lunedì 11 novembre 2024

Il più lurido dei pronomi

E di nuovo si lasciava prendere da un'idea, e levò la voce, rabbiosamente: "Ah! il mondo delle idee! che bel mondo!... ah! l'io, io, tra i mandorli in fiore... poi tra le pere, e le Battistine, e il Giuseppe!... l'io, l'io!... Il più lurido di tutti i pronomi!..."


Tante volte, nel corso di questa nostra lunga avventura, mi è capitato di citarvi queste parole del Gaddus nella Cognizione del dolore (la prima forse qui). Anche da ultimo, un paio d'anni fa, mi sono intrattenuto con voi sui danni di una particolare forma di narcisismo:


e il presupposto del narcisismo è appunto l'io, il più lurido di tutti i pronomi.

Tuttavia, when the facts change, I change my mind, e dopo questo tweet:


non me ne voglia il capitano in congedo, ho rivisto la mia personale classifica: in questo tornante storico, il più lurido dei pronomi non è l'io, ma il noi, per il duplice uso infame e lurido che se ne fa.

C'è il "noi" spersonalizzante, quello in cui i perdenti cercano di diluire la responsabilità delle loro scelte criminali o semplicemente errate, e su questo ci siamo intrattenuti nel post precedente.

Ma c'è anche un "noi" opportunista, quello con cui chi, per narcisismo, non ha mangiato il cucchiaino di merda quotidiano, vuole appropriarsi dei risultati di chi invece si è sottoposto a questa ingrata pratica.

A entrambe le categorie do una triste notizia: circondato dall'affetto dei suoi cari, dopo una lunga carriera al servizio della disinformazione, la prima persona plurale ci ha lasciato.

Noi è morto.

Non c'è nessun noi.

Non c'è mai stato.

Non ci sarà mai.

C'è un io.

Può darsi che ce ne sia più di uno, ma io uno ne conosco. Quello che da una dozzina d'anni qui parla di "fondo salvastati" (qualche volta con esiti paradossali...). E non lo fa perché sia particolarmente bravo, ma per un altro motivo, che dovreste conoscere, visto che io ve ne ho parlato tante volte, e cioè perché:

c'è una lei.

Lidia Undiemi, che in un video che non riesco a trovare, dopo che i fascisti lo hanno tirato giù da YouTube, aveva descritto il problema e che, allarmata, non aveva sentito il bisogno di telefonare a "noi", che forse non è morto perché non era mai nato, ma a io (cioè a me), perché io, cioè Goofynomics, esisteva, ed era la trincea in cui chi voleva resistere sapeva di potersi asserragliare. Del resto, alle vedove inconsolabili del noi ricordo anche che non c'è un noi:

c'è un lui.

Claudio Borghi, che dodici anni fa, dopo che un video altrettanto efficace e coinvolgente lo aveva portato all'attenzione di molti di noi, scrisse non a "noi", ma a io (cioè a me) e lo fece con quello spirito che ancora oggi tutti possiamo apprezzare, uno spirito di coinvolgimento, di abolizione di qualsiasi narcisismo in vista del perseguimento di un obiettivo comune, avendo in mente solo una cosa: l'efficacia dello sforzo intrapreso. E infatti mi scriveva per dirmi che aveva provato a darmi diritto di tribuna, quel diritto di tribuna che naturalmente gli operatori informativi non mi diedero, ma che poi mi presi.

Io.

(...lo stesso Claudio che poco fa mi ha scritto per ricordarmi il consueto emendamento sulle multe ai vaccinati: e sì, lo avevo depositato... ma, ve lo confesso: solo perché me lo aveva già ricordato lui!...)

Quindi, se posso sintetizzare: "noi" un cazzo!

La responsabilità politica è come quella penale: è individuale.

E non nascondiamoci dietro "beh, ma noi volevamo dire che il Paese è andato...".

Il Paese non esiste. Il Paese è dilaniato da una guerra civile che si chiama euro, come abbiamo spiegato più e più volte (e anche qui: non perché siamo fregni noi - cioè io - ma perché abbiamo - cioè ho - letto Keynes), e la parte del Paese che sta faticosamente conquistandosi il sopravvento non l'ha fatto per le virtù di un astratto "noi", ma per il mazzo che ci siamo fatti io, lei, lui, e pochi altri, principalmente avvalendoci di questa infrastruttura.

E tanto per essere chiarissimi: se Matteo Salvini non fosse stato la persona acuta e lungimirante che è (e me ne catafotto di quello che gli operatori informativi vi hanno indotto a pensare di lui), io (non "noi": io!), che me lo meritavo per essermi fatto il culo per dodici anni, sacrificando ogne cosa diletta più caramente, mai e poi mai avrei avuto la meritatissima soddisfazione di schiacciare il tasto rosso sul muso del MES dopo questa dichiarazione di voto:


Matteo Salvini, cioè lui, non "noi".

Perché c'è anche questo strano paradosso, che non so se avete notato: gli adepti (da oggi i vedovi) del "noi" sono anche, spesso e volentieri, i più refrattari e insofferenti alla disciplina di partito.

Tanto, alla fine, se va bene siamo stati "noi", e se va male è perché "la Lega (in subordine: Bagnai) ha tradito!"

Eh, amici cari, sarebbe bello (cioè turpe, infame, inverecondo) se funzionasse così.

Ma non funziona così: fidatevi!

Ve lo dico io.

(...con immutata stima...)

domenica 10 novembre 2024

D'Antoni, Del Rio, Draghi: la politica e l'etica della responsabilità

(...ieri, dopo aver assistito al conferimento del Premio Sulmona, preceduto dal siparietto televisivo che forse avrete intravistosono scappato come un gran cafone, senza nemmeno salutare la collega che mi aveva cortesemente invitato e cui poi mi prosternerò, perché avevo un gran bisogno d'aria e di solitudine. Mi son fermato a mangiare cazzarielli e fagioli al "Quarto del Pozzo" - conservo una preferenza per la versione di "Per i vicoli" a Barrea, ma è oggettivamente un'ardua contesa - poi ho proseguito per località protetta, dove, deposti i miei panni reali e curiali, cravatta trumpiana inclusa, e indossando una veste non cotidiana, e non piena di fango e di loto, o almeno non ancora, ma tecnica, me ne sono uscito verso i Selvoni. "Ma dove vai? Fra un po' è buio, il sentiero passa per il bosco...", diceva l'amico. D'altra parte, Selvoni qualcosa vorrà ben dire. Ma io sapevo che non sarei andato da solo, perché a Minco d'Adamo avrei trovato Rex. Da solo, all'imbrunire, ci sarei andato comunque poco volentieri, e non tanto per paura di perdermi, quanto per paura di essere trovato. Il direttore del Parco mi aveva spiegato che da quelle parti abita qualcuno che meno di me desidera essere seccato da importune presenze, e più a ragione di me ritiene di essere al vertice della catena alimentare. E non parlo del lupo, che, come vi ho fatto vedere in un post precedente, è uno di noi. Non parlo nemmeno della lince, di cui il dottor Nino, gestore di un'importante infrastruttura sociale - il bar del paese - mi aveva detto che era uscita dal bosco pochi giorni prima per mangiarsi un cane. La lince, e il gatto selvatico, chissà quante decine di volte mi avranno visto! Queste creature del buon Dio hanno però bene appreso un'arte utile, quella di non segnalare la propria presenza. Così, io non le ho mai viste. Si diceva però che fosse stato visto un orsacchiotto, e questo poteva effettivamente cambiare il quadro della situazione. Certo, per evitare problemi basta esercitare un'arte altrettanto utile: quella di segnalare la propria presenza! Alla fine, anche per l'orso sei più una rottura di coglioni che una fonte di proteine, quindi basta evitare di sorprenderlo. In alternativa, andare con un cane qualche garanzia la offre: finché lui è tranquillo, puoi stare tranquillo anche tu, ma se si innervosisce, o cerca la tua protezione, allora è meglio retrocedere con eleganza: anche se tu non hai visto nulla, qualcuno sta sicuramente guardandoti. Io però di aria avevo bisogno, e quindi mi sono mosso. In effetti, appena superato l'ultimo casolare, ho trovato il compare del sindaco che rientrava da una passeggiata e mi son fatto "prestare" Rex, che sembrava - bontà sua - molto, molto contento di vedermi, e subito si disponeva a farmi strada:


e lui correva, e io l'inseguivo, fermandomi solo per scattare qualche foto:


ma il fascino di quell'atmosfera non si può trasmettere, o almeno io non ci riesco. Così, alla fine, ci siamo inselvati verso i Selvoni, e siccome era buio, e io non mi raccapezzavo più, ho deciso di tornare indietro, e Rex disciplinatamente ha rinunciato al suo bagno nel Parello - che tra l'altro, per quanto sia pressoché asciutto, non sarebbe stato immediatamente agevole da guadare di notte. Il buio, la nebbia, la solitudine... A un certo punto, tornati sulla carrareccia, mi accorgo che Rex è scomparso. Non mi preoccupo molto: la strada la sa, ha almeno un senso in più per ritrovarla - l'olfatto - ma insomma non vederlo mi dispiaceva. Comunque procedo, fermandomi ogni tanto per chiamarlo - niente! - e stringendo un po' il passo perché non mi cogliesse il buio - naturalmente, da professionista, avevo con me due fonti di luce indipendenti e le pile di scorta: ma meglio tenerle per la volta successiva! Quando arrivo all'ultimo casale, che sulla strada del ritorno, per motivi non incomprensibili ai lettori di questo blog, stranamente era il primo, sulle scale di casa trovo Rex che mi aspettava tutto fiero di mostrarmi che lui sapeva la scorciatoia!


Non che ne dubitassi... Questa mattina, invece, nella Pontida d'Abruzzo si svolgeva una giornata FAI. Una sessantina di persone sparse per l'area faunistica e in processione verso il Monte Secine, con una non profonda consapevolezza del fatto che le montagne di solito sono in salita - che poi, vista dall'alto, sembrerà una discesa. Io, per non sbagliare, ho fatto il giro largo, trovando subito compagnia:


La linea Gustav era immersa nella bruma:


io sentivo il vocio dei turisti, verso il monte Basilio, verso la Polledrara, e intanto pensavo...)



Il discorso di questo blog è sempre stato un discorso intrinsecamente politico, non fosse altro che perché si rivolgeva alla polis. Nel corso di questi anni ho cercato di chiarire a me stesso, e di condividere con voi, quali siano gli aspetti di un discorso che voglia essere politico. Perché ci sia politica deve esserci una alternativa (perché se non c'è alternativa non c'è politica), deve esserci una corretta attribuzione di responsabilità (presupposto irrinunciabile perché il discorso politico porti, laddove necessario, a un'alternanza nell'esercizio del potere), e devono esserci obiettivi almeno astrattamente configurabili come intellettualmente onesti, come non intrinsecamente contraddittori (in assenza dei quali la democrazia sarebbe puro dadaismo).

Per partire dalla fine, il "bene comune", proprio lui, quello che per gli sciocchi è l'alfa e l'omega della prassi politica, non rientra in quest'ultima categoria, quella degli obiettivi intellettualmente onesti. Il concetto di "comune" non è così autoevidente come sembra ai cretini. Lo sa bene chi ha studiato politica economica (scontrandosi con il paradosso di Condorcet, con il teorema di Arrow, e via discorrendo). In effetti, una volta abbandonata una prospettiva utilitaristica ingenua, ci si rende immediatamente conto del fatto che quello che è bene per uno potrebbe essere male per un altro, e che quindi nella stragrande maggioranza dei casi le persone in realtà non vogliono il bene, vogliono semplicemente di più. In altre parole, i benecomunisti, quelli che blaterano di politica come conseguimento del bene comune, hanno in mente una e una sola cosa: il perseguimento del meglio individuale.

Non è una grande scoperta e non è su questo che voglio soffermarmi oggi, ma prima di passare oltre vorrei chiudere il punto trasponendo questo dato psicologico nel dato politico, anche per trasmettere la concretezza di certe affermazioni, che prima facie possono sembrare arbitrarie, apodittiche, astratte ed assiomatiche (potete aggiungere altri aggettivi, non necessariamente con la "a" di "anfame").

La prima considerazione è che anche se i parlamenti nascono per votare le leggi di bilancio (chi ha letto tutto Stendhal sa bene quante volte lui torni su questo punto: a quell'epoca le riforme erano quella roba lì, votare la legge di bilancio...) in realtà le leggi di bilancio non spostano un voto! Sarà forse perché non scaldano i cuori dell'elettorato, il motivo non so dirvelo, ma certo è che per cercare di renderle interessanti l’opposizione particolarmente mentecatta di cui beneficiamo in questo scorcio storico è costretta a mentire sui dati. Altro non le resta per sommuovere i suoi elettori incitandoli alla rivolta contro le misure che lei stessa ha propugnato, una fra tutte l’abolizione dell’articolo 18! E se si deve giungere a tanta bassezza per rendere interessante un tema, si vede che quel tema così interessante non è...

Passando dal grande al piccolo, ieri sera uno dei sindaci con i quali ho maggiore consuetudine mi confessava a cena, con un certo stupore, di aver riscontrato come gli elettori che nel corso dei suoi plurimi mandati gli erano stati più fedeli erano quelli per i quali non era riuscito a fare niente, mentre, in modo apparentemente paradossale, quelli per i quali era riuscito a fare qualcosa, in alcuni casi anche spingendosi al limite del tecnicamente fattibile, erano esattamente gli stessi che poi gli avevano voltato le spalle. Non mi è stato difficile spiegargli il perché: “Caro amico, tu hai fatto il loro bene, ma loro volevano il loro meglio, e quindi a buon bisogno ti hanno dato in tasca! Fine delle trasmissioni.”

Il tema su cui volevo esercitarmi oggi con voi però era un altro, era quello della responsabilità, della corretta attribuzione della responsabilità, che in parte è correlato al tema dell’alternativa. Si è responsabili delle scelte: se non c’è alternativa non c’è scelta, se non c’è scelta non c’è responsabilità. Ora, il fatto è che noi sappiamo che un’alternativa c’è sempre, e che chi ha voluto affermare il mantra che non ci fosse alternativa lo ha fatto per il preciso motivo che voleva che non ci fosse politica o, più esattamente che non ci fosse la politica degli altri, ma solo la propria.

Quello che è successo nell’eurozona negli ultimi anni a noi è sufficientemente chiaro: ne è prova il fatto che lo avevamo descritto prima, e non per nostre particolari virtù, ma perché è materia da manuale universitario. L’adozione della moneta unica, scaricando sui salari, cioè sui lavoratori, il costo dell'aggiustamento macroeconomico a crisi internazionali, avrebbe da un lato comportato il ricorso a politiche di austerità (perché nessuno si fa tagliare lo stipendio a meno che non sia ridotto in disoccupazione), e dall’altro, naturalmente, suscitando un tanto diffuso quanto giustificato malcontento, avrebbe spinto verso una risposta autoritaria, che si sarebbe affermata in modo subdolo, come affermazione di buoni e condivisibili sentimenti, la cui ostentazione altro scopo non aveva se non quello di demonizzare il dissenso, onde rendere digeribile alle anime belle la sua repressione più vile e fascista.

Queste scelte sono state fatte da persone più o meno consapevoli di essere rotelle di un ingranaggio, ma mi preme sottolineare una volta di più che la loro consapevolezza soggettiva non ci interessa, non è un tema politico. Quante volte all’inizio di questo nostro lungo percorso vi ho detto che la buona o cattiva fede di Prodi, cioè il fatto che lui capisse o meno che facendoci entrare nell’euro ci condannava alla povertà, non era poi così importante? Se una persona mi danneggia, a me non interessa che sia in buona o in cattiva fede. Se in una strada poco illuminata un passante, vedendomi giungere, si spaventa ed estrae un’arma perché "in buona fede" pensa che io voglio aggredirlo, il mio ultimo problema è aprire un processo alle mie o alle sue intenzioni. L'urgenza è scappare, o neutralizzarlo, non aprire un dibattito! Ma questo non lo capite, e quindi se fossi coerente con me stesso, e con la mia prima legge della termodidattica (ci sono cose che se potessero essere capite non dovrebbero essere spiegate) dovrei smettere di spiegarvelo: tutto il dibattito sul COVID dimostra che continuate ad impantanare temi politici nella categoria della soggettività, andando drammaticamente fuoristrada, o per meglio dire girando in tondo. Al netto però del fatto che non ci interessa la consapevolezza individuale di essere stati parte di un disegno complessivo il cui esito inevitabile era quella crisi di produttività cui ora assistiamo, resta il fatto che certe singole scelte sono state prese da singole persone che non possono oggi non ammettere di averle prese, o di non averle contestate. Il punto non è la consapevolezza. Il punto è la scelta. Una cosa o è stata fatta, o non è stata fatta, e se è stata fatta qualcuno l'ha fatta (non si è fatta da sola). Di questo qualcuno le intenzioni non ci interessano. Il nome sì (l'indirizzo no).

Il web, come dico sempre, adattando un detto romanesco, nasconde ma non ruba. Siamo riusciti perfino a ritrovare l’articolo del 2011 in cui spiegavo quanto sta accadendo oggi, cioè il fatto che la Germania rovina precipitosamente dopo aver segato il ramo su cui era seduta (ovvero la domanda interna del mercato unico), quindi nulla va perso! In un contesto simile, fa un po’ sorridere il ricorso da parte di tanti a narrazioni impersonali dell’accaduto, che dal punto di vista sintattico si traducono nell’uso di forme riflessive ("si chiudevano gli ospedali") o di plurali spersonalizzanti, nel loro astratto rinvio a una responsabilità collettiva, cioè a nessuna responsabilità ("abbiamo, ci siamo", ecc.). Questo rinvio intrinsecamente disonesto a un "noi" che non può esistere in un Paese dove chi oggi incita alla rivolta sociale ieri ha dichiarato una guerra di sterminio ai lavoratori, promuovendo attivamente politiche di austerità, suscita qualche riflessione. Vorrei svolgerle con voi percorrendo tre esempi, sine ira et studio, riferiti a tre persone molto diverse, una delle quali è certamente sottovalutata, un’altra delle quali è palesemente sopravvalutata, e una terza su cui non so esprimermi, perché non la conosco abbastanza.

Vado in ordine alfabetico e comincio dalla persona a mio avviso sottovalutata, perché è un ottimo economista e soprattutto perché intellettualmente onesto, o almeno così lo abbiamo conosciuto e così ci piace ricordarlo. Aggiungo che è anche un amico, e che auspico che le parole che dirò non sollevino alcuna polemica, perché non mi interessa polemizzare: mi interessa solo mettere in evidenza come, purtroppo, sia difficile per chiunque, anche per i migliori, percorrere nel modo giusto la strada sbagliata. Chi di voi si affaccia, sia pure sempre più sparsamente come faccio io, all’orlo della cloaca nera (che, ricordiamolo, non è gestita da uno di noi), avrà notato che una affermazione di Massimo D'Antoni articolata su un plurale deresponsabilizzante (ci siamo) ha suscitato un moto di comprensibile fastidio in tante persone:


Lo spunto di questa affermazione era un dibattito sulle sorti di tal Raimo (chi?), un tale che conosco solo per la sua insolenza. La mia personale posizione su questo tema, se interessa, oscilla fra due opposte determinazioni: da un lato mi sembra sempre tatticamente errato creare martiri con un materiale scadente. Dall’altro, però, siccome siamo in una guerra civile strisciante, una guerra civile che io non volevo, che io non ho dichiarato, dalla quale mi sono limitato a mettere in guardia i miei concittadini (a partire da voi), una guerra civile che tuttora combattiamo da posizioni di inferiorità, pur essendo maggioranza politica nel Paese, se un intellettuale (?) di sinistra cade vittima di quella psicopolizia che con tanta alacrità, con tanta lucida determinazione, se non lui, senz'altro la sua parte ha promosso, no es que me gusta, pero siento un fresco.

E così abbiamo risolto, e possiamo archiviare, il problema di Raimo (chi?).

(...per inciso: "chi?" è ovviamente l'acronimo di "ma dove cazzo erano questi eroi di cartapesta quando i loro partiti di riferimento massacravano i lavoratori col jobs act ecc."...)

Conservo un caro ricordo di un docente di un qualche diritto alla facoltà di economia di Pescara, quando ancora c’erano le facoltà, che in un dibattito relativamente appassionato sul tema della “Carta dei servizi“ dell'ateneo testualmente affermò: “La carta dei servizi per me è quella che si dovrebbe trovare al bagno“. La proliferazione di strumenti di soft law variamente etichettati come codici etici, come carte di questo o di quello, il diffondersi di queste capziose e infide codificazioni del bon-ton, non è una cosa che tutti abbiamo voluto: è una cosa che una specifica parte politica ha preteso, con il preciso scopo di irreggimentare prima, e di soffocare poi, il dibattito che gli esiti inevitabili di un conflitto di classe giocato in modo particolarmente sporco non poteva che determinare.

E non basta dire: “Io non lo volevo, io mi sono opposto, io non ero d’accordo". Intanto, questo blog ha avuto successo perché non c’è nemmeno un segno di interpunzione che io vi abbia consegnato senza citarvi le sue fonti e motivarne la necessità. Quindi, chi ha parlato, se ha parlato, dovrebbe provarlo. In secondo luogo, purtroppo, una opposizione deamicisiana, fatta in nome dei buoni sentimenti, alla dittatura dei buoni sentimenti, non è poi così convincente. Il minimo sindacale che ci si aspetta da una persona di sinistra è che evidenzi le precise dinamiche di classe che a suo tempo spinsero, e tuttora spingono, il comitato d’affari della borghesia internazionale, cioè il PD, a praticare estesamente politiche di repressione del dissenso. A me fa tanto piacere sapere che qualcuno non era d’accordo, e sono anche disposto a credergli sulla parola, perché voglio conservare buoni rapporti. Il fatto però è che quello che rende poco convincenti certe affermazioni è l’evidente mancanza di una comprensione profonda dei meccanismi che ci hanno spinto fin qui, o quantomeno la mancanza di una loro esplicita spiegazione. Andrebbe sempre ricordato che la risposta repressiva in termini di libertà di espressione è la diretta conseguenza di una risposta repressiva in termini di dinamica salariale. Se non lo si fa, il problema non è che "Bagnai gode solo a metà" .Bagnai è tribunale solo di se stesso, superiorem non recognoscens, ma non pretende giurisdizione sugli altri.

E anche qui, una parola di chiarezza vorrei dirla: quando evidenzio di aver detto molto per tempo certe cose (il famoso "teloavevodettismo"), credetemi, non lo faccio per esercizio di narcisismo, ma per esercizio di umiltà. Il tema non è che io sono stato fregno a vedere certe cose prima degli altri, ma è l'esatto opposto! Se uno passabilmente distratto, ingenuo, e disinteressato dalle dinamiche politiche, se perfino uno come me riusciva a vedere certe cose, allora è pressoché certo che molti altri le vedessero (e questo torna a conferma dell'inutilità di un dibattito sulla buona o cattiva fede). Il problema è che senza una chiara definizione delle dinamiche oggettive sottostanti non si può avanzare in una comprensione diffusa e condivisa dei fenomeni. Non basta dire "come ci siamo ridotti, signora mia!" La mancanza di questa comprensione diffusa e condivisa ovviamente non aiuta aiuta a risolvere i problemi.

Sul “si chiudevano gli ospedali“ di Delrio:


(che, per inciso, e quello di cui non so dirvi se sia sopra o sottovalutato), tanti si sono lungamente esilarati ed esercitati. Non mi sembra il caso di continuare a sparare sulle ambulanze, ma una sottolineatura voglio farla. Ma voi, al tempo in cui gli ospedali si chiudevano (da soli), vi ricordate di aver mai sentito in televisione una comunicazione così emotional, come quella che oggi ci viene propinata perché al Governo ci siamo noi, colpevoli di aver portato il rapporto spesa sanitaria/Pil dal 6,2% al quale voleva portarlo Draghi al 6,4% del Pil? Dov'era, dov'erano questi fini dicitori tutti zeppola e papere, questi attor giovini prestanti e prostituenti, e soprattutto questi autori televisivi tutti pervasi e perfusi di passione civile, quando, per dirne una, il punto nascita di Castel di Sangro veniva chiuso? Ecco, all’epoca mi ricordo che solo uno, a modo suo, stigmatizzò quella infausta decisione. Ed era un safe bet, un rigore a porta vuota, come direbbero gli Untermenschen della metafora calcistica, tant'è che seguì il QED, perché non poteva non succedere quello che poi successe:


nella totale apatia, atarassia, abulia, degli attor giovini e dei loro sagaci autori.

Allora, rovesciamo la prospettiva: il problema non è che quello lì, quello che aveva capito prima che cosa sarebbe successo dopo, era fregno (sì, lo è, lo conosco bene, ma non parliamone ora): il problema è che quelli che si svegliano ora sono feccia, e non per un problema di tempo, di calendario, ma per un problema di motivazione, perché è grottesca e ignobile la motivazione per cui solo ora, dopo aver accettato dalla loro parte politica misure che altro non saprei definire se non fasciste, si svegliano proprio quando si sta cercando di rimediare, in un contesto difficile che, peraltro è il contesto europeo che loro hanno voluto, che loro hanno creato, che loro hanno venerato, ai disastri cui furono del tutto indifferenti mentre venivano perpetrati.

Questo io non glielo perdono, ma naturalmente non vi precludo la possibilità di perdonarglielo, se ritenete di volerlo fare.

E arriviamo al sopravvalutato, ma prima consentitemi un paio di aneddoti.

Un bel giorno di qualche anno fa mi stavo recando per un qualche motivo agli uffici del gruppo Lega in Senato. Nell’androne del palazzo Beni Spagnoli incontro un notissimo manager italiano, di cui ovviamente non faccio il nome (tutti ne avrete immaginato uno: ecco, dimenticatelo: era di più!), e animato da quella cortesia che costituisce il mio primo moto spontaneo, nel senso che la applico a meno che non abbia motivi precisi per non applicarla, mi metto a sua disposizione dicendo: “Lei sta certamente andando dal segretario: se permette la accompagno”, tagliando così anche corto alle varie formalità di ingresso (il documento, il mica documento, il badge e via dicendo). Faccio strada verso gli ascensori, chiamo quello giusto (perché uno dei due non arrivava al piano di Matteo), e nel frattempo mi presento: “Buongiorno, sono Alberto Bagnai, responsabile economia della Lega". La figura eminente a sua volta accenna una presentazione, e io, in segno di deferenza, forse appena screziata da un soupçon di una non malevola ironia, immediatamente mi affretto a dire: “Dottore, lei non ha assolutamente bisogno di presentazioni". E fino a qui tutto bene: la cosa sorprendente (per me) arrivò dopo. Abbozzato un sorriso misuratamente compiaciuto, l’eminenza immediatamente riprese con una domanda: “Lei è quello che ha studiato alla Sapienza?" E io: “Sì, perché me lo chiede?" E lui: “Perché quando vado a trovare il presidente Draghi, lui mi ricorda ogni tanto che Matteo Salvini ha due consiglieri economici. Lui non è d’accordo con nessuno dei due, ma di uno dice che almeno ha studiato in una buona università, quella in cui ha studiato anche lui.” Ora, voi capite la mia sorpresa nel constatare che due persone di tale valore (e non mi riferisco solo a quello aziendale e politico, ma anche banalmente a quello finanziario), consentissero alla mia umile persona di oltrepassare il circolo così  prezioso ed esclusivo della loro appercezione. O io ero più importante di quanto ritenessi di essere, o loro lo erano di meno (ma questo non potevo certo crederlo)! Di aneddoto ne avrei anche un altro, quello di quando andando a trovare un altro personaggio ugualmente eminente, se pure per diversi motivi, questi mi disse: "Lo sai? È venuto a chiedermi se io potessi fare qualcosa per farti stare zitto." Mi dissi che evidentemente il problema non è solo quello che si dice ma soprattutto come lo si dice, e che chi non si presta a essere derubricato a personaggio di un’avanguardia folcloristica naturalmente dà più fastidio di chi invece è suscettibile di essere sminuito con attacchi ad personam, perché non è in grado di sostanziare con una base scientifica solida quanto sostiene.

Fine degli aneddoti.

Il discorso di La Hulpe, che grazie a L'anticonformista troviamo qui, è stato un chiaro passo falso, tant'è che ci si è affrettati a rimuoverne in fretta e furia le tracce: nothing to hear here! Non mi pare però che ci siamo interrogati approfonditamente sul perché questo passo falso sia stato commesso. Ammettere che la costruzione europea si fonda sulla deflazione salariale, cioè ammettere quello che è scritto nei buoni manuali compilati da quelli che furono suoi compagni di studi, e miei maestri, in quella buona università, è stato evidentemente un gigantesco errore da parte del sopravvalutato. Ma perché lo ha compiuto? L’idea che mi sono fatto è che si sia fatto buggerare dal narcisismo. Come stiano effettivamente le cose, quali siano le dinamiche che il ragionamento scientifico riconosce come operanti, in fondo, una persona che aspira al ruolo di economista non può non riconoscerlo. E così, capita che si dicano verità, anche scomode, per il semplice piacere, o per la controproducente vanagloria, di far sapere che le si conosce. E in effetti, devo dirvi che la parte più dolorosa dell’esercizio della vita politica pratica è questo esercizio di self restraint che ti induce a non esprimerti quando tatticamente è inopportuno farlo, abdicando alla vanità di far sapere che tu sai. A questa vanità l'amico sopravvalutato non ha voluto rinunciare, ma nell'enunciare la verità (nell'euro non ci può essere difesa dei salari) l’amico ha cercato di mitigarla. E quindi il discorso è tutto un "abbiamo", "ci siamo", e via discorrendo:

Ma non funziona così!

Chi ha messo in campo le politiche di deflazione salariale competitiva?

Chi le ha esplicitamente teorizzate e imposte con i consueti strumenti di soft law (la famosa lettera della BCE)?

Non si tratta certo di un’entità impersonale e astratta! È la stessa persona che ingegnerizzando una svalutazione competitiva dell’euro rispetto al dollaro è riuscito a far girare vorticosamente i coglioni agli americani che hanno risposto come sapete (Dieselgate, gasdotti, eccetera). Insomma, anche qui vedete che siamo nel solito ambito: quello della autoderesponsabilizzazione.

E la cosa che, se fossi ancora di sinistra, mi imbarazzerebbe di più, detto fra noi, è proprio che il tema della corretta attribuzione delle responsabilità politiche di certi gesti o di certe parole è un tema intrinsecamente di sinistra. Guardate come lo poneva qualche anno fa uno dei tanti padri ignobili (perché ha assistito muto al sacro macello dei lavoratori italiani) della sinistra in uno dei suoi pezzi di bravura:


Ecco: a Massimo suggerirei di morettizzarsi un po’. Gli farebbe bene. Del resto, con tutto il male che se ne può pensare e che personalmente ne penso, Moretti, quel Moretti lì, perché quell’altro non ho ancora capito esattamente che terra lo reggesse, è di fatto l’unico ad aver detto le uniche due cose di sinistra dell’ultimo cinquantennio, cioè, in sintesi: che sui temi dovrebbe esprimersi chi li conosce (fatto salvo il diritto degli altri a esprimere le proprie opinioni), e (vedi sopra) che andrebbero evitate chiamate in correità da parte dei perdenti della storia, soprattutto quando è noto ed evidente che all’epoca vi erano state risalenti e documentate posizioni di dissenso, posizioni dileggiate, vilipese, schiacciate, travolte dai lazzi, dalle contumelie, e dall’accusa infamante di contiguità con un mitologico fascismo, la cui invocazione è ormai diventata, è inutile che ve lo dica, il primo e ultimo rifugio delle canaglie.

È appena il caso di sottolineare, per chiudere in epanalessi questo pezzo che ho dettato alla mia protesi  tecnologica, aggirandomi per le nebbie degli altopiani maggiori d’Abruzzo, che in tutti questi casi c’era, c’è stata, responsabilità, perché in tutti questi casi c’era un’alternativa. Anzi, aggiungerei che almeno nella materia che più direttamente mi competeva, cioè quella economica, di alternative ce ne erano più di una.

C’era un’alternativa all'austerità, alla deflazione salariale competitiva, alla svalutazione interna?

Certo che c’era! Era ovviamente la svalutazione esterna, cioè lo smantellamento della moneta unica, ma sappiamo tutti che questa era ed è un’alternativa traumatica e ingestibile, che nessun tipo di processo politico potrà riuscire a maneggiare (il che non significa che non possa essere chiamato a subirla). C’erano però alternative meno traumatiche richieste da illustri economisti, come ad esempio mettere in campo un vero coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. Il famoso discorso del convincere la Germania a spendere di più, anziché continuare a esercitare la propria volontà di potenza con una politica di bassi investimenti ed alte esportazioni. Questo Stiglitz, che a mio sommesso avviso resta comunque un altro sopravvalutato, lo aveva almeno chiesto. Il sopravvalutato nostrano non mi sembra che si sia mai espresso se non nel senso di incitare a reprimere la domanda del paese che gli ha dato i natali e che lo ha fatto studiare in una buona università. Suoi appelli, che sarebbero stati autorevoli, a un maggiore coordinamento delle politiche economiche intrazona, non me ne ricordo, ma potrei sbagliarmi e vi dirò che sarei lieto di sbagliarmi in questo, come in tutti i casi in cui non mi sono sbagliato.

E nel caso delle politiche di (sempre meno) strisciante repressione del dissenso l’alternativa c’era?

Sì, certo che c’era! Innanzitutto bisognava denunciarle, e denunciarle funditus, mettendo in guardia la sinistra dal fatto che siccome nel lungo periodo le politiche di destra avvantaggiano solo la destra, alla fine, per forza di cose, sarebbe andata su la destra, e quindi ogni gesto, ogni provvedimento che si prendeva per corrodere le fondamenta dei più elementari baluardi della libertà di espressione, ogni pretermissione di quello spirito critico che avrebbe dovuto suggerire ai media una maggiore correttezza nel riportare i fatti, si sarebbe fatalmente ritorta contro la sinistra. Ma questa operazione ricordo che solo una persona la fece, senza molto successo. Uno dei motivi per i quali non mi impietosisco particolarmente sul caso del novello Giordano Bruno, Raimo (chi?), e che in fondo anche lui è vittima di se stesso. Sì, l’alternativa c’era, ed era, come spesso nella vita, pensarci prima, pensarci prima che toccasse a te. Era cioè una delle tre virtù teologali, la più incompresa e misconosciuta: la carità. Ed è tanto sorprendente quanto desolante il constatare come i cattocomunisti siano così a disagio con categorie che dovrebbero essere fondanti per il loro pensiero.

Ma forse è meglio così: visto che ci hanno dichiarato guerra, e visto che il loro nome è legione, sfruttiamo la loro ignoranza, che è la nostra forza, per sconfiggerli.

E così sia.

(...questo pensavo mentre scendevo dalla Polledrara, e questo ho voluto condividere con voi. Non mi considero particolarmente coraggioso né particolarmente acuto per aver fatto quello che ho fatto. Certo, l'ho fatto solo io, e questo qualcosa significa. Significa, fra l'altro, che non mi sento di giudicare chi non lo ha fatto. Ma non prendiamoci in giro: Massimo, come Graziano, come Mariou, non possono nascondersi dietro un "noi" che non c'è, per il semplice fatto, appunto, che quel noi non c'è, e non c'è perché non l'hanno voluto loro...)

sabato 9 novembre 2024

Il suicidio europeo (ancora sulla produttività)

(...chiedo scusa: avevo con grande enfasi promesso che avrei mantenuta aperta casa nostra, poi mi sono dileguato, ma un motivo c'era: dopo il compleanno del blog mi ero preso l'impegno col neoborbonico di passare un weekend a pascermi con lui di quel cibo che solum è nostro, incidendo un disco nella chiesa del Girone - quella che alcuni di voi conoscono. Natura Matrigna, sponsor di Musica Perduta, trovandosi nella difficile scelta fra flagellare con una tormenta di neve la falesia di Pizzoferrato, o infliggere a voi uomini di pianura la siccità, aveva optato per la seconda soluzione. Avevo scommesso sul global warming, e avevo vinto un inizio di novembre mite, con panorami di un nitore abbacinante:


[qui vedete a sinistra, in secondo piano, il monte Amaro - un mucchietto di ghiaia bianca - e al centro, prominente, il monte Acquaviva]! Come Dio volle, ci mettemmo per due giorni in cantoria all'organo:


e poi il terzo giorno, domenica scorsa, al cembalo giù nella navata:


e con santa pazienza, sotto il presidio della Madonna del Girone, portammo a termine la registrazione delle canzone a basso e organo di Frescobaldi, delle fantasie di Selma y Salaverde, e di qualche altra cosetta che ascolterete quando sarà pubblicata. Non potevo fare a meno di pensare che un'incisione è come la conversione di un decreto, o una legge di bilancio. Ogni brano è un articolo, ogni
take un emendamento, su ogni emendamento si discute ["il re era troppo basso, non mi è piaciuto come ho fatto l'arpeggio, questa non puoi usarla, facciamone un'altra subito..."...] finché non si trova la quadra e non si passa oltre. "Chiudere" la registrazione di un brano per passare al successivo dà la stessa sensazione di sollievo che "chiudere" l'esame di un articolo. Ci vuole pazienza, per questa, come per altre cose, ma la pazienza non ci manca... Ho scoperto di poter ancora crescere a 62 anni. Certo: non suonerò mai il Concerto Imperatore o gli studi di Chopin, ma a 42 anni non avrei portato in fondo nemmeno una certa canzona di Frescobaldi. La mente, o quel che ne resta, conserva una sua rassicurante plasticità. Certo, poi, dopo quattro giorni separato dal cellulare, la settimana successiva - cioè quella appena trascorsa - è stata tutta in salita, e non poteva essere altrimenti. Sono riuscito al massimo a sbloccare qualche vostro commento, e a dare qualche risposta sintetica, ma di stimoli che meritavano di essere raccolti ce n'era più di uno, e oggi vorrei in particolare dedicarmi a una richiesta del buon Sherpa810...)


Sherpa810 ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Draghi vs Blanchard":

Sarebbe interessante, sebbene temporalmente ridotto e quindi non so quanto significativo, vedere l'andamento dal 1987 al 1992 (Sme, banda larga e stretta di oscillazione cambio).

Pubblicato da Sherpa810 su Goofynomics il giorno 1 nov 2024, 09:09


La richiesta ha una sua fondatezza, ma ho preferito fare una cosa diversa: confrontare la produttività di Eurozona, Usa e Giappone a partire dal 1980, per vedere se l'entrata nell'età dell'euro causava quello che prevedono i modelli teorici illustrati al #goofy13 (cioè quelli passati in rassegna e sottoposti a verifica empirica nel paper su "integrazione monetaria e disintegrazione reale"). Il focus di quello studio era sulla divergenza fra la produttività dei Paesi del Nord e del Sud dell'Eurozona (se ne consideravano due dei primi, Francia e Germania, e due dei secondi, Italia e Spagna). L'idea era che alla fine questo gioco fosse un gioco a somma zero: a livello di Eurozona, pensavamo, l'aumento di produttività dei Paesi del Nord, avvantaggiati dal dumping salariale e valutario, che apriva loro nuovi mercati incentivando la produttività, compensava la situazione uguale e contraria dei Paesi del Sud (dove cambio sopravvalutato e conseguenti politiche di deflazione salariale deprimevano la produttività). La divergenza era evidente, in una figura che poi l'editor della rivista decise di sacrificare per motivi di spazio:


Nel periodo successivo all'introduzione dell'euro, la crescita della produttività si azzerava in Italia e Spagna, dando luogo a quella "disintegrazione reale" cui avevamo intitolato il paper.

Tuttavia, il discorso di Draghi, quello il cui video è misteriosamente scomparso, e il cui testo è ancora per poco qui (salvatelo), spiegava (senza volerlo) una cosa che il nostro grafico evidenziava (a nostra insaputa), ovvero che se dall'adozione dell'euro in poi la variazione della produttività si azzerava al Sud, al Nord comunque diminuiva. Insomma: il gioco dell'euro, l'abbattere i salari gli uni rispetto agli altri, non faceva poi tanto bene nemmeno ai Paesi del Nord (o che tali si sentono, come la Francia). In altre parole, non era un gioco a somma nulla (cui comunque a noi non sarebbe convenuto partecipare, visto che eravamo il pollo della situazione): era proprio un gioco a somma negativa! Detto ancora in altri termini: l'integrazione monetaria, attraverso i tre canali che il paper evidenziava e che vi ho spiegato a Montesilvano (tassi di interesse troppo bassi, salari troppo bassi, cambio reale troppo alto) non danneggiava solo la produttività italiana: danneggiava quella dell'intera Eurozona.

Il suggerimento dell'amico Sherpa810 mi ha spinto a fare una cosa che non avevo mai fatto finora: tracciare la produttività dei tre poli dell'economia mondiale (prima dell'avvento della Cina): Eurozona, Usa e Giappone, negli ultimi quarant'anni, cioè dal 1980, dall'inizio della terza globalizzazione. Vado dritto al risultato, perché il tempo è poco:


Chi è qui da un po' non ha bisogno di grandi spiegazioni, e credo comunque che il messaggio sia chiaro anche per gli altri. Per quanto attiene a Eurozona e Stati Uniti, è evidente come per una ventina d'anni, fino al pieno compimento dell'integrazione monetaria (e conseguente disintegrazione reale), la loro produttività sia cresciuta pari passu. Poi arriva l'euro, l'Eurozona si ferma (strano! Lo prevedono solo tutti i modelli teorici...), gli Stati Uniti no, e il resto è storia dei nostri giorni. Merita una sottolineatura anche la dinamica della produttività giapponese, particolarmente gagliarda fin verso la fine degli anni '80, quando si arresta, verosimilmente per motivi riconducibili a questa storia di cui vi ho parlato spesso. Quello che si vede in questo grafico, del resto, non è diverso da quello che si vede nel precedente: lì avevano la media dei tassi di crescita pre- e post-euro, qui abbiamo il numero indice, ma tant'è.

Merita una (lunga) discussione il modo in cui i dati riferiti all'Eurozona sono stati costruiti, in modo che chi lo desidera possa replicare, o confutare, questi risultati. Il database AMECO online, raggiungibile direttamente da qui, oppure dalla pagina di AMECO, fornisce la produttività dell'Eurozona solo a partire dal 1995. Per risalire al 1980 ho seguito due procedimenti dichiaratamente approssimativi e sostanzialmente equivalenti, considerando la produttività media dei quattro Stati membri più grandi (Germania, Francia, Italia e Spagna). La media è stata calcolata in due modi: come media non ponderata delle produttività dei singoli Stati, o come rapporto fra il totale del prodotto (al numeratore) e il totale degli occupati (al denominatore) nei quattro Stati (che corrisponde de facto a una media ponderata delle singole produttività nazionali). Non cambia sostanzialmente nulla: utilizzando il secondo procedimento, in teoria più accurato, il grafico che si ottiene è questo:


Scommetto 200 euro che aggiungendo gli altri paesucoli dell'Eurozona il quadro non cambia, e vi lascio fare i calcoli. Il decoupling strutturale fra dinamica della produttività europea e americana (cioè eurista e statunitense) inizia intorno al 2000, e non credo che dipenda dal millennium bug.

Secondo voi da cosa dipende?

La letteratura scientifica, la scienza, una risposta ce l'ha, come sapete, ma qui accogliamo tutte le opinioni. Ora però vado, che non voglio far aspettare i sindaci che ho per cena...

(...i refusi correggeteli voi. Correggete almeno quelli, visto che la perseveranza, la pazienza, la tigna per correggere la SStoria non si può dire che ce l'abbiate tutti. Io sì...)


mercoledì 6 novembre 2024

Global imbalances

Gli squilibri globali di bilancia dei pagamenti sono stati a lungo un mio tema di ricerca. A quelli che "allora vuoi l'autarchiaaaaah!111!" ricordo che di per sé non c'è nulla di intrinsecamente errato o pericoloso nel fatto che un Paese voglia mantenere una posizione di surplus strutturale di bilancia dei pagamenti. Basta che si disponga a capire che in tanto lui può avere un surplus in quanto uno o più altri possono avere un deficit, dal che consegue:

1) che il surplus non è più glorioso di quanto il deficit sia ignominioso, perché sono le due facce della stessa medaglia;

2) che il surplus puoi averlo finché qualcuno finanzia gli altrui deficit (e i deficit altrui li può finanziare solo chi è in surplus!)

Quando un Paese si mantiene, ad esempio facendo dumping valutario, salariale, energetico, in una posizione strutturale di saldo attivo di bilancia dei pagamenti, ma non vuole prestare soldi ai Paesi in deficit, il sistema salta, e non è detto che a quel punto i "virtuosi" ne escano meglio dei "viziosi". Sarebbe opportuno evitare di arrivare a quel punto, cioè evitare di accumulare stock di debiti/crediti esteri così ingenti da essere difficili da rifinanziare nel caso in cui qualcosa vada storto.

Comunque, per articolare un ragionamento vi fornisco qualche dato sugli squilibri esterni fra i maggiori poli dell'economia globale. Qui li vedete in miliardi di dollari:


e vista così la situazione degli Usa fa paura (mille miliardi di dollari di deficit estero, di indebitamento verso il resto del mondo...), mentre qui li vedete in percentuale del Pil mondiale:


e il quadro che ne emerge è lievemente diverso (ma più corretto): il punto di maggior squilibrio esterno gli Usa lo hanno toccato nel 2006, quando il loro deficit esterno (di bilancia dei pagamenti) aveva sorpassato l'1.5% del Pil mondiale. Ora sono attorno all'1% del Pil mondiale e se in valore assoluto il loro deficit sembra sprofondare è solo perché l'inflazione ha gonfiato tutte le grandezze nominali, Pil compreso.

In questi grafico si distinguono abbastanza bene tre fasi:

1) quella in cui il cattivo era il Giappone:


2) quella in cui cattiva era la Cina:


3) quella in cui i cattivi siamo stati (e tuttora siamo) noi:


dove per "cattivo" intendesi: esportatore netto, verosimilmente nei confronti degli Usa, che da potenza imperiale devono adattarsi a esercitare un ruolo con cui mal convivono: quello di acquirente netto di ultima istanza dei surplus produttivi altrui. Perché se da un lato esercitare questo ruolo è necessario per tenere in piedi la baracca, se da un lato esercitarlo a loro non costa molto perché il commercio internazionale si svolge in dollari, valuta di cui gli Usa dispongono a profusione per ovvi motivi, dall'altro i beni prodotti all''estero  hanno un unico difetto (diceva un amico): sono prodotti all'estero e quindi non creano lavoro all'interno.

Le svalutazioni competitive dell'euro hanno reso la Germania un paese "canaglia", e la risposta è arrivata (Dieselgate, gasdotti, ecc.). Come andrà avanti questa storia? A tendere, l'antagonista, la fonte dei squilibri, sarà nuovamente la Cina?

Ora ci dormo sopra perché sono esausto.

Comments welcome (ovviamente, tutto questo ha e avrà a che vedere con Trump...).

martedì 5 novembre 2024

Ciamp

Marcio di sonno, dopo una giornata passata a studiare bilanci, a far parlare persone, a flippare da una commissione all'altra in ossequio alle liturgie di un parlamento mutilato, a sostare nelle anticamere dove si risolvono i problemi dei miei sindaci, e dopo una serata piacevole in famiglia (perché ogni tanto ci vuole anche questo), vi consegno una breve riflessione, della quale farete quello che vorrete, e soprattutto, come al solito, quello che potrete.

Al mio orecchio musicale, l'idea "de destra" che Ciamp sia la soluzione suona altrettanto sciocca dell'idea "de sinistra" che Abberluscone fosse il problema. Quest'ultima idea, quella "de sinistra", all'epoca la contestai in modo molto articolato qui, in un post che ancora qualcuno legge (oggi lo commentava Fabiuccio).

Non ho tempo né (soprattutto) voglia per fare una simmetrica articolata confutazione dell'idea "de destra", e non vorrei nemmeno saltare troppo di palo in frasca, perché alcuni vostri commenti al post precedente meritano di essere sviluppati e approfonditi, ma, senza allontanarmi troppo dal filo del discorso, vorrei richiamarvi a un tema che qui spesso abbiamo cercato di affrontare: che cosa vuole fare l'America (cioè gli Usa) dell'UE (cioè dell'Europa)? Perché alla fine Ciamp, per quanto ci possa essere simpatico (ma ci è simpatico, possiamo anche dircelo, principalmente perché i nostri nemici lo odiano!), non solo non è esattamente uno di noi (e fino a qui potremmo arrivarci facilmente), ma soprattutto non è così disruptive come i piddini ce lo e se lo rappresentano!

Questo, in buona sostanza, significa che se l'idea strategica degli Usa è quella di affermare la propria supremazia sul satellite europeo, tutto potrà venire in mente a chiunque governi quel Paese tranne che l'aiutarci a tirare fuori la testa dal cappio che ci sta soffocando. All'interrogativa indiretta che mi ponevo sette anni fa:


(qualcuno se la ricorda?), la risposta ormai è chiara e netta, e il suicidio di certe infrastrutture baltiche l'ha asseverata oltre ogni ragionevole dubbio.

Dopo di che, ora ci dormo sopra (ché domattina si inizia presto con una riunione piuttosto intensa), ma è chiaro che cosa preferirei leggere al risveglio! Meglio una vittoria non risolutiva di una sconfitta schiacciante, meglio vedere i piddini stracciarsi le vesti che vederli con un sorriso di sollievo, siamo d'accordo...

Tuttavia, a beneficio di quelli che hanno seguito questo dibattito fin dall'inizio, devo confessare che mi sto convincendo delle ragioni di Bellofiore (c'era qualcuno di voi a Bergamo nel 2012?): l'unione monetaria finirà not with a bang but with a whimper. Non è una citazione particolarmente originale, ma non è nemmeno un concetto così campato in aria. Il circolo vizioso deflazione-calo di produttività-deflazione ci condanna a questa ingloriosa fine, ci condanna a non essere più interessanti nemmeno come mercato di sbocco, ci condanna all'irrilevanza.

E questa irrilevanza a qualcuno farà pur comodo! Forse a chi ci ha condannato ad essa imponendoci un modello per noi insensato, più che inadeguato? Forse...

Buonanotte!