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giovedì 9 febbraio 2023

QED 101: le divergenze parallele

Non c'è voluto molto tempo.

Ormai fra esposizione del tema qui, nel luogo del Dibattito, e conferme da parte dei migliori amici dell'uomo che si vuole informare, passano pochi giorni, qualche volta poche ore.

È il risultato di due forze convergenti: da un lato io non riesco a tener dietro ai "miei" temi, perché coinvolto anche da altro (i mille temi del territorio, i mille incontri per tenere allineate le varie anime della maggioranza, le mille verifiche interne ed esterne sulle mille posizioni da prendere ogni giorno, i mille riassunti da fare per uso interno o di comunicazione, ecc.) e ancor meno riesco a comunicarveli tempestivamente, non solo per gli oggettivi limiti di tempo (sono uno), ma anche perché per comunicare con voi ho bisogno di trovarmi in un clima emotivo favorevole, devo comunque raccogliere delle energie, devo comunque concentrarmi per riprendere il filo del discorso, anche se è lo stesso discorso da dodici anni...

Dall'altro, motus in fine velocior: il susseguirsi degli avvenimenti si fa incalzante, un po' perché le dinamiche elettorali premono (fra un anno il progetto insensato affronterà la sfida esistenziale di dimostrare il proprio senso), e un po' perché forze esogene (il fastidio degli Stati Uniti per le politiche mercantilistiche dell'Eurozona) impongono reazioni rapide.

Alla fine, gli eventi ci sorpasseranno, manifestandosi prima che riusciamo ad annunciarli, ma ce ne consoleremo, perché in tutta evidenza ci stanno sorpassando sulla strada che abbiamo indicato qui.

Quale strada?

Questa:


(era qui).

Ci stiamo in effetti avviando sulla strada di una nuova divergenza: a quella indotta dalla pro-ciclicità delle regole fiscali, su cui vi confesso di non capire se e come si intenda agire (ma mi impegnerò e tornerò a dirvi), si aggiunge quella indotta dalle forzature sugli aiuti di Stato, che aiutano il Nord a decollare, e dalle storture del PNRR, che zavorrano la nostra economia. Ne parla oggi l'amico Massimo D'Antoni sul Sussidiario:

dimenticando solo un piccolo "dettaglio", o forse semplicemente dandolo per scontato, come abbiamo imparato a darlo per scontato noi a partire da qui: finché non verrà abolito dalle regole europee qualsiasi riferimento a quel costrutto teoricamente infondato e operativamente distorto che è il "PIL potenziale", per il nostro Paese non ci sarà speranza di riscatto all'interno dell'Unione Europea (vi ricordo che non ci abbiamo fatto un convegno internazionale, di fronte alla solita platea di inesistenti).

Il motivo è molto semplice.

Se il "potenziale" di un Paese viene calcolato ex post in modo "adattivo", cioè incorporando tutti gli shock recessivi del passato, qualsiasi tentativo di compensare questi shock recessivi con politiche espansive sarà impedito dalle regole, perché verrà visto come un tentativo di spingere l'economia oltre il proprio potenziale, alimentando tensioni inflazionistiche.

Se lo "spazio fiscale" manca, ai Paesi del Sud, è per questo motivo, certo non per il #debbitopubblico (che ovviamente offre una chiave narrativa plausibile, ma che di per sé non appare limitante, atteso che per farlo scendere in fretta... abbiamo dovuto farne di più!).


Ma c'è un paradosso politico: il paradosso politico è che il ricorso al "Pil potenziale" è stato voluto proprio dai Paesi del Sud, come mezzo per aggiungere "flessibilità" alle "regole". I poveri piddini, inviluppati nel loro eurocentrismo tolemaico, hanno aggiunto al sistema un epiciclo tombale: quello che doveva servire a farci spendere "un po' di più" quando le cose fossero andate male, alla prova dei fatti si è rivelato il meccanismo che ci condanna a spendere molto di meno quando le cose vanno peggio! E questo vale in tutti i campi che il Paese dovrebbe tutelare per riprendere a crescere: pubblica amministrazione, infrastrutture, scuola, sanità.

Purtroppo qui non è un problema di colore politico, ma di egemonia culturale. Quella del "gianninismo" è forte e sorretta da progetti di comunicazione ben finanziati: #eggenerazzionifuture, #aspesapubbliga, #castacriccacoruzzione, ecc.

Tutto già visto e rivisto (ma avete visto che ci sono dei cretini che tornano all'attacco con la storia de #igosdidaabolidiga!? Ma come si fa?), tutto confutato, tutto riproposto con una tenacità che suscita disgusto e ammirazione in parti uguali.

Gli uomini e le donne che "sanno di sapere" sono ovunque, sono anche e, ahimè, soprattutto fra di noi.

Sarà una lunga, lunghissima guerra, ma per vincerla abbiamo una soluzione, dolorosa ma efficace: lasciamo fare a loro...

(...within reason, naturalmente...)

lunedì 3 gennaio 2022

Le bollette secondo ECON102 (e gli científicos)

Non che io abbia una grande stima dei miei precedenti colleghi (gli economisti): la storia di questo Dibattito illustra sufficientemente come, con le eccezioni indispensabili per confermare la regola, la categoria non abbia dato un grande contributo alla comprensione dei problemi attuali, essendo divisa fra persone che nascondevano la testa sotto la sabbia e persone che guardavano fissamente dalla parte sbagliata. In fondo, anche la vicenda delle "bollette" (l'aumento dei costi dell'energia), ce lo conferma. Quando a marzo di due anni fa (2020), in questo blog paventavamo l'ipotesi che la pandemia potesse causare una fiammata di inflazione a causa di strozzature dal lato dell'offerta, la communis opinio degli esperti vedeva per lo più all'orizzonte rischi di deflazione, determinata dal calo della domanda (si dice il peccato ma non il peccatore: qui uno...). 

Tuttavia, anche se del loro avviso possiamo fare normalmente a meno (lo spirito natalizio mi induce a risparmiarvi altri esempi), in questo mondo di científicos (come venivano chiamati i tecnici ai tempi così lontani e così vicini di Porfirio Diaz) non è del tutto inutile sapere in che modo gli economisti la pensino. Chiarisco: quasi mai sapere come ragionano gli economisti ci servirà per capire direttamente come andranno a finire le cose, ma molto spesso ci servirà a capire che cosa gli científicos sanno di sapere e quindi quali saranno le loro future mosse, consentendoci indirettamente di capire come potrebbero andare a finire le cose (male, ovviamente, in coerenza con la raffinatezza del loro pensiero científico).

Ai tempi gloriosi di Samuelson (1941) per deridere gli economisti li si descriveva come pappagalli cui è stato insegnato a ripetere "domanda e offerta". Nel frattempo, un pochino anche per colpa di Samuelson (o almeno così la pensa Paul Davidson, e se interessa sono d'accordo con lui) il compito di deridere gli economisti è diventato molto, troppo più semplice.

Questo particolare ordine di científicos si è infatti diviso in due famiglie: i parrocchetti della domanda e i cacatua dell'offerta.

Sì, oggi per lo più (cioè escludendo i post-keynesiani) gli economisti sono pappagalli che ripetono una parola sola. I parrocchetti "keynesiani" ripetono "domanda, domanda,..."; i cacatua "neoclassici" (quelli che voi chiamate neoliberisti, per intenderci) ripetono "offerta, offerta,...". Eppure, voi lo sapete bene, per Adam Smith (l'autore che i neoclassici citano senza averlo letto) la domanda era importante, tanto da determinare, fra l'altro, una caratteristica importante dell'offerta, forse la più importante: la produttività (cosa di cui sono ancora oggi consapevoli i post-keynesiani, mentre i keynesiani la ignorano: qui c'è tutta la spiegazione, se interessa). Di converso, per Keynes (l'autore che i keynesiani citano senza averlo letto) le condizioni dell'offerta erano essenziali nel determinare l'equilibrio del sistema: basta rileggersi la sua analisi della Grande Depressione, o ricordare che nel tirare le fila del ragionamento il Capitolo XVIII della Teoria Generale parte dall'elencare i fattori che influenzano la forma della curva di offerta aggregata.

Ma agli idiots savants che popolano i nostri dipartimenti La ricchezza delle nazioni o la Teoria generale oggi non sembrerebbero libri científicos, perché sono privi di formule matematiche, ed è anche per questo che non li leggono: non appagano il loro inesausto e inesauribile bisogno di sentirsi intelligenti facendo cose che a loro sembrano difficili. Nell'epoca dell'iperspecializzazione accademica, piuttosto che gestire un mondo fatto di due pezzi, è pagante concentrarsi su uno, e solo uno, di questi pezzi, coltivandolo con sterile e maniacale accanimento. Capita così che se sei un parrocchetto e arriva uno shock di offerta (come nel 2020), ti aspetterai che le conseguenze siano quelle di uno shock di domanda, mentre se sei un cacatua e arriva uno shock di domanda (come nel 2009) lo gestirai come se fosse uno shock di offerta.

Ora, simili "errori" dipendono naturalmente da una quantità enorme di motivazioni storiche, sociologiche, epistemologiche, deontologiche, e chi più ne ha più ne metta. Le più rilevanti sono anche le più nobili: il desiderio di attaccare l'asino dove vuole il padrone, e la smania di far carriera. Queste motivazioni sono trasversali a molti campi e quindi non esito a immaginare che ne comprenderete immediatamente l'importanza. Certe "cantonate", insomma, sono più apparenti che reali, nel senso che magari, ricordandosi che cosa era scritto nei libri del primo anno, e che cosa insegnano a ECON101, molti colleghi, come abbiamo più volte evidenziato in questo blog, potrebbero (e avrebbero dovuto) fare a meno di consigliare con fastidiosa regolarità la ricetta sbagliata (ad esempio, l'austerità durante uno shock negativo di domanda). Fatto sta che in certe contingenze storiche se non dici quello che devi dire non fai carriera: non ti pubblicano (con me ci hanno provato, come ricorderete), non entri nel network giusto, ecc.

En passant segnalo che questi meccanismi che abbiamo visto tante volte all'opera nella professione economica (fatta di macroeconomisti, microeconomisti, economisti del lavoro...) sono esattamente quelli che vediamo oggi all'opera nella professione medica (fatta di virologi, epidemiologi, immunologi...).

Niente di più, niente di meno.

Ma oltre questa miseria umana, che tutti ci accomuna (non sono umani solo gli economisti e i medici - forse in questo periodo loro lo sono un po' meno degli altri - siamo tutti umani, anzi: umanƏ), oltre questa umana fragilità c'è anche un altro motivo, più "tecnico", che spiega la strana difficoltà di parrocchetti e cacatua nel ritenere in testa le due paroline magiche: domanda e offerta. Questa difficoltà in parte credo dipenda dalla straordinaria rozzezza del modello che tutti noi professionisti utilizziamo per tenere i due pezzi insieme. Oggi voglio spiegarvi com'è fatto questo modello, il modello AS/AD (aggregate supply, aggregate demand), e che cosa, utilizzandolo, gli científicos si aspettano che accadrà in seguito all'aumento dei prezzi dell'energia. Se arriverete in fondo, sarete anche voi degli científicos. La spiegazione che vi darò farà a meno delle formule: a chi vuole sentirsi intelligente suggerisco di rileggersi un canto di Dante. Sarà però indispensabile usare dei grafici. Spiace. D'altra parte, questo è un blog tecnico e nessuno vi obbliga a leggerlo, soprattutto in una settimana in cui ben altre preoccupazioni incombono su tutti noi.

Le unità di misura

Per cominciare, è utile che capire bene quali variabili sono rappresentate dal modello. Non è difficile, sono due:

sull'asse delle ascisse, il volume del prodotto (interno lordo), indicato dalla lettera Y, e su quello delle ordinate il livello dei prezzi, indicato dalla lettera p. 

Prima osservazione: Y è il Pil, non la crescita del Pil (la crescita economica), e p è il livello dei prezzi, non la crescita del livello dei prezzi (l'inflazione). Il modello quindi è statico, il che significa, come vedremo meglio "riempiendo" questa scatola, che il modello più usato dagli economisti non rappresenta le due cose che agli economisti più interessano: la dinamica del prodotto (la crescita) e la dinamica dei prezzi.

Eggnente, fa già piangere così, ma questo è solo il primo gradino della vostra discesa verso l'abisso...

L'offerta di lungo periodo

In economia (micro) la curva di offerta indica quale quantità q di un determinato bene l'imprenditore trova conveniente produrre dato un certo livello dei prezzi. Normalmente all'aumentare del prezzo l'imprenditore è incentivato a produrre di più, e quindi la curva di offerta ha inclinazione positiva, cioè è una cosa di questo tipo, dove a prezzi più alti corrispondono quantità maggiori:

Il modello AS/AD non considera la quantità q di un singolo bene ma l'aggregato Y di tutti i beni prodotti da un determinato Paese, e lo fa ipotizzando che nel lungo periodo l'offerta di beni, intesa come quantità massima di beni che è possibile produrre, dipenda solo dalla tecnologia e dall'offerta di fattori produttivi (capitale e lavoro). L'offerta aggregata di lungo periodo, cioè il potenziale produttivo del Paese, che dipende da tutte queste belle cose (che nel modello non sono rappresentate, cioè sono esogene), di converso non dipende dall'altra cosa che nel modello c'è, ovvero dal livello dei prezzi. In altre parole, la curva di offerta di lungo periodo è fatta così:

Una retta verticale posta al livello (esogeno) del Pil potenziale, che è lo strano oggetto di cui vi ho parlato ad esempio qui e su cui abbiamo tenuto questo convegno. Volendo prendere per buone le stime di questa gigantesca puttanata (scusatemi: tale è e come tale va definita) fornite dal Fmi, per dare un po' di concretezza al grafico, supponendo che Y sia misurato in miliardi di euro, potremmo scrivere:


ovvero: la curva di offerta di lungo periodo nel 2021 è verticale al livello di 1749,17 miliardi di euro, corrispondenti appunto al Pil potenziale (stimato).

A proposito, siccome vi ho detto che non avrei usato formule, allora le uso. Il Fmi non fornisce direttamente il valore del Pil potenziale, ma quello dell'output gap (lo trovate in questo foglio Excel), definito come scarto fra il Pil effettivo e quello potenziale espresso in percentuale del Pil potenziale:


per cui il Pil potenziale può essere ottenuto invertendo la formula:


e con i dati del 2021 ottenete appunto:


cioè secondo il Fmi nel 2021 saremmo 85,78 miliardi al di sotto del nostro potenziale produttivo (io credo lo scarto sia molto più grande, come sapete, ma chiudiamo qui la parentesi).

Qual è il significato di questa curva verticale, cioè "rigida" rispetto al livello dei prezzi? Possiamo leggerla così: nel lungo periodo non importa quale sia il livello di prezzo prevalente, perché il sistema non potrà andare oltre il livello di produzione reso possibile dalle tecnologie, dal numero di lavoratori e dallo stock di capitale fisico (macchine, attrezzature, capannoni, ecc.) disponibili. Ad impossibilia nemo tenetur.

La domanda aggregata

In microeconomia la curva di domanda generalmente ha un'inclinazione negativa, perché riflette il dato dell'esperienza comune a tutti noi che di norma e in media se un bene costa di più tendiamo ad acquistarne di meno (se non altro perché finiamo i soldi). Quindi la curva di domanda microeconomica è una cosa di questo tipo:

e riflette il fatto che quando aumenta il prezzo p di un bene diminuisce la quantità q che desideriamo consumarne. Trasponendo il discorso sul piano macroeconomico, quello che ci interessa rappresentare è la domanda aggregata, cioè, in buona sostanza, il potere di acquisto a disposizione dell'intera collettività nazionale (immaginando un'economia chiusa, senza scambi con l'estero, altrimenti dovremmo considerare anche il potere di acquisto dei cittadini residenti altrove). A differenza dell'offerta aggregata, che non dipende dai prezzi per i motivi su esposti, la domanda aggregata ovviamente dipende dai prezzi in modo inverso: se aumentano i prezzi, diminuisce il potere di acquisto dei saldi monetari a disposizione dei cittadini (consumatori, imprenditori) e quindi la loro spesa (per consumo, investimento) necessariamente dovrà diminuire. La curva di domanda aggregata quindi è una cosa di questo tipo:

dall'andamento vagamente iperbolico (in effetti, la derivazione analitica più semplice produce un ramo di iperbole equilatera, ma non vi annoio anche con questo), a significare che quando i prezzi tendono a infinito (cioè quando si va verso l'alto) la quantità di beni che i residenti possono acquistare tende a zero, mentre se i prezzi tendessero a zero la quantità di beni teoricamente acquistabili tenderebbe a infinito.

Non è così difficile, se ci pensate un attimo...

Assemblaggio: l'equilibrio di lungo periodo

Naturalmente ora da bravi psittacidi dobbiamo mettere insieme la domanda e l'offerta: così facendo individueremo un punto di equilibrio. Viene fuori una cosa di questo tipo:

Il punto E è l'equilibrio. In quel punto il livello dei prezzi (p soprassegnato) è tale da permettere ai residenti di acquistare un livello di prodotto esattamente pari al prodotto potenziale. Se i prezzi fossero più bassi, la domanda sarebbe maggiore del Pil potenziale. Ma siccome il Pil potenziale è, come ricorderete, il livello al quale si può spingere la produzione senza generare aumenti dei prezzi, qualsiasi tentativo di spingere la domanda a destra della barriera della curva di offerta verticale, spingendo i prezzi in basso, farebbe aumentare i prezzi, riportandoci a E. Se i prezzi fossero più alti, la produzione potenziale eccederebbe la domanda, il che spingerebbe i prezzi verso il basso.

Rifletteteci un po' sopra, ma intanto considerate due cose: la prima è che il punto E, punto di equilibrio, in un modello statico è un punto morto. In E non c'è crescita (il prodotto è esattamente uguale al potenziale e lì resta), in E non c'è inflazione (il livello dei prezzi è esattamente quello che permette ai residenti di comprare tutto il prodotto potenziale coi soldi che hanno, e lì resta). Un punto di crescita zero e inflazione zero abbastanza irrealistico.

La seconda cosa è che se nel 2021 fossimo stati in equilibrio di lungo periodo il nostro Pil sarebbe stato 1749,17 miliardi. Invece è stato di 1663,39 miliardi (secondo il Fmi). A prendere per buone queste cifre, si direbbe che nel 2021 non fossimo nel punto di equilibrio di lungo periodo, ma un po' al disotto (e ci mancherebbe anche, visto la sberla che ci siamo presi)! Ora, non entro in come andrebbe rappresentato in questo modello lo shock causato dal COVID (vi anticipo che se vi interessa una spiegazione scolastica chiara è qui ma naturalmente la questione non è semplice, dato che il COVID è un fenomeno complesso per un modello così semplice). Vorrei prima spiegarvi come si rappresenta in questo modello il fatto che il sistema economico possa non essere sempre in una posizione di equilibrio di lungo periodo, una posizione stabile in cui nessuna variabile manifesta una tendenza a spostarsi: lo si fa introducendo la curva di offerta di breve periodo.

Il breve periodo

L'equilibrio di breve periodo nel modello AS/AD (almeno, nelle versioni più "scolastiche" di esso) è situato all'intersezione della curva di domanda aggregata con la curva di offerta aggregata di breve periodo (SRAS, short-run aggregate supply). Come è fatta questa curva? L'ipotesi è che nel breve periodo, cioè a prezzi dati (perché l'aggiustamento dei prezzi richiede tempo e quindi ci proietta nella dimensione del lungo periodo), sia possibile produrre qualsiasi quantità di prodotto. In altre parole, come dicono gli economisti, l'ipotesi è che nel breve periodo l'offerta aggregata sia infinitamente elastica al prezzo (mentre nel lungo è rigida). Ora, detto così suona assurdo, ma questa ipotesi non è altro che la rappresentazione stilizzata di una miriade di situazioni che effettivamente in pratica possono verificarsi. Faccio un esempio: se per qualche motivo la domanda aggregata aumenta, per un po' (aka nel breve periodo) è possibile espandere la produzione aumentando l'utilizzo della capacità produttiva esistente, pagando qualche straordinario, ma senza aumentare i salari e quindi i prezzi. La stessa cosa vale in caso di una riduzione imprevista della domanda, come quelle dovute a un lockdown: si produce di meno, ma allo stesso prezzo.

In termini grafici, questo significa che la SRAS è orizzontale:

Assemblaggio: l'equilibrio di breve periodo

Proviamo a mettere insieme tutti e tre i pezzi. Per come sono fatte, le curve di lungo periodo necessariamente si incontreranno in un punto, e solo in quello (che quindi è, per costruzione, l'equilibrio di lungo periodo). Che tre curve si incontrino nello stesso punto invece richiede un po' più di fortuna.

Siccome siamo científicos, facciamo come gli científicos, cioè facciamo finta di averla, questa fortuna.  Il grafico si presenterebbe così:


In questo caso il punto E sarebbe di equilibrio sia di lungo che di breve periodo, cioè al livello di prezzi p soprassegnato il Pil effettivo coinciderebbe con quello potenziale. Per usare un termine che a qualcuno di voi è noto, questa è una situazione in cui l'output gap è nullo: non c'è inflazione, non occorre fare politiche espansive (altrimenti l'inflazione partirebbe), né politiche restrittive (altrimenti si entrerebbe in deflazione).

Ovviamente questa situazione non è molto realistica, anche se le statistiche del Fmi ci dicono che la raggiungeremo nel 2024 (quando secondo loro l'output gap sarà zero). Possiamo però usarla come conveniente punto di partenza per esaminare gli effetti di un tipico shock di offerta di breve periodo: un aumento esogeno dei prezzi, causato dall'aumento dei costi dell'energia (le famose "bollette"). Che cosa succede se le "bollette" aumentano del 50% (come sta accadendo)? Il modello che cosa ci dice che accadrà? E quindi gli científicos che cosa pensano che accadrà?

Pil e bollette

Consideriamo intanto che l'aumento delle "bollette" non è uno shock di offerta di lungo periodo: non modifica né la tecnologia, né la forza lavoro disponibile, né la quantità di macchinari disponibili. La curva AS quindi non si sposterà. Non è nemmeno uno shock di domanda: l'aumento dei prezzi è esogeno rispetto alla domanda, non siamo noi ad averli tirati su in un inverno così caldo (a Capodanno ero a Saracinesco a prendere il sole in maglietta 908 metri sopra il livello del mare, cosa non ovvia da quelle parti...). Non si sposterà nemmeno la curva AD. Nel modello l'aumento "delle bollette" determina uno spostamento verso l'alto (cioè verso prezzi più alti) della curva di offerta di breve periodo.

Succede cioè una cosa così:


dove, per facilitare (spero) la vostra lettura ho aggiunto qualche frecciona:

E quindi? E quindi che cosa si aspettano che succederà i nostri científicos in seguito all'aumento dei costi dell'energia? Semplice: nel loro modello la curva di offerta di breve periodo SRAS si sposterà verso l'alto in SRAS', semplicemente perché l'aumento del costo dell'energia farà aumentare i prezzi di ogni bene e servizio. Il livello generale dei prezzi aumenterà quindi fino a p', cioè ci sarà inflazione (lungo il tragitto da p a p'). Conseguentemente il nuovo equilibrio non sarà più in E. La curva di offerta di breve periodo intersecherà la curva di domanda in E', in corrispondenza di un livello di Pil più basso, Y', cioè ci sarà recessione (lungo il tragitto da Y soprassegnato a Y').

Uno shock di offerta di questo tipo provoca quindi simultaneamente due cose che a nessuno piacciono molto, almeno non in questa combinazione: inflazione (cresce p) e recessione (cala Y). L'inflazione, come saprete, c'è già. La recessione va interpretata. In questo modello molto semplice assistiamo a un calo del livello del Pil. In effetti, però, il mondo è più complicato. In questo momento siamo ancora in una fase di rimbalzo dopo la sberla del 2020-2021, per il 2022 si parla di una crescita del 4%. Ecco, diciamo che magari a conti fatti nel 2022 la crescita potrebbe non essere del 4%, ma inferiore, con tutto quello che ne consegue ad esempio per la sostenibilità del debito. Del resto, abbiamo già visto che il weekly tracker dell'OCSE dimostra qualche segno di affaticamento, quindi: sta già succedendo.

E gli científicos lo sanno.

La morale della favola

Ora è veramente tardi, devo avviarmi a concludere con la morale della favola, che è questa:

L'intervista a Borghi oggi sulla Verità (a proposito: vi siete abbonati?) spicca per contenuti e per corredo iconografico. La foto scelta riassume perfettamente la morale della favola, che è più o meno questa: quando la SRAS slitta verso l'alto, se sei uno científico vorrai stare ovunque, tranne che al Governo.

Se sono riuscito a farvi capire perché, ne sono lieto.

Se non ci sono riuscito, sono qui per rispondere.

Buenas noches!

giovedì 8 luglio 2021

Rebalancing Europe: programma definitivo


 

Ci sono state alcune modifiche nella composizione del panel politico, che ora vede la presenza del viceministro Castelli e del capogruppo Malpezzi. Il resto rimane com'era. Sto leggendo le slides di Heimberger e vi posso dire che sono molto interessanti. Sono sicuro che lo saranno anche quelle degli altri relatori, ma, come ci siamo detti, questo è solo uno dei motivi di interesse di questo incontro. Ce ne sono anche altri: direi innanzitutto il piacere di rivedervi, poi la curiosità per le osservazioni che faranno i miei colleghi, ma anche per il discorso finale di Claudio, ecc.

Vi aspetto il 12!

lunedì 28 giugno 2021

Le regole (il convegno)

(...ritorno sull'argomentoriallacciandomi al save the date...)

 Nel mio ultimo intervento in aula:


ho avuto, grazie ad alcuni di voi (quelli che mi hanno votato...), la preziosa opportunità di affermare due principi di cui sono sufficientemente convinto da offrirli alla pubblica discussione (il che non significa "affermarli come verità assolute", ma, appunto, renderli oggetto di dibattito):

  1. in assenza di una promozione sufficientemente incisiva delle terapie domiciliari precoci, a novembre si riprenderà coi lockdown (motivo per cui la data del #goofy10 quest'anno è stata fissata nel weekend 15-17 ottobre, e sapete con quanta precisione venne fissata la data del #goofy9: venimmo rinchiusi in casa il giorno dopo la chiusura del convegno...);
  2. nessuna riforma delle regole europee potrà essere sufficientemente incisiva se da queste regole non verrà espunto qualsiasi riferimento al concetto di Pil potenziale e quindi a quello di output gap che per la sua infondatezza teorica e per la sua pro-ciclicità è fonte di opacità, di arbitrio e di distorsione deflazionistica.

Non sono due punti particolarmente originali. Sul primo non mi dilungo, non è il mio campo, e comunque quattro mesi passano in fretta. Per capire se l'argomento, che tra l'altro ha riscontrato nella replica l'apprezzamento del premier, sia fondato, o meglio: per costringere quelli "bravi" ad ammettere che è fondato, ci vorrà necessariamente molto meno dell'ultima volta.

Sul secondo invece forse occorre dilungarsi, perché qualche motivo di perplessità c'è. Ne vedo almeno due:

  1. conoscendo i tempi europei, e sapendo dalle tante voci dei tanti corridoi qual è l'atteggiamento delle nostre controparti nell'Unione Europea, mi permetto di esprimere una rispettosa perplessità rispetto all'idea che "abbiamo tutto il tempo". Personalmente temo di no, e mi piacerebbe che al "fate presto" che ci viene imposto su tanti temi, a partire da quello del fisco, in nome dell'"Europa", gli Stati membri opponessero un cortese ma fermo "fate presto" all'"Europa" in nome della razionalità economica;
  2. non vedo nel dibattito italiano, né in quello politico, né in quello pubblico, una sufficiente consapevolezza di che cosa ci sia che non va nell'attuale sistema di governance fiscale, e non vedo nemmeno tentativi di promuovere in tempi sufficientemente rapidi questa consapevolezza.

Anche qui, sul primo punto c'è poco da fare: dipende da quello che il premier chiama "diplomazia economica" e che io chiamo "rapporti di forza", rapporti che purtroppo in molte occasioni precedenti ci hanno visto soccombere.

Sul secondo punto (raising awareness), qualche cosa da fare invece c'è, ed è quello che qui abbiamo sempre fatto: promuovere il dibattito convocando le migliori intelligenze europee per individuare quali effettivamente siano le cause dei mali che ci affliggono, e quali terapie proporre, forti adesso non solo della nostra conoscenza della letteratura scientifica, ma anche, forse dovrei dire purtroppo, della nostra crescente consapevolezza di come funzionino (o non funzionino) le istituzioni.

Per questo motivo siete tutti invitati il 12 luglio prossimo, a partire dalle ore 14:30 all'Antonianum di Roma (lo stesso auditorium dove si svolse il #midterm goofy del 2014) a un dibattito organizzato dal gruppo parlamentare europeo Identità e Democrazia (ID), cui parteciperanno alcuni eminenti economisti, chiuso da una tavola rotonda cui parteciperanno parlamentari di tutti i partiti di maggioranza. Il tema del convegno sarà "Rebalancing Europe". Nell'ordine interverranno Zsolt Darvas (di cui vi segnalo questo contributo), Philipp Heimberger (di cui vi avevo segnalato qui questo importante lavoro e che ha avuto anche l'attenzione dei media italiani per il suo sforzo nel riequilibrare la narrazione sui presunti vizi del nostro Paese), e Antonella Stirati (di cui vi segnalo questo lavoro, che come ricorderete venne presentato al #goofy9).

Alla tavola rotonda finale, moderata da Andrea Pancani, parteciperanno, da sinistra verso destra: Stefano Fassina, Tommaso Nannicini, Luigi Marattin, Mario Turco, Renato Brunetta e Alberto Bagnai. Su sei esperti economici dei partiti di maggioranza cinque sono docenti universitari e uno - quello più a sinistra! - ha lavorato al Fmi. I colleghi esteri forse capiranno che il livello del dibattito italiano è meno immaturo di quanto essi generalmente presumono e spero che questo li aiuti ad arricchire la loro e la nostra analisi. Sarà un'occasione di scambio molto importante e conto sulla vostra presenza.

Poi, naturalmente, ci sono quelli che dicono che "sono tutte chiacchiere". Sono gli stessi che quando invece lotti in commissione per difendere la flat tax per le partite IVA (per fare un esempio fra i tanti di cosa piuttosto concreta) ti rimproverano di aver abbandonato la dimensione ideale del dibattito e di rifugiarti in tecnicismi o misure di dettaglio. Personalmente credo che il dibattito, rectius: il Dibattito, non sia stato così inutile, se ci ha condotto, come ci ha condotto, ad assistere a questa importante rivoluzione copernicana: era ora che qualcuno dicesse che nessun accordo è meglio di un accordo svantaggioso! Se a qualcuno spiace che a farlo sia stato Draghi, non so che farci. Sapete bene quanto ho lottato perché questo principio venisse affermato prima e, possibilmente, da altri, quelli in cui all'epoca mi identificavo e che in tanti modi hanno tradito la fiducia che riponevo (riponevamo?) in loro. L'importante è che certe idee si facciano strada, e soprattutto che poi si agisca in modo conseguente ad esse.

Ci vediamo presto.

(...a norma COVID non potremo avere più di 200 persone in sala. Sarete avvertiti quanto prima sulle modalità di prenotazione. Naturalmente a voi, che siete di famiglia, non potevo non dare questa anticipazione. Le prenotazioni avverranno inviando un'email all'indirizzo che vi dirò, e saranno accolte in ordine di arrivo, in base al meccanismo del "click day". Restate in linea...)

lunedì 30 settembre 2019

Helsinki

(...cerco di non perdere queste occasioni di incontro, anche se la loro effettiva utilità potrebbe essere facilmente contestata. Gli svantaggi sono evidenti: ore chiuso in una sala, ad ascoltare negli inglesi di tutta l'Europa le solite litanie, pronunciate nel solito linguaggio liturgico - ora vanno molto "inclusive", "green", ecc. Forse l'utilità maggiore è proprio questa: l'esercizio che fai nel tradurre in inglese - e poi da lì in italiano - gli altrui inglesi. Può sembrare una stupidaggine, ma se le cose continuano così - e anche se non continuassero così, a dire il vero - in effetti questo allenamento potrebbe tornare utile. Per il resto, ogni volta si vedono incrementi marginali nella consapevolezza dei partecipanti, ma c'è anche da chiedersi quanto siano significativi. A eventi di questo tipo partecipano, per definizione, gli interessati, soprattutto se si svolgono in un luogo che turisticamente non ha moltissimo da offrire. Quanto questi colleghi siano rappresentativi dei rispettivi parlamenti nazionali ve lo lascio immaginare. Non molto, credo. Per vostra comodità sviluppo qui brevemente dai miei appunti l'intervento che ho fatto, e che trovate qui...)

Mi ha colpito l'osservazione di Regling secondo cui ora dovremmo "portare a termine l'agenda delle riforme". Sembra sottintendere che dopo, una volta completate le riforme, saremmo finalmente arrivati: avremmo l'Europa che vogliamo. Il punto è proprio questo: che cosa sia "l'Europa", in particolare quella che vogliamo o dovremmo volere, non è chiaro. Non sappiamo cioè dove stiamo andando, non abbiamo un obiettivo, eccetto quello di un'Unione sempre più stretta (ever closer Union, art. 1 secondo comma del TUE).

Ora, questo nobile scopo è frustrato dalle regole sbagliate che ci stiamo dando. Consideriamo ad esempio l'evoluzione dello "Strumento di bilancio per la convergenza e la competitività" (BICC). All'inizio, questo strumento di politica economica prevedeva anche la stabilizzazione, cioè la possibilità di intervenire per contrastare shock macroeconomici avversi, ma poi la stabilizzazione è andata persa nella traduzione (traduzione in tedesco, ovviamente...).

Ora, noi sappiamo che non ci può essere convergenza senza stabilizzazione, e questo perché decenni di letteratura scientifica sull'isteresi ci dimostrano che gli shock di breve periodo hanno conseguenze di lungo periodo (per chi vuole approfondire). Questo significa che se non ci si preoccupa di smorzare immediatamente gli shock avversi che colpiscono un singolo membro, i paesi membri si troveranno su traiettorie divergenti.

Ma la nostra situazione è ancora peggiore, perché abbiamo deciso di prendere come riferimento per gli interventi di politica di bilancio il Pil potenziale, che in effetti, per come è calcolato, non descrive l'effettivo potenziale di crescita di un'economia, ma fotografa semplicemente il risultato dell'ultima recessione, inchiodando il paese al peggiore dei risultati raggiunti nella sua storia precedente (noi lo abbiamo visto qui e una buona spiegazione tecnica è qui).

Buti confuta queste affermazioni, ma i suoi argomenti, piuttosto che rassicurarci, ci inquietano perché ci mostrano qual è la reale natura del problema. Dicendo che le sue stime del prodotto potenziale non sono così pessime, e che in ogni caso la politica fiscale viene condotta con una certa discrezionalità, fa involontariamente capire una cosa che dovrebbe essere ovvia: le regole non sono neutre! Esse riflettono e cristallizzano rapporti di forza politici, sia nel modo in cui sono concepite che in quello (discrezionale) in cui venono applicate. La loro stessa evoluzione riflette i mutati rapporti di forza, e lo fa nel modo peggiore. Qui tutti abbiamo notato come le regole cambino durante le crisi, ma il problema è che nelle crisi i paesi forti sono più forti, e quelli deboli più deboli, per cui è difficile che queste revisioni in condizioni di urgenza, che senz'altro creano un quadro instabile, possano condurre a una situazione più equa. In effetti, il principale uso delle regole fnora è stato quello di giustificare le politiche sbagliate che si vogliono portare a termine a danno dei deboli, salvo poi essere cambiate quando, come ora, queste politiche cominciano a danneggiare i forti.

L'Europa non sappiamo bene cosa sia, ma è difficile che questo modo di procedere ci porti verso una società più giusta e più prospera.



(...altri commenti sparsi dai miei appunti. Regling ha confessato che il Meccanismo Europeo di Stabilità - MES, o ESM, o Fondo "salvastati" - non era parte del progetto iniziale, perché inizialmente era inconcepibile che un paese dell'Unione potesse perdere l'accesso ai mercati finanziari. Poniamo che sia così. Intanto, questo ci fa capire quanto siano state gravi le conseguenze dell'essere entrati in un progetto irrazionale come l'unione economica e monetaria: hanno reso possibile quello che era inconcepibile. E poi, la stessa fresca e giovanile incoscienza è stata applicata anche a cose molto più facilmente intuibili. Ad esempio, la moneta unica ha reso più facili i movimenti di capitali, ma la sorveglianza dei mercati finanziari è diventata unica solo dopo una crisi catastrofica: magari, se ci si fosse pensato prima, la crisi avrebbe potuto essere meno catastrofica!

Ha poi detto che non c'è deficit democratico e non ci sono vuoti di responsabilità perché "i ministri sono responsabili di fronte ai loro governi nazionali". Bè, questo è parzialmente vero: basta pensare a che cosa è successo qui, dove un governo è caduto anche su certe reticenze a coinvolgere un partito di maggioranza nel negoziato con l'Europa. Solo che per quanto i Parlamenti nazionali possano fare il loro lavoro, quando le cose sono state messe su un certo binario vanno avanti e influire su certi processi è molto complesso - vedi alla voce "rapporti di forza".

Buti ha insistito sull'importanza del breve periodo: mercati e cittadini vogliono risposte rapide. Giusto! Ma è esattamente in questo che l'elefantiaco apparato cui appartiene, e le complesse liturgie da esso imposte - come il semestre europeo - non ci aiutano. E questo Alesina lo aveva previsto, come qui ben sapete. Ha poi citato Habermas sulla solidarietà: è interesse di chi sta meglio sopportare il temporaneo svantaggio di chi sta peggio perché i ruoli potrebbero invertirsi. Giusto anche questo! Solo che i tedeschi da questo orecchio non ci sentono, e hanno ragione loro: l'aver trascurato meccanismi di risposta efficiente agli shock, e l'aver condito il tutto con regole procicliche - la stessa moneta unica per tanti versi lo è - condanna alcuni paesi a chiedere sempre e sempre di più, e altri a dare in proporzione. Non stiamo parlando di un meccanismo assicurativo, ma di un pozzo senza fondo, e quindi il tedeschi non sono degli ignoranti che non hanno letto Habermas. Sono delle persone mediamente acculturate in macroeconomia, anche se non hanno letto Bagnai!

Rehn ha parlato della necessità di salvaguardare la stabilità dei prezzi, e improvvisamente alle mie orecchie ha risuonato una nota canzone. Ora, in Finlandia questa canzone suona sempre un po' strana - anche se ieri c'era gente che faceva il bagno nel porto - ma non più di quanto suoni strano negli anni dieci, che sono anni di deflazione, il richiamo alla stabilità dei prezzi, che poteva avere un senso trent'anni fa! L'inflazione, in Italia, è a una cifra del 1985 - non se ne dolgano i cialtroni: è un fatto! - e in generale dagli anni '90 non è un problema, mentre è decisamente un problema il fatto che dopo l'iniezione di quasi 3000 miliardi di liquidità sul mercato la Banca Centrale Europea non riesca a rispettare il proprio obiettivo del 2% - come ha notato anche la collega Domingos del parlamento portoghese.

Ultimo, il collega Michelbach del parlamento tedesco. L'ho incontrato anche a Roma, è venuto a trovarci, e ho ascoltato il suo piagnisteo sui tassi negativi che fanno tanto male alla Germania. Ma caro Hans, il discorso è molto semplice: avete voluto costruire la vostra economia sulla domanda altrui, avete punito i vostri clienti più vicini con politiche di austerità, siete quindi stati costretti a svalutare l'euro per esportare fuori zona, e naturalmente per avere un euro debole dovete avere tassi bassi: se i tassi di interesse dell'euro fossero alti, dal resto del mondo arriverebbero capitali, gli investitori domanderebbero euro per acquistare attività denominate in euro e godere dei loro alti rendimenti, ma la domanda di euro farebbe crescere il tasso di cambio dell'euro e voi andreste più velocemente in recessione. Quindi, caro, decidi cosa volete! Tassi di interessi alti sul vostro tesssssoro, e un tasso di cambio basso per continuare ad accumularlo, non si possono avere.

Ecco: questo è il loro livello di consapevolezza. Il vostro credo sia superiore. Quindi: resistere...).

domenica 2 giugno 2019

Ancora sulle regole

Il Financial Times torna su un tema del quale qui ci siamo occupati per anni, e che ora dovremo approfondire, quello delle regole fiscali. Le posizioni del mainstream, come previsto, sono in rapida evoluzione. La logica della deflazione è quella della concentrazione del reddito e della ricchezza: una logica politicamente insostenibile nel lungo andare, almeno in un regime democratico. Nonostante i media ci raccontino il gran successo elettorale degli unionisti, in giro si nota una certa preoccupazione. Darci dei fascisti può funzionare nel brevissimo periodo, ma nel lungo andare bisognerà pur trovare una strategia meno perdente dell'insultare chi ti ha votato contro! Per giustificare il fatto che adesso (cioè dopo aver impoverito i poveri, ma prima di impoverire tutti i ricchi!) bisogna fare investimenti c'è chi drammatizza la "crisi climatica" (il verde, per gli investimenti, si porta sempre bene...), e c'è chi invece se la prende con le regole, scoprendo l'acqua calda, ovvero che il concetto di Pil potenziale è una colossale scemenza.

Il migliore articolo che ho trovato su questo argomento è quello di Heimberger e Kapeller (2017). Se avremo tempo, lo leggeremo insieme, ma il messaggio è molto semplice, ed è quello che vi avevo illustrato nell'articolo sulle regole (scritto prima di leggere questo contributo "tecnico"): il Pil potenziale, per come viene calcolato, è semplicemente una sorta di media dei passati risultati economici. Se, per motivi dipendenti dal ciclo economico globale, un paese in un determinato anno ha un risultato economico fortemente negativo, perché il resto del mondo non ha domandato i suoi beni, le regole di Bruxelles attribuiranno a questo paese, da lì in avanti, una ridotta capacità di offrire, cioè di produrre, beni, e quindi qualsiasi manovra sulla spesa pubblica che implichi una maggiore domanda di beni sarà vista come inflazionistica, perché la domanda determinata dalla maggiore spesa pubblica (o dalla ridotta raccolta fiscale) "urterà" contro una capacità produttiva ridotta e quindi genererà inflazione (per la legge della domanda e dell'offerta).

Naturalmente, ragionando in questo modo un paese che viene "tirato giù" da una crisi non potrà mai permettersi (secondo Bruxelles) lo sforzo fiscale necessario a "tornare su", perché altrimenti rischierebbe l'inflazione, quella orrenda tassa sui più poveri, l'unica che ai ricchi sta tanto a cuore non mettere, forse perché quando ce n'era un po' di più i poveri non stavano così male, come qui vi dimostrai numeri alla mano (forse dovremmo capire che i ricchi fanno gli interessi di se stessi, e quindi seguire i loro consigli e le analisi delle loro televisioni solo se siamo anche noi ricchi come loro... nel qual caso avremmo di meglio da fare che guardare la TV!). In questo senso le regole di Bruxelles obbligano a mantenere un certo livello di disoccupazione, un congruo esercito industriale di riserva, quello compatibile col cosiddetto NAIRU.

Ma il dato paradossale è che, senza rendersene conto, gli offertisti, quelli secondo cui non è possibile che la produttività sia influenzata dal lato della domanda, e quindi in particolare non è possibile che abbia risentito del rallentamento delle esportazioni (come noi abbiamo argomentato qui e pubblicato qui e qui), costruiscono una misura di offerta (il prodotto potenziale) totalmente e irrazionalmente dipendente dall'andamento della domanda! Insomma: nella loro prassi si conformano, in modo inconsapevole e distorto, alla logica che forse dovrebbero seriamente e consapevolmente prendere in considerazione nelle loro teorie, quella post-keynesiana.

Se, per un momento, e senza particolare pretesa di scientificità, ci adeguassimo al loro modo di ragionare, considerando domanda e offerta come due mondi distinti e separati, dovremmo dirci che il fatto che per un anno la domanda internazionale crolli non dovrebbe influenzare più di tanto il potenziale produttivo di un paese, che quindi dovrebbe restare sulla sua traiettoria storica (a differenza dal risultato effettivo, condizionato appunto dal crollo della domanda). Insomma, in questo grafico:


la misura del Pil potenziale più attendibile (nella logica offertista) dovrebbe essere la linea tratteggiata grigia, che estrapola la tendenza storica fra il 1980 e il 2007. Il Pil potenziale del Fmi (come quello dell'Ocse e quello dell'Ue), invece, si adegua passivamente al risultato storico, cioè alle dinamiche della domanda. Il risultato è che se un governo chiede, in circostanze visibilmente eccezionali come quelle del 2009, di fare uno sforzo di bilancio (più spese, minori entrate) per tornare sul suo sentiero di crescita di lungo periodo (la linea grigia), Bruxelles risponde di no "perché altrimenti fai inflazione", indipendentemente dal fatto che lo sforzo sia dentro o fuori la regola del 3%. Secondo Bruxelles, per essere chiari, superando l'1,6% di deficit nel 2019 avremmo portato il Pil a eccedere il potenziale, facendo accelerare l'inflazione!

Ma (per aggiungere al danno la beffa), anche restando nella loro logica da minus habens, ci sarebbe da chiedersi: dove sarebbe mai il danno se accelerassimo l'inflazione italiana? Dallo scoppio della crisi dei "debiti sovrani" (cioè pubblici) l'inflazione in Italia è stata in media dell'1.3%. Ci siamo persi uno 0.7% di inflazione all'anno per 10 anni, cioè 7 punti di inflazione cumulata, che avrebbero contribuito ad alleviare il peso del nostro debito.

Ma questo non interessa apparentemente a nessuno.

Il dato vero è un altro: il riferimento al Pil potenziale, voluto (paradossalmente) e elaborato da economisti e funzionari italiani della Commissione per aggiungere "flessibilità" alle regole, si è rivelato un inutile cappio al collo, perché ci ha condannato ad avanzi primari eccessivi, che hanno ucciso la nostra crescita, quando l'esperienza dimostra che la regola del 3%, quella sancita dai Trattati, nonostante fosse irrazionale e controproducente, l'Italia se la poteva permettere e come!

I numeri sono qui:


Nei 20 anni dall'inizio di questa fantastica avventura la Francia ha violato la regola 13 volte, la Germania 7, e l'Italia 9 (di cui una per pochi decimali: faremmo meglio a dire 8). Diciamo che siamo stati molto più tedeschi che francesi. Il deficit francese in media è stato del 3.6% del Pil, quello tedesco dell'1.2% (bravi, ma naturalmente ci sono controindicazioni), e quello italiano del 3.0%. Di conseguenza, gli scostamenti dalla regola del 3% sono stati in media praticamente nulli, mentre nel caso della Francia gli scostamenti cumulati equivalgono a 11.3 punti di Pil di deficit (e per la Germania a 35.5 punti di Pil di surplus).

Invece di impiccarci ai bizantinismi del deficit strutturale, ci sarebbe convenuto, e ci converrebbe, tenerci la regola iscritta nei Trattati, che alla prova dei fatti ci avrebbe offerto molto più spazio fiscale della cosiddetta "flessibilità", calcolata sul nulla, con algoritmi che non sono più capiti neanche da chi li ha congegnati, su basi statistiche fragili e continuamente soggette a revisione, con una totale opacità rispetto al controllo democratico dei cittadini, e con margini di discrezionalità più ampi e più arbitrari di quelli che il feticismo delle regole, in teoria, dovrebbe permettere.

Questo bel capolavoro è dovuto per lo più a seguaci di quello che chiamò queste regole "stupide".

Certo, la regola del 3% nominale è stupida. Ma impreziosirla di tanti arzigogoli non ha aiutato molto il Paese (posto che lo si volesse fare), anzi! Siamo qui ridotti a non considerare come eccezionali circostanze in cui il nostro Pil viaggia quasi 400 miliardi di euro al disotto della sua traiettoria inerziale, perché per il metodo di calcolo "intelligente" col quale abbiamo corretto le regole "stupide" va bene così! Se questo è essere intelligenti, ben vengano gli stupidi, anche perché fra l'altro, com'è ben noto, votano male, cioè per il partito di chi vi scrive (cosa della quale io li ringrazio)!

Le posizioni del mainstream, ripeto, sono in rapida evoluzione, e una parte del merito è di questa comunità.

venerdì 19 aprile 2019

L'arringa

(...l'hanno chiamata così quelli che non sanno mettere le virgolette, così ci hanno chiarito da che parte stanno. Tecnicamente, è una dichiarazione di voto. Avevo dieci minuti, ma siccome l'Europa (?) ci chiede di tagliare, ne ho risparmiati un paio...)



(...poi sono andato dalla collega Bellanova a scusarmi perché non ero proprio riuscito a capire che cosa volesse dirmi, e dalla collega Fedeli per abbracciarla fortissimo: in fondo sono un buono, e soprattutto una personalità debole, traviata dalle cattive compagnie - cattive come Simone Bossi, alla mia destra nello schermo, che mi ha suggerito il collegamento fra Pillon e Pil...)

(...sul NAIRU e sull'output gap potremo fare, quando ne avremo tempo, un discorso tecnico. Per ora mi limito ad osservare che il carattere prociclico delle regole basate sul prodotto potenziale è ormai accertato dalla letteratura scientifica - qui un esempio - e che l'insofferenza verso questo quadro concettuale bizantino e infondato si sta diffondendo. Inutile dire che finché tutti, ma proprio tutti, con la limitata eccezione di un sottoinsieme ristrettissimo di voi, continueranno a vivere nel delirio allucinatorio della partita singola - quella in cui al debito pubblico non corrisponde alcuna attività, materiale o immateriale - e nei paradossi della moneta merce - quella che siccome se ne emettono migliaia di miliardi dovrebbe perdere valore, ma non sembra minimamente intenzionata a farlo - sarà piuttosto arduo far maturare una reale coscienza politica dell'assurdità di certe fumisterie. Ma noi abbiamo tanto tempo a disposizione. Stiamo schierando le nostre batterie, la battaglia non è nemmeno cominciata...)

domenica 2 dicembre 2018

Le regole

Come sapete, i Trattati europei attualmente prevedono che il rapporto deficit pubblico/Pil non debba eccedere il 3%. Su questa regola si innesta dal 1997 il Patto di stabilità e di crescita (la crescita come sapete si è persa per strada, ma passons), secondo cui il deficit pubblico deve tendere a situarsi in una posizione vicina all'equilibrio o in surplus: potremmo chiamarla la regola dello 0%. Non mi dilungo sulle assurdità di un mondo a deficit zero, che nel lungo periodo è necessariamente un mondo a debito zero (sembra una bella cosa, ma non lo è per tanti motivi che qui abbiamo discusso e che ora non ho tempo di ridiscutere). Sapete anche che in vigenza della regola dello 0%, Germania e Francia decisero di violare la regola del 3% (i motivi della violazione da parte della Germania ve li spiegai a suo tempo qui: sostanzialmente, finanziare la madre di tutte le violazioni della concorrenza - sul mercato del lavoro). Non entro qui nemmeno sul diverso rango giuridico delle due regole (ci ha lavorato Giuseppe Guarino, magari con calma facciamo un'analisi di quel tipo: ora mi interessa darvi una prospettiva più economica).

La regole dello 0% in realtà è temperata dal fatto di riferirsi ai saldi di bilancio strutturali. Cosa sono questi saldi strutturali? Senza entrare (per ora) nelle formule, potremmo definirli come saldi corretti per la fase del ciclo economico. Un primo "spiegone" non troppo tecnico lo trovate qui. L'idea (di per sé sensata) è che se si è in fase recessiva, il riferimento allo 0% è controproducente: occorre che lo stato intervenga per sostenere l'economia. La soluzione adottata è quella di considerare ai fini del rispetto delle regole non il saldo nominale, ma quello corretto sottraendo la componente ciclica.

Quest'ultima, a sua volta, è il prodotto di due elementi: il primo è l'output gap, cioè lo scarto fra Pil effettivo e Pil potenziale (in percentuale del Pil potenziale). Cos'è il Pil potenziale? Viene variamente definito come il livello di prodotto raggiungibile in condizioni di piena occupazione delle risorse, o raggiungibile senza creare tensioni sui prezzi. Quindi, è una stima. Il secondo numeretto è anch'esso una stima: la stima della semielasticità del saldo di bilancio all'output gap (cioè: la stima di quanto reagisce "automaticamente" il deficit pubblico al rallentamento o all'accelerazione del ciclo economico, ad esempio per effetto dei cosiddetti stabilizzatori automatici: banalmente, il fatto che se l'economia gira, crescono gli imponibili, cresce la raccolta fiscale e quindi il deficit cala, come pure diminuiscono i sussidi di disoccupazione e quindi il deficit cala, mentre il contrario accade se l'economia non gira).

Il secondo numeretto (la semielasticità) è sempre positivo, mentre l'output gap può essere positivo o negativo.

Se l'output gap è positivo, il Pil effettivo è superiore al potenziale, cioè c'è rischio di tensioni sui prezzi (surriscaldamento dell'economia). In questo caso al saldo di bilancio nominale viene sottratto il prodotto di due numeri positivi (l'output gap e la semielasticità), il che significa che il saldo strutturale è inferiore a quello nominale. In altre parole, in queste circostanze il deficit valutato in termini strutturali è più ampio di quello registrato contabilmente, il che significa che le regole fiscali, tarate sui saldi strutturali, imporranno un percorso più restrittivo.

Se l'output gap è negativo, cioè se il Pil effettivo è inferiore al potenziale (insomma: se siamo in condizioni recessive), il saldo strutturale si ottiene sottraendo a quello nominale il prodotto di un numero positivo (la semielasticità) per un numero negativo (l'output gap), cioè sottraendo una grandezza negativa. Dato che meno per meno fa più, in caso di output gap negativo il deficit (saldo negativo) valutato in termini strutturali sarà inferiore (in valore assoluto) al deficit "contabile", e quindi le regole consentiranno di adottare una politica di bilancio più espansiva.

Per un esempio, vi fornisco un estratto del WEO del 2014 (il primo che mi sono trovato fra le mani), da cui vi mostro output gap e saldo nominale e strutturale dell'Italia (in rapporto al Pil):






Nel 2008 l'output gap era positivo (secondo loro) e quindi nonostante noi rispettassimo la regola del 3% in termini contabili (-2.67), la stavamo violando in termini strutturali (-3.99): insomma: avremmo dovuto essere più formichine, più buon padre di famiglia, e via scemenzando secondo lo stantio repertorio neoliberista (la medicina fa bene solo se è amara, il tetto va riparato prima che piova, ecc.).

Nel 2009 l'output gap era negativo, e quindi, anche se in termini nominali stavamo violando la regola del 3% (-5.41), in realtà in termini strutturali la violazione era più contenuta (-4.2). La famosa "flessibilità" di cui si parla entra in gioco in questo ragionamento. Dato che nel 2009 le condizioni congiunturali erano seriamente compromesse, con un Pil effettivo sotto al potenziale, fra saldo strutturale e saldo nominale c'era un "gioco", un "lasco", uno "spread" di circa 1.2 punti di Pil: una certa flessibilità di bilancio poteva essere tollerata.

Spero che la logica del gioco sia chiara: imporre regole rigide (0%) con applicazione flessibile a seconda delle condizioni del ciclo economico.

Il problema, però, è che, come i veri tecnici sanno (cioè quelli con un minimo di preparazione in econometria e in particolare in analisi spettrale) la determinazione di quale sia la fase congiunturale presente è estremamente complessa sia in termini concettuali che in termini pratici. Le procedure che Bruxelles sceglie per calcolare l'output gap sono tali che, come avrete notato nel documento che vi ho linkato sopra, perfino i documenti della Commissione ne prendono le distanze, e think tank (o più esattamente  yes thank) ultraeuropeisti come il Bruegel se ne fanno apertamente beffe. Il fatto che il concetto di output gap (e, a valle, quello di "flessibilità") sia così gelatinoso (wobbly) non impedisce a una simpatica corte di miracoli di politici trombati qui o altrove, di opinionisti da un soldo al mazzo, di esperti di varia estrazione, di articolare su di esso inqualificabili rodomontate contro l'attuale governo italiano. La flessibilità, insomma, per come viene calcolata, è una stima basata sul prodotto fra una stima e una stima, e su nessuna di queste stime (o, più esattamente, delle metodologie su cui si basano) esiste un consenso scientifico nemmeno all'interno del fronte di chi le sta usando per imporci un'agenda politica.

E già qui ci sarebbe da dire.

Peraltro, ho sempre dato atto, anche in aula, a Padoan di aver sollevato questo problema, se pure con eccessivo garbo e quindi con risultati scarsi (dell'ordine dei pochi decimali).

Tanto per farvi capire di cosa si sta parlando, vi propongo il grafico del Pil effettivo e potenziale dal 1980 al 2007 tratti dal WEO di aprile 2007:


e dall'ultimo WEO (quello dell'ottobre 2018):

Notate nulla? Nell'aprile 2007, cioè quando si sarebbe dovuto stilare il DEF per i tre anni successivi, il Pil effettivo risultava inferiore a quello potenziale. L'indicazione che il Pil potenziale forniva nel 2007 era quindi quella di stimolare l'economia. Vista dal 2018, invece, la situazione sembra completamente diversa: il 2007 appare come un anno "sopra" potenziale, in cui l'economia la si sarebbe dovuta rallentare, il che, alla luce della catastrofe che è venuta dopo (nel 2008, con Lehman) sembra quantomeno paradossale.

Da cosa dipende questo paradosso? Lo capiamo se allarghiamo lo zoom prendendo il grafico del Pil effettivo e potenziale fino al 2023, calcolato nell'ottobre scorso (2018):



Le metodologie di calcolo del Pil potenziale sono tali da rendere questa misura una specie di media del Pil effettivo (tecnicamente si parlerebbe di "filtraggio" della serie, e chi è addentro sa che in Europa un pezzo del discorso è l'uso del filtro di Kalman, usato per depurare dal rumore "ciclico" il segnale "strutturale"). I paradossi di questo modus operandi sono molti, e il primo è che, come vedete dall'ultimo grafico, la misura di quale sia il potenziale produttivo di un'economia dipende in modo cruciale da quali siano stati i suoi andamenti passati. In altri termini: se l'economia viene colpita da un forte shock di domanda mondiale (come è accaduto nel 2008-2009), a partire dall'anno successivo la stima di quale sarebbe il potenziale di offerta del paese viene ridotta al ribasso, senza che vi siano, di per sé, particolari motivi per farlo, almeno nel quadro ideologico di riferimento di chi adotta queste regole. Questo quadro di riferimento è, ve lo ricordo, offertista (l'offerta crea la domanda, l'offerta non è condizionata dalla domanda), e fondato sulla razionalità individuale (l'economia è guidata dalle aspettative sui comportamenti futuri degli agenti economici, aspettative che mediamnte risultano corrette). Il paradosso è che i nostri amici razional-offertisti, quando vanno a concepire regole di politica economica, si appoggiano a un quadro statistico che contraddice completamente il loro approccio ideologico, perché in esso la domanda influisce sull'offerta (il Pil potenziale cala se c'è una crisi di domanda) e le valutazioni sono backward looking (la stima del potenziale produttivo futuro cala se in passato è calata la produzione/reddito dell'economia).

Capite perché a me viene da ridere quando mi chiedono (come mi chiederanno): "ma sarà 2.4 o 2.2?".

Il vero problema, qui ed ora, è che è completamente assurdo considerare il 2018 e gli anni ad esso successivi come anni in cui il gap è chiuso (e quindi non può essere concessa al nostro paese flessibilità di bilancio, perché altrimenti finiremmo "sopra potenziale" surriscaldando l'economia). Insomma: è assurdo considerare come strutturale una disoccupazione prossima alle due cifre, che è poi l'ovvio risultato che si ottiene se si vuole portare vicino allo zero un saldo strutturale costruito con riferimento a simili stime del potenziale, stima che incorporano, perpetuandola, quella divergenza dal percorso di lungo periodo di cui vi ho parlato qui.

Notate bene: visto che il Pil potenziale è così influenzato dai risultati passati, ne consegue che chi rispetta le regole, riportando rapidamente il saldo di bilancio sotto controllo (come noi abbiamo fatto in particolare con Monti), si fa male due volte: una subito (cioè nel 2012, e ce ne siamo tutti accorti), e una in futuro (cioè oggi), quando nel suo "potenziale" di crescita verrà incorporato lo shock negativo che il rispetto delle regole non ha consentito di attutire. Chi ha fatto il furbo, come la Francia, invece ora è avvantaggiato, perché il suo potenziale sembra più alto del nostro, il che significa che a parità di recessione qui e lì, a loro può essere concessa maggiore flessibilità oggi perché se la sono presa ieri.

Chiaro?

Ecco: spero di avervi avvicinato meglio al fantastico mondo delle regole. Ora sapete con chi avete a che fare.

State saldi (in senso morale, non strutturale). La storia non perdona l'irrazionalità. Non cedete alle provocazioni, non credete alla propaganda, e sostenete chi porta una voce di razionalità nel dibattito.

lunedì 19 ottobre 2015

“España va bien”

(...qualcuno mi chiedeva: "cosa significa 'contribuire a rendere internazionale la nostra divulgazione'?". Bè, ad esempio questo:)

da Agenor ricevo e grato pubblico:

Ya nadie se atreve en España a utilizar explícitamente el eslogan con el que José María Aznar pretendía callar cualquier voz crítica con su gobierno, proclamando que “España va bien” y punto. Sin embargo, este es el mensaje que implícitamente se intenta vender en estos meses de acercamiento a la campaña electoral para las elecciones generales de diciembre. El debate sobre la economía se vuelve más animado, pero no más informado. España es el país en que menos se habla del problema fundamental de la economía europea: la unión monetaria, su instabilidad, ineficiencia y difícil sostenibilidad.

(continua)

(...ah, se poi qualcuno vuole fare il lavoro inverso e mandarcelo, per noi va anche bene...)