(...
s'era detto che avremmo continuato, e continuiamo. Questo blog è anche un percorso didattico, e dobbiamo fare una tappa importante...)
Vorrei riprendere, visto che siamo in vacanza, e di tempo ne avete, un argomento che abbiamo affrontato cinque anni or sono, quello dell'
aritmetica del debito pubblico, ovvero delle relazioni che legano la crescita del debito (e del suo rapporto al Pil), ad altri fondamentali macroeconomici quali il deficit (e il suo rapporto al Pil), la crescita, il tasso d'interesse, ecc. Su questo argomento avete sentito, sentite, e sentirete sproloquiare una caterva di personaggi in cerca di editore (o di incarico), per cui è bene che vi attrezziate con un minimo di strumenti tecnici, allo scopo di orientarvi con scioltezza in un terreno nel quale gli agguati ideologici sono all'ordine del giorno.
Premessa
Prima di entrare in argomento, è indispensabile fare una premessa. In questo blog abbiamo sempre sostenuto, perché lo sosteneva la Commissione Europea, che il debito pubblico italiano fosse
perfettamente sostenibile sia nel breve che nel lungo periodo. Già che ci siamo, aggiorno le informazioni: il post sull'eugenetica pensionistica è del 2016, e da allora abbiamo avuto altre due edizioni del
Fiscal sustainability report, che nel frattempo si chiama
Debt sustainability monitor, quella del
2016 e quella del
2017. Non è cambiato solo il titolo, ma (in parte) anche le conclusioni: ora l'indicatore S2 di sostenibilità a lungo termine, quello che tiene conto delle passività implicite nell'evoluzione del sistema pensionistico (cioè, in italiano, del fatto che lo Stato dovrà trovare i soldi per le pensioni), evidenzia una lieve criticità:
L'Italia ora è nella regione "insostenibile", e se confrontate questi grafici con quelli degli anni precedenti (l'ultimo disponibile era quello del 2015, elaborato sui dati fino al 2014), noterete che ci è entrata spostandosi orizzontalmente a destra, anziché verticalmente verso l'alto.
Uno spostamento verticale verso l'alto avrebbe significato un peggioramento delle previsioni a lungo termine, quelle riferite alla spesa pensionistica, che invece sappiamo essere favorevoli per il nostro paese. Lo conferma il
Rapporto sullo stato sociale 2017, che ribadisce come il rapporto fra spesa pensionistica e Pil sia previsto in discesa:
il che rende vacue (o meglio: sospette) le reiterate invocazioni di nuove riforme pensionistiche (e anche perfettamente giustificata la nostra proposta di abrogare l'ultima: ma di questo vi parlerò in altra sede).
Lo spostamento orizzontale verso destra significa che ora il debito italiano è insostenibile perché si è deteriorata la situazione iniziale (unfavourable initial fiscal position), cioè perché il rapporto debito/Pil oggi è alto. Come si sia innalzato lo sapete, perché ne abbiamo parlato nel
fact checking sull'operato del mio nuovo collega, Monti: quello che ha trovato il rapporto debito/Pil al 116% e ce lo ha restituito al 131%.
Quindi ora possiamo dire anche noi, forti dell'
auctoritas della Commissione, quello che quattro petulanti cialtroni ideologizzati (o prezzolati) ci hanno detto per anni, quando non era vero, vale a dire che in effetti cominciamo ad avere un (lieve) problema di sostenibilità del debito. Naturalmente i quattro suddetti cialtroni ora esulteranno: sarà il loro
I-told-you-so moment, quello che noi chiamiamo un #VLAD (ve lo avevo detto). Ma qui #VLAD posso dirlo solo io, non i cialtroni della stampa o della politica: se avete seguito il ragionamento, infatti, capirete che i grafici del
Debt sustainability monitor sono la conferma definitiva del fatto genetico di questo blog, ovvero della denuncia che
i salvataggi di Monti non solo non ci hanno salvato, ma, facendo aumentare il rapporto debito/Pil, ci hanno definitivamente affossato, rendendo fragile una situazione di finanza pubblica che non lo era (e facendolo, possiamo dirlo, oggettivamente non nell'interesse del paese, come è evidente
ex post, ma di chi ha ricevuto dal paese miliardi in quota "fondo salvastati").
L'austerità di Monti è stata l'amputazione di una gamba se non sana, almeno non malata (la finanza pubblica, che grazie all'austerità è diventata meno sostenibile perché è diminuito il reddito degli italiani,
unica vera garanzia di sostenibilità), mentre si trascurava (scientemente? Ideologicamente?) la gamba malata, ovvero quelle banche delle quali ora tutti vedono le criticità (
mentre nel 2011 le vedevamo veramente in pochi).
Questo tanto per ricordare ai prezzolati o ai turisti che si trovassero casualmente a curiosare da queste parti che io, invece, in Senato non mi ci trovo per caso, ma perché ho fatto il possibile per mettere in guardia i miei concittadini da alcune catastrofi annunciate (e solo un partito ha saputo raccogliere il mio grido di allarme). Poi starà a loro decidere se continuare il percorso con noi, e magari parlarne nei loro fogli che nessuno più compra (perché non hanno avuto, né potevano avere, la lucidità di questo blog). Le cose, in ogni caso, continueranno ad andare come devono: i processi storici ed economici sono oggettivi, l'individuo conta, ma fino a un certo punto, le intenzioni contano zero di fronte ai risultati, e i conti si fanno alla fine...
La sintesi di questa premessa è che ora il problema c'è, che è stato creato da chi pretendeva di risolverlo quando non c'era, e che per evitare di aggravarlo dobbiamo essere estremamente consapevoli di cosa guidi la dinamica del rapporto debito/Pil. Solo questa consapevolezza ci permetterà di non trovarci, nel 2018, o nel 2019, con una "initial fiscal position" ancora più "unfavourable" di quella in cui ci ha messo il salvatore della Patria (altrui). Va anche detto che la dimensione tecnica, quella che qui vi esorto ad approfondire, non è poi così essenziale: per rifiutare certi argomenti basterebbe quella comunicativa (le favolette morali sullo Stato come una famiglia), e basterebbe ricordarsi di chi abbia propalato ricette letali per il paese (i soliti noti). Lo so, non è politicamente corretto, ma me ne infischio: purtroppo certi argomenti valgono quanto le persone che li propalano, e se una persona viene da un'istituzione o da una società che ha fallito o sta fallendo, o ha millantato titoli che non aveva, o risponde chiaramente a interessi particolari dai quali dipende la sua sussistenza, si può tranquillamente girar pagina o cambiare canale. Però se voi siete qui è perché volete sapere quello che non sapete (a differenza dei piddini, che non vogliono sapere
quello che sanno di sapere). Quindi, passiamo alla "tecnica".
Riassunto della puntata precedente
Vi ricordo che questa è la seconda puntata di un discorso iniziato
qui, che sarebbe meglio vi riguardaste prima di andare avanti. Qui lo riassumo, semplicemente per mettere in evidenza in cosa oggi arricchiamo il nostro bagaglio tecnico.
Molto rapidamente: il deficit o indebitamento o fabbisogno
F è definito come variazione del debito
D:
per cui, ad esempio, il deficit del 2017 è la differenza fra il debito a fine 2017 e il debito a fine 2016 (cioè inizio 2017):
Dividendo per il valore del Pil a prezzi correnti,
Y, questa relazione, si arriva a dimostrare che:
(è la formula (4) del
post citato), dove le lettere minuscole indicano i rapporti al Pil di debito (
d) e deficit (
f). Il rapporto debito/Pil a fine anno dipende dal fabbisogno dell'anno trascorso, più il rapporto debito/Pil dell'anno precedente diviso per uno più il tasso di crescita del Pil nominale (gamma). Al di là della magia matematica di questa formula, il senso è chiaro: un maggior deficit
f porta a un maggior debito
d (e ci mancherebbe!), ma una maggior crescita "diluisce" il rapporto, frenandone la crescita.
Con una ulteriore, semplice, manipolazione matematica si può dire la stessa cosa in modo forse più chiaro. Possiamo esprimere la variazione del rapporto debito/Pil
d (ottenuta sottraendo a entrambi i membri il valore di
d al tempo precedente), scomponendola in una parte che dipende dalla crescita, e una che dipende dal fabbisogno:
(è la formula (6) del
post citato). Vi faccio notare che se la crescita è bassa, dividere per uno più gamma equivale a dividere per uno, e quindi gamma è sostanzialmente identico a gamma diviso per uno più gamma:
(va notato che negli ultimi quattro anni la nostra crescita nominale media è stata attorno all'1.5%, cioè è 0.015, mentre l'approssimazione comincia a non funzionare per valori attorno al 2.5%), per cui la formula può essere ulteriormente snellita, utilizzando il segno di uguaglianza approssimata:
Qui si vede che il rapporto debito/Pil cresce se il rapporto fabbisogno/Pil (
f) è positivo e non è compensato dal prodotto fra la crescita nominale (gamma) e il rapporto debito/Pil del periodo precedente. Si vede anche che per azzerare la crescita del rapporto debito/Pil occorre e basta un fabbisogno pari al prodotto fra la crescita nominale e il valore precedente del debito:
Abbiamo utilizzato questa formula
in questo post per studiare quanto ci sia costato Monti, con il suo insano (o scaltro) proposito di abbattere il rapporto debito/Pil, quando sarebbe stato molto meglio darsi come obiettivo la sua stabilizzazione (proposta all'epoca da
Riccardo Realfonzo). Per non ripetere oggi gli errori di ieri, bastano le quattro operazioni. Dato che nel 2017 si stima che il rapporto debito/Pil sia stato del 131.6% (1.316) e che la
nota di aggiornamento al DEF prevede per il 2018 una crescita nominale del 3% (0.03), ne consegue che il rapporto deficit/Pil che stabilizzerebbe il debito nel 2018 sarebbe pari a 0.03x1.316 = 0.039 (il 3.9%). Da notare che nel nostro quadro programmatico prevediamo invece un rapporto deficit/Pil del 2.8% (superiore all'1.6% proposto dal governo, o al suicida 1.2% proposto da +Europa, col quale si sarebbe ripetuto l'errore di Monti!), che quindi porta a una diminuzione (controllata) del rapporto debito/Pil (essendo inferiore al valore del deficit che questo rapporto lo stabilizzerebbe).
Il problema è che qui stiamo considerando solo il fabbisogno complessivo. Il passo avanti che vorrei fare oggi con voi è scorporare il fabbisogno complessivo in fabbisogno primario (al netto della spesa per interessi) e spesa per interessi. Il vantaggio di questa piccola complicazione è che ci permetterà di analizzare l'impatto sulla sostenibilità del debito pubblico delle variazioni del tasso di interesse (sappiamo che dovrà crescere, no?), e inoltre ci permetterà di ragionare in termini di avanzo
primario, una categoria che nel dibattito viene utilizzata spesso.
Scomponiamo il deficit
A questo scopo, esprimiamo il fabbisogno complessivo scomponendolo nel modo seguente:
ovvero, la variazione del debito è pari alla spesa per interessi (a sua volta data dal prodotto del tasso di interesse per lo stock di debito esistente all'inizio del periodo), cui viene
sottratto l'avanzo primario. Mettiamo un segno meno proprio perché stiamo ragionando in termini di avanzo (differenza fra entrate e uscite). Se ragionassimo in termini di disavanzo (differenza fra uscite e entrate) dovremmo mettere un segno positivo. Lo facciamo perché mentre quando si ragiona in termini complessivi ci si sofferma sul deficit, quando si parla di saldi primari normalmente si considera l'avanzo. Non chiedetemi perché! L'importante, però, è capirsi. Ovviamente mentre un disavanzo aggiunge qualcosa al debito, un avanzo sottrae al debito: ed è per quello che lo vedete con il segno meno.
Ripetendo i passaggi che portano dalla (3) alla (4) del precedente
post, dato che
dividendo per il Pil nominale
Y otteniamo:
e sottraendo il rapporto debito/Pil al tempo precedente da entrambi i lati:
ricaviamo la variazione del rapporto debito/Pil in funzione del tasso di interesse
i e dell'avanzo primario
a (in rapporto al Pil):
La formula è molto simile alla (6) del post precedente. Lo si vede meglio se la scriviamo così:
dove ho scomposto il rapporto presente nella (3) nei suoi due termini (questo vostro figlio lo sa fare...), e ho poi raggruppato, evidenziandoli con una graffa, i termini che corrispondono alla scomposizione del fabbisogno complessivo
f nei due elementi che ci interessano: la spesa per interessi, e l'avanzo primario cambiato di segno. Quindi stiamo dicendo la stessa cosa di prima, (il debito cresce se il deficit è positivo, ma cala se la crescita nominale è sufficientemente elevata da compensare l'effetto del deficit) ma in modo diverso, con più dettagli (in particolare, mettendo in evidenza il ruolo del tasso di interesse: evidentemente, quanto più questo è alto, tanto più il rapporto debito/Pil crescerà).
Ora, però, dobbiamo fare un ulteriore sforzo per avvicinarci alle categorie del dibattito, ma sarà uno sforzo abbastanza indolore (o tale cercherò di renderlo). Va infatti detto che normalmente quando si parla di crescita, ci si riferisce alla crescita
reale, cioè al netto dell'inflazione. Possiamo chiamare questa crescita
n. Allo stesso modo, possiamo definire il tasso di interesse reale
r come quello al netto dell'inflazione. In altri termini, per semplicità, abbiamo:
(gli ingengngnieri, che sanno che sto linearizzando, mi perdoneranno. Per tutti gli altri queste parole non sono mai esistite... ma forse nemmeno le altre!).
Ora, torniamo al punto che se la crescita
nominale è bassa, dividere per uno più gamma lascia le cose inalterate, e quindi, nella formula (3), avremo che:
Insomma: lo scarto fra tasso di interesse e tasso di crescita
nominali (diviso per uno più il tasso di crescita nominale) è sostanzialmente uguale allo scarto fra tasso di interesse e tasso di crescita
reali, il che, alla fine di tutta questa lunga storia, ci permette di esprimere la variazione del rapporto debito/Pil in questo modo:
Quest'ultima formula non è difficilissima da interpretare, ma spalanca un mondo e mette insieme tanti discorsi fatti qui nel corso degli anni.
Ad esempio: ricordate la repressione finanziaria? Sì, mi riferisco a quel paper di Reinhart e Sbrancia sul quale
uno di voi aveva attirato la mia attenzione (chissà se è ancora qui?), e che avevo utilizzato poi in vari interventi (
ad esempio nel 2013 al Parlamento Europeo). Quel lavoro (lo trovate
qui) spiega molto bene come la discesa del debito dai picchi raggiunti dopo la seconda guerra mondiale sia stata realizzata soprattutto controllando il tasso di interesse, che nell'era della repressione finanziaria era stato, in termini reali, mediamente negativo:
Nei paesi avanzati, come vedete, la media era stata di -1.1, contro una media di 2.7 dopo la svolta all'inizio degli anni '80. La formula (4) vi spiega molto bene perché questo ha favorito la spettacolare discesa del debito che ricorderete, ma che vi ripropongo qui:
Il motivo, quando sai l'aritmetica del debito, è banale. Se il tasso di interesse reale è negativo, a meno di una recessione che rende negativa la crescita reale
n, il primo termine della (4) sarà negativo, e questo favorirà la diminuzione del rapporto debito/Pil anche se c'è un disavanzo. Faccio un esempio numerico: con un rapporto debito/Pil al 130% (1.3), come il nostro (approssimativamente), un tasso di interesse reale del -1.1% (-0.011), come al tempo della repressione finanziaria, e una crescita reale dell'1.2% (come quella ipotizzata dalla nota di aggiornamento al DEF), avremmo:
per cui il rapporto debito/Pil diminuirebbe anche con un
disavanzo primario (cioè con un -
a positivo), purché inferiore al 2.9%.
Non c'è che dire: lasciare che il costo del debito (e quindi l'ammontare di reddito trasferito ai
rentier) lo decida lo Stato (controllando e regolamentando i mercati finanziari nei modi che sapete), anziché "i mercati", cambia decisamente la prospettiva.
Ora, questo mondo non è più il nostro, e la cesura qui da noi è stata il "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia (cioè la decisione della Banca d'Italia di non calmierare più il costo del finanziamento del debito pubblico intervenendo sul mercato, in modo da costringere lo Stato a fare avanzi primari - che ininterrottamente fa dal 1992, con la sola eccezione dei due anni di crisi, 2009 e 2010): questi avanzi sono, come ci siamo ampiamente detti ne
Il tramonto dell'euro, un gigantesco trasferimento di risorse dalle forze produttive del paese (famiglie e piccole imprese) verso il sistema finanziario, che sentitamente ringrazia (e quando il sistema scricchiola manda i suoi proconsoli a sistemare le cose).
Tuttavia, l'analisi storica di Reinhart e Sbrancia chiarisce molto bene due cose, che sapete. La prima è che oggi siamo, in termini di debito pubblico, a un massimo storico (e non dipende solo dal nostro paese!). La seconda è che da simili punti di massimo si torna verso situazioni più sostenibili in tre modi: con l'iperinflazione, con la bancarotta, o con la regolamentazione dei mercati finanziari (per favorire una crescita moderatamente inflazionistica). Questa è la lezione della storia, e non ci possiamo fare nulla né io, né voi, né i miei amici mercati. Il cambio fisso, senza regolamentazione dei movimenti di capitale (come nel sistema di Bretton Woods in vigore fino al 1971) ha, fra i vari pregi, anche quello di essere fautore di instabilità finanziaria.
L'ultima volta che li ho visti, gli amici mercati, a Londra, un paio di settimane or sono, una seccante investitrice originaria di un paese periferico, che, come tutti gli ascari, manifestava grande fedeltà alla causa e grande venerazione per i suoi colonizzatori, mi decantava l'efficienza del governo di Macron che, a suo dire, si era presentato al colloquio coi mercati con un programma dettagliatissimo, e lo stava realizzando (e io dentro di me ridevo, perché questo blog che fu Cassazione per
Hollande lo sarà anche per
Macron, ed è veramente preoccupante che i nostri soldi siano in mano a persone che invece di avere l'umiltà di stare ad ascoltare chi ne sa più di loro e lo ha dimostrato continuino a ripetersi i mantra che i giornali defecano quotidianamente, senza avere un nanosecondo di memoria storica, quello che basterebbe per capire che in certi racconti c'è molto che non va...). Insomma, mentre questa qui continuava a seccarmi con domande petulanti sull'uscita dall'euro, per mettermi in difficoltà (a me!?), io, con grande serenità, con grande cordialità, ma con sufficiente fermezza, ho chiarito una cosa: che anche se fare
default non è minimamente l'intenzione dell'Italia, né tantomeno la nostra se andassimo al governo, e anche se siamo ancora ben lontani da una situazione simile, tuttavia la storia dimostra che proseguendo con le politiche di austerità estrema che lei chiedeva, perché pensava di andarne immune (e io, con grande
pietas, già la vedevo in mezzo a una strada con lo scatolone di cartone), alla fine, dalle e dalle, l'alternativa non sarebbe più quella fra essere pagati in euro o in "lirette svalutate", ma quella fra essere pagati in valuta nazionale o non essere pagati per niente: e questo non solo nel caso nostro, ma anche in quello del suo amico Macron, che ha pur sempre un discreto problema di deficit gemelli.
Lei non ha capito, ma altri sì: occorre un ripensamento profondo delle regole, questo è chiaro, occorre crescita, e quello che serve per renderla sostenibile. Quello che non è chiaro è se saremo abbastanza ragionevoli da realizzare i passi necessari evitando una ulteriore catastrofe. A giudicare dai discorsi che si sentono in televisione e si leggono sui giornali, c'è da essere piuttosto pessimisti. Ma di questo parleremo un'altra volta...
(...
ora aspetto una slavina di "urge" e di "non hai detto che bisogna uscire dall'euro", e via moreggiando... Quod dixi dixi: io posso dirlo. E voi?...)
(...
ah, questa era una lezione: l'esercitazione arriva domani, o dopodomani. Metteremo dei numeri nella formula per vedere bene come funziona. Dopo di che, ne saprete più degli austeri Soloni che pontificano in televisione, e potremo divertirci un po' alle loro spalle...)