Facendo seguito al post precedente, che ci ha fornito, grazie alla collaborazione di Massimiliano, un ottimo argomento, vorrei tornare sul concetto di integrazione economica per darvi evidenza palpabile di una cosa che per un economista dovrebbe essere chiara, e infatti è chiara per un economista come
Martin Feldstein:
There is of course nothing in economic logic or experience that implies that free trade requires a single currency.
Questa frase è di un'evidenza palmare, come andiamo subito a vedere, e quindi non si capisce come se ne potrebbe negare il fondamento. Eppure c'è chi lo fa, come ad esempio Paolo Savona, che nei suoi discorsi in (legittima, per carità...) difesa dell'euro parte sempre dall'assunto fideistico che
per fare un mercato unico ci vuole una moneta unica (naturalmente quando si parte da una premessa sbagliata è difficile che a meno di una massiccia dose di serendipity si arrivi alla conclusione giusta,
e infatti...).
Che abbia ragione Feldstein non ce lo dice il suo CV, ma le due cose alle quali ricorre per argomentare: la logica economica, e l'esperienza.
Logica economica: i propagandisti continuano a fornirci un'immagine del commercio internazionale come di una pratica alla quale si dedicano personaggi dotati di disturbi specifici dell'apprendimento, scarsamente a proprio agio con le tabelline, e che quindi sono intrinsecamente incapaci di fare una moltiplicazione o una divisione (per l'opportuno tasso di cambio) prima di confrontare due prezzi. Questa immagine è falsa, ovviamente, e lo dimostra il fatto che sia un'ispezione dei dati che studi econometrici mostrano come il regime di cambio non abbia sostanzialmente influito sul volume del commercio mondiale né, in quanto ci riguarda, su quello europeo (lo diceva
Nitsch, e alla fine è stato costretto ad ammetterlo anche
Spennacchiotto Rose, chiedendo scusa per le
scemenze totalmente ideologiche che aveva detto, riconosciute peraltro per tali fin da subito da studiosi seri).
Chi opera nell'import/export sa usare le tabelline, o alle brutte una calcolatrice, e può coprirsi contro il rischio di cambio sui
mercati a termine. Qualche volta gli andrà bene, qualche volta male, ma è un fatto che la volatilità del cambio non ha un impatto significativo sul commercio internazionale (
qui uno studio piuttosto esaustivo), cosa che si sapeva anche al momento di entrare nell'euro (e infatti la ricordava Berry "Weathercock" Eichengreen in
questo studio, riferendosi in particolare ai risultati di
questo studio del nostro altro amico Frankel, secondo cui un raddoppio della volatilità del cambio reale - rapporto fra i prezzi di due paesi espressi nella stessa valuta - porta a una diminuzione del commercio del solo 0.7%).
Spero sia chiaro che fino a qui non ho citato un articolo di fede ("non avrai altra moneta se non quella unica"), ma sei articoli scientifici, quasi tutti su riviste referate.
E veniamo all'altro punto di forza dell'argomentare non fideistico di Feldstein (che non finge, come altri, di essere keynesiano, e dice spesso cose sensate): l'esperienza. A sentire i propagandisti, sembrerebbe che nel resto del mondo non vi sia commercio: la moneta unica essendo essenziale, chi non ce l'ha vive nell'autarchia e nel conflitto, in un mondo così distopico da far sembrare
1997 fuga da New York una puntata dell'Ape Maia. Ovviamente non è così. Il resto del mondo non sta peggio di noi, né in generale, né in particolare per quanto riguarda l'integrazione commerciale.
Breve parentesi economica. In economia per "integrazione" si intende sostanzialmente l'abbattimento dei costi di transazione. Esempio: integrazione finanziaria è l'abbattimento dei costi da sostenere per prestare o prendere in prestito somme da un residente in un altro paese (e quindi: per aprire un conto all'estero; per detenere titoli esteri; per collocare titoli esteri; ecc.). Integrazione commerciale è l'abbattimento dei costi da sostenere per acquistare merci dell'estero, o venderle. Di questi costi, la volatilità del cambio è quello che tutti vedono, ma è anche, come vi ho appena dimostrato con sei articoli scientifici che smentiscono un articolo di fede, il più trascurabile. Ce ne sono altri, che riguardano principalmente le barriere, tariffarie e non, che molti paesi
civili per motivi che rientrano nel
legittimo esercizio della loro sovranità pongono su certe transazioni commerciali. I motivi sono i più disparati, e vanno dalla protezione delle industrie nascenti, alla protezione della salute dei cittadini. Tutte cose delle quali l'Europa ci chiede di non preoccuparci, perché ci pensa lei, e i risultati
poi si vedono, anche se i propagandisti ci danno dentro per
nascondere le responsabilità.
L'abbattimento di queste barriere generalmente è un processo graduale, che attraversa alcune fasi ben individuate nella letteratura scientifica.
Zone di scambio preferenziale (preferential trading areas, PTAs)
Accordi bi- o multilaterali di riduzione dei dazi e di abolizione dei contingenti, con l'obiettivo generalmente di transitare a una
Zona di libero scambio (free trade area, FTA)
il cui obiettivo, in teoria, è quello di abbattere del tutto le barriere tariffarie e non tariffarie interne alla zona, conservandole verso l'esterno. Le zone di libero scambio però non sono
Unioni doganali (custom unions, CU)
perché queste ultime hanno anche una politica tariffaria (cioè dazi) comuni verso tutti i paesi terzi. I membri di una FTA invece no. Ad esempio, considerando il NAFTA, il Messico può avere dazi diversi dagli Stati Uniti nei riguardi della Cina, il che crea il problema dell'evasione del dazio, che si risolve con le
regole di origine. Questo problema scompare con l'unione doganale. Fino a qui non abbiamo parlato di mobilità dei fattori, ma solo di merci e eventualmente servizi. In un
Mercato unico (common market o single market)
viene garantita la libertà di movimento dei capitali (integrazione finanziaria) e del lavoro (una roba tipo Schengen, per capirci), anche se possono rimanere barriere non tariffarie al movimento delle merci (esempio: la standardizzazione di cose tipo le prese elettriche, o certi requisiti sanitari, può non essere completa...). Quando si rimuovono anche queste barriere, almeno in teoria, almeno come aspirazione, o meglio come Fogno, si ottiene una
Unione economica.
Bene: questi sono i primi cinque stadi dell'integrazione economica. L'ultimo, lo immaginate, è l'Unione Economica e Monetaria, che si ottiene quando alle precedenti buone intenzioni (raramente seguite da buoni risultati) si aggiunge anche l'adozione di una moneta unica.
Ora, se la moneta unica fosse necessaria per l'integrazione economica, ci aspetteremmo che almeno a livello di mercato unico tutti dovrebbero adottarla. Invece le cose non stanno così, come nota ad esempio
Majone nel suo libro. Il WTO nel suo database degli
accordi commerciali regionali fa una lista di ben
424 accordi di vario tipo fra i circa 200 paesi esistenti al mondo. Molti di questi, va detto, sono accordi bilaterali, di non elevatissima importanza sistemica, mentre altri sono rinnovi o estensioni di accordi già esistenti (ad esempio, l'unione doganale costituita dalla Comunità europea viene contata sette volte: alla sua costituzione, e in ognuno dei sei successivi allargamenti). In particolare, di questi 424 accordi, 17 sono PTA, 238 sono FTA, 28 sono CU (con l'avvertenza di cui sopra!), e 139 sono accordi di integrazione economica (e anche qui ci sono duplicazioni, perché a partire dall'Atto Unico Europeo l'Unione Europea viene contata anche sotto questa categoria).
Volendo andare sul semplice, trascurando le forme di vita inferiori (PTA e FTA, i primi stadi di integrazione), e tenendo conto del fatto che i confini fra le varie forme sono spesso sfumati (in particolare perché intenzioni e Fogni non coincidono praticamente mai coi risultati), una rapida consultazione a Wiki inglese (ricordatevi che quello italiano in ambito economico è ahimè lammerda, totalmente sotto il controllo dei troll UE) ci rivela che al livello più alto, quello dei mercati comuni e delle unioni economiche, troviamo i seguenti esemplari:
1) Unione Economica e Monetaria Europea
2)
MERCOSUR
3)
ASEAN
4)
Unione Economica Eurasiatica
5)
CACM
6)
CARICOM
7)
Gulf Cooperation Council (GCC)
Di questi, notate bene, solo uno è anche un'unione monetaria, e sapete qual è. Apparentemente due vorrebbero diventarlo, almeno così dice Wiki: la CARICOM, e il GCC, che, però, ci informa Wikimm, non è andato avanti col progetto a causa della crisi. Strano, perché a noi hanno sempre ripetuto che la moneta unica protegge dalla crisi...
Per la precisione, siccome sono un professionista, vi segnalo altresì l'esistenza di forme di unione monetaria a stadi più bassi (in alcuni casi nominalmente più alti) di integrazione economica. La lista è
qui ed è quella della quale parlavamo nel post precedente. Sono unioni per lo più di fatto, costituite fra ex-colonie francesi (le uniche con una totale integrazione formale), o del Commonwealth, o americane (stati dollarizzati), e spicci vari, fra cui alcuni ex-satelliti dell'impero russo. Nella mia attività professionale, occupandomi di Africa Sub-Sahariana, ho incontrato CEMAC e UEMOA, e anche la
SACU, la più antica unione doganale, che è anche una unione monetaria
de facto avendo adottato la moneta del più forte, il rand sudafricano (con la S di BRICS, come sapete). Notate anche che i paper come quello di Nitsch ("
Have a break"), che parlano di 245 unioni monetarie delle quali 128 si sono dissolte fra il 1948 e il 1997, si riferiscono alle relazioni bilaterali fra paesi che adottano una stessa moneta! Va detto che questo è ovviamente il modo più logico di procedere (per certi versi, è anche l'approccio del
paper di Ghosh sulla rilevanza dei cambi flessibili: studiare le relazioni bilaterali fra paesi). Quindi, ad esempio, l'attuale zona euro (non considerata nello studio di Nirsch) conterebbe per 171 (perché?).
Sintesi: una moneta unica non è necessaria per l'integrazione economica. Dei sette casi esistenti di integrazione economica solo uno è anche una unione monetaria formale (l'Unione Europea, alla quale possiamo tranquillamente incorporare i satelliti francesi: CEMAC e UEMOA), mentre, di converso, le unioni monetarie non sono quasi mai unioni economiche ma "dependance" di ex imperi coloniali, coi quali, ovviamente, intrattengono anche qualche forma di accordo di libero scambio, che supponiamo mutualmente vantaggioso (per il più forte).
Del resto, basta leggersi il
paper dove Baldwin massacra Rose per constatare che la maggior parte delle unioni monetarie esistenti è del tipo "hub and spoke", e, sì, noi non saremmo l'hub: saremmo uno spoke (della Germania).
La domanda quindi è: volete essere colonizzati? E la risposta credo sia: non prima che il global warming abbia portato almeno le noci di cocco sulle nostre spiagge.
Chiaro?