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sabato 17 maggio 2025

QED 111: Produzione di debito a mezzo di debito

"A chi fa il male torna indietro!"

Questo il sordo commento a mezza bocca profferito dal mio neoborbonico preferito sul palcoscenico di uno Stato membro dell'Unione Europea la cui valuta è l'euro. Il refrain di una cantata di Scarlatti era stato disturbato da uno schiocco sordo: il cantino del primo violino aveva ceduto. Mentre il secondo violino sostituiva in corsa il collega, suonando la sua parte, io con la destra suonavo al clavicembalo la parte del secondo violino, e il primo violino cambiava di corsa il suo mi (show must go on), il mio compagno di continuo non si era potuto trattenere dal vedere nell'insolito incidente una punizione divina per la tritatura di gonadi cui il primo violino ci aveva sottoposto alla prova generale. Forse non c'era #nessunacorrelazione, o forse sì... In ogni caso, pensarlo era tanto liberatorio!

Posso dare anche ampi esempi del contrario, posso cioè dimostrare che torna indietro anche il bene che si fa.

Il modo più semplice e più efficace di fare del bene al prossimo è mostrargli rispetto e considerazione. Solo nelle ultime due settimane mi è capitato di farlo due volte e di avere un immediato ritorno. La prima la settimana scorsa, andando alla presentazione del disegno di legge di un collega. Un gesto compiuto per affetto nei suoi riguardi (lo merita), da cui è scaturito l'incontro con un'altra persona molto interessante, anche lei presente in sala, che mi ha risolto un problema con cui mi stavo confrontando. La stessa cosa è successa ieri andando a Genova a sostenere i candidati della Lega, per affetto verso Edoardo Rixi e verso Genova: in una interminabile coda di un'ora a Fiumicino mi è capitato di rivedere un funzionario di profilo elevatissimo, che mi onora della sua da me immeritata stima, e col quale ci siamo intrattenuti parlando del più e del meno. Una conversazione interessantissima che molto ha aggiunto alle mie conoscenze (e al mio piacere di rivedere Edo a Genova).


Non è essenziale che vi dica chi è questo funzionario, non vorrei esporlo politicamente (sono pur sempre un pericoloso - tanto più in quanto subdolo - noeuro!), ma è utile che vi riferisca succintamente quello che mi ha detto. Utile pro futuro (estote parati quia nescitis hora crisis ventura est...), ma anche utile retrospettivamente, per valutare un tema che ho portato tanto tempo fa alla vostra attenzione, e ieri alla sua (a proposito, aspettate un attimo che gli mando il pdf...), e che si ripresenta quindi come QED.

Dunque, la storia va così: l'OCSE ha pubblicato il Global Debt Report 2025, i cui numeri chiave sono: 

  • 25.000 miliardi di obbligazioni pubbliche e private emesse nel 2024 (tre volte il volume del 2007);
  • 100.000 miliardi di obbligazioni pubbliche e private in essere;
  • 40% delle obbligazioni esistenti in scadenza entro il 2027 (andranno cioè rinnovati 40.000 miliardi di debito).

Ora, già questi sono numeri da tenere in mente. Ci eravamo già intrattenuti poche settimane fa sul fatto che il debito pubblico (obbligazioni emesse dal settore pubblico) avesse raggiunto dimensioni storicamente fuori scala:

e avevamo collegato questo sviluppo preoccupante alle caratteristiche intrinseche della terza globalizzazione, in particolare all'abbandono della cosiddetta "repressione finanziaria", abbandono che da un lato aveva determinato un'impennata dei tassi di interesse, e dall'altra una frenata della crescita, contribuendo significativamente a una crescita strutturale del cosiddetto snowball factor (la discussione la trovate nel post su 130 anni di debito pubblico).

Oltre a confermarci che in effetti di bond (obbligazioni, titoli di debito) in giro ce ne sono parecchi, il rapporto fa un'altra sottolineatura importante riferita ai titoli di debito privato, questa:

Le emissioni di obbligazioni private si sono scostate significativamente al rialzo dal loro trend storico, ma a questo scostamento non ha corrisposto un simile scostamento verso l'alto degli investimenti privati:

Ora, due considerazioni rapide, una di metodo e l'altra di merito.

Come metodo, ci rassicura che anche l'OCSE consideri lo scostamento dal trend storico un valido strumento di statistica descrittiva. Si tratta dello stesso strumento che qui abbiamo usato per mettere in evidenza la stasi della crescita italiana dalla crisi finanziaria globale in avanti:


incorrendo nelle critiche di qualche sciocchino su Twitter. Ricorrere a un simile strumento non significa ipotizzare che il processo generatore dei dati, cioè il "modello vero" del Pil, sia una tendenza deterministica (una retta tirata col righello). Nel caso delle serie di debito e investimento prodotte dall'OCSE si vede a occhio, e un banale test di radici unitarie lo confermerebbe, che la loro tendenza è stocastica (un tema di cui ci siamo occupati undici anni or sono parlando delle passeggiate aleatorie). Questa osservazione tecnica nulla toglie alla validità dell'estrapolazione di una tendenza deterministica come strumento descrittivo, come indicatore di un'anomalia, sia essa la rottura del trend deterministico, o una raffica di shock aleatori prevalentemente al rialzo. Questo però è tecnichese che a pochi di voi non servirà perché sono sufficientemente competenti, mentre alla stragrande maggioranza non servirà perché per loro è arabo (e razionalmente preferiscono dedicare il tempo ad altro).

Il punto più importante è quello di merito. Il risultato che l'OCSE evidenzia non dovrebbe sorprenderci, perché appare come una conseguenza diretta del fatto che il nostro capitalismo finanziario funziona esattamente nel modo descritto da Julie Froud e dai suoi coautori in Accumulation under conditions of inequality, un saggio che mi era servito nell'elaborare Crisi finanziaria e governo dell'economia, e sul cui contenuto vi avevo estesamente riferito in questo post di dieci anni fa.

Cosa dice infatti l'OCSE nel ritaglio che ho riportato? Dice che “invece di finanziare investimenti produttivi [NdCN: acquisti di macchinari, attrezzature, impianti, capannoni industriali, ecc.], una gran parte delle recenti emissioni di obbligazioni private è andata a finanziare operazioni puramente finanziarie come il rifinanziamento di posizioni debitorie e pagamenti di dividendi (o riacquisto di azioni).”

Insomma, esattamente quello che l'articolo di Froud prevede che accada nel cosiddetto coupon pool capitalism:


Ovviamente non vi rimetto qui tutta la spiegazione di come si passi da un capitalismo "produzionista", dove il debito va a finanziare investimenti produttivi, al capitalismo finanziario in cui il debito crea valore per gli azionisti (che si intascano i soldi raccolti a debito) ma non per il sistema economico nel suo complesso (che non beneficia di un effettivo aumento di capacità produttiva a fronte dell'aumento di debito). Chi vuole può rileggersi l'articolo del 2015. Qui mi limito ad andare alla conclusione, che è molto semplice: siccome questo debito non va a finanziare investimenti produttivi, è improbabile che generi un flusso di rendimenti sufficiente a ripagare se stesso (con gli interessi). Più facile che lo si rifinanzi con altro debito, alimentando un gigantesco Ponzi game (e questo è, del resto, uno degli scenari prefigurati da Froud et al., come potrete constatare nel post del 2015). Produzione di debito a mezzo di debito, appunto.

E quindi?

E quindi bisogna fare attenzione: con 40.000 miliardi di titoli di debito pubblico e privato da rifinanziare, e un debito privato contratto secondo le logiche che abbiamo descritto, non si può escludere che la bolla esploda, anche perché il debito che dovremmo rifinanziare entro il 2027 è per lo più debito contratto prima del 2021, cioè nel meraviglioso mondo dei tassi zero sulla cui logica c’eravamo intrattenuti ad esempio qui. Ora, al netto delle motivazioni per cui i tassi erano scesi a zero, e delle valutazioni su quanto sano fosse quel mondo, resta il fatto che ora quel mondo non c’è più, e che quindi da qui al 2027 40.000 miliardi di debito andranno rifinanziati a tassi significativamente più alti, cioè sottoponendo a uno stress significativamente più alto il conto economico delle entità emittenti. Se aggiungiamo che una parte significativa di questo debito non genererà grandi ritorni per i motivi specificati sopra (perché non corrisponde a investimenti produttivi) è chiaro che qualche motivo di attenzione c’è.

Nessun allarmismo, naturalmente (io comunque nel mio ruolo non potrei!), ma al contempo evitiamo la dabbenaggine di chi ci ha predicato la “fine della storia“ o di chi ci ha raccontato che “questa volta è diverso“. No, non è diverso. Purtroppo l’unica correzione efficace delle storture strutturali del sistema sono le rotture di sistema, e questo vale tanto per il sistema finanziario, quanto per il sistema sociale nel suo complesso. Ne parlavo oggi a pranzo a Firenze con uno di voi, uno storico, da cui ho imparato altre cose interessanti. Per oggi, però, accontentiamoci di riflettere su questo QED, che è da un lato conferma del fatto che Froud e i suoi coautori avevano ragione nello scrivere quello che hanno scritto, e dall’altro che io non avevo torto nel dedicare un po’ di tempo a spiegarvelo dieci anni fa e a rispiegarvelo oggi.

Resto  a disposizione per approfondimenti.









lunedì 2 aprile 2018

Maastricht e l'aritmetica del debito pubblico: parte seconda

(...s'era detto che avremmo continuato, e continuiamo. Questo blog è anche un percorso didattico, e dobbiamo fare una tappa importante...)


Vorrei riprendere, visto che siamo in vacanza, e di tempo ne avete, un argomento che abbiamo affrontato cinque anni or sono, quello dell'aritmetica del debito pubblico, ovvero delle relazioni che legano la crescita del debito (e del suo rapporto al Pil), ad altri fondamentali macroeconomici quali il deficit (e il suo rapporto al Pil), la crescita, il tasso d'interesse, ecc. Su questo argomento avete sentito, sentite, e sentirete sproloquiare una caterva di personaggi in cerca di editore (o di incarico), per cui è bene che vi attrezziate con un minimo di strumenti tecnici, allo scopo di orientarvi con scioltezza in un terreno nel quale gli agguati ideologici sono all'ordine del giorno.

Premessa

Prima di entrare in argomento, è indispensabile fare una premessa. In questo blog abbiamo sempre sostenuto, perché lo sosteneva la Commissione Europea, che il debito pubblico italiano fosse perfettamente sostenibile sia nel breve che nel lungo periodo. Già che ci siamo, aggiorno le informazioni: il post sull'eugenetica pensionistica è del 2016, e da allora abbiamo avuto altre due edizioni del Fiscal sustainability report, che nel frattempo si chiama Debt sustainability monitor, quella del 2016 e quella del 2017. Non è cambiato solo il titolo, ma (in parte) anche le conclusioni: ora l'indicatore S2 di sostenibilità a lungo termine, quello che tiene conto delle passività implicite nell'evoluzione del sistema pensionistico (cioè, in italiano, del fatto che lo Stato dovrà trovare i soldi per le pensioni), evidenzia una lieve criticità:



L'Italia ora è nella regione "insostenibile", e se confrontate questi grafici con quelli degli anni precedenti (l'ultimo disponibile era quello del 2015, elaborato sui dati fino al 2014), noterete che ci è entrata spostandosi orizzontalmente a destra, anziché verticalmente verso l'alto.

Uno spostamento verticale verso l'alto avrebbe significato un peggioramento delle previsioni a lungo termine, quelle riferite alla spesa pensionistica, che invece sappiamo essere favorevoli per il nostro paese. Lo conferma il Rapporto sullo stato sociale 2017, che ribadisce come il rapporto fra spesa pensionistica e Pil sia previsto in discesa:


il che rende vacue (o meglio: sospette) le reiterate invocazioni di nuove riforme pensionistiche (e anche perfettamente giustificata la nostra proposta di abrogare l'ultima: ma di questo vi parlerò in altra sede).

Lo spostamento orizzontale verso destra significa che ora il debito italiano è insostenibile perché si è deteriorata la situazione iniziale (unfavourable initial fiscal position), cioè perché il rapporto debito/Pil oggi è alto. Come si sia innalzato lo sapete, perché ne abbiamo parlato nel fact checking sull'operato del mio nuovo collega, Monti: quello che ha trovato il rapporto debito/Pil al 116% e ce lo ha restituito al 131%.

Quindi ora possiamo dire anche noi, forti dell'auctoritas della Commissione, quello che quattro petulanti cialtroni ideologizzati (o prezzolati) ci hanno detto per anni, quando non era vero, vale a dire che in effetti cominciamo ad avere un (lieve) problema di sostenibilità del debito. Naturalmente i quattro suddetti cialtroni ora esulteranno: sarà il loro I-told-you-so moment, quello che noi chiamiamo un #VLAD (ve lo avevo detto). Ma qui #VLAD posso dirlo solo io, non i cialtroni della stampa o della politica: se avete seguito il ragionamento, infatti, capirete che i grafici del Debt sustainability monitor sono la conferma definitiva del fatto genetico di questo blog, ovvero della denuncia che i salvataggi di Monti non solo non ci hanno salvato, ma, facendo aumentare il rapporto debito/Pil, ci hanno definitivamente affossato, rendendo fragile una situazione di finanza pubblica che non lo era (e facendolo, possiamo dirlo, oggettivamente non nell'interesse del paese, come è evidente ex post, ma di chi ha ricevuto dal paese miliardi in quota "fondo salvastati").

L'austerità di Monti è stata l'amputazione di una gamba se non sana, almeno non malata (la finanza pubblica, che grazie all'austerità è diventata meno sostenibile perché è diminuito il reddito degli italiani, unica vera garanzia di sostenibilità), mentre si trascurava (scientemente? Ideologicamente?) la gamba malata, ovvero quelle banche delle quali ora tutti vedono le criticità (mentre nel 2011 le vedevamo veramente in pochi).

Questo tanto per ricordare ai prezzolati o ai turisti che si trovassero casualmente a curiosare da queste parti che io, invece, in Senato non mi ci trovo per caso, ma perché ho fatto il possibile per mettere in guardia i miei concittadini da alcune catastrofi annunciate (e solo un partito ha saputo raccogliere il mio grido di allarme). Poi starà a loro decidere se continuare il percorso con noi, e magari parlarne nei loro fogli che nessuno più compra (perché non hanno avuto, né potevano avere, la lucidità di questo blog). Le cose, in ogni caso, continueranno ad andare come devono: i processi storici ed economici sono oggettivi, l'individuo conta, ma fino a un certo punto, le intenzioni contano zero di fronte ai risultati, e i conti si fanno alla fine...

La sintesi di questa premessa è che ora il problema c'è, che è stato creato da chi pretendeva di risolverlo quando non c'era, e che per evitare di aggravarlo dobbiamo essere estremamente consapevoli di cosa guidi la dinamica del rapporto debito/Pil. Solo questa consapevolezza ci permetterà di non trovarci, nel 2018, o nel 2019, con una "initial fiscal position" ancora più "unfavourable" di quella in cui ci ha messo il salvatore della Patria (altrui). Va anche detto che la dimensione tecnica, quella che qui vi esorto ad approfondire, non è poi così essenziale: per rifiutare certi argomenti basterebbe quella comunicativa (le favolette morali sullo Stato come una famiglia), e basterebbe ricordarsi di chi abbia propalato ricette letali per il paese (i soliti noti). Lo so, non è politicamente corretto, ma me ne infischio: purtroppo certi argomenti valgono quanto le persone che li propalano, e se una persona viene da un'istituzione o da una società che ha fallito o sta fallendo, o ha millantato titoli che non aveva, o risponde chiaramente a interessi particolari dai quali dipende la sua sussistenza, si può tranquillamente girar pagina o cambiare canale. Però se voi siete qui è perché volete sapere quello che non sapete (a differenza dei piddini, che non vogliono sapere quello che sanno di sapere). Quindi, passiamo alla "tecnica".

Riassunto della puntata precedente

Vi ricordo che questa è la seconda puntata di un discorso iniziato qui, che sarebbe meglio vi riguardaste prima di andare avanti. Qui lo riassumo, semplicemente per mettere in evidenza in cosa oggi arricchiamo il nostro bagaglio tecnico.

Molto rapidamente: il deficit o indebitamento o fabbisogno F è definito come variazione del debito D:
per cui, ad esempio, il deficit del 2017 è la differenza fra il debito a fine 2017 e il debito a fine 2016 (cioè inizio 2017):
Dividendo per il valore del Pil a prezzi correnti, Y, questa relazione, si arriva a dimostrare che:
(è la formula (4) del post citato), dove le lettere minuscole indicano i rapporti al Pil di debito (d) e deficit (f). Il rapporto debito/Pil a fine anno dipende dal fabbisogno dell'anno trascorso, più il rapporto debito/Pil dell'anno precedente diviso per uno più il tasso di crescita del Pil nominale (gamma). Al di là della magia matematica di questa formula, il senso è chiaro: un maggior deficit f porta a un maggior debito d (e ci mancherebbe!), ma una maggior crescita "diluisce" il rapporto, frenandone la crescita.

Con una ulteriore, semplice, manipolazione matematica si può dire la stessa cosa in modo forse più chiaro. Possiamo esprimere la variazione del rapporto debito/Pil d (ottenuta sottraendo a entrambi i membri il valore di d al tempo precedente), scomponendola in una parte che dipende dalla crescita, e una che dipende dal fabbisogno:
(è la formula (6) del post citato). Vi faccio notare che se la crescita è bassa, dividere per uno più gamma equivale a dividere per uno, e quindi gamma è sostanzialmente identico a gamma diviso per uno più gamma:

(va notato che negli ultimi quattro anni la nostra crescita nominale media è stata attorno all'1.5%, cioè è 0.015, mentre l'approssimazione comincia a non funzionare per valori attorno al 2.5%), per cui la formula può essere ulteriormente snellita, utilizzando il segno di uguaglianza approssimata:

Qui si vede che il rapporto debito/Pil cresce se il rapporto fabbisogno/Pil (f) è positivo e non è compensato dal prodotto fra la crescita nominale (gamma) e il rapporto debito/Pil del periodo precedente. Si vede anche che per azzerare la crescita del rapporto debito/Pil occorre e basta un fabbisogno pari al prodotto fra la crescita nominale e il valore precedente del debito:
Abbiamo utilizzato questa formula in questo post per studiare quanto ci sia costato Monti, con il suo insano (o scaltro) proposito di abbattere il rapporto debito/Pil, quando sarebbe stato molto meglio darsi come obiettivo la sua stabilizzazione (proposta all'epoca da Riccardo Realfonzo). Per non ripetere oggi gli errori di ieri, bastano le quattro operazioni. Dato che nel 2017 si stima che il rapporto debito/Pil sia stato del 131.6% (1.316) e che la nota di aggiornamento al DEF prevede per il 2018 una crescita nominale del 3% (0.03), ne consegue che il rapporto deficit/Pil che stabilizzerebbe il debito nel 2018 sarebbe pari a 0.03x1.316 = 0.039 (il 3.9%). Da notare che nel nostro quadro programmatico prevediamo invece un rapporto deficit/Pil del 2.8% (superiore all'1.6% proposto dal governo, o al suicida 1.2% proposto da +Europa, col quale si sarebbe ripetuto l'errore di Monti!), che quindi porta a una diminuzione (controllata) del rapporto debito/Pil (essendo inferiore al valore del deficit che questo rapporto lo stabilizzerebbe).

Il problema è che qui stiamo considerando solo il fabbisogno complessivo. Il passo avanti che vorrei fare oggi con voi è scorporare il fabbisogno complessivo in fabbisogno primario (al netto della spesa per interessi) e spesa per interessi. Il vantaggio di questa piccola complicazione è che ci permetterà di analizzare l'impatto sulla sostenibilità del debito pubblico delle variazioni del tasso di interesse (sappiamo che dovrà crescere, no?), e inoltre ci permetterà di ragionare in termini di avanzo primario, una categoria che nel dibattito viene utilizzata spesso.

Scomponiamo il deficit

A questo scopo, esprimiamo il fabbisogno complessivo scomponendolo nel modo seguente:
ovvero, la variazione del debito è pari alla spesa per interessi (a sua volta data dal prodotto del tasso di interesse per lo stock di debito esistente all'inizio del periodo), cui viene sottratto l'avanzo primario. Mettiamo un segno meno proprio perché stiamo ragionando in termini di avanzo (differenza fra entrate e uscite). Se ragionassimo in termini di disavanzo (differenza fra uscite e entrate) dovremmo mettere un segno positivo. Lo facciamo perché mentre quando si ragiona in termini complessivi ci si sofferma sul deficit, quando si parla di saldi primari normalmente si considera l'avanzo. Non chiedetemi perché! L'importante, però, è capirsi. Ovviamente mentre un disavanzo aggiunge qualcosa al debito, un avanzo sottrae al debito: ed è per quello che lo vedete con il segno meno.

Ripetendo i passaggi che portano dalla (3) alla (4) del precedente post, dato che
dividendo per il Pil nominale Y otteniamo:
e sottraendo il rapporto debito/Pil al tempo precedente da entrambi i lati:
ricaviamo la variazione del rapporto debito/Pil in funzione del tasso di interesse i e dell'avanzo primario a (in rapporto al Pil):

La formula è molto simile alla (6) del post precedente. Lo si vede meglio se la scriviamo così:
dove ho scomposto il rapporto presente nella (3) nei suoi due termini (questo vostro figlio lo sa fare...), e ho poi raggruppato, evidenziandoli con una graffa, i termini che corrispondono alla scomposizione del fabbisogno complessivo f nei due elementi che ci interessano: la spesa per interessi, e l'avanzo primario cambiato di segno. Quindi stiamo dicendo la stessa cosa di prima, (il debito cresce se il deficit è positivo, ma cala se la crescita nominale è sufficientemente elevata da compensare l'effetto del deficit) ma in modo diverso, con più dettagli (in particolare, mettendo in evidenza il ruolo del tasso di interesse: evidentemente, quanto più questo è alto, tanto più il rapporto debito/Pil crescerà).

Ora, però, dobbiamo fare un ulteriore sforzo per avvicinarci alle categorie del dibattito, ma sarà uno sforzo abbastanza indolore (o tale cercherò di renderlo). Va infatti detto che normalmente quando si parla di crescita, ci si riferisce alla crescita reale, cioè al netto dell'inflazione. Possiamo chiamare questa crescita n. Allo stesso modo, possiamo definire il tasso di interesse reale r come quello al netto dell'inflazione. In altri termini, per semplicità, abbiamo:
(gli ingengngnieri, che sanno che sto linearizzando, mi perdoneranno. Per tutti gli altri queste parole non sono mai esistite... ma forse nemmeno le altre!).

Ora, torniamo al punto che se la crescita nominale è bassa, dividere per uno più gamma lascia le cose inalterate, e quindi, nella formula (3), avremo che:
Insomma: lo scarto fra tasso di interesse e tasso di crescita nominali (diviso per uno più il tasso di crescita nominale) è sostanzialmente uguale allo scarto fra tasso di interesse e tasso di crescita reali, il che, alla fine di tutta questa lunga storia, ci permette di esprimere la variazione del rapporto debito/Pil in questo modo:
Quest'ultima formula non è difficilissima da interpretare, ma spalanca un mondo e mette insieme tanti discorsi fatti qui nel corso degli anni.

Ad esempio: ricordate la repressione finanziaria? Sì, mi riferisco a quel paper di Reinhart e Sbrancia sul quale uno di voi aveva attirato la mia attenzione (chissà se è ancora qui?), e che avevo utilizzato poi in vari interventi (ad esempio nel 2013 al Parlamento Europeo). Quel lavoro (lo trovate qui) spiega molto bene come la discesa del debito dai picchi raggiunti dopo la seconda guerra mondiale sia stata realizzata soprattutto controllando il tasso di interesse, che nell'era della repressione finanziaria era stato, in termini reali, mediamente negativo:

Nei paesi avanzati, come vedete, la media era stata di -1.1, contro una media di 2.7 dopo la svolta all'inizio degli anni '80. La formula (4) vi spiega molto bene perché questo ha favorito la spettacolare discesa del debito che ricorderete, ma che vi ripropongo qui:

Il motivo, quando sai l'aritmetica del debito, è banale. Se il tasso di interesse reale è negativo, a meno di una recessione che rende negativa la crescita reale n, il primo termine della (4) sarà negativo, e questo favorirà la diminuzione del rapporto debito/Pil anche se c'è un disavanzo. Faccio un esempio numerico: con un rapporto debito/Pil al 130% (1.3), come il nostro (approssimativamente), un tasso di interesse reale del -1.1% (-0.011), come al tempo della repressione finanziaria, e una crescita reale dell'1.2% (come quella ipotizzata dalla nota di aggiornamento al DEF), avremmo:


per cui il rapporto debito/Pil diminuirebbe anche con un disavanzo primario (cioè con un -a positivo), purché inferiore al 2.9%.

Non c'è che dire: lasciare che il costo del debito (e quindi l'ammontare di reddito trasferito ai rentier) lo decida lo Stato (controllando e regolamentando i mercati finanziari nei modi che sapete), anziché "i mercati", cambia decisamente la prospettiva.

Ora, questo mondo non è più il nostro, e la cesura qui da noi è stata il "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia (cioè la decisione della Banca d'Italia di non calmierare più il costo del finanziamento del debito pubblico intervenendo sul mercato, in modo da costringere lo Stato a fare avanzi primari - che ininterrottamente fa dal 1992, con la sola eccezione dei due anni di crisi, 2009 e 2010): questi avanzi sono, come ci siamo ampiamente detti ne Il tramonto dell'euro, un gigantesco trasferimento di risorse dalle forze produttive del paese (famiglie e piccole imprese) verso il sistema finanziario, che sentitamente ringrazia (e quando il sistema scricchiola manda i suoi proconsoli a sistemare le cose).

Tuttavia, l'analisi storica di Reinhart e Sbrancia chiarisce molto bene due cose, che sapete. La prima è che oggi siamo, in termini di debito pubblico, a un massimo storico (e non dipende solo dal nostro paese!). La seconda è che da simili punti di massimo si torna verso situazioni più sostenibili in tre modi: con l'iperinflazione, con la bancarotta, o con la regolamentazione dei mercati finanziari (per favorire una crescita moderatamente inflazionistica). Questa è la lezione della storia, e non ci possiamo fare nulla né io, né voi, né i miei amici mercati. Il cambio fisso, senza regolamentazione dei movimenti di capitale (come nel sistema di Bretton Woods in vigore fino al 1971) ha, fra i vari pregi, anche quello di essere fautore di instabilità finanziaria.

L'ultima volta che li ho visti, gli amici mercati, a Londra, un paio di settimane or sono, una seccante investitrice originaria di un paese periferico, che, come tutti gli ascari, manifestava grande fedeltà alla causa e grande venerazione per i suoi colonizzatori, mi decantava l'efficienza del governo di Macron che, a suo dire, si era presentato al colloquio coi mercati con un programma dettagliatissimo, e lo stava realizzando (e io dentro di me ridevo, perché questo blog che fu Cassazione per Hollande lo sarà anche per Macron, ed è veramente preoccupante che i nostri soldi siano in mano a persone che invece di avere l'umiltà di stare ad ascoltare chi ne sa più di loro e lo ha dimostrato continuino a ripetersi i mantra che i giornali defecano quotidianamente, senza avere un nanosecondo di memoria storica, quello che basterebbe per capire che in certi racconti c'è molto che non va...). Insomma, mentre questa qui continuava a seccarmi con domande petulanti sull'uscita dall'euro, per mettermi in difficoltà (a me!?), io, con grande serenità, con grande cordialità, ma con sufficiente fermezza, ho chiarito una cosa: che anche se fare default non è minimamente l'intenzione dell'Italia, né tantomeno la nostra se andassimo al governo, e anche se siamo ancora ben lontani da una situazione simile, tuttavia la storia dimostra che proseguendo con le politiche di austerità estrema che lei chiedeva, perché pensava di andarne immune (e io, con grande pietas, già la vedevo in mezzo a una strada con lo scatolone di cartone), alla fine, dalle e dalle, l'alternativa non sarebbe più quella fra essere pagati in euro o in "lirette svalutate", ma quella fra essere pagati in valuta nazionale o non essere pagati per niente: e questo non solo nel caso nostro, ma anche in quello del suo amico Macron, che ha pur sempre un discreto problema di deficit gemelli.

Lei non ha capito, ma altri sì: occorre un ripensamento profondo delle regole, questo è chiaro, occorre crescita, e quello che serve per renderla sostenibile. Quello che non è chiaro è se saremo abbastanza ragionevoli da realizzare i passi necessari evitando una ulteriore catastrofe. A giudicare dai discorsi che si sentono in televisione e si leggono sui giornali, c'è da essere piuttosto pessimisti. Ma di questo parleremo un'altra volta...





(...ora aspetto una slavina di "urge" e di "non hai detto che bisogna uscire dall'euro", e via moreggiando... Quod dixi dixi: io posso dirlo. E voi?...)

(...ah, questa era una lezione: l'esercitazione arriva domani, o dopodomani. Metteremo dei numeri nella formula per vedere bene come funziona. Dopo di che, ne saprete più degli austeri Soloni che pontificano in televisione, e potremo divertirci un po' alle loro spalle...)

domenica 11 marzo 2018

Il cambio fisso e i suoi correttivi (lettere dal mercato unico)

(...vi aspettavate il post politico, vero? E invece no: per dispetto, ve ne offro uno tecnico...)


C'è un modo fastidiosamente truffaldino di raccontare Keynes, quello adottato da certi intellettuali della Magna Grecia senza arte e con molta parte che ci siamo lasciati parecchie leghe indietro (ma in realtà ne è bastata una, di Lega, per consegnarli alla Gehenna, dove è pianto e stridore di denti): quello secondo cui la costruzione dell'Eurozona sarebbe keynesiana perché Keynes era per i cambi fissi di Bretton Woods.

Chi ragiona così prende due piccioni con una fava (se stesso): dimostra cioè di non conoscere né Keynes, né Bretton Woods, e questo per due ben precisi e individuabili motivi.

Non conosce Keynes, perché la proposta di Keynes, come vi ho spiegato diverse volte (gratis qui) prevedeva, fra le tante cose, che gli squilibri inevitabilmente prodotti dai cambi fissi venissero penalizzati in maniera simmetrica, scongiurando quindi tentazioni mercantilistiche (ovvero, la tentazione di esportare sistematicamente più di quanto si importa). Ventidue anni prima di Bretton Woods, del resto, Keynes era stato piuttosto esplicito nel dire che comunque i cambi flessibili erano un meccanismo di aggiustamento superiore, perché alla deflazione (taglio dei salari) era senz'altro preferibile la svalutazione (un discorso che abbiamo iniziato ma non concluso qui).

Non conosce Bretton Woods, perché anche il sistema di Bretton Woods prevedeva un importante correttivo agli squilibri di bilancia dei pagamenti. Quale? Ma è semplice: il controllo dei movimenti di capitali. Insomma: la famigerata "repressione finanziaria" di cui qui tante volte abbiamo parlato.

In che modo la repressione finanziaria tutela i paesi dagli squilibri di bilancia dei pagamenti? Ma, sostanzialmente perché se i capitali non sono totalmente liberi di muoversi da un paese all'altro, se i loro spostamenti sono disciplinati, il governo ha la possibilità di fissare il tasso di interesse, e quindi di stimolare o frenare la propria economia, e, soprattutto, di determinare il costo del proprio debito (ovviamente, di quello collocato sul mercato interno). Quindi, se il resto del mondo va in recessione, ma non puoi svalutare, puoi però rilanciare l'economia con politiche monetarie espansive senza che i capitali defluiscano all'estero (deflusso di capitali significa Ideal Standard, significa Brioni, significa Honeywell, significa Embraco: il capitale va altrove e lascia il "fattore lavoro", cioè i disoccupati, a te). Al tempo stesso, con apposite restrizioni valutarie, puoi governare i flussi di import/export (se non ti do la valuta per acquistare un prodotto estero devi acquistare un prodotto italiano e quindi generare reddito e occupazione in Italia).

Le cose che si potrebbero fare sono tante, e i paesi che le mettono in pratica sono tanti, come anche qui abbiamo imparato, leggendo gli studi del Fmi (andate a vedere come è classificata la Germania).

Noi, però, i Leuropei, la razza eletta che con empito prometeico si è data il compito di forgiare una forma di governo che nessun'altra accolita di paesi liberi aveva mai pensato di potersi dare, noi, questi controlli, in Leuropa, non possiamo praticarli.

Il Single European Act del 1986 (entrato in vigore nel 1987, avviando un processo che si sarebbe completato nel 1992) trasformava la Comunità Europea in un mercato unico. E cos'è un mercato unico? Il quarto stadio di integrazione economica, che si ottiene quando a una unione doganale (cioè un insieme di paesi che non hanno barriere doganali al proprio interno e hanno una politica tariffaria comune verso l'esterno), si aggiunge la libera circolazione dei fattori produttivi: capitale e lavoro. Dal 1992 i controlli dei movimenti di capitali sarebbero stati eliminati. Noi, in verità, li eliminammo dal 1990. Ottima scelta! Proprio in quel periodo la Germania aveva bisogno di tassi elevati per finanziare la propria riunificazione, mentre a noi facevano comodo tassi bassi per rifinanziare il nostro debito pubblico elevato per i noti motivi (divorzio Tesoro-Banca d'Italia). La scelta era fra lasciare che i capitali defluissero dall'Italia, o lasciare che diventassero più costosi per il governo italiano. La conseguenza fu la crisi del 1992.

Tutta roba che ci siamo lasciati dietro le spalle, naturalmente.

I soloni dei giornali di regime vi diranno che oggi (?) c'è la globalizzazione (?) e quindi non è possibile rifugiarsi nell'autarchia (?) anche perché siamo troppo piccoli (?) e quindi non possiamo opporci alla tendenza all'apertura (?) che caratterizza l'economia mondiale (Trump, che è uomo di mondo, la sta interpretando alla perfezione)...

E, se in trasmissione non ci siamo io o Claudio Borghi, a questi bei tomi nessuno ride in faccia (ma ora c'è un nuovo sceriffo in città, e presto se ne accorgeranno: quanto a Siri, lui, Armando, è troppo un signore e si contiene...).

Perché rido in faccia a questi cialtroncelli? Semplice. Perché purtroppo, e sottolineo purtroppo, l'apertura di questo blog ha portato alla mia conoscenza tante cose che avrei preferito evitare di conoscere. Non parlo solo delle sofferenze che condividete con me e dello sfacelo che i nostri governi hanno fatto del nostro paese. Parlo anche e soprattutto della consapevolezza ormai assoluta e totale che i media ci forniscono sistematicamente una visione travisata della realtà, il cui risultato, se non il cui scopo, è quello di impedirci di reagire come popolo italiano alle ingiustizie e alle vessazioni cui veniamo sottoposti.

(...apro e chiudo una parentesi politica, dopo avervi dato nel blog innumerevoli esempi in materia economica: qualsiasi cosa i media vi dicano della Lega in questo momento è falsa, per il semplice motivo che siamo gli unici che allarmino chi li controlla, come si è visto qui. Quindi fategliela dire, sorridete e annuite cortesemente, e poi interpretate al contrario quello che vi viene detto...)

A titolo di ulteriore esempio di questa pervasiva e truffaldina distorsione della realtà, condivido con voi una lettera che mi viene da uno de passaggio che oggi è in America Latina, perché le piccole imprese non sono produttive e non si aprono al commercio estero e via scemenzando (ma questo è un altri filone di scemenze da bar: restiamo sul discorso dei capital controls che non si possono fare perché autarchiabbrutta e italiettapiccola...).



A: amministrativa@unodepassaggio.it

Da: amministrativa@paesepiùpiccolodellitalia.gr

Data: 23/02/2018 02.31PM

Oggetto: Order No: 666 - Payment

Dear Gesualda,

Thank you very much for the explanation.

Customer made the transfer. Because of the capital controls he was not able to send the total amount, as there is a monthly allowed limit which he has exceeded. Beginning of March he will be able to send the remaining amount (about €45)

As soon as we receive the bank documents we will let you know.

Wishing you a lovely day,

Best regards


Chiara la solfa? La Grecia (paese più piccolo dell'Italia, se il mappamondo non mi inganna) continua ad applicare controlli ai movimenti di capitali, e questo a vari scopi, fra i quali quelli di gestire i flussi di importazioni (del resto, se avete letto Stiglitz avrete visto che anche lui fa una proposta del genere, ma molto più farlocca). Non potendoli controllare, come sarebbe naturale in un mercato, col prezzo della valuta, li controlla in via amministrativa, lesinando la liquidità necessaria (in questo caso l'importatore aveva sforato di 45 euro e l'esportatore italiano è rimasto col cerino in mano: piccolo, ma per sempre un cerino).

Quindi?

Quindi questo.

Il controllo dei movimenti di capitali, additato, insieme al finanziamento monetario degli investimenti pubblici (cui tanto dovremo arrivare), come retaggio di un passato di scialacquamento e di immoralità nella condotta della politica pubblica, è prassi corrente dentro un mercato unico, in una unione nella quale in teoria merci, servizi, lavoratori e capitali dovrebbero fluire come linfa in un albero a primavera, e invece... invece no: i movimenti di capitali possono essere controllati indipendentemente dalla dimensione del paese (li ha controllati Cipro, li controlla la Grecia, ma anche la Germania, come avrete visto, non è considerata paese aperto nella classificazione dell'IMF, il che è perfettamente sensato, perché da sempre chi è più potente si protegge e lascia che siano gli altri ad aprirsi - vedi alla voce Trump), l'integrazione del mercato dei servizi è lungi dall'essere completata (aggiungo: per fortuna, e ci metteremo di traverso alla Bolkestein senza se e senza ma), la mobilità del lavoro sconta, oltre alle ovvie barriere culturali, una serie di altre barriere amministrative che ha sempre scontato, il che non ha mai impedito di muoversi a chi volesse farlo, e via dicendo.

Ma allora, se poi, nella vita di tutti i giorni, ognuno fa come gli pare, se ogni volta che parto devo ricordarmi quale adattatore prendere per le prese di corrente, se controllare i movimenti di capitale è possibile, allora potrebbe essere possibile anche "stampare moneta" (come dicono i soloni) per ristrutturare la rete viaria di un paese, o no? Se ne parla nelle riviste scientifiche (qui un esempio, in chiave critica) e nei giornali finanziari dei paesi liberi. Qui, però, casca l'asino. Lasciare che sia la Bce a decidere se finanziare il raddoppio di una linea ferroviaria in Toscana o la manutenzione di un canale ad Amburgo significherebbe dare alla Bce funzioni politiche che non possono competerle e che nell'attuale quadro istituzionale non hanno un contrappeso politico. L'idea delirante di "ministro delle finanze europeo" nasce proprio per ovviare a questo strapotere (ed è un'idea francese da sempre, come abbiamo imparato qui).

Peraltro, come nota Stefan Kawalec in un libro che presto spero appaia in inglese, se l'aggiustamento di competitività restasse legato alla svalutazione interna, cioè al fatto che il paese in difficoltà tagliasse i salari, o quello prospero li aumentasse, invece di diminuire o aumentare il tasso di cambio, il novello imperatore di Leuropa (Weidmann?) si troverebbe di fronte a uno stravagante paradosso.

Infatti, se, poniamo, l'Italia fosse in crisi per difetto di competitività (poche esportazioni) e la Bce decidesse di aiutarla (finanziando opere pubbliche), la diminuzione dei disoccupati italiani impedirebbe ai salari italiani di diminuire. In queste circostanze, quindi, i maggiori redditi italiani, a parità di costi dei prodotti italiani, farebbero aumentare le importazioni dell'Italia, senza rilanciarne le esportazioni, aggravando la crisi di bilancia dei pagamenti. Se invece decidesse di finanziare un paese forte, sperando di rilanciare la sua domanda, e di aiutare così, indirettamente, i paesi deboli (la proposta ripetutamente fatta da De Grauwe: la Germania deve alzare i salari così gli operai verranno in vacanza a Rimini), lo Imperatore si esporrebbe alla critica di correre in soccorso del vincitore.

Insomma: il presidente della Bce farebbe il male cercando di fare il bene, ma se facesse il bene gli verrebbe imputato di fare il male.

Che uomo sfortunato!

Quindi?

Quindi basta guardarsi in giro per il mondo: a parte l'allegra brigata leuropea, altrove gli stati gestiscono i propri confini e la propria moneta. Qualcuno lo fa bene, qualcuno lo fa male, qualche volta per merito o colpa proprio, qualche altra volta per colpa o merito altrui. Ma dire che gli italiani sarebbero pregiudizialmente incapaci di farlo, oltre a urtare contro l'evidenza storica e la nostra stessa percezione, che ci indica chiaramente come quando lo facevamo non stessimo peggio, è una forma intollerabile di razzismo che dovremo espiantare da questo paese. Questa sarà, come sapete, la stella polare della mia azione politica: restituire al mio paese la sua dignità calpestata e derisa dai media di regime, propalatori finora incontrastati di fake news economiche e non solo, contrastando ovunque e con ogni mezzo mi sia possibile e lecito mettere in campo chi continuerà a farsi megafono di una campagna denigratoria il cui unico scopo è quello di convincere i cittadini che resistere è inutile.

Chi mi ha votato è convinto che resistere sia utile.

Questa volta siete stati abbastanza.

La prossima volta sarete di più, soprattutto se sarò riuscito a dimostrarvi che col tempo non avrò dimenticato l'arte di dire no:



(...bè, non era proprio un post solo tecnico: un po' era anche politico. Ma, del resto, la tecnica mi è servita a dimostrarvi per tabulas quale sia il metodo dei media. Se volete liberare il paese, ricordatevene anche quando leggete le loro analisi politiche, fatte con la stessa onestà intellettuale, con gli stessi riscontri fattuali, con le stessa libertà dai pregiudizi di quelle economiche. Perché, chi ce l'ha, fa tutto con la stessa testa, come mi diceva la mia mamma prima di perdere la sua...)