Preludio
Dobbiamo, dovremo, parlare di tante cose brutte. Fatemi
parlare di qualcosa di bello: mia figlia.
Dunque: grande classico della valle Sarentina, il sentiero a
ferro di cavallo (
Hufeisen Tour).
Terza tappa, da
Latzfonser Kreuz alla
FlaggerschartenHütte
attraverso il Tellerjoch: la più lunga. In teoria si rimane in quota, ma in
pratica sali, scendi, poi risali... Bella giornata, calda, si parte. Dopo un
po’, come di consueto, stacchiamo er Palla (ar piede) e la sua gentile madre
(che resta per prestargli assistenza psicologica a
racchettate sulla schiena).
Er Palla, se sa, è contemplativo (qui in versione Kaspar David Friedrich con Durnholzer See sullo sfondo):
(scusate, metto
questo per la Basilisca che non mi coglie i riferimenti. Dico, ma io sono l'unico che ha Google sul computer? Che culo!).
Io e "mi' fija" prendiamo quota su una spalla del Foltschenai
Spitze, come il sentiero vuole:
Da buon tecnico ortodosso dell’economia, sono specializzato nella
gestione delle aspettative. O, se volete, da buon politico, nella vendita di
sogni (i più rosa sono Fogni). E quindi ar Palla, quando mi chiede quanto
manca, dico sempre: “ma caro, vedi, dietro quella gobba c’è il rifugio...”. Il
rifugio non c’è, ma almeno arriviamo alla gobba. Ma con mia figlia è diverso,
la verità alle donne si può dire (e qui effettivamente il tacchino induttivista
ci starebbe bene). Mi accorgo che ci siamo staccati e abbiamo una borraccia in
due, ci aspettano almeno tre ore di marcia, un caldo fottuto, niente ombra,
indietro non voglio tornare, aspettare non se ne parla, e dico la verità:
“Senti, Giulia, babbo è uno scemo e si è dimenticato una borraccia, abbiamo un
litro in due e dobbiamo camminare tanto. Se hai sete mi chiedi da bere, ma bevi
solo due sorsi perché non so quando arriviamo e fino al rifugio non c’è acqua”.
“Va bene babbo.” E avanti, per agevoli ombrosi sentieri:
(bella de papà! L'unica creatura al di sotto dei dieci anni al di sopra dei 2500 metri... Non ti dico ai rifugi... come ci guardano...).
Io ogni tanto chiedevo: “hai sete?”. “No babbo”. “Ma bevi
due sorsi!” “Va bene babbo”. Glu, glu. “Grazie”. E avanti. Siamo all’ultima
forcella. “Senti, amore, la vedi quell’antenna? È il rifugio, siamo arrivati.
Vuoi bere?” “Sì babbo”. “Ecco...” GLU (un unico sorso da mezzo litro): la cittina
aveva sete, e come, ma se l’era tenuta. Aveva capito. Io commosso.
Come oggi dal dentista (una prémière). Un bell’uomo
abbronzato, occhi di ghiaccio, molto rassicurante. Lei si siede, lui ci parla
il giusto, le mette il drenaggio, il tampone, prende il trapano e comincia. Si
era preparato l’anestesia. “Dà fastidio? Fa male?”. “No.” “Brava”. (e io, fra
me e me: “te credo, ‘a bbello! Ma tu nu' lo sai chi è quessa...”).
Ecco, avete scoperto il mio lato Mario Brega. Immortale.
“Chi sso’ quelli papà?” “
Due de passaggio”...
Interludio: il quarto
d’ora del dilettante
A proposito di “due di passaggio”, guardate cosa mi ritrovo
nello spam:
Chiedo scusa per l'anonimo, non ho account
google né altri, mi chiamo Giovanni. Vengo al dunque, l'osservazione di Nino è
corretta, c'è un errore banale. Si tratta di semplice aritmetica e dunque non è
opinabile. L'inflazione è cresciuta dell'840% dunque 8.4 volte, la svalutazione
del 45% dunque 1.45 volte. Per cui l'inflazione è 8.4/1.45 = 5.8 volte la
svalutazione. Mi meraviglia sopratutto il fatto che sembri così strano ad un
professore che una cosa aumentata del 45% sia aumentata di 1.45 volte. E' solo
un modo diverso di dire la stessa cosa, ma evidentemente non tutti i professori
lo sanno...
(voleva dire: chiedo scusa per l’anonimato... come se il
fatto di non avere un account Google
impedisse a uno di scrivere come si chiama... Anche qui, come al solito,
rispetto filologico per l’eterografia).
Accipicchia, hai ragione, amico! Pensa... due esami di
matematica finanziaria con Rino Olivieri (docente immenso, lo ricordo con una
gratitudine sconfinata e ancora mi sento in colpa per non avergli chiesto la
tesi, ora che capisco quanto mi ha dato e quanto quindi poteva sentirsi in
diritto di avere qualcosa in cambio... ma non devo spiegarvi che sono bastardo
dentro...). Che fallito che sono: tanto studio, e non so nemmeno applicare un
tasso di variazione. Eh già, vedi, l’università italiana è proprio un covo di
tromboni incompetenti, hai ragione, lo ammetto...
Guarda: facciamo così: siccome tu sei più
bravo di me, io mi aumento lo stipendio del 45% (perché sono anche massone e
raccomandato), ma a te, in un empito di meritocrazia, lo aumento del 100%.
Allora: io il mio lo moltiplico per 1.45, giusto? Se sbaglio, lo so, mi
correggerai, e forse anche se non sbaglio... Tu invece di quanto lo moltiplichi
il tuo? Be’, se per un aumento dell’840% moltiplichi per 8.4, allora per un
aumento dell’800% moltiplicherai per 8, giusto? Applichiamo il principio di
induzione completa... dunque, vediamo... per un aumento del 700% moltiplico per
7, per un aumento del 600% moltiplico per 6,... per un aumento del 200%
moltiplico per 2, e
dunque (come dici
tu), naturalmente, per un aumento del 100% moltiplico per 1. Ecco, sarai
contento: oggi il tuo stipendio (anzi, quello di tutti gli italiani) è
aumentato del 100%: lo abbiamo moltiplicato per uno: prendevi 1000, ma da oggi
prenderai 1000
´1=1000
(che secondo te è un aumento del 100%).
Attenzione signori! Qui abbiamo a che fare con un piddino di
razza! Se ti scopre Fassina sei a cavallo. Pensa: puoi far campagna su questo
tema: appena vado al potere vi aumento del 100% lo stipendio! Chi non ti
voterebbe? E il giorno dopo essere stato eletto, sarebbe facile:
moltiplicheresti per uno tutti gli stipendi, così tutti avrebbero un aumento come
quello che hai avuto tu: da 1000 a 1000. Cosa dici? Ma 1000 – 1000 = 0... Ah,
dimenticavo, tu la matematica la sai. Quindi ti sei accorto che hai avuto un
aumento pari a zero. Ti dirò un segreto, ma non dirlo a nessuno, mi raccomando:
un aumento del 100% è un raddoppio: significa moltiplicare per 2. E quindi un
aumento del 200% significa moltiplicare per 3, ecc. Bello, vero? Va da sé
quindi che sia tu che quel genio del tuo amico avete sbagliato intanto in
termini puramente aritmetici. Ma, come ho già spiegato a quel tuo amico, questo
non è l’errore più grave.
Sai, per un economista il fatto che tu abbia (o meglio, ti
sia dato) un aumento di zero non è poi così strano: tu sei uno zero. Uno zero
intellettuale, e forse anche uno zero umano. Ecco, guarda, se vuoi dimostrarci
di non essere uno zero umano, fai una cosa: chiedi scusa. Certo non a me, come
avrai capito non ce n’è bisogno:
« Pensez-vous qu’il soit à votre portée de m’offenser ?
Croyez-vous que la salive envenimée de cinq cents petits bonshommes de vos
amis, juchés les uns sur les autres, arriverait à baver seulement jusqu’à mes
augustes orteils ? »
Ah, queste parole immortali che non avrai mai letto e di cui
mai, se non googlando, potresti intuire l’autore... Non saprai mai quello che
perdi, ma del resto la Natura è matrigna, e tu ce lo dimostri. No, non chiedere
scusa a me: devi chiedere scusa all’Università italiana per la supponenza con
la quale uno come te, uno che non sa che un aumento del 100% coincide con un
raddoppio, si è permesso si esprimersi riguardo ai “professori che non sanno”.
Bene.
Se non sei un cialtrone ti scuserai. Se non ti scuserai sei
un cialtrone. Il problema è e resta tuo. A me basta sapere con chi ho a che
fare. E credo di saperlo già. Quindi ora spiego agli altri perché il tuo errore
è veramente grave, in termini di teoria economica. E spiegherò anche loro
perché c’è gente che va in giro, come te, a commettere errori simili dando
lezioncine agli altri. Una storia lunga, pensa: ci riporterà all’età di
Pericle, quando è nata la democrazia, e quindi sono nati i piddini. Aristofane se
ne occupò (nel
Pluto... che non è il
cane del mio amico).
Atto primo: la morte
delle ideologie
C’erano una volta le ideologie, e c’erano quindi i loro
sostenitori: nel secolo scorso, qui da noi, i fascisti e i comunisti. Successero tante brutte cose, le
ideologie crollarono, e i loro sostenitori, come dire, si rimpicciolirono, un
po’ come il maglioncino di angora che si infili, improvvido, nel ciclo a 90°.
Ci fu piazzale Loreto, e i fascisti divennero missini, poi... non l’ho capito
bene (ma rimasero fascisti). Ci fu il crollo di un certo muro, e i comunisti
diventarono diessini, poi piddini, poi ini... ni... i...
Fading away, in un estenuante diminuendo che va avanti da trent’anni
(
chapeau! Chi è del mestiere sa bene
quanto sia difficile sostenere un diminuendo per 30 secondi).
Bene: scomparsi, o meglio, rimpiccioliti, e anche un po’
infeltriti, i loro sostenitori, voi direte, le ideologie avranno lasciato il
passo a un pensiero più libero, più fattuale, più aderente alla realtà. Poterlo
pensare sarebbe bello, ma sarebbe anche, soprattutto, molto ma molto ingenuo. Le
ideologie non sono un dato esogeno. Non è perché un gruppo di marziani,
mascherati da Nonna Papera, assalta il Palazzo d’inverno, non è perché una
torma di sciamannati viene a fare una gita a Roma, che l’uomo, così, decide di
abolire la razionalità. Eh no! L’abolizione del pensiero non è il risultato di
uno shock esogeno, ma è il raggiungimento endogeno di un equilibrio: pensare è
faticoso, e gli uomini, quando sono stanchi, magari perché fiaccati da una
crisi economica, non vogliono domande, ma risposte. E sapete come va a finire.
Il pensiero ideologico, il pensiero per appartenenza (io sono di sinistra, lui
è di sinistra, quindi lui ha ragione), è una forma di economia di pensiero. E
così come non è necessario assaltare un palazzo per adottarla, non è nemmeno
sufficiente abbattere un muro per liberarsene.
Quindi?
Quindi fascismo e comunismo, deposti, vennero subito
sostituiti da un’altra ideologia. Quale? Il vincolismo.
Ogni ideologia deve partire da un’idea forte, convincente,
risolutiva: appunto, da una risposta.
Il vincolismo questa idea forte ce l’ha:
gli italiani sono un popolo talmente scarso da non meritare di governarsi da
solo. Affinché gli italiani facciano la cosa giusta, occorre che essi
soggiacciano a una costrizione, a un vincolo: appunto, il vincolo esterno, la
valuta forte.
Ne abbiamo parlato. Somiglia molto all’idea di Mussolini che gli
italiani siano un popolo di schiavi, il quale, quindi, non può che soggiacere alla
dittatura di un pugno di liberti. In effetti, visti i risultati, ci sarebbe da
ragionare su quanto il vincolismo possa essere considerato una versione
riveduta e (politicamente) corretta del fascismo...
Ogni ideologia, poi, deve avere un testo di riferimento. Ce
ne son stati tanti, nel secolo scorso, ricordate? I comunisti, ad esempio,
leggevano Marx. Oh, attenzione! Di libro, va da sé, ne occorre e basta uno,
come sapete, per tanti motivi. I libri costano, poi fanno polvere (anche se per
il nostro amico matematico, due libri in realtà fanno polvere quanto uno), e
poi è difficile trovarne due che non si contraddicano, e se hai bisogno di
risposte, perché sei stanco, e perché devi abolire il pensiero, allora non vuoi
certo andare in cerca di contraddizioni. La Bibbia? Significa: i libri, come
sapete. E già da qui capite molte cose. Poi c’è il Libretto rosso, il Capitale,
La mia battaglia, ecc.
Mi dirai: ma è anche difficile trovare un libro che non
contraddica se stesso. Certo! Ma per questo ho subito una soluzione: basta non
leggerlo. E infatti, a giudicare dai risultati, non è del tutto certo che i
comunisti leggessero Marx, e che se lo leggessero lo capissero, e che se lo capissero
se lo ricordassero. Ma in fondo sono fatti loro: ora ci sono i piddini. I
quali, deposto Marx (considerato una compromettente e polverosa anticaglia),
hanno fatto di un altro filosofo il loro ideologo.
Con un poderoso balzo all'indietro
(certo, quello in avanti non è che fosse andato bene)
son tornati alle origini, alle scaturigini del pensiero democratico, adottando
come loro ideologo un filosofo poco noto della Grecia di Pericle (grande
esportatrice e importatrice di democrazia): Etarcos.
Atto secondo: vita e
opere del filosofo Etarcos
So di cogliere di sorpresa anche Schneider, che ha già avuto
modo di strabiliarsi della mia MLT (memoria a lungo termine). Ma se Schneider non
ricorda chi sia Etarcos, la colpa non è sua. Il fatto è che noi di questo
filosofo sappiamo molto, ma da pochissimo tempo
. Solo da quando, partiti i
comunisti, nel ristrutturare l’edificio delle Botteghe Oscure sono stati
rinvenuti in cantina quattro rotoli di papiro che riportano le “Vite dei
filosofi” di un tale dal nome impronunciabile: Enegoid Oizreal. Questo testo
preziosissimo ricorda molto le “Vite dei filosofi” di Diogene Laerzio (autore
che l’analisi del testo rivela coevo del nostro Enegoid), ma ne differisce per
due dati: intanto, i filosofi, con geniale intuizione, son presentati in ordine
cronologico inverso, dal più recente, Epicuro, al più remoto, Talete; poi, fra le
vite narrate da Enegoid troviamo quella di Etarcos, che Diogene omette.
Una vita, più che parallela (altro che Mario e Mariano), direi
ortogonale a quella del più noto Socrate. Anche Etarcos, come Socrate, nacque
nel 470 a.C. e morì nel 399 a.C. Ma tanto sano, prestante e vigoroso era
Socrate (al punto che nella battaglia di Delio salvò Senofonte quando questi
cadde da cavallo, dice Diogene Laerzio, V, 22), tanto cachettico, scialbo e
insignificante era Etarcos. Sul cui nome, tra l’altro, grava un etimo che la
dice lunga. Pare che sia infatti la contrazione dialettale (in dialetto beota,
ovviamente) di Eterarcos, l’arconte dell’etera, insomma: il prosseneta, il
lenone, il magnaccia. E certo, questo Etarcos un gran che raccomandabile non
pare lo sia stato. Mentre Socrate, come ci ricorda Diogene Laerzio (V, 20), si
era arricchito grazie ai suoi investimenti finanziari, dei quali saggiamente
consumava solo gli interessi, Etarcos viveva di espedienti passando da una
malversazione all’altra, al punto di finire in carcere per il coinvolgimento in una
tangente di trenta talenti versata a Sesto (non S. Giovanni, cosa avete capito,
quello doveva ancora venire: “in principium erat verbum...”), e dal carcere
evase, dopo aver avvelenato con la cicuta il proprio carceriere, al grido di “me
ne fotto”.
Si pensa, o almeno lo pensano certamente i due di passaggio,
che nella carriera accademica essere privi di scrupoli e compromessi col potere
politico fornisca un ingiustificato ma decisivo vantaggio. Ma non è sempre
così. Mentre Socrate di allievi ne ebbe tanti, noti e meno noti (Platone,
Aristippo, Senofonte...), Etarcos, nonostante la sua abiezione, non riuscì a
fondare una scuola. Ed è forse per questo che di lui è rimasta poca traccia.
Come ne rimarrà di noi che viviamo nell’università austera, e che ai nostri
allievi possiamo solo offrire un caffè, e un agguato al prossimo concorso.
Ma non voglio tediarvi con questi dati biografici, per
quanto significativi. A noi Etarcos interessa come ideologo dei piddini. E due
sono le caratteristiche di metodo che lo identificano come tale. Di Socrate
tutti sanno almeno un paio di cose. La prima, è che egli identificava il sapiente
con colui il quale sa di non sapere; e la seconda, che “dispiegava il suo
ardore di ricerca conversando con tutti”, e “scopo delle sue conversazioni –
ovvero dialoghi – fu la conquista del vero, non che gli altri rinunziassero
alla loro opinione”. Il dialogo, la maieutica...
Ecco, Etarcos è invece passato alla storia del pensiero per
due caratteristiche un po’ diverse, ma molto piddine.
La sua frase preferita
era “so di sapere”, ed è l’impiego coerente di questo metodo a spiegare il lieve
abbaglio del matematico dilettante di cui al precedente interludio. Sapendo di
sapere, in realtà lui non sapeva una sega, ma va bene così: ha avuto quello che
gli spetta (zero).
E il metodo di ricerca
di Etarcos non era il dialogo, ma il monologo: lunghi, estenuanti monologhi,
che fortunatamente sono andati persi a causa della rottura di un tubo nel
vetusto e oscuro edificio ex-comunista, monologhi con i quali cercava di
estirpare dalla mente dell’interlocutore le sue convinzioni, o almeno di farlo
addormentare.
Perché, lo avrete capito, il momento si avvicina...
Socrate praticava il metodo maieutico, la maieutiké téchne,
cioè l’arte della levatrice. Con questa metafora egli intendeva esprimere il
suo desiderio che fosse il suo interlocutore a partorire la verità (non
preconcetta) che dalla ricerca poteva scaturire, riservandosi lui, Socrate, il
ruolo accessorio di levatrice, che poi è una che ti aiuta a toglierti qualcosa
da davanti. Etarcos, viceversa, aveva un metodo diverso, direi opposto: anziché toglierti qualcosa da davanti, cercava
di metterti qualcosa dietro. Questo era il metodo che Etarcos applicava ai suoi
discepoli (i quali, dopo un po’, cambiavano maestro), ed è lo stesso metodo che
la dirigenza piddina, secoli dopo, divinis
preaeceptibus formata, ha applicato ai suoi elettori. Con un discreto
successo, almeno finora. Ma sapete, quel metodo lì, che è già facile da
applicare individualmente, se narcotizzi l’interlocutore con un monologo, diventa
facilissimo da applicare collettivamente, se narcotizzi gli elettori con il
pensiero unico.
Atto terzo: l’inflazione
non è il livello dei prezzi
L’abbaglio dei due dementi di cui sopra deriva appunto dall’applicazione
del metodo di Etarcos, il metodo piddino: so di sapere. Non per loro, quindi, dato
che essi sanno di sapere, ma per voi, ricordo brevemente cosa è l’inflazione,
altrimenti credo proprio che sia difficile farvi apprezzare la sesquipedale
boiata detta dal primo dei due (Nino). Il quale, non pago di aver detto una
boiata, insiste, e infatti dopo aver esordito con:
Il professore ha fatto
un errore imperdonabile
Svalutazione
monetaria: 45%
Inflazione 840%
840/45 = 19 circa
Conclusione:
l'inflazione è stata 19 volte più grande della svalutazione
Ma non si fa così....
In realtà,
l'inflazione è stata 5,8 volte più grande della svalutazione, che è sempre
tanto, ma non 19....
(8,40/1,45)
Rincara con:
Anche un bambino sa che se c'è un incremento
del prezzo di un prodotto del 45%, significa che da 1 (cioè dal 100%
precedente), per comprarlo devi pagare 1,45 (appunto il 145%). Non ci sarebbe
bisogno di specificarlo, se non a un microcefalo... Pensavo che in questo blog
ci fosse qualcosa di interessante ed utile. Mi devo ricredere. Mi sa che devi
tornare a scuola. Ma da alunno, alle elementari. Povera scuola italiana. Addio.
Un bambino lo sa, ma lui no. Infatti, se il cialtrone
applicasse il suo stesso ragionamento, bisognerebbe dividere per 1.45 non 8.4,
ma 9.4, proprio perché applicare un tasso dell’x% a una variabile significa moltiplicarla per 1+x/100. Esempio: se
ho 100 euro e li investo al tasso del 5%, a fine anno mi danno 100´1.05=105
euro (speriamo). E quindi: se ho 100 euro e li investo all’840%, a fine anno mi
danno 100´(1+8.4)=940
euro. Se me ne dessero 840, come pensa il cialtrone, mi starebbero dando gli
interessi, ma si starebbero tenendo il capitale (100)! Un po’ come se nel primo
caso mi restituissero solo 5 (gli interessi), ma si tenessero 100! Capito cosa
non capisce? Sorprendente, no? Ma è il principio di Etarcos: so di sapere. Certo che poi la finanziarizzazione dell'economia può andare avanti a manetta con dei matematici simili! Ha ragione Alessandro (non più amico del tornese): forse certi clienti si meritano certi mutui!
C’è poi un altro problema: con il ragionamento che stavo
svolgendo io, questo discorso non c’entra assolutamente nulla. Perché l’inflazione
non è il livello dei prezzi, ma il loro tasso di variazione. Nei termini dell’esempio
semplice, il numero interessante non è 105 (il livello al quale si arriva, che
è quanto interessa ai due) ma 5% (di quanto sono cresciuto). Perché? Semplice:
perché sia i prezzi al consumo che il cambio effettivo sono misurati come
numeri indici, e quindi il livello che assumono in un determinato anno non ha
alcuna rilevanza, è un valore meramente convenzionale: quello che conta, e
quello che ha senso confrontare, sono le variazioni percentuali (appunto, i
tassi di inflazione e di svalutazione).
So che è un punto tecnico, un po’ noioso, e certo non
varrebbe la pena di affrontarlo per dimostrare un dato al tempo stesso futile e
self-evident: cioè che due piddini
che si esprimono con l’arroganza e la sciattezza propria dei piddini sono due cialtroni.
Invece vi pregherei di seguirmi in questo ragionamento, anche se è noioso,
perché credo che da esso chi non sa cos’è l’inflazione (e se siete onesti,
voglio vedere alla fine di questo post quanti diranno di averlo saputo)
potrebbe trarre giovamento. I due non lo sanno, è chiaro. Ma sanno di sapere
(una cosa che non sanno cos’è... non so... qui forse devo veramente farmi
aiutare da Schneider...). E se invece volete sapere sul serio, accomodatevi...
Atto quarto: panieri
e indici
L’inflazione è la variazione percentuale di un indice
aggregato dei prezzi. Cos’è un indice aggregato dei prezzi? A grandissime linee
potremmo dire: un prezzo “medio”. Ma proprio a grandissime linee. Uno degli
indici di riferimento è quello dei prezzi al consumo. Viene costruito appunto
partendo da una media di prezzi di un gran numero di beni di consumo. Se andate
sul sito dell’ISTAT e vi cercate i dati, scoprirete che nel 2010 questa “media”
valeva 100. Che significato ha questo numero? Possibile che la media fra il
prezzo del pane, quello delle scarpe, quello di un biglietto aereo, ecc. nel
2010 fosse 100? E poi, 100 cosa? 100 euro? Che vuol dire?
In effetti, come sto cercando di farvi capire, questo numero
di per sé non vuol dire molto (ed è per questo che i due sono completamente
fuori strada, oltre a non essere coerenti col loro stesso ragionamento: ma, con
il vostro permesso, ora li lascerei perdere, e so che me lo accorderete
volentieri).
Facciamo un esempio semplice: un’economia dove si consumano
due soli beni, pane e carne. Uno studio preliminare stabilisce che una
ipotetica famiglia media spende il 60% del proprio reddito in pane e il 40% in
carne. 60%+40%=100% (il totale della spesa). Questi “pesi” costituiscono il
famoso “paniere” dell’ISTAT. I “panieri” veri, naturalmente, sono molto più
complicati perché comprendono una gran quantità di prodotti, e li trovate
qui.
Come si costruisce l’indice dei prezzi partendo dal paniere?
Semplice. Si rilevano i prezzi dei due beni (pane e carne): facciamo ad esempio
l’ipotesi che nel primo anno il pane costi 2 euro al chilo e la carne 15. Poi
si moltiplica ogni prezzo per il “peso” del rispettivo bene nel paniere: quindi
il prezzo del pane per 0.6 e quello della carne per 0.4. Risultato: 0.6´2=1.2,
0.4´15=6.
Poi si sommano i due valori ottenuti, ricavando il valore del paniere:
1.2+6=7.2.
Questi 7.2 euro sono la spesa media. Di per sé non ha
particolare significato esprimerla al suo valore monetario: non è il prezzo di
un bene, ma il reddito allocato ai consumi da una famiglia “tipo”. Per questo
motivo lo esprimiamo prendendo come riferimento a un anno, ad esempio l’anno di
partenza. Questo significa che nel primo anno porremo il livello dei prezzi
pari a 7.2/7.2=1, oppure a 100´7.2/7.2=100.
A cosa serve questa operazione? Semplice. Dato che 7.2 non è
il prezzo di alcun particolare bene, ma solo un generico valore di spesa, se lo
normalizziamo a 100 ci sarà più facile leggere le sue variazioni negli anni
successivi, quando i prezzi che lo compongono cambieranno.
Vediamo: supponiamo che nel secondo anno il pane aumenti del
50% e la carne del 20%. Quindi il prezzo del pane diventa 2´1.5=3
e quello della carne 15´1.2=18. Di quanto è aumentato il costo della vita? Dobbiamo ricalcolare il paniere. Allora: il pane
incide per 3´0.6=1.8,
la carne per 18´0.4=7.2.
Totale del paniere: 9. L’indice dei prezzi al consumo per l’anno 2 è quindi 100´9/7.2=125.
E siccome l’anno prima era 100, si vede subito che il costo della vita è aumentato
del 25%. Del resto, è anche (9-7.2)/7.2=0.25=25%. Ma esprimere la spesa del
paniere come indice (cioè porla uguale a 100 dividendola per il valore del
primo anno, l’anno base) rende più facili i confronti. Se il secondo anno leggiamo 125 invece di 100, sappiamo subito che la variazione percentuale è stata del 25%.
Ora, già qui vedete un po’ di cosette interessanti.
La prima è che il livello dell’indice non ha un particolare
significato: la scelta dell’anno base è arbitraria, è un fatto di convenienza,
potremmo anche non prendere un anno base e utilizzare come riferimento il
valore monetario del paniere (cioè 7.2 il primo anno e 9 il secondo) anziché
esprimerlo come indice (cioè 100 e 125), la sua variazione, che è quello che ci
interessa, cioè il tasso di inflazione, sarebbe uguale. Ci avete mai fatto caso che la radio vi dice quant'è l'inflazione, ma mai quant'è l'indice dei prezzi? Perché non è interessante (tranne che per i matematici... di un certo tipo).
La seconda è che l’indice risulta dalla composizione di dinamiche
dei prezzi molto diverse. Questo ha molte conseguenze. Vi faccio vedere la più
semplice, che è la seguente: tranne in casi molto poco probabili, l’inflazione
zero implica che in alcuni mercati i prezzi stiano scendendo. Guardatevi questo
esempio:
Qui il prezzo del pane raddoppia (da 2 a 4), mentre quello della carne
scende del 20% (da 15 a 12). Fatti i dovuti conti, il valore del paniere rimane a 7.2, e
quindi l’indice rimane a 100, e quindi l’inflazione è zero.
Visto?
Due considerazioni: primo, va capito che l’obiettivo di
stabilità dei prezzi (inflazione zero) è assurdo, perché implica che in alcuni mercati i prezzi
stiano scendendo. Bene! Direte voi. Male, dico io, perché vorrei vedere voi a
operare in un mercato nel quale dovete acquistare materie prime e pagare
lavoratori a prezzi e salari stabili o crescenti, mentre però sapete che il
prezzo del prodotto che state vendendo scenderà! E vorrei anche vedere voi ad
acquistare oggi una cosa della quale sapete che domani costerà di meno! La
deflazione blocca l’economia perché la strangola dal lato dell’offerta, e la scoraggia
dal lato della domanda. Ricordatevi quindi sempre che chi vi propugna la virtù
della stabilità dei prezzi aggregati (inflazione zero) sta uccidendo qualche
settore o filiera dell’economia.
Secondo: ma secondo voi, se il prezzo del pane raddoppia ma
quello della carne scende, si continuerà a mangiare la stessa proporzione di
pane e carne? Forse si mangerà un po’ meno pane (che costa di più) e un po’ più
carne (che costa meno). E qui si apre un mondo di considerazioni su come
gestire e rivedere il paniere (operazione che in effetti viene effettuata
annualmente dall’ISTAT).
Atto quinto: il tasso
di cambio effettivo nominale e reale
Se ripetete lo stesso ragionamento, e invece delle quote di
spesa (60%, 40%) mettete le quote commerciali (quanto pesano i paesi
x e
y
sul commercio dell’Italia), e invece dei prezzi dei beni (prezzo del pane,
prezzo della carne) mettete i tassi di cambio (cambio con
x, cambio con
y), avete
il tasso di cambio effettivo. Il discorso è analogo: quello che conta non è il
livello che l’indice assume, perché è convenzionale, ma piuttosto la sua
variazione, cioè il tasso di svalutazione (ricordate che quotavamo incerto per
certo nel post cui di riferiamo).
Ora... ma a noi, di tutto questo, cosa ce ne fregava?
Eravamo partiti dalla confutazione di una asserzione
piddina: ogni svalutazione è inutile perché si traduce immediatamente in altrettanta
inflazione e quindi i benefici in termini di competitività vengono annullati. Per
capire bene cosa si intende, dobbiamo ricordarci il concetto di tasso di cambio
reale, che abbiamo analizzato qui (
occupandoci di un altro piddino).
Il tasso di cambio reale è il rapporto fra i prezzi
nazionali e quelli esteri espressi nella stessa valuta. Se il cambio è incerto
per certo, il tasso di cambio reale si esprime così:
dove
p sono i
prezzi nazionali,
e il cambio (quantità
di valuta nazionale per una unità di valuta estera) e
p* è il prezzo estero. Esempio:
p prezzo in lire,
e lire
per dollaro,
p* prezzo in
dollari. Vedete che se
e aumenta
(svaluto) il rapporto diminuisce. Il piddino dice che però se lo faccio
p aumenta della stessa percentuale, e il
rapporto torna come prima. Noi abbiamo visto che il piddino ha torto (nella
Fig. 4 di
questo post), perché quando il cambio si svaluta (
e cresce) il cambio reale diminuisce.
Quello che vorrei farvi capire è che in questo concetto, che è quello che
interessava a noi, quello che conta, ancora una volta, è il tasso di
variazione, non il livello delle variabili.
Anche qui, facciamo un esempio. Immaginiamo di partire da un
mondo in cui i prezzi interni sono a 1 (abbiamo visto che il livello non conta
molto, è convenzionale), quelli esteri a uno, e il cambio è a uno pure lui. Nel
mondo succede che se io svaluto del 100%, portando il cambio da uno a due (il
cambio raddoppia... oh, voi lo sapete che questo è un aumento del 100%, vero?
Mica siete matematici etarchici?), normalmente i prezzi stanno fermi, e quindi
il cambio reale scende a 0.5=1/(1´2). Secondo i piddini, invece, non si sa bene perché, se
io svaluto del 100% improvvisamente i prezzi interni aumentano del 100% pure
loro, e il cambio reale rimane fermo.
Ripeto: abbiamo visto che questo non è vero.
Il dato tecnico è che l’ipotesi piddina di inutilità della svalutazione nominale implica che siano uguali i
tassi di variazione di prezzi e
cambio, cioè l’inflazione e la svalutazione. In altre parole, questa
storia funzione se il rapporto fra inflazione e svalutazione è 1. Nell’esempio:
100%/100%=1. Quello che dicevo nel post precedente è che invece questo rapporto
è stato, in Italia, 840%/45%=19. Una misura rozza, perché bisognerebbe
ragionare magari in termini di medie geometriche ecc. ecc., perché i prezzi
crescono monotonamente mentre il cambio prima sale poi scende, ecc. Ma quello
che interessa sono i tassi di variazione: il livello di un indice non interessa
a nessuno.
Tranne ai matematici che son così furbi da darsi un bel
aumento del 100% = 0 (come abbiamo ampiamente visto).
Epilogo e profezia
Lo so, capire quanto sono cialtroni due cialtroni è una gran
fatica: ma nessuna fatica è inutile, e spero che anche questa vi sia servita a riflettere su alcuni luoghi comuni. Comunque, questo è uno dei due motivi per i quali mi scuserete se, avendola io
fatta a suo tempo, questa fatica, ho reagito con energia al tono insopportabilmente saccente
dei due sconclusionati dilettanti. Prevedo che ne incontreremo sempre di più.
Perché questo blog, nonostante il mio intento di
non parlare a tutti, ma di aiutare chi desidera approfondire,
rinviando a siti più consoni quelli che hanno abolito la razionalità, sta diventando
popolare.
E quindi di piddini ne arriveranno sempre di più. Poveracci: il mondo
che ci hanno costruito gli sta crollando addosso. Smarriti si guardano intorno.
Ma non perdono la loro sicumera.
Ecco, io so che non dovrei dirlo, so che non è bello, so che
non è elegante, so che non è educativo, e io in fondo sono un educatore, so che
non è cristiano, ma io queste persone purtroppo, vergognandomene, cercando di
smettere, le disprezzo. Disprezzo la loro ottusità, il loro “sapere di sapere”,
perché è questa la base antropologica sulla quale si è fondato il successo
politico di quelle due o tre lenze che conosciamo: i Prodi, i Fassini, le
Fassine. Non avrebbero potuto ingannare un paese, questi qua, se non avessero
potuto contare sulle pretese intellettuali di un elettorato di media
acculturazione, incapace di concepire il fatto che una laurea presa con un buon
voto in materia affine è solo eventualmente l’inizio di un lungo e faticoso
percorso di conoscenza della realtà economica. Tutti questi intellettuali dell’“a
me non la si fa”, tutti questi intellettuali dell’“io so fare i conti”, oh,
quanti, quanti ne vedremo arrivare, ognuno con la sua matitina blu, pronti ad
applicare il pensiero di Etarcos, ma solo in parte, altrimenti la matitina blu
si sa dove finirebbe. Ognuno pronto a difendere con le unghie e coi denti l’illusione
di non essere stato preso in giro, l’illusione di poter raccogliere ancora
qualche briciola, l’illusione di godere ancora di un po’ di benessere.
Sconfitti, più e peggio di noi, che almeno proviamo a capire quello che ci
stanno facendo.
Dovrebbero quindi farmi pena.
E invece mi fanno solo rabbia.
Perché non posso non
ritenerli corresponsabili, attivamente corresponsabili, della distruzione di
tutto quanto è per me importante: la cultura, la ricerca, e un minimo di pace
sociale per goderne senza barricate in strada, con le loro “non scelte” dettate
dall’appartenenza e dalla pretesa di aver saputo brillantemente cogliere il
superamento di un paradigma (marxista, keynesiano). Certo, a loro non la si fa!
Il mondo è cambiato, loro lo sanno! C’è la Cina, adesso, dobbiamo unirci per
competere... e via scemenzando...
Piddini, se entrate qua fatelo, come vi si addice, dopo il bel capolavoro che avete fatto, col capo
cosparso di cenere e il cappio al collo. Se non lo stringerete voi, non saremo
certo noi a farlo: questa porta è sempre aperta.
Ma “errori imperdonabili”,
lezioncine di bon ton, prolusioni sull’unità della sinistra da realizzare porgendo
l’altra guancia a starnazzatori fascisti, pillole di epistemologia, ecc. ecc.
tenetele per voi. Anzi, attenzione: gli epistemologi, in particolare, sono
avvertiti: Marco Basilisco mi ha detto che d’ora in avanti sarà lui a
occuparsene di persona. E siccome è un sentimentale e ama il bricolage, credo
che abbia conservato da qualche parte una di quelle chiavi inglesi che ai bei
tempi (per lui) si usavano per dialogare socraticamente con i provocatori. Nel
tentativo, va da sé, di pervenire a una comune verità, e certo non per indurre
gli altri a rinunziare alla propria opinione. Ma a rinunziare di scassare i cabasisi,
ecco, quello magari sì.