arrestato: dobbiamo morire tutti, uno dopo l'altro, con certezza, per l'ottima ragione che fermare questa macchina forse ci ucciderebbe! Oh, quanto avversi al rischio sono (dopo) i governanti che con tanto sprezzo del pericolo ci hanno messo (prima) in questo pasticcio! Non è strana questa brusca virata?
Il fatto è che, a prescindere dal csao Brexit, l'argomento secondo cui "non si può rimettere il tubetto nel dentifricio" (espressione particolarmente cretina), cioè non si può smontare l'Unione Europea (e prima l'Eurozona) perché ci sarebbero effetti sistemici, perché l'Unione Europea è troppo grande perché il mondo possa sostenerne il fallimento, è del tutto illogico. Il punto è un altro: l'Unione Europea sta già fallendo, ed è troppo grande perché il mondo possa sostenerne il fallimento, per cui dobbiamo smantellarla! Da quando è iniziata la stagione dell'austerità abbiamo sottratto al resto del mondo qualcosa come un po' meno di mezzo punto di crescita reale all'anno (stimato per difetto nel modo che abbiamo visto).
Quanto pensiamo di poter continuare così?
Peraltro, il piddinissimo argomento del tubetto e del dentifricio offre una sponda razionale a chi voglia prospettare costruttivamente un mondo più stabile dal punto di vista politico e finanziario. Semplicemente, il fatto che l'Unione Europea sia percepita come "too big to fail" sta creando il tipico problema che la letteratura scientifica evidenzia in questi casi: un problema di moral hazard. I governanti europei, invece di perseguire la crescita nell'interesse della comunità internazionale, perseguono obiettivi propri, riferiti alle dinamiche politiche interne, confidando nel fatto che il loro giocattolo (l'Unione Europea), che tanto li ha aiutati a risolvere a casa loro il conflitto di classe (schiacciando i salari) non si potrà rompere, perché gli americani non lo vorranno, dato che "sarebbe una catastrofe".
Creare "superstati" (esattamente come creare megabanche) rende la classe politica (il management) meno responsabile, non più responsabile. E i risultati si vedono, sono sotto i nostri occhi. A contrario, questo potrebbe essere il motivo, o uno dei motivi, per cui da Hume a Jones a Diamond a Majone tanti studiosi ci ricordano come il frazionamento della sovranità politica sia stato (ma temo dovrò dire: fu) fra le cause del passato splendore europeo.
Questo dicono i numeri, questo dice la logica.
Gli stolti dicono "più Europa contro la sechiular staghgnieiscion".
Non praevalebunt.
Appendice
La tabella dei contributi alla crescita con millemila decimali (dedicata agli ingengngnieri):
Mi riferisco alla cosiddetta stagnazione cosiddetta secolare.
Non mi interessa in questa sede affrontare il merito o il demerito teorico delle argomentazioni di chi propone questa tesi (noto solo che visibilmente si sta arrampicando sugli specchi), quanto descrivere i dati, fare qualche semplice esercizio aritmetico, e soprattutto evidenziare due punti politicamente rilevanti.
Il primo è facilmente desumibile dal post precedente. Dopo aver avallato, in totale subalternità alla Bce, un programma economico il cui fondamento era sconfessato dalla stessa Bce ancor prima che Monti cominciasse ad applicarlo (spettacolo!), un programma cioè che era destinato a fallire rispetto all'obiettivo dichiarato (la crescita) secondo le stesse analisi di chi ce lo imponeva, ecco che a Melisenda Mascetti, attonita nel contemplare il desolante spettacolo del campo di macerie che questo programma inevitabilmente ha prodotto, non resta altro che appellarsi a un fatto esogeno: l'arrivo (da dietro) del sottohoho Giovannone, aka secular stagnation.
Il secondo punto ha a che vedere con l'argomento secondo il quale "sì, l'euro è stata una scelta sbagliata, ma non possiamo correggerla perché ci sarebbero conseguenze sistemiche". Insomma: l'euro sarebbe TBTF (too big too fail). Con la "f" di fuck, ovviamente. Argomento prediletto dai piddini di fascia "alta" (quelli informati, come il nostro amico dombas), il quale, come tutti i loro argomenti, è una spada a doppio taglio (che loro, per non sbagliare, impugnano dalla lama).
I dati
Allora, cominciamo dai dati, che vengono da qui (per chi vuole divertirsi).
Questo è l'andamento del Pil mondiale per grandi paesi o macroregioni:
e queste sono le quote dei paesi/macroregioni sul Pil mondiale:
Solo su questi due grafici ci sarebbero da fare altri 1400 post, ma non voglio abusare della vostra pazienza. Notate alcune cose che sapete: la stagnazione del Giappone a partire dalla fine degli anni '80, dopo gli accordi del Plaza (che poi è il motivo per il quale Krugman preconizzò che l'Eurozona sarebbe diventata giapponese); molto evidente (anche perché in giallo: scelta di Excel!) l'espansione della Cina; molto evidente anche la stagnazione dell'Eurozona dall'inizio della crisi e la relativa compressione della sua quota di mercato.
Nota bene: vi esorterei a rifuggire da interpretazioni causali affrettate, del tipo "l'Eurozona s'è ristretta perché la Cina si è allargata". Sarebbe così, come ci siamo detti mille volte, se il mondo fosse una torta di formato predefinito, dove chi allarga la propria fetta lo fa necessariamente a scapito di quella altrui. Ma la fetta cinese si è allargata perché hanno prodotto di più, non perché ci hanno "rubato" quanto producevamo, e così, forse, anche la nostra fetta potrebbe essersi ristretta perché potremmo (uso il condizionale) esserci dati delle regole che ci strangolano. Sono solo ipotesi, per ora, e, come vedremo, non è facile valutarle nemmeno partendo dai dati (mentre è facilissimo farlo partendo dalle ideologie: ma per questo ci sono i demagoghi dalle mille verità in tasca, quelli per i quali l'euro ci protegge).
Possiamo analizzare in dettaglio l'andamento delle quote dei due attori principali: Stati Uniti ed Eurozona:
Se vi conosco, credo che vi aspettaste un tuffo catastrofico in seguito alla crisi. Ma ovviamente non può essere così, e perché? Ma per il semplice motivo che se un'area che è fra un quinto e un quarto dell'economia mondiale va a picco, il totale mondiale si restringe anche lui, o comunque cresce di meno, e quindi il rapporto fra il Pil dell'area considerata e quello globale non va drammaticamente a fondo (perché si riducono sia numeratore che denominatore). Qui una cosa è chiara: la tendenza per noi è decrescente (il che significa che cresciamo meno della media mondiale), e lo è più o meno dalla fine degli anni '70 (diciamo, dall'inizio della terza globalizzazione). Altro dettaglio: si vede che negli ultimi tempi le cose progressicamente peggiorano, e che dopo un periodo di relativa stabilità, fra 1997 e 2001, in cui la quota del Pil dell'eurozona sul totale mondiale è stabile, dal 2002 inizia un declino piuttosto marcato, che precede la crisi, e che non accelera con essa (contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare).
Qui ci sarebbe, certo, molto da studiare, ma i primi due elementi salienti che mi vengono in mente rispetto a quel periodo sono le riforme Hartz (cioè la sterzata deflazionistica impressa dalla Germania a proprio beneficio), e, per altri versi, l'entrata della Cina nel WTO. Quest'ultima però non sembra affliggere particolarmente gli Usa, che erano più interconnessi di noi alla Cina. Credo quindi che anche con noi c'entri meno di quanto comunemente si vuol far credere.
In ogni caso, andiamo a vedere come si è evoluto nel tempo il contributo dell'Eurozona alla crescita dell'economia mondiale. Il metodo lo abbiamo descritto qui, parlando del contributo (inesistente) della Germania alla crescita europea.
Vi fornisco intanto qualche statistica descrittiva, partendo dai tassi di crescita reale:
Cominciando dall'ultima colonna, negli anni '60 il mondo cresceva al 5.5%, con Giappone, Europa (qui rappresentata dai paesi che poi sarebbero entrati nell'Eurozona, quindi esclusa in particolare la Gran Bretagna), e resto del mondo (ROW) più veloci degli Usa: rispettivamente, 10.4%, 5.8%, 4.8% e 4.7%. Come sapete, non c'è nulla di strano: è la convergenza, bellezza! Sì, proprio quella cosa ignorata dai cialtroni che pubblicano grafici come questi!
La crescita mondiale poi si smorza in modo più o meno monotòno (altra cosa che "er modello" tutto sommato prevede). La Cina, quando può (cioè dalla fine degli anni '70) comincia a convergere pure lei, con una fiammata di crescita al 10% che naturalmente compensa il rallentamento dei paesi "avanzati".
La tabella vi propone anche due scomposizioni per sottoperiodi. La prima considera il periodo precedente alla terza globalizzazione (1960-79), poi quello precedente all'avvio dell'unione monetaria (1980-1997), e infine il periodo dell'unione monetaria (1997-2014; do per scontato che voi sappiate perché scelgo il 1997 come anno d'inizio). La seconda suddivide ulteriormente la storia dell'Unione Economica e Monetaria, dal 1997 al 2001, dal 2002 (riforme Hartz) al 2008 (inizio della crisi), e poi dal 2009 all'ultimo dato disponibile (crisi). Non entro nel commento di ogni dato, se non per notare che nel periodo della crisi l'unica zona afflitta da crescita negativa è quella che ha adottato la moneta che porta la pace e la prosperità (l'euro). I motivi vi sono noti, quindi sorvolo.
Naturalmente, a questi scarti fra tassi di crescita corrispondono evoluzioni delle quote di mercato delle singole aree sul Pil globale, che vedete riassunte qui:
Qui parto, col vostro permesso, dal basso: nell'ultima sezione si vede come l'Eurozona sia quella che ha subito la perdita più pesante di quota di mercato: meno cinque punti fra 1997 e 2014, a un tasso sostanzialmente costante (quello che avevamo visto nell'ultimo grafico). Negli anni '90 l'Eurozona era ancora un quarto dell'economia mondiale (il 25%), mentre ora è un quinto (il 20%). Gli Stati Uniti hanno tenuto botta (dal 27% al 26% in media di decennio).
Ora vorrei analizzare con voi il contributo della crescita dell'Eurozona alla crescita mondiale. Il contributo di una parte alla crescita (o alla recessione) del tutto dipende da due elementi: quanto è rapida la crescita (o la decrescita) della parte, e qual è la sua quota rispetto al totale.
Vi è mai capitato di sentirvi dire da una donna (o da me): "Mi sono messa a dieta ma mi sono dimagriti solo i lobi delle orecchie?" Capite bene che siccome i lobi dell'orecchio, se va bene, saranno uno 0.01% del peso totale, il fatto che essi si riducano poniamo del 30% non fornisce un risultato apprezzabile...
Ora, con l'Eurozona le cose stanno esattamente all'opposto. L'Eurozona è un pezzo piuttosto grosso dell'economia mondiale: era un quarto, resta comunque un quinto nonostante un paio di decenni di supremazia germanica. Quindi quello che le succede influisce sulla crescita totale. Vi propongo prima di esaminare cosa è successo, e poi di studiare un paio di controfattuali (cioè: cosa sarebbe potuto succedere se fossimo stati meno autolesionisti). I dati sono incontrovertibili. Le simulazioni hanno i loro limiti: evidenzierò quelli di cui sono consapevole, e ovviamente chi sapesse fare di meglio è bene accetto.
Partiamo dai dati, che sono questi:
Spiegazione: negli anni '60 il mondo cresceva in media di cinque punti percentuali all'anno, dei quali uno attribuibile agli Usa, due all'Eurozona, uno al Giappone, e due al resto del mondo (il contributo della Cina era virtualmente nullo). A beneficio dei sadici anali feticisti del decimale, in fondo al post riporto la tabella senza arrotondare all'intero più vicino: è meno leggibile, ma perché privare di questa innocente perversione i nostri cortesi lettori?
Notate un paio di cosette: il contributo dell'Eurozona alla crescita mondiale va a zero sostanzialmente in questo secolo (era ancora pari a un punto nel periodo 1997-2001, quindi prima facie dovremmo concludere che il cambio fisso da solo non è bastato a castrarci); il contributo del Giappone va a zero prima, negli anni '70, ma anche questo non ci stupisce, perché nonostante una dinamica di crescita a quei tempi pari alla nostra (il 4.1% in media annuale), la quota del Giappone era circa la metà di quella dell'Eurozona: insomma, il contributo a livello mondiale del Giappone appare solo se cresce almeno a due cifre, come succedeva negli anni '60; la Cina invece all'inizio era talmente piccola, in termini di valore aggiunto, da non contribuire significativamente nemmeno quando cresceva a due cifre, come ha fatto sostanzialmente dagli anni '80 in poi (negli anni '80 la media è solo 9.8%, ma ci siamo capiti...).
La cosa più interessante è però analizzare il contributo percentuale delle singole aree alla crescita totale. Ovvero: fatta 100 la crescita del mondo, le singole aree per quanto hanno contribuito?
La risposta è qui:
Negli anni '60 e '70 l'Eurozona (capiamoci: l'area che poi sarebbe diventata l'Eurozona: se lo fosse già stata le cose sarebbero state diverse!), l'Eurozona, dicevo, dava un contributo alla crescita mondiale superiore a quello di Stati Uniti e Giappone. Circa il 28% della crescita economica del mondo era spiegato dalla futura Eurozona (un terzo, per capirci). Questo contributo crolla dall'inizio di questo secolo (passando al 12% nel primo decennio e al 5% nel decennio attuale). Più precisamente, l'Eurozona, che aveva contribuito per il 28% alla crescita mondiale fra 1960 e 1979, contribuisce per solo il 19% fra 1980 e 1997, e poi per il 12% fra 1997 e 2014. Tuttavia, questo 12% è il risultato di andamenti piuttosto diversificati nel tempo. Fra 1997 e 2001 l'Eurozona ha una performance non così disprezzabile, e vicina ai risultato storici, contribuendo al 22% della crescita mondiale (contro il 20% registrato negli anni '80). Poi, fra le riforme Hartz e lo scoppio della crisi, il contributo scende di quasi 10 punti, al 13%. Dallo scoppio della crisi, diventa negativo: -2%.
Questo è quello che intendevo quando dicevo che l'Europa stava diventando il buco nero della domanda mondiale (un paio di anni fa). Come avrebbe detto Berlusconi: noi stiamo remando contro.
Le tesi sulla sechiular staghgnieiscion vanno valutate against this backdrop, cioè tenendo conto di questo fatto statistico (il suicidio dell'Eurozona), e considerando il dato politico che questo suicidio non è dovuto a una grande moria delle vacche (la tesi preferita dalla stampa di regime, e da Melisenda Mascetti), ma al fatto di esserci dati delle regole economiche per cui l'unico meccanismo di aggiustamento che ci rimane rispetto a shock macroeconomici globali è tagliarci i redditi (che quindi calano), come abbiamo spiegato e rispiegato (qui una spiegazione a prova di idiota, almeno nelle intenzioni). Detto in altre parole, non ha alcun senso invocare la secular stagnation come spiegazione di quanto ci sta accadendo se prima non teniamo conto dell'impatto che la deliberata distruzione di domanda (cioè di redditi da spendere) da parte dei politici dell'Eurozona ha avuto sull'economia globale. Se, al netto di questa distruzione di domanda, assistessimo a un effettivo rallentamento del mondo, allora potremmo parlare di "secular stagnation" (o di grande moria delle vacche, o whatever...). Ma se non teniamo conto di (i fighi dicono: controlliamo per) questo evento, allora dobbiamo applicare il rasoio di Occam. Dichiarare che il reddito del mondo cala per motivi esoterici quando un quarto del mondo si è amputato per propria decisione il reddito in effetti è moltiplicare le spiegazioni praeter necessitatem.
Chiaro?
Questa valutazione può essere effettuata in diversi modi, più o meno sofisticati, e necessita comunque di un modello, con tutti i limiti metodologici del caso. D'altra parte, anche ignorare l'esistenza del problema che l'Eurozona pone al mondo presenta dei limiti, e non solo astrattamente metodologici: anche concretamente politici.
Vi propongo due esercizietti fatti al volo (o più esattamente: in volo. Il primo l'ho fatto andando a Parigi e il secondo tornando da Barcellona).
Il primo controfattuale
Nel primo controfattuale verifico dove saremmo oggi se l'Eurozona avesse reagito dopo la crisi del 2008 come reagì dopo la crisi del 1992. Vi ricordo che anche in quelle circostanze ci fu una crisi a settembre (nel 1992 la crisi dello Sme, nel 2008 la crisi Lehman), seguita da un anno di recessione (nel 1993 fu il -0.6%, nel 2009 il -4.5%). Nei cinque anni successivi al 1994, però, l'Eurozona crebbe al 2.45%. Viceversa, fra 2010 e 2014 la crescita media è stata dello 0.6%. Il perché lo sappiamo: a causa delle politiche di austerità rese necessarie dall'euro. La simulazione che vi propongo è meramente aritmetica, e risponde alla domanda: dove saremmo oggi (noi, e il mondo), se l'Eurozona avesse reagito alla crisi del 2008 come reagì a quella del 1992? Cioè: se nei cinque anni successivi all'ultima recessione la crescita dell'Eurozona fosse stata pari a quella sperimentata dopo la penultima?
Va da sé che questo esperimento ha degli ovvi limiti metodologici: intanto, anche nel 1992 era partito un impulso recessivo dagli Stati Uniti, ma era stato di proporzioni molto inferiori rispetto allo shock del 2009 ((-0.1% nel 1991 contro -2.7% nel 2009). Non c'era stata una crisi finanziaria globale, i mercati erano meno interconnessi, viceversa c'era uno stress finanziario locale determinato dalla necessità di finanziare la felice riunificazione tedesca, ecc. Questo significa che ipotizzare una ripresa con valori del tasso di crescita simili a quelli sperimentati storicamente è probabilmente esagerato: anche senza le politiche suicide di austerità, probabilmente oggi saremmo cresciuti un po' di meno. D'altra parte, se questa ipotesi distorce i risultati al rialzo (nel senso che esagera l'impatto recessivo sull'economia mondiale della nostra mancata crescita), il fatto di condurre un esperimento puramente aritmetico, in cui si modifica solo il sentiero di crescita europeo, senza tener conto del fatto che l'economia europea è un volano per l'economia mondiale (perché una nostra maggiore crescita avrebbe significato maggior domanda di beni, e quindi maggiori redditi, nel resto del mondo), distorce i risultati al ribasso.
In ogni caso, il risultato sarebbe stato questo (espresso come scarto del controfattuale dallo scenario storico):
Già! Questo 0.4, come vedete, riporterebbe le lancette della crescita indietro di un trentennio, cioè a un periodo nel quale né a Melisenda, né tantomeno a Larry, sarebbe mai venuto in mente di parlare di sechiular staghgnieiscion.
Chiaro, no, perché mi girano?
Altri due controfattuali (col modello globale)
Bene: ora facciamo un altro esperimento. In questo caso, utilizzo il modello dell'economia mondiale che ho costruito per il mio studio sugli squilibri globali. Sì, mi rendo conto che fa pensare a questa cosa qui:
ma in realtà è una cosa molto meno seria: è solo il risultato di un percorso di ricerca iniziato con il modello dell'Unione Europea, proseguito aggiungendo un modello degli Stati Uniti, e infine un modello della Cina.
#cosedilavoro, come dice quello.
Il modello attualmente è dormiente, per un motivo molto semplice: non abbiamo abbastanza risorse per tenerlo aggiornato, cioè per fare con un minimo di criterio quelle ricerche che nessuno vuole fare (perché "nun se pubblicheno bbene" o semplicemente perché sono contrarie ai desiderata della dominant social force behind the authority), ovvero per rispondere a quelle domande alle quali nessuno vuole rispondere e che quindi nessuno si pone, come ad esempio: "Ma siamo veramente sicuri che sia un problema di stagnazione "secolare", e non il risultato di una scelta politica a caso (l'euro)?". Sul discorso delle risorse però torniamo un'altra volta, se volete: tanto per dire, ho anche un modello dell'India nel cassetto (veramente, ce l'ha Christian), ma se passo le giornate a spiegarvi che 2+2=4 chiaramente anche lui fa la muffa. Eppure sarebbe interessante utilizzarlo...
In ogni caso, il database è aggiornato fino al 2006, e quindi me ne son potuto servire per simulare l'impatto sul tasso di crescita globale di un taglio della spesa nell'Unione Europea considerando un orizzonte di sei anni, dal 2001 al 2006, che corrisponde come durata a quello lungo il quale abbiamo sperimentato l'austerità (dal 2011 al 2016).
Il problema, qui, come in ogni scenario di simulazione (compreso il precedente), è quello di quantificare lo shock. Nel primo controfattuale ho agito direttamente sul tasso di crescita dell'economia europea. Avendo a disposizione un modello che prevede fra le variabili la spesa pubblica europea (diverse voci di spesa, in effetti), posso simulare direttamente l'austerità europea (cioè il taglio della spesa) per vedere come agisce sul tasso di crescita dell'economia europea, e poi, a valle, su quello dell'economia mondiale.
A questo scopo, ho fatto due ipotesi: una, standard, di riduzione della spesa pubblica nominale in proporzione pari all'1% del Pil nominale, e una più ambiziosa, applicando al modello lo scostamento dal trend della spesa pubblica nominale durante gli anni dell'austerità (ve lo spiego meglio dopo). Negli esperimenti di simulazione ho tagliato solo la componente "consumi intermedi" dei consumi collettivi, ovvero gli acquisti di beni e servizi da parte delle amministrazioni pubbliche. Non è una scelta ideologica: è semplicemente che Barcellona e Roma sono piuttosto vicine, quindi non avevo tempo per implementare scenari più complessi e realistici (ad esempio: taglio della spesa per beni e servizi più blocco dei salari pubblici più...).
Veniamo alla prima simulazione (shock standard, riduzione dell'1% della spesa pubblica nominale). L'impatto sul mondo è riassunto da questo grafico:
Nota bene: questi sono scostamenti percentuali delle variabili dal loro livello "non perturbato". Il grafico ci dice quindi che un taglio alla spesa pubblica nominale dell'Unione Europea parì all'1% del Pil europeo riduce il Pil mondiale (linea blu) di circa lo 0.2% (dato compatibile col fatto che l'Europa, nel periodo campionario utilizzato per la simulazione, è pari a circa il 20% del mondo). Per confronto con il discorso fatto finora, vi faccio vedere anche cosa succede in termini di tassi di variazione delle variabili (cioè del Pil reale: GDPV indica il Pil, in inglese GDP, in volume, V, cioè a prezzi costanti, cioè in termini reali):
Per capire come interpretare questi risultati, che sono espressi, appunto, in tassi di variazione, facciamo riferimento al dato mondiale (variabile WLDGDPV, quella tracciata in blu nel grafico), e ricordiamoci due cose, che potrebbero sono normalmente di ostacolo alla comprensione dei risultati anche per i colleghi più esperti (o espertoni):
1) la differenza fra livelli e variazioni;
2) il fatto che i prezzi esistono (e si muovono per riportare il mondo in equilibrio).
Se:
a) abbasso dell'1% la spesa pubblica in Europa,
b) il moltiplicatore non è lontano da uno (per cui anche il Pil europeo scende più o meno dello stesso ammontare)
c) l'Europa è il 20% dell'economia mondiale,
allora il Pil mondiale scenderà dello 0.2%. Ai livelli delle variabili succederà cioè questa cosa qui:
dove la riga "% deviation" è appunto quella rappresentata nella figura "Percent deviation" (non è che ci volesse molto...). Vedete quindi che nell'anno dello shock (qui il 2001) il Pil europeo si contrae dello 0.91%, quello mondiale dello 0.18%, ecc. Questa riduzione dello 0.18% nel primo anno corrisponde a una minore crescita di pari importo (la tabella precedente ha qualche sfasamento dovuto a minimi errori di arrotondamento, e vi indica 0.19% di minore crescita per il mondo). Nel secondo anno (il 2002) lo scostamento in europa tende impercettibilmente a chiudersi: 0.90 invece di 0.91, mentre si propaga alle altre parti del globo (Usa, Cina), e quindi a livello mondiale lo scostamento rispetto al livello aumenta (in valore assoluto) da -0.18 a -0.19. Questo significa una ulteriore minore crescita, ma solo di -0.01 (come vedete dalla tabella precedente).
Ora, con riferimento alla tabella dei tassi di crescita, vedete che dopo sei anni l'impatto complessivo del taglio di un punto di Pil della spesa pubblica europea è negativo per tutte le aree mondiali, con la possibile eccezione degli Stati Uniti, dove la cumulata degli scarti della crescita è 0.04 (e infatti dal grafico si vede che gli Usa "rimbalzano" sopra l'asse orizzontale, che indica il punto in cui il sentiero controfattuale è uguale - scostamento zero - a quello simulato). In termini di crescita complessiva però non è un bagno di sangue: solo uno 0.07% in meno, pari (nel 2006) a circa 27.3 miliardi di dollari ai prezzi del 2000 su un Pil mondiale di 37777.3 miliardi di dollari. Il risultato teorico c'è (le scelte politiche dell'Eurozona influenzano l'economia mondiale con moltiplicatore positivo, per cui se noi tagliamo, il mondo cala anziché crescere), ma la rilevanza pratica no.
Solo che questo non è quello che è successo.
Quello che è successo è più simile a quanto vediamo in questo grafico:
Spiegazione: in azzurro la spesa pubblica complessiva dell'Eurozona, tratta dalla solita fonte (sono miliardi di euro). In rosso, la stessa variabile, se dal 2010 in poi fosse rimasta sul trend sperimentato nel decennio precedente, con una crescita del 4% all'anno (per gli ingengngnieri: 3.93%). Naturalmente fino al 2010 si vede solo la linea rossa, perché ricopre esattamente quella azzurra. Poi la storia è quella azzurra (la spesa pubblica si ferma), e in rosso c'è il controfattuale (cosa sarebbe successo se la spesa non si fosse fermata, se non si fosse "distrutta domanda"). In nero lo scostamento fra storico e controfattuale. Dopo sei anni, nel 2015, la spesa pubblica effettiva a livello di Eurozona è di circa 1000 miliardi inferiore a quanto si sarebbe avuto in caso di mantenimento della tendenza storica.
Uno shock non indifferente, che corrisponde a uno scarto dal sentiero storico che va da -0.8% del Pil nominale nel primo anno (entità non dissimile al -1% che abbiamo simulato prima) fino a -8.9% nel sesto anno. E qui la differenza è abbastanza notevole, come notevole è l'impatto sula crescita.
Vi fornisco la tabella in termini di tassi di crescita:
Gli impatti, come vedete, sono meno trascurabili.
A livello europeo, dato che ogni anno ci si scosta un po' di più dal valore tendenziale, ogni anno si ha un po' meno crescita aggiuntiva. L'impatto massimo è nel secondo anno, in cui si hanno addirittura 2.01 punti di crescita in meno. La cumulata della mancata crescita sui sei anni della simulazione è -6.35 punti, che diviso sei fa -1.06. Un risultato quasi uguale e contrario rispetto a quello della prima simulazione, quella senza modello, dalla quale risultava che se l'Europa fosse cresciuta dopo lo shock del 2008 allo stesso tasso sperimentato dopo la crisi del 1992 la crescita media nei cinque anni dopo la crisi sarebbe stata superiore di 1.8 punti. Più sotto discuto in dettaglio i pro e i contro dei due metodi, fornendo elementi per valutare se i metodi adottati sottostimano o sovrastimano l'impatto dell'austerità. Intanto, il fatto è che fra 2009 e 2014 la crescita cumulata dell'Eurozona è stata di circa -0.1%. Se in questi sei anni l'Eurozona fosse cresciuta alla media del periodo 1993-2008 (cioè al 2%), avremmo avuto una crescita cumulata di oltre 12 punti percentuali. In altre parole, rispetto al risultato ottenuto il modello fornisce un impatto sulla crescita pari a circa la metà di quello effettivamente sperimentato, il che in parte dipende dal non considerare le altre fonti di stress macroeconomico che si sono presentate (la crisi globale), e in parte da una probabile sottostima degli effetti dell'austerità.
Il messaggio, comunque, non cambia di molto: buona parte della mancata crescita (cioè dell'appiattimento della linea arancione nel primissimo grafico di questo post) è senz'altro un male che ci siamo fatti da soli, rispondendo con l'austerità, cioè in modo prociclico, a una crisi esogena.
Al mondo questa nostra bella idea di tagliarci le palle per far contenta la Merkel costa un -1.28% di crescita cumulata, cioè, in termini di media annuale, circa un -0.2%. Anche qui gli ordini di grandezza sono simili a quelli visti nella prima simulazione (quella "aritmetica"). Diciamo che senza austerità saremmo cresciuti al 3% tondo, nonostante lo shock "epocale".
Sechiular staghgnieiscion?
Le simulazioni del modello sono più sofisticate di quelle condotte col primo controfattuale, ma hanno anch'esse una serie di limiti, che evidenzio solo per far capire ai cretini che ne sono consapevole (rinuncio a sperare che qualche persona intelligente voglia contribuire in modo costruttivo: dopo cinque anni so cosa aspettarmi dalla mia professione: qualche furtiva stretta di mano nei corridoi di dipartimento, qualche cenno clandestino di solidarietà, e poi il vuoto pneumatico - o qualche simpatica coltellata alla schiena: sì, insomma, è una professione come le altre, come la vostra!):
1) una parte consistente del mondo (circa il 47%, quasi la metà) è considerata esogena, il che smorza gli effetti di retroazione del moltiplicatore (cioè non considera il fatto che l'Europa faccia da volano alla crescita altrui, con retroazioni sull'economia europea quando gli altri crescono di più). Verosimilmente, questo distorce verso il basso l'entità dei risultati, anche considerando che consideriamo esogeni mercati per noi importanti, come molti emergenti;
2) sono esogene anche le quote di mercato dei diversi paesi/blocchi considerati (anche se nel medio periodo è difficile che queste varino drammaticamente);
3) il campione considerato non è quello storico, ma, come vi ho detto, è anticipato di circa 10 anni (la simulazione inizia nel 2001 anziché nel 2010). Dato che il modello è nonlineare, ciò può condizionare i risultati (per capire cosa intendo, potreste rileggervi questo post);
4) l'entità dello scostamento rispetto al trend potrebbe non essere una misura sensata dell'austerità intesa come "taglio", come "manovra": una parte della riduzione di spesa rispetto al trend potrebbe essere determinata da dinamiche endogene (ad esempio, visto che la spesa è quella nominale, dalla riduzione dell'inflazione). In questo senso la misura che sto considerando potrebbe sopravvalutare l'entità effettiva dello shock. Va però detto che la spesa pubblica è naturaliter anticiclica: in condizioni di recessione gli stabilizzatori automatici tendono a farla crescere (sussidi di disoccupazione, misure di integrazione dei redditi, politiche attive sul mercato del lavoro), e quindi l'ipotesi di mantenimento del trend storico è un'ipotesi di per sé prudente;
5) l'austerità non è stata implementata solo riducendo le spese per l'acquisto di beni e servizi, ma anche e soprattutto le spese per stipendi, e inasprendo la pressione fiscale (non considerata dalle mie simulazioni): nelle simulazioni non si considerano quindi effetti di composizione che potrebbero amplificare gli effetti sistemici delle scellerate manovre piddine.
6) varie ed eventuali.
Se avessi abbastanza risorse, farei un lavoro più accurato. Direi che l'ordine di grandezza dell'impatto dell'eurodelirio sulla crescita mondiale, alla luce di quanto abbiamo visto e considerati i vari caveat, potrebbe non essere molto lontano dal mezzo punto (il risultato del controfattuale "semplice"), ma se anche fosse lievemente inferiore la cosa non cambierebbe molto: in effetti, quello che questi risultati mostrano è che le politiche deflazionistiche europee esercitano un significativo impatto globale, e che prima di formulare astruse congetture sarebbe opportuno dedicarsi a calcolare con maggiore precisione qual è il conto che il complesso finanziario-industriale alemanno sta facendo pagare all'economia mondiale. Se aspettiamo che lo capiscano i nostri alleati, poi potrebbe essere Dresda, e sarebbe un vero peccato.
Too big to what?
Concludo con una nota di attualità. Avrete tutti visto i cialtroneschi scenari catastrofisti sul Brexit. Scenari per lo più basati sul nulla, come abbiamo avuto modo di apprezzare in alcuni post precedenti, e animati solo dalla smania ideologica di dimostrare che l'esperimento nel quale ci hanno coinvolto non può essere arrestato: dobbiamo morire tutti, uno dopo l'altro, con certezza, per l'ottima ragione che fermare questa macchina forse ci ucciderebbe! Oh, quanto avversi al rischio sono (dopo) i governanti che con tanto sprezzo del pericolo ci hanno messo (prima) in questo pasticcio! Non è strana questa brusca virata?
Il fatto è che, a prescindere dal csao Brexit, l'argomento secondo cui "non si può rimettere il tubetto nel dentifricio" (espressione particolarmente cretina), cioè non si può smontare l'Unione Europea (e prima l'Eurozona) perché ci sarebbero effetti sistemici, perché l'Unione Europea è troppo grande perché il mondo possa sostenerne il fallimento, è del tutto illogico. Il punto è un altro: l'Unione Europea sta già fallendo, ed è troppo grande perché il mondo possa sostenerne il fallimento, per cui dobbiamo smantellarla! Da quando è iniziata la stagione dell'austerità abbiamo sottratto al resto del mondo qualcosa come un po' meno di mezzo punto di crescita reale all'anno (stimato per difetto nel modo che abbiamo visto).
Quanto pensiamo di poter continuare così?
Peraltro, il piddinissimo argomento del tubetto e del dentifricio offre una sponda razionale a chi voglia prospettare costruttivamente un mondo più stabile dal punto di vista politico e finanziario. Semplicemente, il fatto che l'Unione Europea sia percepita come "too big to fail" sta creando il tipico problema che la letteratura scientifica evidenzia in questi casi: un problema di moral hazard. I governanti europei, invece di perseguire la crescita nell'interesse della comunità internazionale, perseguono obiettivi propri, riferiti alle dinamiche politiche interne, confidando nel fatto che il loro giocattolo (l'Unione Europea), che tanto li ha aiutati a risolvere a casa loro il conflitto di classe (schiacciando i salari) non si potrà rompere, perché gli americani non lo vorranno, dato che "sarebbe una catastrofe".
Creare "superstati" (esattamente come creare megabanche) rende la classe politica (il management) meno responsabile, non più responsabile. E i risultati si vedono, sono sotto i nostri occhi. A contrario, questo potrebbe essere il motivo, o uno dei motivi, per cui da Hume a Jones a Diamond a Majone tanti studiosi ci ricordano come il frazionamento della sovranità politica sia stato (ma temo dovrò dire: fu) fra le cause del passato splendore europeo.
Questo dicono i numeri, questo dice la logica.
Gli stolti dicono "più Europa contro la sechiular staghgnieiscion".
Non praevalebunt.
Appendice
La tabella dei contributi alla crescita con millemila decimali (dedicata agli ingengngnieri):
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domenica 12 giugno 2016
Brexit: qualche cifra
Il dibattito sulla Brexit sta prendendo toni inquietanti, tali da lasciare nell'ombra i risvolti economici, che qui, come più in generale nel caso del progetto europeo, rappresentano l'aspetto più banale del problema (anche se, per una illusione ottica dettata dal loro carattere "tecnico", sono quelli che catturano maggiormente l'attenzione).
A me sembra che nessuno abbia sottolineato abbastanza qual è la radice del problema, da noi evidenziata qui, ovvero il fatto che assistiamo al miserando spettacolo di massimi responsabili delle istituzioni europee, che in quanto tali dovrebbero essere garanti del rispetto dei Trattati europei, i quali invece minacciano apertamente e con toni inaccettabili ritorsioni verso un paese che intende avvalersi di un diritto (quello di recesso) che gli stessi Trattati prevedono.
Chi non capisce quanto questo sia assurdo è difficile che capisca qualcos'altro.
Ripeto: chi dovrebbe garantire il rispetto dei Trattati minaccia chi intende esercitare un diritto previsto dai Trattati. Se l'andazzo è questo, ditemi voi cosa ci possiamo aspettare da questa unione!
Eppure, molti opinionisti (pagati per non capire) e molti studiosi (che generalmente non capiscono gratis) ancora non ci arrivano. Ieri ho avuto l'onore di partecipare a una tavola rotonda con due studiosi di livello infinitamente superiore al mio: Marti Subrahmanyam, professore di finanza internazionale alla Stern School of Business (quella da dove viene un altro tipo di passaggio), e Joshua Aizenman, della University of Southern California, con un curriculum accademico impressionante: 212 working papers, 158 articoli su rivista scientifica, top 5% secondo 38 criteri bibliometrici, un h-index pari a 55 con 11572 citazioni su Google Scholar. Se lo valutiamo a peso di riviste, valgo meno di un decimo di lui, gli arrivo a malapena al malleolo. Eppure, dopo un primo giro nel quale, sotto la direzione ferma e efficiente di Francesco Nucci, io avevo espresso l'opinione che forse potevamo anche smettere di parlare di euro, progetto morto e sepolto, e darci da fare per pensare al dopo (opinione che scaturiva dal mio intervento, del quale vi parlerò in separata sede), Subrahmanyam ha detto che sì, lui avrebbe voluto essere più ottimista, forse perché si trovava in una città che ama (Roma), ma sinceramente non avrebbe saputo quali dati portare a supporto della sua intenzione, mentre Aizenman ha cominciato a dire che la fine dell'euro sarebbe la fine dell'Europa, e che quindi noi dovremmo esortare (o minacciare, o invitare) la Germania a capire che questo non sarebbe nel suo interesse eccetera eccetera. Cose che qui sentivamo dire quattro anni fa da colleghi che nel frattempo, capito l'andazzo, hanno smesso.
Io ho fatto notare, con molta delicatezza, che siamo sempre allo stesso punto: una unione nella quale devi minacciare gli altri affinché cooperino con te non ha molto senso in termini politici. Qui non solo manca un obiettivo comune: manca una volontà comune, e manca un terreno sul quale confrontarsi, visto che le istituzioni europee non solo sono particolarmente discutibili (in termini di violazione del principio di separazione dei poteri, in termini di rappresentatività democratica), ma addirittura intervengono in aperto spregio dei Trattati per sovvertirne lo spirito e la lettera!
Ma questo ad Aizenman, sepolto dalla valanga delle 360 pubblicazioni prodotte, evidentemente sfuggiva...
E allora parliamo di Brexit, facendo finta che valga la pena di parlarne. Il dato che molti hanno messo in evidenza, e che qui vorrei elaborare un minimo con voi, è che la minaccia di ritorsioni nei riguardi del Regno Unito non ha alcun senso, per il semplice motivo che è il Regno Unito, strutturalmente, a sostenere con la sua domanda di beni il resto dell'Unione Europea, e non il contrario. In effetti, il Regno Unito è un importatore netto di beni del resto del mondo, Unione Europea compresa, il che significa, d'altro canto, che l'Unione Europea nel suo complesso è una esportatrice netta di beni nei riguardi del Regno Unito.
Capite quindi bene che è del tutto assurdo pensare che se il Regno Unito uscisse, l'Unione Europea troverebbe una convenienza economica (sottolineo: economica) nel "punirlo".
Per dirla all'uomo della strada, sarebbe come se il pizzicagnolo sotto casa mi impedisse di entrare nel suo negozio, cioè di essere suo cliente, cioè di dargli (non prendergli: dargli) i miei soldi, perché una volta mi ha visto passare davanti alla sua vetrina con la busta del supermercato! Vi assicuro che i commercianti non ragionano così: nella mia strada ne son rimasti pochi (perché la grande distribuzione si è infiltrata molto bene anche in centro), ma se avessero deciso di "punire" i clienti dei supermercati adesso sarebbero ancora di meno.
In termini più aulici, l'imposizione di dazi è sì prevista dalle norme del WTO, ma occorre che ci sia un motivo. Sarebbe piuttosto strano che a un paese esportatore (che quindi trae vantaggio dal commercio internazionale) venisse consentito di imporre dazi ritorsivi a un partner! Eventualmente, sarebbe l'importatore a doversi difendere con dazi. Ma nel mondo in cui chi difende i Trattati li stampa con la stampante della Merkel, è evidente che i media possono farci digerire qualsiasi assurdità.
Comunque, qualche numero...
Qui vedete l'evoluzione del saldo commerciale (trade balance) inglese, mettendo insieme il totale, e le sue due componenti: quella verso l'UE a 28, e quella extra-UE (i dati vengono da qui):
La sintesi è che ad oggi il Regno Unito è importatore netto di beni dell'Unione Europea per oltre 100 miliardi di euro all'anno. Supponiamo allora che i gegni di Bruxelles decidano di troncare ogni e qualsiasi rapporto col Regno Unito in caso di Brexit (ipotesi già assurda di per sé, perché non si vede come potrebbero impedire a me di bermi un whisky, o a un inglese di comprarsi un vestito di Armani: ma passons...). In termini puramente macroeconomici sarebbe un bagno di sangue per noi, non per loro: vorrebbe dire rinunciare a 118 miliardi di esportazioni nette. Per capirci, il Pil dell'Eurozona a 28 è pari a 14.635 miliardi, e quello del Regno Unito è pari a 2.658 miliardi, per cui il Pil dell'Eurozona senza Regno Unito è pari a 11.977 miliardi. La perdita secca di domanda aggregata per l'Unione Europea sarebbe quindi pari a 118/11.977 = 0.98%. Questo, però, senza tener conto di un dettaglio che sfugge ai grandi economisti: il moltiplicatore keynesiano. Nel 2003 calcolammo con Francesco Carlucci il moltiplicatore keynesiano per l'economia dell'Unione Europea, facendo anche una cosa che i grandi economisti generalmente non fanno, cioè calcolando l'incertezza associata al moltiplicatore:
I numeri sono questi, calcolati come di consueto simulando uno shock negativo dell'1% all'altra componente esogena della domanda (la spesa pubblica). Dopo cinque anni, un taglio di domanda dell'1% riduce il PIL dell'1,62%, con una deviazione standard di 0.11, il che significa che nel 95% dei casi l'effetto cadrà dentro una forchetta che va dall'1,4% all'1,84%. Siccome la legge di Murphy esiste, e se qualcosa può andar male lo farà, questo significa che punire il Regno Unito, escludendolo dai propri partner commerciali, potrebbe costare nel medio periodo al resto dell'Unione Europea una cosa tipo lo 0,98 x 1,84 = 1,8% del suo PIL, con un impatto di circa 1% nel primo anno (nel quale quindi la sedicente Europa, cioè l'Unione Europea, perderebbe un punto secco di crescita economica).
Come si dice, ablarsi i testicoli per contrariare la consorte. Vi sembra ragionevole? A meno che non siate tedeschi, credo proprio di no.
Naturalmente questi calcoli sono meramente indicativi, per diversi motivi, uno dei quali è che nelle stime del nostro modello consideravamo l'Unione Europea compreso il Regno Unito: può darsi benissimo che la risposta dell'Unione Europea senza Regno Unito sia lievemente diversa (ma che il moltiplicatore keynesiano sia un po' dappertutto pari a circa 1,5 mi pare stia emergendo dalla letteratura, ed è quello che in fondo tutti sapevano, tranne chi aveva interesse a ignorarlo, perché da buon garzone di bottega doveva riscuotere i sospesi, come abbiamo dettagliato qui). Esiste poi una letteratura ampia sul fatto che diverse componenti di domanda hanno moltiplicatori diversi (il moltiplicatore di un aumento di imposte è diverso da quello di un taglio di spesa, che a sua volta potrebbe essere diverso da quello di un taglio esogeno delle esportazioni): benvenuti nel meraviglioso mondo dello zero virgola, che non cambia la sostanza di quanto vi sto dicendo, ovvero che imporre sanzioni alla perfida Albione, secondo una consolidata tradizione delle democrazie continentali europee, non solo sarebbe impossibile, ma anche controproducente, perché alla fine ci rimetteremmo noi.
Per dirla come la direbbe un giornalista, che resta pur sempre il miglior amico dell'uomo che vuole informarsi, nella peggiore delle ipotesi ci andremmo a perdere quasi il 2% del PIL, cioè 215 miliardi di euro (al sesto anno), pari a, udite udite, ben 484,69 euro a cranio nel resto dell'UE a 28. Questo, attenzione, in un solo anno, quello di perdita massima. La perdita cumulata sull'orizzonte di un decennio potrebbe avvicinarsi ai 7000 euro, ma il calcolo non ve lo faccio perché è inutile perder tempo dietro a un'idea assurda, e perché devo cambiarmi per andare a TgCom24, dove dovrò, ostentando grande professionalità, parlare di una situazione che, una volta di più, si presenta come grave, ma non seria...
A me sembra che nessuno abbia sottolineato abbastanza qual è la radice del problema, da noi evidenziata qui, ovvero il fatto che assistiamo al miserando spettacolo di massimi responsabili delle istituzioni europee, che in quanto tali dovrebbero essere garanti del rispetto dei Trattati europei, i quali invece minacciano apertamente e con toni inaccettabili ritorsioni verso un paese che intende avvalersi di un diritto (quello di recesso) che gli stessi Trattati prevedono.
Chi non capisce quanto questo sia assurdo è difficile che capisca qualcos'altro.
Ripeto: chi dovrebbe garantire il rispetto dei Trattati minaccia chi intende esercitare un diritto previsto dai Trattati. Se l'andazzo è questo, ditemi voi cosa ci possiamo aspettare da questa unione!
Eppure, molti opinionisti (pagati per non capire) e molti studiosi (che generalmente non capiscono gratis) ancora non ci arrivano. Ieri ho avuto l'onore di partecipare a una tavola rotonda con due studiosi di livello infinitamente superiore al mio: Marti Subrahmanyam, professore di finanza internazionale alla Stern School of Business (quella da dove viene un altro tipo di passaggio), e Joshua Aizenman, della University of Southern California, con un curriculum accademico impressionante: 212 working papers, 158 articoli su rivista scientifica, top 5% secondo 38 criteri bibliometrici, un h-index pari a 55 con 11572 citazioni su Google Scholar. Se lo valutiamo a peso di riviste, valgo meno di un decimo di lui, gli arrivo a malapena al malleolo. Eppure, dopo un primo giro nel quale, sotto la direzione ferma e efficiente di Francesco Nucci, io avevo espresso l'opinione che forse potevamo anche smettere di parlare di euro, progetto morto e sepolto, e darci da fare per pensare al dopo (opinione che scaturiva dal mio intervento, del quale vi parlerò in separata sede), Subrahmanyam ha detto che sì, lui avrebbe voluto essere più ottimista, forse perché si trovava in una città che ama (Roma), ma sinceramente non avrebbe saputo quali dati portare a supporto della sua intenzione, mentre Aizenman ha cominciato a dire che la fine dell'euro sarebbe la fine dell'Europa, e che quindi noi dovremmo esortare (o minacciare, o invitare) la Germania a capire che questo non sarebbe nel suo interesse eccetera eccetera. Cose che qui sentivamo dire quattro anni fa da colleghi che nel frattempo, capito l'andazzo, hanno smesso.
Io ho fatto notare, con molta delicatezza, che siamo sempre allo stesso punto: una unione nella quale devi minacciare gli altri affinché cooperino con te non ha molto senso in termini politici. Qui non solo manca un obiettivo comune: manca una volontà comune, e manca un terreno sul quale confrontarsi, visto che le istituzioni europee non solo sono particolarmente discutibili (in termini di violazione del principio di separazione dei poteri, in termini di rappresentatività democratica), ma addirittura intervengono in aperto spregio dei Trattati per sovvertirne lo spirito e la lettera!
Ma questo ad Aizenman, sepolto dalla valanga delle 360 pubblicazioni prodotte, evidentemente sfuggiva...
E allora parliamo di Brexit, facendo finta che valga la pena di parlarne. Il dato che molti hanno messo in evidenza, e che qui vorrei elaborare un minimo con voi, è che la minaccia di ritorsioni nei riguardi del Regno Unito non ha alcun senso, per il semplice motivo che è il Regno Unito, strutturalmente, a sostenere con la sua domanda di beni il resto dell'Unione Europea, e non il contrario. In effetti, il Regno Unito è un importatore netto di beni del resto del mondo, Unione Europea compresa, il che significa, d'altro canto, che l'Unione Europea nel suo complesso è una esportatrice netta di beni nei riguardi del Regno Unito.
Capite quindi bene che è del tutto assurdo pensare che se il Regno Unito uscisse, l'Unione Europea troverebbe una convenienza economica (sottolineo: economica) nel "punirlo".
Per dirla all'uomo della strada, sarebbe come se il pizzicagnolo sotto casa mi impedisse di entrare nel suo negozio, cioè di essere suo cliente, cioè di dargli (non prendergli: dargli) i miei soldi, perché una volta mi ha visto passare davanti alla sua vetrina con la busta del supermercato! Vi assicuro che i commercianti non ragionano così: nella mia strada ne son rimasti pochi (perché la grande distribuzione si è infiltrata molto bene anche in centro), ma se avessero deciso di "punire" i clienti dei supermercati adesso sarebbero ancora di meno.
In termini più aulici, l'imposizione di dazi è sì prevista dalle norme del WTO, ma occorre che ci sia un motivo. Sarebbe piuttosto strano che a un paese esportatore (che quindi trae vantaggio dal commercio internazionale) venisse consentito di imporre dazi ritorsivi a un partner! Eventualmente, sarebbe l'importatore a doversi difendere con dazi. Ma nel mondo in cui chi difende i Trattati li stampa con la stampante della Merkel, è evidente che i media possono farci digerire qualsiasi assurdità.
Comunque, qualche numero...
Qui vedete l'evoluzione del saldo commerciale (trade balance) inglese, mettendo insieme il totale, e le sue due componenti: quella verso l'UE a 28, e quella extra-UE (i dati vengono da qui):
La sintesi è che ad oggi il Regno Unito è importatore netto di beni dell'Unione Europea per oltre 100 miliardi di euro all'anno. Supponiamo allora che i gegni di Bruxelles decidano di troncare ogni e qualsiasi rapporto col Regno Unito in caso di Brexit (ipotesi già assurda di per sé, perché non si vede come potrebbero impedire a me di bermi un whisky, o a un inglese di comprarsi un vestito di Armani: ma passons...). In termini puramente macroeconomici sarebbe un bagno di sangue per noi, non per loro: vorrebbe dire rinunciare a 118 miliardi di esportazioni nette. Per capirci, il Pil dell'Eurozona a 28 è pari a 14.635 miliardi, e quello del Regno Unito è pari a 2.658 miliardi, per cui il Pil dell'Eurozona senza Regno Unito è pari a 11.977 miliardi. La perdita secca di domanda aggregata per l'Unione Europea sarebbe quindi pari a 118/11.977 = 0.98%. Questo, però, senza tener conto di un dettaglio che sfugge ai grandi economisti: il moltiplicatore keynesiano. Nel 2003 calcolammo con Francesco Carlucci il moltiplicatore keynesiano per l'economia dell'Unione Europea, facendo anche una cosa che i grandi economisti generalmente non fanno, cioè calcolando l'incertezza associata al moltiplicatore:
I numeri sono questi, calcolati come di consueto simulando uno shock negativo dell'1% all'altra componente esogena della domanda (la spesa pubblica). Dopo cinque anni, un taglio di domanda dell'1% riduce il PIL dell'1,62%, con una deviazione standard di 0.11, il che significa che nel 95% dei casi l'effetto cadrà dentro una forchetta che va dall'1,4% all'1,84%. Siccome la legge di Murphy esiste, e se qualcosa può andar male lo farà, questo significa che punire il Regno Unito, escludendolo dai propri partner commerciali, potrebbe costare nel medio periodo al resto dell'Unione Europea una cosa tipo lo 0,98 x 1,84 = 1,8% del suo PIL, con un impatto di circa 1% nel primo anno (nel quale quindi la sedicente Europa, cioè l'Unione Europea, perderebbe un punto secco di crescita economica).
Come si dice, ablarsi i testicoli per contrariare la consorte. Vi sembra ragionevole? A meno che non siate tedeschi, credo proprio di no.
Naturalmente questi calcoli sono meramente indicativi, per diversi motivi, uno dei quali è che nelle stime del nostro modello consideravamo l'Unione Europea compreso il Regno Unito: può darsi benissimo che la risposta dell'Unione Europea senza Regno Unito sia lievemente diversa (ma che il moltiplicatore keynesiano sia un po' dappertutto pari a circa 1,5 mi pare stia emergendo dalla letteratura, ed è quello che in fondo tutti sapevano, tranne chi aveva interesse a ignorarlo, perché da buon garzone di bottega doveva riscuotere i sospesi, come abbiamo dettagliato qui). Esiste poi una letteratura ampia sul fatto che diverse componenti di domanda hanno moltiplicatori diversi (il moltiplicatore di un aumento di imposte è diverso da quello di un taglio di spesa, che a sua volta potrebbe essere diverso da quello di un taglio esogeno delle esportazioni): benvenuti nel meraviglioso mondo dello zero virgola, che non cambia la sostanza di quanto vi sto dicendo, ovvero che imporre sanzioni alla perfida Albione, secondo una consolidata tradizione delle democrazie continentali europee, non solo sarebbe impossibile, ma anche controproducente, perché alla fine ci rimetteremmo noi.
Per dirla come la direbbe un giornalista, che resta pur sempre il miglior amico dell'uomo che vuole informarsi, nella peggiore delle ipotesi ci andremmo a perdere quasi il 2% del PIL, cioè 215 miliardi di euro (al sesto anno), pari a, udite udite, ben 484,69 euro a cranio nel resto dell'UE a 28. Questo, attenzione, in un solo anno, quello di perdita massima. La perdita cumulata sull'orizzonte di un decennio potrebbe avvicinarsi ai 7000 euro, ma il calcolo non ve lo faccio perché è inutile perder tempo dietro a un'idea assurda, e perché devo cambiarmi per andare a TgCom24, dove dovrò, ostentando grande professionalità, parlare di una situazione che, una volta di più, si presenta come grave, ma non seria...
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venerdì 25 dicembre 2015
Da Ventotene boys a Chicago boys: lo spiaggiamento della sinistra
(...Diego Fusaro ha curato per Phenomenology and mind un numero speciale intitolato La filosofia e il futuro dell'Europa - è il numero 8 del 2015 e attualmente lo trovate qui. Avendomi invitato a partecipare, ho accettato con piacere, sia per l'amicizia che ci lega, sia per la qualità degli altri partecipanti. Faccio alcuni nomi alla rinfusa, fra quelli che certamente conoscete: Habermas, Urbinati, Cacciari, Spinelli (figlia), Spinelli (padre, ristampato), Becchi, ecc. Come vedete, c'è un po' di tutto, e soprattutto c'è molto. Non sono ancora riuscito a leggere i contributi degli altri (sono in vacanza, ma la passerò lavorando, e farò anche questo), anche se, come dire, in alcuni casi non mi aspetto enormi sorprese. In ogni caso, qua sotto potrete mettere le vostre recenZioni.
Per i motivi che spiego appunto nel mio intervento, intitolato Europes paradoxe's, la mia non scelta (perché non avevo scelta) è stata di esprimermi in inglese. Mi rendo conto che questo potrebbe dispiacere ai diversamente europei che mi seguono. Chiederò, con calma, alla gentile editor della rivista, la professoressa De Monticelli, il permesso di tradurre in italiano tutto il mio contributo. Alcune cose le sapete già, e fanno parte del capitolo "Manuale di illogica europea" de L'Italia può farcela (per motivi misteriosi la nota nella quale specificavo che:
This paper draws heavily on chapter 2 of Bagnai (2014). I would like to thank, without implicating, Luciano Barra Caracciolo, Alfredo D’Attorre, Stefano Fassina, Vladimiro Giacché, Paolo Gibilisco, Paolo Ortelli, Marco Palombi, Mimmo Porcaro, for useful discussions and constructive remarks on the previous version. Christian Alexander Mongeau Ospina and Gianluigi Nico provided valuable research assistance. Erica Tuttle and an anonymous referee helped me in improving my English. Any remaining errors are mine, and I proudly acknowledge them, since they will reinforce my argument that it would be extremely difficult to build a truly democratic supranational political process in a set of countries where even academics run into difficulties when speaking the koiné language.
è scomparsa, ma va bene così). Come sapete, però, a me non piace ripetermi. In quattro anni di dibattito avrò tenuto un'ottantina di conferenze parlando sempre a braccio e non dicendo mai le stesse cose. Quindi anche in questo caso ho portato avanti il discorso, traendo spunto dal pubblico al quale mi rivolgevo, un pubblico strutturalmente piddino nel senso antropologico ben preciso che qui abbiamo dato al termine: seguaci di Etarcos, persone che sanno di sapere, e che quindi hanno fatto del rifiuto di aprirsi alle ragioni altrui un principio metodologico.
Una delle infinite sfaccettature di questa adamantina corazza è il derubricare a "mero tecnicismo", per lo più sospetto di bocconianesimo, qualsiasi richiamo alla natura economica della crisi economica che stiamo vivendo. Quindi se parli di economia sei "de destra", e soprattutto sei limitato, perché i problemi "sono ben altri" (con quella che Gadda etichettava come "pastrufaziana latitudine di visuali" e che oggi si definisce più in sintesi "benaltrismo"). Un atteggiamento che legittima il rifiuto di capire, per mera e squallida pigrizia mentale, i semplici meccanismi economici dalla cui logica (umana, come tutte le logiche, ma non per questo meno cogente) deriva la natura classista e distruttiva del progetto europeo.
Insomma: il volare "alti" consente ai nostri intellettuali, magari anche marxisti, di opporre un sereno "io pell'economia nun ce sò portato", senza che questa ammissione di fallimento cognitivo suoni come una diminutio del loro ruolo sacrale di portatori del Verbo. Già. Perché l'ethos piddino ammette che dal panorama di quello che loro chiamano "cultura", cioè dall'agglutinato e incoerente groviglio di imparaticci apodittici ed autoreferenziali defecati nelle loro auguste fauci da Scalfari e ricacati dal loro augusto ano nelle fauci dei propri allievi, da quel panorama sia esclusa la matematica, e più in generale tutto ciò che è numero (la musica, l'astronomia...). Altra cosa poco coerente con le radici della nostra civiltà (uno de passaggio: Pitagora), e che faceva molto imbestialire il Gaddus, come chi sa sa, e chi non sa non meritava, evidentemente, di sapere. Sono triviali, i nostri piddini, cioè circoscritti al Trivio, e in questo, devo dire, più che pre-novecenteschi sono pre-medievali (in piena coerenza col fatto che, senza rendersene conto, auspicano o comunque inconsapevolmente tendono a realizzare una società parafeudale, quella del capitalismo assoluto, come lo definisce Diego, il cui luogo di riproduzione culturale è appunto la "sinistra", sempre secondo Diego, cioè quella che noi abbiamo definito gens piddina, ma senza attribuirle una precisa collocazione nello spettro politico, perché di gente che sa di sapere ce n'è un po' ovunque...).
Come vedrete, la mia strategia per smontare questo atteggiamento cialtrone e odioso è quella di evidenziare come in effetti basti veramente un minimo di buon senso non dico per afferrare compiutamente i meccanismi economici della crisi (dai, diciamocelo: qui siete più di tremila, ma se avete capito in trenta è un miracolo, e questa stima dell'1% è da parte mia uno sterminato gesto di fiducia nel genere umano: lo confermano i racconti delle vostre frustrazioni, e molti dei vostri commenti sui quali non intervengo, perché sono molto stanco anch'io, e non mi sento di esortare gli altri a fare una cosa che a me pesa ogni giorno di più: studiare), dicevo: basta un minimo di buon senso non tanto per afferrare i dettagli, quanto per essere indotti in un ragionevole sospetto.
Quando due intellettuali di caratura, percorso, appartenenza così radicalmente differente come Oscar Giannino e Barbara Spinelli difendono lo stesso progetto politico, possibile non sentire una dissonanza? Quando persone appartenenti al mondo dell'alta finanza (possibilmente speculativa) si mostrano così solleciti nella difesa del potere d'acquisto dei poveracci (che va ovviamente preservato dall'inflazzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzione), non sembra anche a voi che ci sia qualcosa di strano? Certo, una possibilità (perché escluderla?) è la filantropia, ma l'altra è che siccome le categorie interpretative della realtà a voi provengono dai media, e siccome i media sono controllati da chi ha i mezzi per farlo, forse certi discorsetti su cosa sia meglio per voi riflettono l'interesse di chi paga i media, che forse (ma solo forse, eh!) non coincide esattamente col vostro. Il giuoco del calcio vi ha fatto credere di avere un interesse in comune col capitale: il trotzkista gobbo di Torino (un abbraccio, spero di rivederti presto) aveva col padrone Agnelli il comune interesse della vittoria della Juve. Ma credo che molti abbiano perso di vista che la sfera degli interessi comuni non si estendeva molto al di là del giuoco del calcio.
Resta per me misterioso come a sinistra non si capisca che aderire all'ideologia eurista significhi condannarsi ai suicidio. Attenzione! Questo fenomeno è rilevante (e preoccupante) quale che sia il vostro colore e la vostra appartenenza. In un mondo nel quale l'unico valore è la stabilità dei prezzi non c'è ovviamente posto per il sindacato. Questo perché se erigi a unico valore la stabilità dei prezzi, muovi da una visione del mondo nella quale è implicito che essa sia garantita da una Banca centrale indipendente, che quindi rimane l'unica istituzione arbitra della distribuzione del reddito. I sindacati e i partiti non hanno, in effetti, più alcuna ragion d'essere. Ora, se questo è traumatico e suicida per la "sinistra", non lo è molto meno per la "destra", e il caso Berlusconi dovrebbe averlo dimostrato. Mi sembra abbastanza evidente che come qualsiasi istituzione che pretenda di sostituirsi (o sia considerata sostituibile) al sindacato nella tutela del lavoro ovviamente cannibalizza, evira, trita, asfalta (scegliete voi) il sindacato, così qualsiasi istituzione pretenda di comprimere il ruolo della politica è ovviamente per definizione e in re ipsa nemica della politica. Il mondo delle "regole (fisse) europee" è quindi un mondo che qualsiasi intellettuale minimamente preoccupato per la tenuta della democrazia dovrebbe guardare con sospetto, salvo essere un traditore (probabilità 15%) o un completo coglione (probabilità 85%).
Così è stato finora.
Nell'articolo, fedele al mio principio merkeliano di "fare i compiti a casa", ho deciso comunque di affrontare il tema da una prospettiva progressista. Vi fornisco qui un breve estratto, che spero possa fornirvi materiale per le vostre tombole natalizie, esortandovi sempre a non entrare in polemica coi piddini. Limitatevi a dirgli, con il massimo di fermo disprezzo compatibile con la tenuta complessiva della serata, che quello che hanno da dire non vi interessa perché fra un anno, quando avranno perso il lavoro o il conto in banca, il loro discorso cambierà, e passate elegantemente ad altro. In altre parole: marcate in modo incisivo, ma non petulante, il vostro punto, in modo da evitare che gli imbecilli, dei quali il numero è infinito, vengano poi da voi a spiegarvi fra un anno cosa c'era che non andava, ma per nessun motivo rovinatevi la festa. La violenza fisica non rientra nello spettro delle scelte ammissibili: principio che qui condividiamo tutti anche perché chi non lo condivide viene subito accompagnato ai giardinetti.
E adesso, divertitevi...)
(...da Europe's paradoxes, la traduzione del paragrafo 2.3: Exchange rate flexibility and the stranding of the Left, a cura del vostro affezzzzionatissimo...)
Per i motivi che spiego appunto nel mio intervento, intitolato Europes paradoxe's, la mia non scelta (perché non avevo scelta) è stata di esprimermi in inglese. Mi rendo conto che questo potrebbe dispiacere ai diversamente europei che mi seguono. Chiederò, con calma, alla gentile editor della rivista, la professoressa De Monticelli, il permesso di tradurre in italiano tutto il mio contributo. Alcune cose le sapete già, e fanno parte del capitolo "Manuale di illogica europea" de L'Italia può farcela (per motivi misteriosi la nota nella quale specificavo che:
This paper draws heavily on chapter 2 of Bagnai (2014). I would like to thank, without implicating, Luciano Barra Caracciolo, Alfredo D’Attorre, Stefano Fassina, Vladimiro Giacché, Paolo Gibilisco, Paolo Ortelli, Marco Palombi, Mimmo Porcaro, for useful discussions and constructive remarks on the previous version. Christian Alexander Mongeau Ospina and Gianluigi Nico provided valuable research assistance. Erica Tuttle and an anonymous referee helped me in improving my English. Any remaining errors are mine, and I proudly acknowledge them, since they will reinforce my argument that it would be extremely difficult to build a truly democratic supranational political process in a set of countries where even academics run into difficulties when speaking the koiné language.
è scomparsa, ma va bene così). Come sapete, però, a me non piace ripetermi. In quattro anni di dibattito avrò tenuto un'ottantina di conferenze parlando sempre a braccio e non dicendo mai le stesse cose. Quindi anche in questo caso ho portato avanti il discorso, traendo spunto dal pubblico al quale mi rivolgevo, un pubblico strutturalmente piddino nel senso antropologico ben preciso che qui abbiamo dato al termine: seguaci di Etarcos, persone che sanno di sapere, e che quindi hanno fatto del rifiuto di aprirsi alle ragioni altrui un principio metodologico.
Una delle infinite sfaccettature di questa adamantina corazza è il derubricare a "mero tecnicismo", per lo più sospetto di bocconianesimo, qualsiasi richiamo alla natura economica della crisi economica che stiamo vivendo. Quindi se parli di economia sei "de destra", e soprattutto sei limitato, perché i problemi "sono ben altri" (con quella che Gadda etichettava come "pastrufaziana latitudine di visuali" e che oggi si definisce più in sintesi "benaltrismo"). Un atteggiamento che legittima il rifiuto di capire, per mera e squallida pigrizia mentale, i semplici meccanismi economici dalla cui logica (umana, come tutte le logiche, ma non per questo meno cogente) deriva la natura classista e distruttiva del progetto europeo.
Insomma: il volare "alti" consente ai nostri intellettuali, magari anche marxisti, di opporre un sereno "io pell'economia nun ce sò portato", senza che questa ammissione di fallimento cognitivo suoni come una diminutio del loro ruolo sacrale di portatori del Verbo. Già. Perché l'ethos piddino ammette che dal panorama di quello che loro chiamano "cultura", cioè dall'agglutinato e incoerente groviglio di imparaticci apodittici ed autoreferenziali defecati nelle loro auguste fauci da Scalfari e ricacati dal loro augusto ano nelle fauci dei propri allievi, da quel panorama sia esclusa la matematica, e più in generale tutto ciò che è numero (la musica, l'astronomia...). Altra cosa poco coerente con le radici della nostra civiltà (uno de passaggio: Pitagora), e che faceva molto imbestialire il Gaddus, come chi sa sa, e chi non sa non meritava, evidentemente, di sapere. Sono triviali, i nostri piddini, cioè circoscritti al Trivio, e in questo, devo dire, più che pre-novecenteschi sono pre-medievali (in piena coerenza col fatto che, senza rendersene conto, auspicano o comunque inconsapevolmente tendono a realizzare una società parafeudale, quella del capitalismo assoluto, come lo definisce Diego, il cui luogo di riproduzione culturale è appunto la "sinistra", sempre secondo Diego, cioè quella che noi abbiamo definito gens piddina, ma senza attribuirle una precisa collocazione nello spettro politico, perché di gente che sa di sapere ce n'è un po' ovunque...).
Come vedrete, la mia strategia per smontare questo atteggiamento cialtrone e odioso è quella di evidenziare come in effetti basti veramente un minimo di buon senso non dico per afferrare compiutamente i meccanismi economici della crisi (dai, diciamocelo: qui siete più di tremila, ma se avete capito in trenta è un miracolo, e questa stima dell'1% è da parte mia uno sterminato gesto di fiducia nel genere umano: lo confermano i racconti delle vostre frustrazioni, e molti dei vostri commenti sui quali non intervengo, perché sono molto stanco anch'io, e non mi sento di esortare gli altri a fare una cosa che a me pesa ogni giorno di più: studiare), dicevo: basta un minimo di buon senso non tanto per afferrare i dettagli, quanto per essere indotti in un ragionevole sospetto.
Quando due intellettuali di caratura, percorso, appartenenza così radicalmente differente come Oscar Giannino e Barbara Spinelli difendono lo stesso progetto politico, possibile non sentire una dissonanza? Quando persone appartenenti al mondo dell'alta finanza (possibilmente speculativa) si mostrano così solleciti nella difesa del potere d'acquisto dei poveracci (che va ovviamente preservato dall'inflazzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzione), non sembra anche a voi che ci sia qualcosa di strano? Certo, una possibilità (perché escluderla?) è la filantropia, ma l'altra è che siccome le categorie interpretative della realtà a voi provengono dai media, e siccome i media sono controllati da chi ha i mezzi per farlo, forse certi discorsetti su cosa sia meglio per voi riflettono l'interesse di chi paga i media, che forse (ma solo forse, eh!) non coincide esattamente col vostro. Il giuoco del calcio vi ha fatto credere di avere un interesse in comune col capitale: il trotzkista gobbo di Torino (un abbraccio, spero di rivederti presto) aveva col padrone Agnelli il comune interesse della vittoria della Juve. Ma credo che molti abbiano perso di vista che la sfera degli interessi comuni non si estendeva molto al di là del giuoco del calcio.
Resta per me misterioso come a sinistra non si capisca che aderire all'ideologia eurista significhi condannarsi ai suicidio. Attenzione! Questo fenomeno è rilevante (e preoccupante) quale che sia il vostro colore e la vostra appartenenza. In un mondo nel quale l'unico valore è la stabilità dei prezzi non c'è ovviamente posto per il sindacato. Questo perché se erigi a unico valore la stabilità dei prezzi, muovi da una visione del mondo nella quale è implicito che essa sia garantita da una Banca centrale indipendente, che quindi rimane l'unica istituzione arbitra della distribuzione del reddito. I sindacati e i partiti non hanno, in effetti, più alcuna ragion d'essere. Ora, se questo è traumatico e suicida per la "sinistra", non lo è molto meno per la "destra", e il caso Berlusconi dovrebbe averlo dimostrato. Mi sembra abbastanza evidente che come qualsiasi istituzione che pretenda di sostituirsi (o sia considerata sostituibile) al sindacato nella tutela del lavoro ovviamente cannibalizza, evira, trita, asfalta (scegliete voi) il sindacato, così qualsiasi istituzione pretenda di comprimere il ruolo della politica è ovviamente per definizione e in re ipsa nemica della politica. Il mondo delle "regole (fisse) europee" è quindi un mondo che qualsiasi intellettuale minimamente preoccupato per la tenuta della democrazia dovrebbe guardare con sospetto, salvo essere un traditore (probabilità 15%) o un completo coglione (probabilità 85%).
Così è stato finora.
Nell'articolo, fedele al mio principio merkeliano di "fare i compiti a casa", ho deciso comunque di affrontare il tema da una prospettiva progressista. Vi fornisco qui un breve estratto, che spero possa fornirvi materiale per le vostre tombole natalizie, esortandovi sempre a non entrare in polemica coi piddini. Limitatevi a dirgli, con il massimo di fermo disprezzo compatibile con la tenuta complessiva della serata, che quello che hanno da dire non vi interessa perché fra un anno, quando avranno perso il lavoro o il conto in banca, il loro discorso cambierà, e passate elegantemente ad altro. In altre parole: marcate in modo incisivo, ma non petulante, il vostro punto, in modo da evitare che gli imbecilli, dei quali il numero è infinito, vengano poi da voi a spiegarvi fra un anno cosa c'era che non andava, ma per nessun motivo rovinatevi la festa. La violenza fisica non rientra nello spettro delle scelte ammissibili: principio che qui condividiamo tutti anche perché chi non lo condivide viene subito accompagnato ai giardinetti.
E adesso, divertitevi...)
(...da Europe's paradoxes, la traduzione del paragrafo 2.3: Exchange rate flexibility and the stranding of the Left, a cura del vostro affezzzzionatissimo...)
La flessibilità del cambio e lo spiaggiamento della sinistra
Il successo del
lavaggio del cervello neoliberista è incontestabile. Il suo maggior risultato è
stato quello di instillare nella maggioranza degli intellettuali progressisti
la “cultura della stabilità” monetaria in almeno due forme particolarmente
insidiose. Innanzitutto, attraverso l’idea che i benefici delle
“svalutazionicompetitive” siano illusori. Poi, attraverso l’idea che
l’inflazione abbia conseguenze avverse sui redditi delle classi subalterne.
L’adesione
incondizionata dei pensatori di sinistra alla Grundnorm della comunità finanziaria equivale in termini
intellettuali allo spiaggiamento dei cetacei: un fenomeno tanto letale quanto
difficile da comprendere. Lasciando da parte il fatto che l’infondatezza della
“cultura della stabilità” è ormai posta in evidenza non solo dalla letteratura
scientifica ma anche dall’esperienza concreta[1], un semplice ragionamento tattico mostra
che nel mondo della “stabilità” non c’è alcuno spazio per una “sinistra” di
qualunque tipo. In effetti, se la stabilità dei prezzi e del cambio sono la
migliore difesa del potere d’acquisto dei lavoratori, sindacati e partiti di
sinistra diventano inutili: basterà una banca centrale “indipendente”!
Questo
atteggiamento suicida è spiegato da diversi riflessi pavloviani: vale la pena
di smontare i più frequenti.
In primo luogo,
l’Economista Keynesiano Omodosso[2]
(EKO) obietta che siccome la flessibilità dei prezzi è l’unico meccanismo di
correzione degli squilibri nel modello di equilibrio generale neoclassico (e in
effetti è così), allora se sei keynesiano devi
negare che i prezzi possano svolgere un ruolo.[3] Mi è difficile scorgere un qualche merito
nell’opporre a un pensiero unilaterale come quello neoclassico una risposta
ugualmente unilaterale. Ammettere che i prezzi svolgano un ruolo nel
determinare le scelte economiche non
è soggiacere a una ingenua fiducia nell’onnipotenza della flessibilità dei
prezzi. È possibile riconoscere che i mercati molto spesso falliscono, [4] pur ammettendo al contempo che
mercati distorti (cioè mercati nei
quali i prezzi sono sistematicamente distorti) falliscono ancor più. Ciò è
particolarmente evidente nell’Eurozona, dove gli squilibri sono esplosi dopo
l’adozione della moneta unica. L’euro non ha promosso il commercio (posto che
ciò sia un obiettivo sensato per un pensatore progressista): ha semplicemente
riorientato il commercio a favore dei paesi più forti (Berger e Nitsch, 2008),
e questo decisamente non è un
obiettivo sensato per un pensatore progressista, soprattutto quando si
consideri che le classi subalterne dei paesi forti non hanno beneficiato di
questo risultato; come prova, si consideri l’incremento della disuguaglianza in
Germania (Kai e Stein, 2013).
In secondo luogo,
l’EKO vi opporrà che Keynes era un sostenitore dei cambi fissi, come dimostra
il ruolo da lui svolto alla conferenza di Bretton Woods, e quindi un keynesiano
deve essere in favore dei cambi
fissi. Ma questa è una grossolana falsificazione storica. Keynes non è stato il
creatore del regime di Bretton Woods: al contrario, è stato lo sconfitto della
conferenza di Bretton Woods. Keynes non aveva proposto un sistema di cambi
fissi basato sul dollaro e privo di meccanismi correttivi. Aveva invece
proposto un sistema basato su una valuta internazionale emessa da una banca
mondiale, in cui sia i paesi in deficit che quelli in surplus avrebbero pagato
interessi sulle proprie posizioni nette verso l’estero (Fantacci e Amato, 2012).
Il motivo per costringere i creditori a pagare
(anziché incassare) interessi sui propri crediti netti verso l’estero era
l’idea che ciò avrebbe costretto i creditori a spendere
la liquidità internazionale che avevano guadagnato, invece di accumularla, aiutando per questa strada
i paesi in deficit a superare i loro problemi. L’EKO perde di vista che nel
mondo di Keynes la Germania oggi pagherebbe diversi miliardi di euro a una
ipotetica banca del mondo, come interessi sul suo gigantesco surplus esterno. Ma questo era il sogno
di Keynes, un sogno destinato a non diventare realtà per il semplice motivo che
sarebbe politicamente impossibile costringere un grande vincitore sui mercati
globali a rispettare le regole di una simile banca del mondo.[5] Nella sua teoria (ad esempio, nel Tract on monetary reform; Keynes, 1923)
e nel dibattito politico (ad esempio, in The
economic consequences of Mr. Churchill; Keynes, 1925), Keynes è decisamente
favorevole alla flessibilità del cambio. Quindi, se proprio dobbiamo
considerare il keynesismo come una religione (cosa che personalmente
sconsiglierei), l’EKO farebbe meglio a riconoscere che il suo profeta era contro un sistema di cambi fissi non
regolato (cioè privo di meccanismi istituzionali di correzione degli squilibri
diversi dal meccanismo di mercato consistente nella deflazione salariale, o svalutazione interna che dir si voglia).
In terzo luogo,
la maggior parte degli EKO appone alla svalutazione lo stesso giudizio
morale negativo che emetterebbe qualsiasi economista neoliberale. Entrambe
queste categorie di economisti considerano la svalutazione come l’equivalente
economico della masturbazione: qualcosa che fornisce un sollievo temporaneo
senza risolvere il problema (sia esso la crescita economica o demografica), e
quindi causa difficoltà strutturali (inflazione o cecità, a seconda dei casi).
Così facendo, sia gli EKO che i neoliberisti fanno prova di una attitudine
sospettamente unilaterale. Più precisamente, questa strana armata Brancaleone
si rifiuta sistematicamente di riconoscere che la svalutazione di qualcuno è
per definizione la rivalutazione di qualcun altro. Eppure, questo fatto suscita
una serie di questioni particolarmente interessanti. Ad esempio, se la
svalutazione è così vergognosa e ti rende povero, la rivalutazione dovrebbe
essere gloriosa e renderti ricco. Ma allora, perché i paesi sono così
riluttanti a rivalutare le proprie valute? Se i benefici della svalutazione
sono transitori, perché la Germania ha desiderato così ardentemente di adottare
una valuta così chiaramente sottovalutata rispetto al marco tedesco? Questa visione
stereotipata, unilaterale, è confutata dal ragionamento economico, secondo il
quale la flessibilità del cambio può avere effetti duraturi sulla crescita
economica di lungo periodo. Sappiamo fin dai tempi di Adam Smith (1776) che la
divisione del lavoro, e quindi la produttività, dipendono dalle dimensioni del
mercato. Più tardi Verdoorn (1949) ci ha confermato che in un mondo di
rendimenti crescenti la produttività è influenzata positivamente dalla
domanda. In effetti, a che ti serve essere più produttivo, se ti aspetti che i
beni da te prodotti non verranno acquistati? Dixon e Thirlwall (1975), basandosi sulla
legge di Verdoorn (1949) e sul concetto di causazione circolare e cumulativa di
Gunnar Myrdal (1957), hanno proposto un modello nel quale gli shock di domanda
hanno effetti duraturi sulla produttività e quindi sulla crescita di lungo
periodo di un paese. Per i profani: una svalutazione, dato che aumenta le
dimensioni del mercato (perché promuove le esportazioni e scoraggia
l’acquisto di beni esteri, cioè le importazioni), può avere effetti permanenti
sulla produttività di un paese, innescando un circolo virtuoso di maggiore
competitività – quindi maggior accesso ai mercati esteri, quindi maggiore
produttività. Questo modello ha avuto un riscontro empirico schiacciante negli
ultimi quattro decenni (Thirlwall, 2011). Naturalmente, questo circolo può
essere percorso anche nella direzione opposta, quella “viziosa”: una
rivalutazione, comprimendo le esportazioni di un paese, può avere effetti
avversi duraturi sulla sua produttività e competitività. In Bagnai (2015) mostro
che l’euro ha posto l’Italia in un circolo vizioso di questo tipo. Insisto sul
fatto che questo ragionamento appartiene alla più schietta tradizione
keynesiana (Myrdal e Thirlwall sono fra gli economisti keynesiani di maggior
spicco nel dopoguerra).
In quarto luogo,
c’è stato un tempo in cui gli economisti keynesiani erano capaci di andare
oltre l’interpretazione unilaterale degli aggiustamenti di cambio come
svalutazioni “competitive”, ovvero come pratiche scorrette intese ad attaccare
i concorrenti. In effetti, i riallineamenti del cambio possono avere un valore
difensivo, in quanto risposta fisiologica alle aggressioni perpetrate da
partner commerciali scorretti tramite politiche non cooperative, come il dumping sociale (politiche dei redditi
restrittive praticate per comprimere il costo del lavoro). James Meade (1957),
premesso che “il pieno impiego è più importante per l’Europa della liberalizzazione
del commercio”, aveva ammonito molto tempo fa che
Se i governi nazionali europei useranno la politica monetaria e di bilancio
per obiettivi di stabilizzazione interna – se, ad esempio, nonostante la loro
attuale situazione di surplus della bilancia dei pagamenti le autorità tedesche
vorranno continuare a usare la loro politica monetaria per prevenire l’inflazione
– […] bisognerà far più ampio ricorso all’arma della variazione del tasso di
cambio.
L’esempio scelto
da Meade è piuttosto eloquente. In un mondo di tassi di cambio aggiustabili le
politiche dei redditi aggressive praticate dalla Germania tramite le riforme
Hartz (ILO, 2012) sarebbero state controproducenti perché avrebbero determinato
un apprezzamento della valuta tedesca in risposta all’enorme surplus
determinato dalla compressione dei costi di lavoro in Germania. Viceversa, la
risposta a questo squilibrio è arrivata attraverso la disoccupazione
competitiva, in una Unione Europea nella quale un commercio libero, ma
unidirezionale, è più importante del pieno impiego.
In quinto luogo,
la strategia dialettica abituale dell’EKO consiste nell’invocare prospettive
più ampie, mettendo in evidenza, ad esempio, che ci sono casi di governi
“neoliberali” i quali praticano politiche di austerità pur in presenza di cambi
flessibili. Ma nel loro caso l’austerità è una esplicita scelta politica.
Viceversa, con cambi fissi, o in una unione monetaria, l’austerità diventa una
necessità logica, perché nel breve termine l’unico meccanismo di aggiustamento
a disposizione dei paesi deboli (nel senso di essere sia tecnicamente fattibile
che politicamente proponibile) è la svalutazione interna. Il messaggio di Meade
è sempre attuale. Un sistema economico ha bisogno di un certo grado di
flessibilità che lo isoli in qualche misura dagli shock esterni. La
flessibilità del cambio isola i mercati del lavoro interni dalle politiche dei
redditi dei paesi esteri (fra l’altro). Di conseguenza, non ha senso biasimare
l’austerità mentre si loda la moneta unica. Come scrive Keynes (1925),
condannando il feticismo di Churchill per il gold standard, “chi vuole il fine vuole i mezzi”: se il tuo fine è
mantenere la moneta unica (l’equivalente moderno del fissare il cambio aureo a
una parità sopravvalutata), il mezzo sarà la svalutazione interna, con taglio
dei salari. Se non sei disposto a considerare la svalutazione della moneta,
sarai costretto a svalutare il lavoro, cioè la vita umana. Questo è quanto sta
accadendo oggi in Europa in termini raramente sperimentati nell’epoca
contemporanea.
In sesto luogo,
l’EKO vi dirà che i cambi fissi sono benefici in quanto evitano guerre
valutarie. Ma anche questo argomento è insensato per diverse ragioni. Intanto,
le tensioni economiche devono trovare uno sfogo, e la storia ci insegna che se
questo non accade con le forze dell’economia, accadrà con le forze armate. Nel
bel tempo andato del gold standard, all’apogeo del principio della “stabilità
monetaria”, la politica commerciale veniva fatta con le cannoniere. Non vi è
alcun motivo per presumere che un regime di cambio che favorisce
l’accumulazione di squilibri possa condurre a un mondo più pacifico. Al
contrario: i riallineamenti difensivi del cambio sono un’arma efficace contro
politiche aggressive, o almeno non coordinate, e in quanto tali hanno un potere
deterrente che favorisce un atteggiamento cooperativo fra paesi. Sarebbe
difficile contestare che l’Europa fosse più cooperativa prima dell’adozione
dell’euro. Inoltre, ciò che definisce una guerra valutaria è la svalutazione da
parte di un paese che si trova già in surplus (e quindi che opera con lo scopo,
o quanto meno con le conseguenze, di espandere questo squilibrio).[6] Ma questo è esattamente quanto sta
accadendo oggi nell’Eurozona per colpa
dell’euro! Lo scopo del rapido indebolimento dell’euro rispetto al dollaro
è esattamente quello di dare un po’ di respiro ai paesi dell’Europa del Sud,
schiacciati dalla necessità di deflazionare i propri salari rispetto a paesi
del Nord dell’Eurozona. In effetti, portando l’euro verso la parità col
dollaro, in una situazione nella quale l’Eurozona presenta il surplus estero
più grande al mondo, l’Europa sta muovendo una guerra valutaria agli Stati
Uniti. In altri termini, assistiamo a un altro paradosso rivelatore: stiamo
combattendo una guerra valutaria per salvare l’euro che avrebbe dovuto
preservarci dalle guerre valutarie.
Questa lista
parziale di falsi storici, contraddizioni logiche, e ragionamenti economici
superficiali, dovrebbe dare al lettore un’idea di quanto sia stata vittoriosa
l’ideologia neoliberista nel condurre la sinistra europea in un vicolo cieco.
La mia sintesi non è che il cambio
flessibile sia una panacea. Quello che a me preme sottolineare è che la
distribuzione del reddito, sia fra le nazioni che all’interno di esse, è sempre
il risultato del conflitto fra le forze sociali di produzione, e che non esiste
alcuna evidenza che in un mondo dominato da regole economiche fisse (siano esse
monetarie, fiscali, o di qualsiasi altra natura) questo conflitto sarà più
equilibrato – soprattutto perché le regole sono per definizione stabilite dalla
classe sociale dominante. Come prova indiretta, ma a mio parere decisiva, di
questo fatto, vi esorto a constatare che le regole fisse di politica economica
sono state il mantra della rivoluzione neoliberale negli Stati Uniti, prima di
diventare, in modo più o meno consapevole, il mantra di una componente
significativa della sinistra europea.[7] Da “Ventotene
boys” a “Chicago boys”: sic transit gloria mundi.
Bibliografia
Bagnai, A. (2011)
“Crisi finanziaria e
governo dell’economia”, Costituzionalismo.it,
Fascicolo 3.
Bagnai, A. (2015) “Italy’s
decline and the balance-of-payments constraint: a multicountry analysis”, International Review of Applied Economics,
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out: The trade effect of the euro in historical perspective,” Journal of International Money and Finance,
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Dixon, R., and A. P. Thirlwall (1975) “A Model of
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Fantacci, L., and
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(2013 “Explaining
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tract on monetary reform, London: MacMillan.
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Oxford: Oxford University Press, 1993.
Werner, R.A. (2014) “Can
banks individually create money out of nothing? The theories and the
empirical evidence”, International Review
of Financial Analysis, 36, 1-19.
[1] La “cultura della stabilità” si appoggia
su due proposizioni teoriche: (1) la moneta è esogena (cioè perfettamente
controllabile dalle autorità monetarie), e (2) la moneta causa l’inflazione
(ricordate la precedente discussione sul ruolo della curva di Phillips).
Entrambe le proposizioni sono confutate dalla ricerca e dall’evidenza empirica
recenti. La visione prevalente oggi è che la moneta sia creata dal sistema
bancario ogniqualvolta viene accordato un credito ad un agente economico. Di
conseguenza, la sua quantità dipende da un gran numero di fattori endogeni e
non è perfettamente controllabile dalla banca centrale. Tanto le banche centrali
(McLeay et al. 2014) quanto gli
accademici (Werner, 2014) concordano su questo punto. Come evidenza indiretta,
andrebbe notato che la BCE non è mai stata capace di mantenere la creazione di
moneta vicino al tasso di crescita stabilito del 4% l’anno. Quanto alla
relazione fra creazione di moneta e inflazione, basterà considerare che i 1000
miliardi di LTRO deliberati dalla BCE nel 2011 hanno avuto come risultato una
evidente deflazione. Dopo un simile fallimento, perfino Mario Draghi (2015) ha
ammesso che le banche centrali non possono controllare l’inflazione senza
l’aiuto dei governi (cioè delle politiche di bilancio).
[2] Con il termine “omodosso” ho qualificato
in Bagnai (2011) chi aderisce al pensiero unico neoliberista. Molti keynesiani,
per quanto, come vedremo, a loro insaputa, ricadono purtroppo in questa
categoria. In questa sezione faccio riferimento esplicito agli economisti
keynesiani (sia neo- che post-keynesiani), ma i riflessi pavloviani che
analizzo descrivono accuratamente l’atteggiamento di una gamma piuttosto ampia
di economisti pseudoprogressisti, che comprende anche alcuni economisti
marxisti o neoricardiani. Molti lettori riconosceranno i loro argomenti, perché
sono ampiamente adottati nel dibattito pubblico, ma va detto che gli stessi
economisti che li adottano in pubblico sono piuttosto cauti nell’adottarli nei
loro lavori scientifici (sostanzialmente perché questi argomenti non sono
basati su solide fondamenta scientifiche, e quindi ricorrere ad essi li
squalificherebbe). Ne consegue che, per quanto familiari questi argomenti
possano sembrare al lettore, è praticamente impossibile trovare per essi dei
riferimenti adeguati nella letteratura scientifica. Duole constatare che
intellettuali si presentino nel dibattito con chiacchiere da bar, ma questi
sono i nostri tempi.
[3] Ricordate che il tasso di cambio è un
prezzo: il prezzo di una valuta in termini di un’altra.
[4] Per inciso, nella parte precedente del
lavoro ho cercato di spiegare come la crisi dell’Eurozona dipenda da un colossale
fallimento del mercato, e non dalla prodigalità dei governi, e vi ho ricordato
che anche la BCE è dalla mia parte.
[5] Prova: gli Stati Uniti, che dopo la Seconda Guerra mondiale si aspettavano
di essere il più grande paese esportatore, perché la capacità produttiva del
resto del mondo era stata sgretolata dalla Guerra, rifiutarono la proposta di
Keynes. QED.
[6] Può essere utile ricordare che a ogni squilibrio positivo della bilancia
dei pagamenti deve corrispondere uno squilibrio negativo altrove (se c’è un
esportatore netto, ci deve essere almeno un importatore netto). Di conseguenza,
un paese che scatena una guerra valutaria sta, per definizione, costringendo
almeno un altro paese a indebitarsi con l’estero.
[7] Tanto per fare un esempio semplice ma estremamente eloquente, l’obiettivo
fisso di crescita al 4% di M3 adottato dalla BCE è un’applicazione della regola
del k% di Milton Friedman (1960). Anche astraendo dal fatto che questa
regola è basata sulla teoria oggi screditata della moneta esogena, c’è da
chiedersi come economisti progressisti possano sentirsi a proprio agio in un
mondo così profondamente strutturato secondo l’ideologia dei Chicago boys, il
cui contributo più famoso alla politica economica è stato il progetto delle
riforme economiche nel Cile di Pinochet.
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