L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali...
Domenica scorsa Galli Della Loggia sul Corsera (tantis nominibus nullum par elogium), nel commentare il libro di due intellettuali di sinistra (patetico e vetusto ossimoro), faceva una scoperta sconcertante:
Non ho nulla contro Galli Della Loggia, che dice spesso cose interessanti. Fatto sta che questa analisi, che a voi non dovrebbe tornar nuova, perché ve la siete fatta propinare in infinite dirette Facebook, oltre che tardiva (e fino a lì, poco male: certo, un po’ di aiuto quando qui ci preoccupavamo della Commissione Amore sarebbe stato gradito, ma tant’è…), appare anche gravemente deficitaria. Galli Della Loggia non vi spiega, perché non possiede (o non vuole usare) le categorie che glielo consentirebbero, il motivo oggettivo e cogente per cui la sinistra è confinata in quel ristretto e malfrequentato cantuccio della sfera dialettica che consiste nella delegittimazione dell’avversario. Noi qui lo abbiamo sempre saputo e detto (peraltro, ci è capitato di dirlo proprio in un saggio pubblicato in un volume collettaneo che reca anche un contributo dell’intellettuala criticata da Galli Della Loggia!), e ultimamente ci ho insistito molto, proprio per mettervi in guardia da possibili recrudescenze di lotta politica armata che puntualmente si sono materializzate poco dopo, con l’aggressione a Fico e, su scala minore ma non meno inquietante, a militanti e candidati della Lega. Il motivo per cui la sinistra non è più in grado di sostenere una dialettica politica sana è che la sinistra ha tradito il suo blocco sociale di riferimento, il lavoro:
Come lo ha fatto Galli Della Loggia forse non lo ha capito e certamente non vorrebbe spiegarvelo: col sostegno all’Unione Monetaria. Ma delle spiegazioni di Galli Della Loggia non abbiamo bisogno, dopo quella (per noi altresì superflua) di LVI (Draghi, per i turisti del Dibattito):
La sinistra ha avallato e soprattutto eseguito scrupolosamente politiche che hanno “compromesso il nostro modello sociale”, quelle politiche di deflazione salariale (e quindi, per inciso, contributiva) che evidentemente sono incompatibili con i principi fondamentali della nostra Costituzione. Ma su questo, i nostri “intellettuali” di sinistra non hanno mai degnato di confrontarsi, snobbando i non pochi contributi di chi tentava di attirare la loro attenzione su questi problemi. Ne consegue quindi che la loro unica scappatoia dialettica sia quella che uno di loro aveva prefigurato, a dire il vero come esempio negativo, decenni or sono:
(ma da esempio negativo questa è diventata la loro best practice), e ne consegue anche, e questo è un contributo originale dell’articolo di Galli Della Loggia, una particolare torsione ermeneutica, tutta pervasa di velleitarismo movimentista, nell’approccio alla nostra Costituzione. La tensione verso una “democrazia afascista” è quello che ci possiamo aspettare a titolo di compensazione freudiana da chi ha eseguito politiche alaburiste in un ordinamento costituzionale laburista.
Ma anche in questo caso noi, voi, capiamo perché.
Altri no, perché, per motivi a me ignoti, nessuno vuole raccogliere da terra uno strumento potente, di cui la sinistra si è voluta spossessare per brandire uno gnegnegnè umanitario-adolescenziale all’insegna della creazione di nuovi diritti, confessione tombale della sua turpe abiura alla difesa dei diritti esistenti: l’analisi materialistica dei rapporti di classe. Quella che portava Luciano Barca a diagnosticare a colpo sicuro che il Sistema Monetario Europeo era “la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia”.
E così, quella fra chi il materialismo storico se l'è dimenticato, e chi non ha mai voluto impararlo, ci appare come l'azzuffarsi di variopinti gallinacei dentro un recinto, il recinto del PUDE (Partito Unico Dell'Euro), non particolarmente divertente né particolarmente istruttivo. Da questo conflitto dei (secredenti) fuoriclasse traiamo però due lezioni indirette. La prima è che il ceto intellettuale di questo Paese, indipendentemente dalla sua coloritura reale o presunta, resta drammaticamente à côté de la plaque. La seconda, che la sinistra in questa fase storica fomenterà uno scontro sempre più violento, non arrestandosi di fronte a nulla pur di scongiurare la minaccia esistenziale costituita, per lei, dall'essere stata staccata dalla greppia del potere.
Non sottovalutate la seconda considerazione: ripeto, in questo scenario la lotta armata, o comunque esiti violenti, non sono da escludere.
Sulla prima considerazione mi permetto di aggiungere una chiosa. "Intellettuale di sinistra" è diventato un ossimoro. Mi chiedo quanto "intellettuale di destra" smetterà di esserlo. Finché non ci saremo arrivati, il nostro Paese sarà privo di intellettuali, e qualsiasi anelito verso la contendibilità del Potere non potrà che rivelarsi confuso e velleitario. Quello che c'è da fare lo aveva detto Gramsci: studiare. Non dovrebbe poi essere difficile capire che cosa, visto che siamo nella crisi economica più protratta della nostra storia. Ma evidentemente la durezza del vivere è distribuita in modo molto disuguale, e non possiamo chiedere a chi non ha certi problemi di adoperarsi non dico per risolverli, ma per ammetterne l'esistenza.
(...ma facciamo un rapido balzo in avanti nel futuro, un flash forward, come dicono quelli che ci hanno nell'E-portfolio le competenze linguistiche. Il 24 maggio del 2034, alla diciassettesima Global Conference on Education, il prof. John Shapiro, della prestigiosissima Chattanooga University, un luminare, con migliaia di citazioni su Scopus e Scholar, con un h-index stellare, con prestigiosi incarichi di consulenza per le Nazioni Unite, per l'OCSE, e per tutti i Santi Sinedri (SS) della "governance multilaterale", un pilastro delle scienze pedagogiche, presenta una relazione dal titolo accattivante: "Framing a global leadership: new fronteers". Frotte di sbarbatelli, di expat awanagana con la ricottina del rigurgitino sulla barbetta rada e trascurata, assistono alla prolusione del venerato Maestro. Quali saranno mai queste nuove frontiere della pedagogia, a quali mirabolanti strumenti potremo far ricorso, a dieci anni dall'affidamento all'IA generativa dei percorsi dei nostri studenti? Quale strumento globale occorrerà escogitare per indirizzare una leadership in grado di affrontare le sfide della globalizzazione? Queste domande pervadono il pubblico, che accoglie il luminare con uno scrosciante applauso. Shapiro chiede il silenzio, inforca gli occhiali, e con tono trasognato e ieratico si rivolge agli astanti in una lingua arcana, che non risuona più nelle loro coscienze e nei loro intelletti:
Profferite queste parole arcane, il luminare si rivolge agli astanti nell'attuale lingua universale, che qui traduco a beneficio dei diversamente analfabetizzati: "Sono qui per riferirvi i risultati di un programma di ricerca decennale, finanziato coi fondi delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea, dell'ASEAN, dell'OCSE, e di mia moglie, avente per oggetto la ricerca di una metodologia didattica che acuisse l'attenzione, stimolasse la creatività, costringesse al rigore logico, esortasse a non trascurare alcun indizio, insomma: che desse alle generazioni future una preparazione all'altezza delle sfide che esse devono e dovranno quotidianamente affrontare nel mondo della globalizzazione, un mondo in perenne cambiamento, un cambiamento che sarebbe sostanzialmente frustrante gestire in modo reattivo e induttivo, ma che occorre affrontare con quella capacità di lettura, con quella intelligenza, che un'atteggiamento passivo rispetto all'erogazione didattica necessariamente atrofizza e spiazza. Non mi soffermo qui sulle numerose strade intraprese, sulle sperimentazioni compiute, sulle statistiche raccolte: tutta materia che troverete nel paper in corso di pubblicazione. Mi preme invece annunciarvi che il problema di trovare un simile strumento, al termine di questo percorso di ricerca decennale, che ha coinvolto le migliori menti pedagogiche dei nostri tempi, è sostanzialmente risolto. Questo strumento esiste, anzi, esisteva, e male abbiamo fatto a metterlo da parte per troppo tempo: è la versione di greco. Già una decade [decennio, NdR] fa, sui social, era evidente lo scarto antropologico fra chi, scolarizzato nel XX secolo, ne aveva beneficiato, e chi no. Oggi, al termine di un programma di ricerca decennale, possiamo confermarlo: la volontà di creare un esercito di idiots savants tutti matematica e distintivo ci ha condotto fuori strada. Certo, resta assolutamente vero che "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intendere la lingua, e a conoscere i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto." Chi ha dedotto da queste sagge parole che la strada del futuro fosse la dittatura delle STEM, l'insegnare Analisi 2 alle future maestre, magari in libri senza parole, ha però trascurato un dettaglio, un dettaglio così evidente da essere invisibile, come spesso accade. Questa riflessione Galileo non ce l'ha consegnata sotto forma di equazioni o di formule, ma tramite parole. En archè o logos, e noi dal principio dobbiamo ricominciare...".
Sei anni dopo, nel 2040, un Ministro dell'Istruzione italiana reintrodurrà il Rocci (di carta).
Nel frattempo, i principali dipartimenti scientifici delle università italiane saranno diretti da giamaicani che avranno studiato il greco a Stanford.
Sic transit gloria mundi...)
(...i refusi correggeteli voi che ho un amico per cena. Non è un grecista, ma è uno che ha tradotto il greco, cioè uno con cui si può andare a cena...)
Quest'oggi il professor Pietro Reichlin fornisce su La Stampa un resoconto della storia del debito pubblico italiano strabiliante per sciatteria, demagogia, travisamento dei fatti e ignoranza della letteratura scientifica.
Dov'è la sorpresa, chiederete voi?
Ma, in effetti non c'è grande sorpresa: per lunghi anni ci siamo al contempo esilarati e amareggiati nel constatare la qualità estremamente povera degli editoriali economici propinatici dalla stampa sedicente "credibile". La Stampa, poi, quella con la "S" di serpente maiuscola, veniva chiamata "la busiarda" da chi la conosceva (perché la subiva) ben prima che i pozzi della democrazia venissero avvelenati dalla necessità di ossequiare il regime europeista. Quando non avevo ancora di peggio da fare, di tanto in tanto mi divertivo a decostruire per voi qualcuno di questi capolavori di arte povera, caratterizzati pressoché invariabilmente dal fatto che l'artista di turno si esprimeva in materia non sua (ricorderete il caso di Boeri), o apparteneva alla categoria degli economisti ad h-index basso o nullo. Una categoria che, per non so bene quale motivo (forse per affinità culturale e intellettuale), incontra gli incondizionati favori delle redazioni "importanti" (quelle salvate da Draghi col salvataggio dell'INPGI, per capirsi).
Intendiamoci: fin dall'inizio credo vi fosse chiaro, come lo era a me, che io giocavo in un altro campionato. Come si era capito fin da questo episodio, al mondo accademico italiano mancavano quei presupposti di equilibrio e correttezza necessari perché dal confronto fra due tesi scaturisse un passo avanti verso la verità. Passo avanti, peraltro, inutile, perché, come con grande scrupolo vi documentai fin dall'inizio, in questo caso la verità scientifica era ampiamente nota e documentata. Non era quindi quella l'arena in cui sarebbe stato utile confrontarsi, ed è per questo che dopo le esperienze di sbilanciamoci e de lavoce.info spostai il Dibattito qui, a casa sua. Esattamente come quando Claudio Borghi ingaggia un troll su Twitter, nell'ingaggiare qualsiasi esponente dell'accademia italiana il mio intento era (e resta) puramente e semplicemente didattico. Non trovavo particolare costrutto nell'accordare dignità di interlocutore a chi faceva nel discorso pubblico affermazioni contrarie ai dati e alle tesi che nel discorso scientifico si ritengono comunemente fondate e che vengono riportate come tali nei manuali universitari. Spiace per chi si è accorto di queste dinamiche solo con la pandemia: esse esistono da sempre e pervadono qualsiasi settore dell'accademia, in misura non necessariamente correlata all'entità degli interessi economici sottostanti. Tuttavia, l'uso di uno sparring partner più o meno attrezzato favorisce indubbiamente il percorso di comprensione di chi alla materia economica si accosta dall'esterno. A livello dialettico e argomentativo, la verità storica dei fatti emerge più nitida dalla rettifica documentata di racconti artefatti, il ragionamento economico scaturisce più limpido quando lo si usi per evidenziare le contraddizioni di argomenti estemporanei e faziosi. A livello politico, poi, era e rimane sempre utile vedere in che modo il regime cerca di impostare il suo frame comunicativo, la sua narrazione, servendosi dei suoi Kindersoldat dal maggiore o minore prestigio reale o percepito. Lo si può imparare anche dai troll su Twitter, ma certo se parla il pupazzo Giavazzi del ventriloquo Draghi, se parlano individui dotati di un'autorevolezza o di titoli reali o presunti, se parla il rampollo di un'illustre dinastia, la rilevanza politica del messaggio è proporzionalmente più rilevante.
I Reichlin
Che il campionato in cui gioco sia un altro prima poteva essere evidente a pochi, ma ormai è evidente a tutti: da Presidente di bicamerale ho poco tempo da perdere con le esternazioni più o meno farlocche in cui quotidie mi imbatto in rassegna stampa. Oggi faccio un'eccezione, per completare in qualche modo una ideale trilogia. Su questo blog ci siamo infatti occupati a fondo del primo Reichlin, Alfredo, e della seconda Reichlin, Lucrezia. Mancava un'attenzione specifica al terzo, Pietro, e la daremo oggi, sempre con intento didattico, sine ira et studio, pro veritate.
Era stato Davide Bortoletto, uno dei tanti che ci hanno lasciato per strada (ma che nessuno ricorda più: io sì...) ad attirare la nostra attenzione su un articolo in cui il buon Palombi, ispirato dal nostro lavoro, era andato a consultare i verbali delle discussioni interne al PCI prima dell'adesione allo SME, mettendo in risalto una esternazione particolarmente significativa del primo Reichlin, Alfredo.
Da dove partiva questo interesse del buon Palombi?
Da una cosa che mi era stata detta da Vladimiro Giacché la primissima volta in cui lo incontrai di persona, in un bar di viale Parioli (un episodio che dovrebbe esservi noto: lo raccontai qui). Ci dicemmo tante cose (e l'un l'altro abbracciava), ma quella che mi rimase impressa fu la richiesta di Vladimiro di ritrovare la dichiarazione di voto di Napolitano contro l'entrata dell'Italia nello SME, il sistema di cambi fissi ma aggiustabili antesignano della moneta unica. All'epoca (sarà stato il 2012), Napolitano era il Capo dello Stato e rappresentava quindi, in virtù di una modifica non scritta né votata da alcuno dell'art. 87 Cost., l'unità europea. Era difficile immaginare nel 2012 che nel 1978 Napolitano avesse potuto esprimersi con la lucidità e la competenza di uno Stiglitz o di un Krugman sui costi che ci sarebbero stati inflitti dai conati di unificazione monetaria. Eppure, gli atti parlamentari sono ancora lì, li abbiamo compulsati più volte: nella seduta, per molti versi drammatica, del 13 settembre 1978, Napolitano tenne il discorso che ritrovate al pag. 24992 dello stenografico, e che io, bastardamente, parafrasai dalle pag. 238 e seguenti del Tramonto dell'euro, nel paragrafo intitolato "Sapevano". Suggerisco di rileggere discorso e parafrasi, ma insomma, la consapevolezza dei rischi determinati dall'Unione monetaria, se pure nella forma attenuata di cambio fisso ma aggiustabile, nei comunisti era assolutamente piena. In aula la esprimevano col garbo del migliorista Napolitano:
(a pag. 24995 dello stenografico), ma fra di loro, nelle riunioni interne di partito, che Palombi ebbe il merito di riproporci in questo articolo, erano molto più espliciti! “Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia”, diceva il Barca padre (Luciano, da non confondere col figlio che è molto migliore come alpinista che come economista: ve lo dico con ammirazione - per l'alpinista!). Vi ricorda qualcosa? Beh, dovrebbe: è esattamente, in estrema sintesi, il discorso di Draghi a La Hulpe:
Deflazione (lower wage costs) e recessione (procyclical fiscal policy) antioperaia (undermining our social model). Questa è l'Unione Europea nel momento in cui le si aggiunge una irreversibile ma insostenibile unione monetaria, e questo era ben chiaro ai comunisti veri (non ai democristi che oggi voi chiamate comunisti)!
E il primo Reichlin, lui, aveva capito?
Dai verbali di queste discussioni a metà fra Guareschi e Varoufakis la sua figura emerge in un flash rivelatore: intervenendo nel dibattito interno dopo il voto favorevole dell'Italia riferisce che “poco fa mi ha telefonato da Berlino Gerardo Chiaromonte e dice che i giornali della Germania Ovest sono in festa!” Se ne stupiva, poverino! I tedeschi ci avevano appena legato le mani dietro la schiena per poterci randellare meglio, e di questo erano consapevoli sia Napolitano che Luigi Spaventa che Barca senior (e tanti altri, posso immaginare). Cosa c'era di stupefacente nel fatto che gioissero della nostra ingenuità?
Della seconda Reichlin, e della sua folgorante intuizione che gli interessi della Germania fossero diversi da quelli del resto dell'Europa (c'era voluta una generazione per arrivarci...) parlammo a suo tempo, nel lontano 2012.
Oggi ci occuperemo dell'ardita tesi del terzo Reichlin, secondo cui alla radice del debito pubblico italiano ci sarebbe niente meno che il populismo...
Sparale, Pietro, sparale ora...
Vi sottopongo in sintesi, prima di confutarle, la raffica di audaci argomentazioni sparate dal Prof. Reichlin sulla busiarda odierna.
Dunque: "In questi ultimi anni tutti i Paesi hanno accresciuto il proprio debito, ma l'Italia insieme alla Grecia rappresenta il caso anomalo". La valutazione ideologica sulla maggiore o minore opportunità dell'intervento pubblico nell'economia non c'entra e non spiega il fenomeno perché "i paesi scandinavi hanno scelto un modello sociale molto costoso, ma hanno anche una pressione fiscale elevata e un debito contenuto". Quindi "la traiettoria del debito pubblico italiano è lo specchio della nostra storia politica", e naturalmente, ça va sans dire, di "un'ideologia populista che ignorava i vincoli di bilancio". Il superbonus è un problema ma "la verità è che i politici che ci hanno governato negli anni '70 e '80 sono stati più irresponsabili di quelli recenti". Il debito italiano è cresciuto ininterrottamente "dall'inizio degli anni '60 fino al 1996, quando siamo entrati nell'Unione monetaria". Da lì in avanti il debito "scende leggermente, per poi risalire dopo la crisi del 2008, principalmente per effetto della crisi economica e della pandemia". Dopo una breve disamina dei due elementi della dinamica del debito pubblico, che noi abbiamo esaminato nell'equazione (4) di questo post:
(una disamina molto divulgativa, quella del Prof. Reichlin: io, a differenza di lui, ho pubblicazioni specifiche in tema di sostenibilità del debito, ma di "effetto palla di neve" ho sentito parlare solo in questo film:
e mi è bastato), il Prof. Reichlin afferma che "il fenomeno straordinario che caratterizza l'economia italiana dagli anni '60 a metà degli anni '80 è che l'effetto palla di neve è stato sempre negativo", cioè, in termini civili, che nell'Eq. (4) r è sempre stato minore di n, ovvero che il tasso di interesse reale è sempre stato inferiore alla crescita reale (o, se volete, la crescita superiore al tasso di interesse). Se si fosse mantenuto un saldo (lui dice "bilancio", traducendo dall'inglese balance) primario vicino al pareggio (tradotto: se a fosse stato approssimativamente nullo) "oggi avremmo un debito pubblico piuttosto basso". E questo è indubbio. "È accaduto, invece, che dal 1964 fino al 1992-93 (fino agli accordi di Maastricht) il saldo di bilancio primario è stato sistematicamente negativo", il che significa che fino alla metà degli anni '80 i governi "hanno finanziato la spesa pubblica senza adeguare la pressione fiscale, contando su una specie di patrimoniale nascosta". Certo, le spese andavano fatte, perché altrimenti non avremmo avuto il SSN o la cassa integrazione, ma "sono spese che abbiamo messo a carico dei nostri figli e nipoti". "Dalla fine degli anni '80 il mondo è cambiato" perché l'apertura delle frontiere alle transazioni finanziarie ha trasformato la "palla di neve" in un "vero e proprio macigno" (leggi: dalla fine degli anni '80 r è diventato maggiore di n). "Tra il 1992 e il 1998 il peso degli interessi passivi sul bilancio dello Stato è aumentato a dismisura, e ha iniziato a calare solo con l'inaugurazione dell'Unione Monetaria". Così, oggi la difficoltà di ridurre il debito è dovuta al fatto che "cresciamo poco e siamo sempre più anziani". Quindi per non far ripartire la "palla di neve" fra un paio d'anni dovremo portare l'avanzo primario al 4% del Pil, altrimenti iMercati ci puniranno con lo spread, e non si capisce bene come "i partiti" vogliano praticare questa salutare terapia di austerità.
Intermezzo
Per uscire un attimo dal bar di Guerre stellari, rifatevi le orecchie con un'analisi un po' più sfaccettata:
Vi aiuterà, oltre che a sopportare il male di vivere, a seguirmi meglio nel resto del discorso.
I dati hanno la testa dura
Vorrei intanto rettificare le imprecisioni più pacchiane (e ideologicamente orientate) del ragionamento svolto dal terzo Reichlin.
In primo luogo, non è assolutamente vero che l'avere un tasso di interesse reale inferiore al tasso di crescita reale fosse un "fenomeno straordinario che caratterizza l'economia italiana". Questa affermazione dimostra una disarmante ignoranza della letteratura più basilare sulle tendenze del debito nel XX secolo. A confutarla, basta una lettura anche superficiale di un saggio che qui abbiamo studiato in profondità e con profitto, The liquidation of government debt, di Carmen Reinhart e Belen Sbrancia (noi abbiamo per lo più fatto riferimento all'identica versione pubblicata nei working papers della Banca dei Regolamenti Internazionali), poi pubblicato qui e citato 803 volte (come faccia il terzo Reichlin a igNorarne l'esistenza è un mistero). La Figura 2 di questo saggio:
riporta l'andamento di r calcolato come media del gruppo dei paesi avanzati (in arancione) ed emergenti (in verde). Si vede immediatamente come il cambiamento di struttura da tassi di interesse reali fortemente negativi a tassi di interesse reali fortemente positivi sia stato un fenomeno generalizzato, globale.
In secondo luogo, non è assolutamente vero che questo fenomeno si sia manifestato "alla fine degli anni '80": è ben evidente come il punto di svolta sia nei primissimi anni '80, in molti casi fra il 1981 e il 1982.
Gestisco al volo qualche obiezione, prima di spiegare perché è così importante situare correttamente questo cambiamento di struttura.
Prima obiezione: il terzo Reichlin non parla di tasso di interesse reale, ma, correttamente [aggiungo io], di differenziale fra tassi di interesse e di crescita reali. Confutazione: non cambia assolutamente nulla, per un dato sufficientemente noto ai professionisti: la maggiore volatilità delle variabili finanziarie rispetto a quelle reali, che implica come la variazione di r-n sia dominata dalla variazione di r, che tipicamente è di parecchi punti superiore alla variazione di n. Quindi il profilo del tasso di interesse reale e quello del coefficiente r-n saranno sostanzialmente identici. Per soddisfare le lecite curiosità, sono andato sul database "Public finances in modern history" del Fondo Monetario Internazionale, ho calcolato l'andamento di r-n per i Paesi che vengono proposti di default (Stati Uniti, Francia, Giappone, Regno Unito, Svezia, Spagna, Italia, Sud Africa, India), ne ho preso la media, e il risultato è questo qui (dal 1950):
Come di consueto, quando un giornalone predica una anomalia italiana (che so: il numero eccessivo di PMI? Il peso schiacciante della corruzione? Ecc.), il riscontro coi dati restituisce un'Italia sostanzialmente allineata al comportamento delle economie a lei affini, e in questo caso anche di economie piuttosto distanti strutturalmente e geograficamente. Vi lascio esercitare nel cherry picking quanto volete, difficilmente, a meno di mettere insieme Vanuatu, Andorra e Panama (dico a caso) troverete qualcosa di diverso. Il cambiamento di struttura è lì, è ben noto che sia lì, si chiama terza globalizzazione (lo sanno tutti), o fine della "repressione finanziaria" (per usare i termini di Reinhart e Sbrancia), è stato un cambiamento globale, l'Italia non era un'anomalia prima, quando aveva un r-n negativo, non era un'anomalia dopo, quando ha avuto un r-n positivo, e il segno di r-n è cambiato all'inizio e non alla fine degli anni '80, come sanno tutti (tranne uno).
Altra affermazione che gli addetti ai lavori sanno essere imprecisa: quella che il debito pubblico sia cresciuto ininterrottamente dagli anni '60 fino al 1996 "quando siamo entrati nell'Unione monetaria":
Non è così, e non solo perché come qui sapete non siamo entrati nell'Unione monetaria nel 1996 (eventualmente, a voler fare i sofisticati senza citare la data ufficiale del 1999, l'ingresso sarebbe avvenuto nel 1997, stante l'obbligo di "partecipare al meccanismo di cambio (ERM 2) per almeno due anni senza deviazioni di rilievo rispetto al tasso di cambio centrale dell'ERM 2"), ma soprattutto perché nel 1975 il debito pubblico era al 58% del Pil e nel 1981 al 57% del Pil. Sei anni di stasi, anzi, di lieve regresso, non quadrano con una crescita ininterrotta, siete d'accordo? Tornerei anche sulla strana asserzione secondo cui la crescita del rapporto debito/Pil è stata ininterrotta fino al 1996 "quando siamo entrati nell'Unione monetaria". Ovviamente non è un refuso: è solo accecamento ideologico che prevale sul dato fattuale. In realtà il rapporto debito/Pil ha cominciato a flettere dal 1995, scendendo al 119% del Pil dal massimo relativo del 121% raggiunto nel 1994. Ma nel 1995 non solo non c'era l'Unione monetaria (ma come si fa? Come si fa a far scrivere una roba simile su un giornale? Come si fa!?)! Non c'erano nemmeno le assurde regole del Patto di stabilità e di crescita, che furono promulgate nel 1996 e che, in tutta evidenza, non erano all'origine di un cambiamento di tendenza avvenuto prima che entrassero in vigore.
Basta?
No, ovviamente.
Perché chi è del mestiere (e quindi non scrive sui giornal-
oni, ma ha un h-index Scopus a due cifre) sa benissimo che non è vero che "tra il 1992 e il 1998 il peso degli interessi passivi sul bilancio dello Stato è aumentato a dismisura, e ha iniziato a calare solo con l'inaugurazione dell'Unione Monetaria." Anche qui, ci soccorre coi dati il sito del Fmi:
Il punto di svolta non si è registrato nel 1999, con l'inaugurazione dell'Unione monetaria, ma molto prima, dopo il 1992, quando lo sganciamento dallo SME permise di abbandonare la politica di tassi di interessi elevati necessaria per mantenere l'aggancio valutario della lira alle valute "forti" del sistema (i tassi di interesse elevati servivano infatti ad attrarre capitali, sostenendo così le quotazioni della lira, come spiegato in lungo e in largo parlando delle lievi imprecisioni del Corsera). All'inaugurazione (?) dell'Unione monetaria, cioè nel 1999, i tassi si erano già quasi dimezzati (6.64%) rispetto al picco del 1993 (12.65%), e da lì in avanti gli ci vollero quasi vent'anni per dimezzarsi ancora (alla faccia delle virtù salvifiche dell'Unione...).
A questo punto la domanda diventa: comprereste un'analisi usata da un uomo che dimostra così poca padronanza dei fatti?
La risposta ovviamente è: no, ma spero che quello che aggiungerò non vi sembri del tutto superfluo.
Perché ora?
Ecco: la domanda dalla quale conviene partire è sempre questa. Perché scomodare ora l'illustre riservista, il terzo Reichlin, per difendere col Panzerfaust di un racconto privo di basi fattuali solide la solfa che siamo abituati a sentirci raccontare da un altro economista single digit, l'ex senatore Cottarelli? Quella secondo cui siccome ci abbiamo il debito è indispensabile fare avanzi primari, cioè infelicitare le generazioni presenti, per alleviare il peso sulle spalle delle generazioni future? Una solfa priva di basi logiche, come qui abbiamo sostenuto con ampio anticipo rispetto al Fmi, partendo dalla semplice constatazione che la spiacevole aritmetica delle frazioni improprie implica che tre mezzi siano inferiori a due interi, motivo per cui voler ridurre il debito/Pil coi tagli quando il rapporto supera il 100% è un'operazione altrettanto intelligente del mettersi con i piedi in un secchio e tirarne su il manico sperando di ritrovarsi al piano di sopra (la prima spiegazione era qui, la seconda spiegazione, confortata - per i coglioni - dall'auctoritas del Fondo monetario internazionale è qui).
Beh, il motivo per cui questa narrazione va ribadita, infarcendola con lievi imprecisioni fattuali, casualmente tutte orientate a dimostrarci le virtù salvifiche dell'Unione monetaria, è molto semplice: perché la coppia ventriloquo-pupazzo negli ultimi due mesi l'ha mandata in cocci.
le parole di Draghi sono dannatamente chiare. Lo abbiamo sottolineato sopra: completare una unione economica con una unione monetaria, cioè con un meccanismo di "recessione e deflazione antioperaia", determina inevitabilmente un trade-off fra competitività e sostenibilità. Se il recupero di competitività può passare solo attraverso le politiche di repressione dei salari e degli investimenti, allora è inevitabile che ogni shock esterno venga amplificato dall'unione monetaria, determinandone quell'avvitamento al ribasso che è nei dati, e mettendo in maggiore difficoltà i Paesi con rilevanti esposizioni debitorie, i cui rapporti al Pil esplodono non perché non si facciano "bilanci primari", ma perché il Pil si ferma.
Questo è il dato che i nobili rampolli, e i trasognati antesignani, di certe illustri genealogie intellettuali non capivano ieri (a differenza dei Barca e dei Napolitano) e non vogliono ammettere oggi (a differenza dei Draghi e dei Giavazzi): il fatto che se la gestisci come dice il terzo Reichlin, cioè con l'austerità, l'unione monetaria è semplicemente la lotta di classe al contrario: un gigantesco trasferimento, via interessi sul debito, di valore dalle classi subalterne alla rendita finanziaria, senza alcuna speranza di redenzione, perché lo scopo del gioco non è quello, ma è continuare a redistribuire reddito dai salariati ai rentiers, sollevando questi ultimi perfino da quel minimo obbligo di cortesia che consisterebbe nel ringraziare!
Se entriamo poi nel merito della ricostruzione storica che il terzo Reichlin ci offre, tutta improntata al mantra grillino del "se sò magnati tutto", anche trascurando il fatto che quello del 110% non è un buon esempio, perché è proprio in corrispondenza di quell'obbrobrio e della corrispettiva esplosione del deficit che il rapporto debito/Pil è sceso come non poteva non fare, non è per nulla irrilevante l'aver spostato l'inizio della terza globalizzazione alla fine degli anni '80. L'intervento di Vladimiro è illuminante in questo senso. Quando nel 1978 Napolitano in pubblico e Barca in privato contestavano l'opportunità di entrare a passo di corsa nel Sistema Monetario Europeo, rintuzzando (senza grande sostegno di parte di Berlinguer) il terrorismo di La Malfa, secondo cui un ritardo, o un diniego, avrebbe determinato catastrofi (la solita solfa sentita mille volte, e che solo noi siamo finalmente riusciti a smentire, quando abbiamo dimostrato coi fatti che dopo il "NO" al MES non è successo un accidenti di nulla), quando il Pci votò contro, non poteva sapere quanto avrebbe avuto ragione di farlo! In effetti, tre anni dopo quel voto sarebbe arrivato il Volcker shock, il vero responsabile del cambio di segno di r-n. L'adozione di un cambio sopravvalutato a partire dal 1979 non poteva non riflettersi sulla dinamica delle esportazioni:
che infatti scesero da un tasso di crescita dall'8% (nel periodo 1970-1978) al 3.6% nel decennio successivo. Questo risultato i comunisti se lo aspettavano (con la notevole eccezione, forse, di quello che pareva stupirsi del fatto che in Germania gioissero), ma pensavano di poter compensare lo strozzamento di una fonte di domanda (le esportazioni) con l'incremento di un'altra fonte di domanda (gli investimenti pubblici). Questo è quanto era successo ad esempio nel 1975, dove a fronte di una recessione globale il deficit era stato spinto fino al 7.5% del Pil (come ricorderete, senza determinare un'esplosione del rapporto debito/Pil). Così, fra il 1978 e il 1981, il deficit primario si attestò su una media del 4.1%, superiore alla media storica post-bellica, che dal 1946 al 1978 era stata del 2.2%.
Ma evitare la recessione compensando il calo dell'export con spesa pubblica corrente e in investimenti divenne sostanzialmente impossibile dopo che i tassi di interesse reali, fra 1980 e 1982, erano aumentati di 10.2 punti! Questo non se l'aspettavano, loro. L'autore del divorzio fra Tesoro a Banca d'Italia, cioè del provvedimento che nel 1981 impedì de facto alla Banca d'Italia di finanziare a bassi tassi il Governo, invece se lo aspettava e come! Lo dice e lo rivendica nel suo noto articolo: "Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l'escalation della crescita del debito pubblico rispetto al prodotto nazionale". Naturalmente, e, aggiungo: deliberatamente! Vedete infatti come tutti i protagonisti di quel periodo avessero all'epoca una consapevolezza piena della posta in gioco e delle dinamiche oggettive in atto, con la possibile eccezione dei padri di quei figli che ancora oggi ce le raccontano come fossero una favoletta di Andersen?
E invece sono lotta di classe, una cosa con cui loro, gli intellò, non si sono mai sporcati le mani, e oggi non si sporcano più nemmeno la bocca.
Voi ovviamente capite: impedire al Governo di compensare senza costi finanziari eccessivi il calo della domanda estera, e quindi, in definitiva, reprimere la domanda interna prociclicamente, in un momento in cui si era repressa quella estera aderendo al Sistema monetario europeo, aveva il nobile scopo di ridurre l'inflazione, quella che il terzo Reichlin chiama "una patrimoniale occulta". Sì, certo, l'imposta da inflazione, i professionisti lo sanno, è un trasferimento di ricchezza dai creditori ai debitori: una "patrimoniale" sui detentori del debito pubblico, che però, all'epoca, erano ancora operatori interni, i quali in fondo accettavano, consapevoli o meno, il patto sociale implicito in questo trasferimento, perché era un patto che consentiva alle ruote di girare. Il tentativo di restare in equilibrio su una bicicletta ferma è quello che ha portato all'esplosione del debito negli anni '80 e anche in anni recenti. Perché, e qui è difficile non presumere la malafede del terzo Reichlin, non è vero che dal 2008 il debito sia cresciuto per la crisi economica e per la pandemia. La crisi Lehman l'ha portato dal 103% al 120% del Pil, ma poi Monti l'ha portato dal 120% al 136% del Pil. Il terzo Reichlin, nella migliore delle ipotesi, questi dati non li ha visti, ma a me sembra più probabile che non voglia vederli, perché se li vedesse dovrebbe fare i conti con una realtà che non quadra con il raccontino delle virtù salvifiche dei sacrifici, degli avanzi primari al 4% in un Paese in cui il rapporto debito/Pil è una frazione impropria e in cui spingere sul deficit in caso di crisi non ha mai causato un aumento folgorante del rapporto debito/Pil: non lo ha fatto nel 2021 come non lo ha fatto nel 1975.
Ci sarebbero altre sfumature da sottolineare, ma lo farete voi nei commenti, o lo farò io rispondendovi: ora sto arrivando a Perugia e devo lasciarvi. Qui il dato è uno solo: la loro narrazione si è sbriciolata contro i fatti, la nostra analisi è ogni giorno confermata dai fatti, e altrettanto lo è la linea politica che siamo riusciti a proporre ai nostri compagni di strada: più Italia! Insistere è servito, e ora dobbiamo imprimere un corso diverso agli eventi. So che lo sapete e che ci aiuterete a farlo. Ci vediamo a Perugia...
(...oggi ho spiegato su Facebook un paio di cose su come funziona "er monno", a beneficio dei tanti amici - del PD - che ci soccorrono coi loro consigli disinteressati:
"Er monno de #aaaaabolidiga" funziona come tutti gli altri mondi, come tutte le altre esperienze di vita sociale: ci sono fasi, e ci sono ruoli. Quello che vedete "da fuori" è la declinazione di questa semplice verità, alla portata di tutti voi, perché ognuno di voi ha una vita sociale, che attraversa fasi, e in cui riveste ruoli, che mutano con le fasi. Ad esempio, in una fase come questa, in cui la principale emergenza è senz'altro quella democratica, è del tutto naturale che per conquistare consenso si coinvolga chi ha saputo porre questo tema all'attenzione di tutti con un libro che nei fatti è una difesa appassionata e lucida del diritto di esprimere il proprio pensiero. Quando l'emergenza era quella economica, cinque anni dopo che la mannaia dell'austerità era calata amputandoci la crescita, incombeva agli economisti il compito di esporsi al fronte, era quello il loro ruolo. Ora la fase è cambiata. I "mercati" (sarebbe meglio dire: i mercanti) non ci hanno ucciso, seguire i loro consigli ci ha debilitato, come ampiamente previsto qui, ma agli altri sta andando peggio e non siamo sotto attacco. La minaccia più imminente deriva oggi dal fatto che dopo il suo infame tradimento, quello con cui ha consegnato ai mercanti i suoi elettori, perché venissero stritolati da queste politiche:
(ricordo che le parole sono di Draghi) la sinistra ovviamente non trova spazi argomentativi al di fuori della delegittimazione e della tacitazione in qualsiasi modo e al costo di qualsiasi violenza dei suoi interlocutori. Tutte cose che qui abbiamo già visto e subito, come ricorderete. Ma la stessa perdita di freni inibitori che porta la sinistra a parlare liberamente di guerra (santa, va da sé) la porta a non distanziarsi da atti di squadrismo sempre più violenti: non dobbiamo farci illusioni, nessuno scenario va escluso, in nome del Leuropa o de Ilclima immagino che qualcuno possa senza troppe remore giustificare o propugnare perfino la lotta armata, se il buongiorno si vede dal mattino, e allora forse è opportuno che l'attenzione non dico passi, ma si allarghi anche a questi temi di libertà, che qui sono sempre stati centrali, ma trattati in una chiave volutamente elitaria (li grafichi, 'e tabbelle, ricordate? Tutte quelle cose che gli amici - del PD, come poi s'è capito - mi dicevano di non mettere, altrimenti il mio discorso non sarebbe stato coinvolgente...).
Altro esempio: oggi, come dieci anni or sono, sarà Claudio il nostro candidato, e come dieci anni or sono oggi ripeterei e ripeterò la mia stessa identica dichiarazione di voto di dieci anni fa, che, al rileggerla, mi sembra non abbia poi perso freschezza. Certo: alcune cose sono cambiate, è sufficientemente ovvio. In particolare, sono ritornato sulla mia scelta di non impegnarmi in un ruolo politico, nonostante che sia ancora del tutto sottoscrivibile il fatto che in Italia ci sia, cioè ci sarebbe, bisogno di una voce autorevole, ma indipendente e terza. Alla terzietà ho rinunciato: ho barattato un po' dell'autorevolezza che mi derivava dal non essere parte in causa con una quantità insospettata di conoscenza del funzionamento della macchina. Alla fine lo scambio è stato vantaggioso, e ora il mio ruolo non è più quello di alfiere, ma di uomo macchina, e a quel ruolo mi dedico, con disciplina e abnegazione, contro le previsioni di chi, imputandomi un narcisismo irredimibile, pronosticava una mia inguaribile incapacità di stare al posto mio. L'alfiere ancora oggi è Claudio, e la scelta di questo ruolo, che Claudio sta assolvendo con la consueta abnegazione e genialità (guardate ad esempio #ilComunepiùBorghidItalia:
scaturisce anch'essa dai ruoli che la squadra ci ha assegnato. Da Presidente di una bicamerale delicata era più opportuno che mantenessi un profilo "basso", perché questo mi consente di intervenire in modo sufficientemente chiaro nelle sedi istituzionali senza che mi venga contestato il movente di una facile cattura del consenso: e così al fronte la community schiera Claudio. Ognuno di noi si impegna in squadra nel ruolo - visibile o non visibile - che chi ci coordina ci attribuisce. La nostra forza è questa, e le accozzaglie di fetecchie narcisiste che si propongono come alternativa "pura e dura" semplicemente mancano di massa per essere una squadra e di capacità critica per agire come squadra. La soddisfazione di portare quello che ogni giorno porto alla causa mi compensa dalla frustrazione di non potermi intrattenere più a lungo con voi o di non poter girare a raccogliere applausi in giro per l'Italia - soddisfazione che peraltro con l'intento di sostenere i candidati mi sto comunque concedendo:
(con l'occasione vi segnalo la necessità di iscrivervi al canale dell'Insorto: Fausto è tornato, l'ho preso nella mia segreteria, perché le squadre funzionano così: no man left behind!m mi sta aiutando, e voi aiutatelo con sottoscrizione e campanellina...).
Il post che volevo scrivervi oggi riguarda proprio il mio ruolo in Commissione Enti Gestori, dove domani avremo il piacere di ricevere Assogestioni che ci parlerà di previdenza complementare. Ma per arrivare al punto devo partire da un po' lontano...)
Un'amica cui tengo molto mi ha segnalato questo evento:
sollecitandomi in particolare ad ascoltare l'intervento di Giorgio Matteucci, che inizia attorno al minuto 40 del video. Le cose da dire sarebbero molte, e molte ne diremo nel prossimo evento che a/simmetrie sta organizzando per il 10 luglio (con De Martin, Frezza, Tafani, e appunto anche Matteucci). Il punto che mi ha colpito di più, del quale secondo me nemmeno l'autore ha colto pienamente la verità e la pregnanza, è quello in cui l'autore evidenzia come la perenne ansia impostaci dalla "governance" sovranazionale di inseguire un futuro che non c'è si traduca in un sostanziale nichilismo, nella negazione del valore del presente, che viene visto non nella sua attualità di momento in cui concretamente si realizza la nostra esistenza, ma solo nella sua potenzialità di momento preparatorio di un futuro "migliore", che sarà il vero tempo in cui varrà la pena vivere, salvo scoprire, una volta arrivatici, che esso è un altro presente da negare in funzione di un ulteriore futuro.
Questa è la retorica del mondo dell'istruzione ("formare a professioni che non ci sono ancora..."), ma questa è, in generale, la retorica della sinistra, del progressismo, che, come vi dicevo ieri, è passato dalla negazione del passato in nome del "mai più" (come abbiamo imparato da Michéa), dalla proiezione verso il futuro visto come necessariamente, ontologicamente migliore del presente (il "progressismo" è innanzitutto questa visione rettilinea della storia), a una ulteriore radicalizzazione: non più la negazione del passato perché il futuro sarà migliore, ma la negazione del presente affinché il futuro sia migliore!
C'è una logica in questo: la visione rettilinea della storia non va più tanto di moda. Non tutti sono esperti di cointegrazione, ma sul fatto che rispetto ai "trenta gloriosi" abbiamo perso terreno chi c'era non ha dubbi! Il fallimento del nostro presente si ritorce contro chi in passato ce l'aveva indicato come un radioso futuro, illuminato dal sol dell'avvenire, e l'ovvia ritorsione qual è? Ovviamente quella di dire che se il futuro di ieri, cioè il presente di oggi, non ha mantenuto le promesse sinistre, la colpa è nostra: non ci siamo abbastanza sacrificati nel passato (cioè nel presente di ieri) e non ci stiamo sacrificando abbastanza oggi (cioè nel passato di domani) per poter aspirare a quello che non ci siamo meritati: un futuro di ieri, cioè un presente, decente, e che non ci meriteremo: un futuro di oggi, cioè un domani, migliore.
La sinistra sposa così non solo come tributo, come guidrigildo del pactum sceleris che la lega al grande capitale internazionale, ma come strumento dialettico che le apra uno spiraglio di sopravvivenza, la logica paternalista dei "sacrifici" che un tempo imputava all'odiato "neoliberismo". Come si cambia, non "per non morire", ma durante la putrefazione...
Ora, il problema di questa retorica futurologa, di questo nichilismo antiumano e antiumanistico (non solo perché nec minimum credula postero, ma anche perché le "professioni del futuro" sono ovviamente la dittatura delle STEM), è che non funziona. Il 10 luglio vedremo meglio perché non funziona nel campo dell'istruzione (nell'intervento di Matteucci c'è già molto), e qui mi limito a ricordare perché non funziona in ambito economico.
Pensare di risanare i conti di un Paese con l'austerità è esattamente come pensare di inventare un'ascensore mettendo i piedi dentro a un secchio e tirandone su il manico. Se si insiste non solo si resta dove si è, ma ci si fa del male. La distruzione di Pil, necessaria (come dice sopra Draghi) per recuperare competitività, è però nociva per il risanamento dei conti di qualsiasi operatore pubblico o privato. Lo abbiamo visto:
2) qui con riferimento al primo pilastro previdenziale (messo in oggettiva difficoltà dal calo del gettito contributivo indotto dal mix di disoccupazione e taglio delle retribuzioni);
e oggi, lellero lellero, arriva Panorama a dirci quello che, in qualche modo, ci dirà domani anche Assogestioni (e che ieri pomeriggio mi avevano detto in un incontro privato ma non riservato i rappresentanti di AEPI e Ancot):
Ma tu guarda! Ci informa compunto Panorama che se un giovano ha un salario di ingresso di 1600 euro e vive a Milano gli risulta complesso accantonare almeno 160 euro al mese per costruirsi una seconda pensione integrativa. La dottoressa Grazia Arcazzo, economista di rango internazionale (insegna a Princeton) e massima esperta mondiale di sistemi pensionistici, saprebbe spiegarci con dovizia di dettagli tecnici le ragioni di questa difficoltà, per la quale qui mi affido alla vostra intuizione.
Aggiungerei che se un autonomo deve versare dei minimi contributivi attorno ai 4000 euro l'anno (e a salire) per assicurarsi la pensione obbligatoria, ci sta anche che non riesca ad accantonare per la facoltativa.
Ve la metto giù piatta: l'idea che per avere uno stipendio decente bisognasse averne due ce l'hanno fatta digerire presentandocela sotto le nobili vesti della lecita aspirazione di tutti all'indipendenza economica e all'emancipazione. Scopo nobile, che però avrebbe comportato, una volta raggiunto, che in famiglia si guadagnasse il doppio: invece, se va bene, il tenore di vita che si riesce a permettere lavorando in due è più o meno quello che si aveva quarant'anni fa con un solo stipendio, o almeno questa è la percezione (in termini di capacità di risparmio, di tempo libero disponibile, ecc.; qui ci sono anche tante variabili sociologiche da considerare, ma insomma accontentiamoci anche qui della percezione).
L'idea che per avere una pensione decente bisognasse averne due è stata invece condita con la retorica dei sacrifici e con una narrazione truffaldina di cosa fosse il "contributivo": non un sistema (a capitalizzazione), ma un metodo di calcolo il cui scopo era quello di abbattere il tasso di sostituzione (il rapporto fra prima pensione e ultimo stipendio), rendendo così necessario ricorrere al "secondo pilastro", da finanziare con quello che resta di uno stipendio sempre più striminzito (perché "we have pursued a deliberate strategy of trying to lower wage costs") al netto di una contribuzione obbligatoria sempre più onerosa (perché il taglio dei salari ha ridotto l'ammontare dei contributi e quindi si devono innalzare le aliquote contributive nel tentativo di riportare il montante al livello precedente).
Un avvitamento senza fine verso un abisso di miseria e disperazione che nasce dall'ignoranza: l'ignoranza delle frazioni improprie, come spiegato qui.
Non solo l'austerità, distruggendo gli investimenti, ha distrutto la crescita. Non solo l'austerità, distruggendo la crescita, ha fatto aumentare il rapporto debito/Pil. Non solo l'austerità, abbattendo salari e pensioni, ha ridotto il gettito fiscale e contributivo compromettendo la sostenibilità delle pensioni obbligatorie future. Ma ha anche impedito lo sviluppo di quei fondi pensione, di quelle pensioni complementari a capitalizzazione, che nei sistemi finanziari progrediti cui in teoria certi "tecnici" aspirerebbero a traghettare il Paese, sono il motore di crescita dei mercati finanziari e quindi, secondo loro, dello sviluppo del Paese.
Il discorso di morte dei Draghi, dei Monti, del PD, è lugubremente contraddittorio: se volessero quello che dicono e dicevano di volere è del tutto ovvio, come lo era allora, che non avrebbero mai dovuto fare quello che allora ci dicevano fosse necessario, e oggi ci confessano essere stato dannoso.
Ma questi "errori" tecnici, che errori, come sapete, non sono, ma strategie deliberate di redistribuzione del reddito dai piccoli ai grandi, non sarebbero stati accettati, o almeno non sarebbero passati inosservati alle loro vittime, se non fossero stati sostenuti dalla macabra retorica nichilista della sinistra.
Questa è la responsabilità politica dei moderni collaborazionisti, e a questa responsabilità dovremo richiamarli a giugno.
Parto da un presupposto, la comprensione del quale distingue l'uomo dal fascista (perché il fascismo è in primis et ante omnia antiparlamentarismo): la democrazia ha un costo.
Gli staff di tecnici che in Parlamento ci aiutano a seguire i provvedimenti (staff tanto più necessari in quanto l'esercizio della funzione legislativa è costantemente perturbato dalla gragnuola di provvedimenti di iniziativa governativa ed europea, sotto la quale orientarsi è veramente complesso), le ipotetiche sezioni in cui si potrebbe ipoteticamente svolgere quel dibattito "dal basso" che ipoteticamente potrebbe portare all'emergere di candidature espressione del "bobolo", la propaganda elettorale, col suo corredo di materiali, di eventi, di diffusione sui media, ma anche le attività divulgative, di diffusione di un messaggio e di sollecitazione di una consapevolezza (esclusa quella in cui vi trovate ora), hanno un costo finanziario. Ma senza la diffusione di un messaggio, senza un'organizzazione territoriale, senza una classe dirigente, non esistono i partiti e non esiste la democrazia rappresentativa. Si rimane quindi con la dittatura, o con la sua versione per gonzi: il mito della democrazia diretta, da esercitare magari su un registro distribuito mediante blockchain (e vi ci vedo proprio a votare il 24 dicembre i millesettecento emendamenti della legge finanziaria dal cellulare, invece di fare gli ultimi regali)!
Se la democrazia ha un costo, i casi quindi sono due: o si rinuncia ad essa, o la si finanzia.
Vengo quindi alla domanda che volevo porvi.
Quale sarà la ratio (aspetto il cretino che legga: rescio) legis dei complessi adempimenti in tema di trasparenza del finanziamento pubblico dei partiti, col loro corredo di timbri, firme, ceralacche, controlli da parte della Corte d'Appello, dichiarazioni congiunte (cioè a doppia firma del donante e del donatario) sopra una certa soglia, dichiarazioni semplici sotto una certa soglia, pubblicazione degli elenchi (autentiche liste di proscrizione!) sui siti dei partiti, ecc. ecc.?
Perdonatemi se sarò superficiale, non citandovi tutta la complessa normativa, non fornendovi i dossier e gli atti parlamentari che hanno condotto a proporla e adattarla infinite volte, insomma, non esercitando lo scrupolo documentale che è una delle cifre di questo blog, e che ha contribuito alla sua credibilità. Fatto si è che a me qui, oggi, non interessa un lavoro di ermeneutica legislativa né di tracciamento delle responsabilità o addirittura delle intenzionalità politiche che ci hanno condotto a tanto, e non mi interessa nemmeno una storicizzazione rigorosa di questi sviluppi, che ovviamente si collocano nell'alveo di quella "moralizzazione" che, come abbiamo ormai capito, nata con nobili intenzioni altro non è diventata che il volto presentabile dell'antipolitica, cioè del tentativo (riuscito) da parte del complesso militare-industriale-mediatico-giudiziario di indebolire ed esautorare i corpi elettorali.
A me interessa solo il fottuto Aristotele, il grande sconfitto della stagione politica scaturita dalla micidiale accoppiata Maastricht-Mani pulite.
Mi chiedo, e vi chiedo: tanta trasparenza serve forse alla magistratura, serve a coadiuvare il suo lodevole sforzo nel contrastare la corruttela, nell'evitare che il politico agisca contro l'interesse pubblico (di chi?) perché catturato da interessi particolari (di chi?)?
Mi sembra ovvio che la risposta a questa domanda non può essere che un netto e risonante: no.
Lo scandalo dei dossieraggi, una vicenda popolata da personaggi uno più sordido dell'altro, ci rende chiaro che siamo tutti ascoltati. Io, ad esempio, do per scontato di esserlo, e di esserlo illegalmente, va da sé. Basta saperlo per regolarsi di conseguenza: siccome sono una persona disonesta fino a prova contraria (essendo un parlamentare: questo è il lascito del grillismo...), con sprezzo del pericolo uso ancora il telefono! Se fossi un mafioso userei i pizzini (analogico batte digitale uno a zero). Scherzi a parte: la magistratura ha, e deve avere, tutti gli strumenti che le servono (e di cui non dovrebbe abusare, ma le cronache ci confermano che spesso abusa) per esercitare il suo controllo di legittimità. Se sospetta, o presume (magari, ipotizzo, per pregiudizio ideologico) l'esistenza di un reato, può disporre intercettazioni, accessi alle basi dati, ecc. Non ha certo bisogno di andare a consultare le liste dei finanziamenti leciti (lecitamente concessi, lecitamente accolti, lecitamente pubblicizzati) per fare il suo lavoro, che non dovrebbe essere un controllo di merito, ma sempre di più, sempre più smaccatamente, vuole esserlo.
La pubblicità dei finanziamenti leciti ha evidentemente un'unica "rescio", che non è quella di permettere alla magistratura di esercitare il proprio giudizio di legittimità (l'ordinamento le attribuisce ben altri e più pervasivi mezzi per farlo), ma quella di permettere agli elettori di esercitare il proprio giudizio di merito. L'elettore, che non ha i poteri della polizia giudiziaria, ha un unico modo per formarsi un libero convincimento su quanto la linea del partito che vorrebbe votare sia o meno influenzata da interessi più o meno loschi, ed è appunto quello di accedere alle liste dei finanziamenti pubblicate sui siti dei partiti, valutando chi sono i soggetti finanziatori, e riflettendo liberamente su quanto gli interessi di questi soggetti coincidano col proprio. Non potendoci intercettare tutti a vicenda (non fosse che per mancanza di tempo!), è in base a questi elenchi pubblici che possiamo formarci un giudizio (noi), ed esercitare (noi) il (nostro) giudizio di merito votando o non votando una determinata forza politica in base al fatto (cioè alla nostra percezione) che essa sia o non sia indipendente da interessi più o meno loschi.
In altri termini, in una democrazia sana la magistratura dovrebbe finire dove inizia la trasparenza, o, se volete, dovrebbe iniziare dove la trasparenza finisce, perché consentire alla magistratura di sindacare sul merito di un finanziamento lecitamente concesso e pubblicato significa attribuirle un potere di indirizzo politico che in una democrazia sana non dovrebbe avere, se non per la quota parte dell'esercizio dei diritti di elettorato attivo e passivo di ogni magistrato uti singulus.
Ma sappiamo tutti benissimo che non è così, lo abbiamo capito da un pezzo, lo abbiamo plasticamente visto in Senato, quando all'epoca dello scandalo Palamara nessuno fece un fiato, e in infinite occasioni precedenti e successive di personaggi silurati con processi cui sono conseguite assoluzioni ampiamente anticipate, ma che hanno lasciato nella vita delle persone interessate un buco del tutto analogo a quello che il Partito Dossieraggi ha lasciato nel Pil italiano (ve ne parlavo nel post precedente).
Ora, come sapete, a me non interessa il merito ma il metodo, e non mi interessano le dinamiche soggettive (l'eventuale mens rea delle parti in causa: quella è roba di cui si deve appunto occupare la magistratura) ma quelle oggettive.
Non sto quindi dicendo che la magistratura (presa così, a corpo) sia perversa. Ogni generalizzazione è ingiusta, e il modo peggiore di reagire a ingiustizie è praticarne. Non sto nemmeno dicendo che i magistrati, che alcuni magistrati, non facciano bene il loro lavoro. Credo lo facciano tutti molto bene, altrimenti sarebbero sanzionati dal loro organo di autogoverno, il CSM: nel caso, quindi, l'attenzione andrebbe spostata su questa istituzione e su cosa eventualmente le impedisse di funzionare bene. Voglio che sia chiaro che quello che qui si dice lo si prova a dire (da sempre) nell'interesse delle istituzioni, e in particolare della magistratura, perché da esponente del potere legislativo vivo male in un Paese in cui all'ennesimo titolo di giornale il mio riflesso non è quello di approfondire, ma di esclamare "Mo che è st'altra cazzata!?" e di girare pagina. Perché di amici persegui(ta)ti e poi assolti ormai ne ho un certo numero, stranamente superiore a quello degli amici perseguiti e condannati. Tutti questi falsi positivi un perché ce l'avranno, e potrebbe anche essere semplicemente quello che io gli amici li scelgo bene, ma in ogni caso il mio punto non è qui quello di delegittimare la magistratura o di invocare bavagli su di essa!
Il punto cui voglio arrivare è un altro, e ci arriveremo in ogni caso: secondo me, dopo un fatto traumatico che riconcili gli italiani con la democrazia (la morte in guerra di un figlio è una soluzione drastica e che non mi auguro, ma nel 1945 dimostrò di essere efficace, portando alla Costituzione del 1948); può anche darsi che ci si arrivi attraverso un processo ordinato e meno traumatico. Se i magistrati sono, o meglio, sembrano (perché ho appena detto che non lo sono e che sarebbe ingiusto etichettarli come tali), "compagni che sbagliano", la soluzione è riportare le istituzioni in un alveo che non li induca in tentazione (per inciso: io morirò senza aver detto "non abbandonarci alla tentazione". Mi assolvano tutti i vescovi e gli arcivescovi del mio collegio, alle cui preghiere costantemente e sinceramente mi raccomando).
Questo alveo era ben delineato quando la memoria del fascismo vero, quello che sopprime la libertà di parola, era ancora viva (siamo grati al PD che ogni tanto ce la rinfresca sguinzagliando i suoi squadristi, come farà fra poco a Livorno), ed era racchiuso da due argini: finanziamento pubblico dei partiti e immunità parlamentare.
Basterebbe ripristinare questi argini, ammalorati dal grillismo e dalla sua controparte istituzionale (il desiderio di alcuni di considerarsi legibus soluti), per veder tornare a scorrere le acque della democrazia, che ora si sversano e si intorbidano in una palude mefitica e inospitale, quella dell'antipolitica, dove il legame fra volontà popolare e indirizzo politico si corrompe e si imputridisce, lasciando il campo alla soft law della governance sovranazionale, agli indirizzi politici di chi piace alla gente che piace: un giro di corruzione (vera) così macroscopico da essere too big to prosecute (i silenzi delle magistrature su vicende recenti in cui erano evidentemente in ballo interessi economici giganteschi in effetti non depone tantissimo a loro favore, ma tant'è...).
Se non esistono più i presupposti culturali, di cultura giuridica e istituzionale, per gestire il finanziamento privato, si torni a quello pubblico: si stroncherà così in radice l'idea che la linea del partito possa essere corrotta da interessi criminosi o criminogeni, fatto salvo ovviamente il caso di reati, cioè, nel caso in specie, di mazzette, che però potranno essere individuati e perseguiti come tali, come lo sono sempre stati.
Se un'infinita serie di inchieste apparentemente a orologeria (ma la forma è sostanza!) seguita da assoluzioni non altrettanto puntuali ha ingenerato il sospetto diffuso di un esercizio strumentale dell'azione penale, si stronchi questo sospetto sul nascere reintroducendo l'immunità.
Il giudizio sui fatti e misfatti della politica deve essere restituito al cittadino. Chiarisco questa frase, che non è né l'invocazione di un tribunale del popolo, con tanto di tricoteuses, né l'appello a una depenalizzazione generalizzata di qualsiasi cosa fatta da chiunque sia titolare di un incarico elettivo. No. Io intendo dire un'altra cosa. Intendo dire chela panpenalizzazione dell'azione politica, il fatto che non ci sia più procedura, adempimento, genuflessione, timbro, salamelecco, ceralacca, che ti salvi dalla presunzione di colpevolezza in quanto politico, è innanzitutto uno sfacciato e vibrante insulto a quel popolo italiano nel cui nome si pretenderebbe di esercitare la giustizia. Pretendere di sostituirsi all'elettore nell'esercizio di una funzione di indirizzo politico (gli esempi non mancherebbero, ma non mi dilungo che sono già quasi a Milano) significa esternare una radicale sfiducia nella capacità di discernimento dell'elettore stesso, o peggio ancora una generalizzata e tombale presunzione di colpevolezza, tale per cui il politico scelto sarà comunque scarso, o perché l'elettore è stupido (ovviamente se non è di sinistra, come la sinistra amabilmente gli ricorda nel tentativo di catturarne le simpatie), o perché agisce in cambio di favori, in un'ottica quindi assimilata sic et simpliciter al voto di scambio.
Forse, nei salotti che contano, e in cui il lobbysmo scorre potente, bisognerebbe ricordare che non solo i ricchy, ma anche i povery, quando votano qualcuno, lo fanno perché da quel qualcuno si aspettano qualcosa, e che se questo meccanismo, che si chiama rappresentanza politica, va bene quando è agito dai ricchy, deve andare bene anche quando agito dai povery. Ma è sempre più evidente che l'azione della magistratura sta esondando dal giudizio sul "qualcosa" che gli elettori si aspettano, al fatto che essi si aspettino qualcosa. Nel mirino c'è l'essenza stessa del meccanismo di rappresentanza, che implica un mandato, e quindi un "fare qualcosa".
Il finanziamento pubblico si rende tanto più necessario in quanto nella temperie culturale attuale quello privato è fonte di un duplice attacco alla democrazia: l'attacco da parte della magistratura, quando esonda volendo sottoporre a giudizio di merito (e quindi implicitamente di indirizzo politico) fatti assolutamente leciti, e l'attacco da parte dell'universo mondo piddino, fatto di istituzioni, datori di lavoro, direttori di banca, capi ufficio, insegnanti dei propri figli, ecc., che grazie alla pubblicazione delle liste (di proscrizione) dei tanti finanziatori della Lega sa verso chi esercitare la propria discriminazione, sa quale cliente, paziente, figlio, ecc., penalizzare per motivi di odio ideologico. Questa è l'esperienza di ognuno di noi: tanti ci sostengono idealmente e vorrebbero farlo anche concretamente, ma in questo baese libbero, demogradigo e andifascisda hanno il terrore di far sapere che sostengono Salveenee.
E questo terrore è purtroppo motivato, ve lo posso dire per esperienza personale.
Con l'immunità quo ante si stroncherebbe in radice il sospetto di strumentalità di certe indagini. Questo significa che il Parlamento diventerebbe la Caienna di una ciurma di sconclusionati gaglioffi? No, ovviamente no, perché gli elettori non lo consentirebbero, e quindi, ben prima di sottoporsi al loro giudizio, non lo consentirebbero i partiti, come non lo consentivano all'epoca in cui la memoria di cosa fosse il fascismo aveva suggerito di rendere inviolabili i parlamentari nell'esercizio delle loro funzioni politiche. Ma oggi chi fa il piagnisteo in memoria di certi uomini coraggiosi è il primo a tradirne il lascito, consegnandosi allo squadrismo di chi nei fatti ha trasformato quell'aula sorda e grigia in un bivacco di meetup.
Insomma: Dio è morto, Aristotele è morto, ma io sono in ottima forma, e non sono disposto ad arrendermi.
(…prima l’ho scritto per voi, e poi l’ho letto a loro, con tanto di slides. Il risultato mi ha sorpreso. Si vede che qui, con voi, riesco a trovare una dimensione espressiva efficace. D’ora in avanti farò così…)
Nella sua Relazione Programmatica 2023-2025 il CIV (Consiglio di Indirizzo e Vigilanza) dell'INPS sottolineava l’esigenza di effettuare uno “Studio sull'incidenza della contribuzione previdenziale sui redditi da lavoro in Italia, comparata con gli altri Paesi europei”. La Relazione di Verifica di quest'anno riporta succintamente i primi risultati di questa inchiesta. Un elemento che il CIV (e chi vi scrive) reputa interessante si trova a pag. 87 della Relazione di Verifica:
Mi conforta constatare che persone più competenti di me in materia evidenzino il fenomeno che vi ho illustrato nei due post precedenti: il gettito contributivo ha subito una flessione, e questo in parte per un elemento che avevo trascurato (il ricorso alla fiscalità generale determinato dalle agevolazioni contributive: insomma, il famoso discorso delle "coperture" per il "taglio del cuneo"- così capite meglio di cosa stiamo parlando...), ma in parte per un calo del monte retributivo, quel calo che abbiamo documentato nel post sull'inverno macroeconomico:
cui si associa un calo del gettito contributivo:
Tuttavia, la lettura che di questo calo dà il CIV dell'INPS, attribuendolo sic et simpliciter alla "riduzione dell'occupazione", non tiene conto di quello che a mio avviso è il fatto politico più rilevante di quest'anno, o forse dell'intero ventennio: il discorso di Draghi a La Hulpe il 16 aprile scorso:
Nel rivolgermi a un'istituzione che è un pilastro, il primo pilastro, del nostro modello di sicurezza sociale, mi è impossibile e sarebbe intellettualmente disonesto trascurare quanto un personaggio così autorevole afferma circa le ragioni che ne hanno determinato l'indebolimento a livello europeo.
Quello che Draghi, omettendo qualche passaggio, dice non è un'assoluta novità. Il passaggio omesso è l'adesione dell'Italia all'unione monetaria. Che questa adesione sia un elemento di disciplina dei salari è scritto nei libri di testo (ad esempio, a pag. 122 e 125 di La politica economica nell'era della globalizzazione, di Nicola Acocella: la politica del cambio forte serve a "contrastare politiche salariali o fiscali ritenute inflazionistiche"). Mi piace citare anche l'On. Fassina, che a suo tempo condensò questa verità macroeconomica in una frase icastica e veritiera: "non potendo svalutare la moneta, si svaluta il lavoro" (a Servizio Pubblico, il 31 gennaio del 2013, concetto poi ripreso e sviluppato su Italia Oggi del 26 settembre 2014).
Ora, il dato su cui desidero portare la vostra attenzione è che, con dieci anni di ritardo rispetto all'On. Fassina, Mario Draghi dice la stessa cosa: la risposta europea a una crisi esterna che richiedeva recupero di competitività è stata il tagliare vicendevolmente i "costi" salariali, cioè quelli che visti dal lato del lavoratore sono un reddito, e visti dal lato dell'INPS sono un contributo, visto che il gettito contributivo, come ci ricorda il CIV, dipende dalla massa salariale.
La svalutazione del lavoro, appunto.
Questo fenomeno è nei dati. Vediamo che a partire dal 2012, anno in cui entrano in vigore le politiche di austerità dettate dalla lettera della BCE dell'agosto 2011 e eseguite a partire dal 16 novembre 2011 dal Governo Monti, il monte retributivo subisce uno scostamento al ribasso dalla propria tendenza storica di intensità e persistenza mai sperimentate. L’eccezionalità si comprende meglio "zoomando" fino al 1980:
Ma la piccola integrazione (non correzione) che mi sento di fare, che il presidente Draghi fa, alla Relazione di Verifica, è questa: a pag. 87, dove si parla della riduzione dell'incidenza della contribuzione previdenziale, dovremmo specificare che essa è stata una conseguenza della riduzione dell'occupazione e della deliberata riduzione dei salari (il termine "deliberata" è di Draghi: ci sarebbe da discutere su chi l'avrebbe abbia deliberata ma in questa sede mi limito a esporre fatti).
Il fenomeno, del resto, è visibile nei dati:
(il pallino rosso identifica il quarto trimestre 2011, cioè l'arrivo dell'austerità col Governo Monti: i salari nominali torneranno solo nel secondo trimestre del 2015 ai valori antecedenti alla "cura").
Quando nell'agosto 2011 prefiguravo uno sviluppo simile sulle colonne niente di meno che del Manifesto (la vita è strana), quello che mi veniva risposto era: "Ma cosa dici! I lavoratori non accetteranno mai un taglio del salario nominale. Al più un'erosione del potere d'acquisto attraverso l'inflazione." In realtà dal trimestre successivo (autunno 2011) abbiamo avuto l'una e l'altro.
Ora, va aggiunto un pezzettino a questo ragionamento.
Tagliare i costi, cioè i redditi, salariali, è un'operazione che non ha enorme agibilità politica. Per poterla realizzare, occorre creare un contesto in cui il potere d'acquisto dei lavoratori sia indebolito: un contesto recessivo. E anche qui ci soccorrono le parole del Presidente Draghi: le deliberate politiche di bilancio procicliche (cioè i tagli degli investimenti pubblici in circostanze recessive) hanno oggettivamente favorito quell'aumento della disoccupazione che, come gli economisti sanno, naturaliter determina un effetto di repressione salariale, l'effetto che si voleva conseguire per recuperare competitività di prezzo.
Anche questo è nei dati.
Se mettiamo in prospettiva l'evoluzione degli investimenti pubblici in Italia (dati OCSE a prezzi correnti) il quadro che emerge è tanto ignoto ai più quanto impressionante:
Negli ultimi quarant'anni non s'era mai vista una cosa del genere, nonostante le tante crisi che sicuramente molti fra i presenti ricordano. Non s'era vista, perché prima dell'adesione all'eurozona, che comportava il rispetto delle regole del Patto di Stabilità e di Crescita, il contesto istituzionale non imponeva una risposta così suicidaria a uno shock esterno.
Ovviamente un fenomeno così macroscopico si è riflesso sull'andamento del Pil italiano. Del resto, le retribuzioni sono un pezzo del Pil, qualora lo si consideri dal lato del reddito. Sotto la duplice morsa del taglio della domanda pubblica (taglio degli investimenti) e di quello della domanda privata (taglio dei salari) il Pil italiano si è spiaggiato e ancora stenta a tornare al livello precedente alla crisi (quello del 2007. Il fenomeno è impressionante, macroscopico, e dovrebbe essere al centro dell'attenzione di tutti i cittadini:
Un disastro simile non s'è mai visto in tutta la storia unitaria del nostro Paese:
dato che emerge ancor più nitido se si considera il flusso di investimenti fissi lordi, cioè di spesa in beni capitali produttivi da parte delle imprese:
e già questo basterebbe a motivare la necessità di portarlo al centro del dibattito pubblico. Sono numeri, sono statistiche, della Banca d'Italia, dell'ISTAT, dell'OCSE.
Il disastro causato dalle deliberate (e oggi tanto autorevolmente descritte, anzi confessate!) politiche di competizione al ribasso sui salari e sugli investimenti pubblici ci riguarda tutti, ma a me in questa sede piace mettere in evidenza due aspetti che ritengo possano essere di diretto interesse per questo pubblico, prima di formulare qualche ipotesi sulle direzioni da prendere per uscirne.
Prima di tutto, nel dibattito sulla sostenibilità del sistema pensionistico si fa costante riferimento al rapporto fra la spesa previdenziale e il Pil. Un indicatore il cui significato è limpido e la cui rilevanza non può essere negata. Poniamoci allora una domanda: quale sarebbe stata l'evoluzione di questo rapporto se in seguito alla crisi del 2009 non avessimo risposto con politiche contrarie alla crescita? Se la crescita nominale fosse stata in media analoga a quella anteriore alla crisi? Insomma, se le politiche deliberate di aggressione allo Stato sociale non ci avessero portato così visibilmente sotto le tendenze secolari del nostro sistema economico?
La risposta è in questo grafico:
Se il tasso di crescita nominale del Pil fosse rimasto prossimo alla sua media storica dall'entrata nell'euro (il 2.9%), dopo il balzo verso l'alto determinato dalla recessione del 2009 il rapporto fra spesa pensionistica e Pil sarebbe tornato gradualmente verso il valore storico prossimo al 14%. L'assassinio deliberato della crescita ha determinato un innalzamento persistente su valori oltre il 16%. Va da sé che simili controfattuali hanno un valore meramente descrittivo: essi aiutano però a inquadrare la dimensione dei fenomeni e in parte, a mio avviso, a cercare la soluzione nella direzione giusta, che non può essere quella di reprimere la crescita (i salari, gli investimenti).
Seconda osservazione. Ci fu una stagione in cui si parlava di salario come variabile indipendente. Una posizione politica lecita, un dibattito cui parteciparono persone così autorevoli che non mi sento degno neanche di menzionarle, ma anche, diciamocelo pure, un mantra. In meno di un anno di esperienza da Presidente della Enti Gestori, mi pare che oggi il mantra sia un altro: quello della demografia come variabile indipendente. Ma la demografia non è indipendente dall'economia. La geologia lo è: mette mari e monti dove le pare, e l'economia deve adattarsi. La demografia molto meno. Mi spiego con un grafico, quello delle nascite in Italia dal 1995 in qua (dati ISTAT, integrati dal 1995 al 1999 con dati OCSE):
Anche qui, una frattura è evidente. In questo caso non è senza precedenti: ci fu un tempo, storico, in cui in Italia nascevano oltre un milione di bambini all'anno. Le dinamiche demografiche sono lunghe, certo, ma appunto quello che qui impressiona è la rapidità dell'inversione di tendenza in un contesto che dalla metà degli anni '90 era stato in ripresa sostanzialmente fino al 2010.
Senza voler stabilire un particolare nesso di causalità, viene però da accostare lo scostamento dei nati dal loro tendenziale a quello del Pil dal suo tendenziale:
Le due tendenza certamente si parlano: sostenere che siano esogene l'una all'altra sarebbe ardito, come lo sarebbe andare alla ricerca di un nesso di causalità diretto ed esclusivo. I fattori sono molti e la relazione viaggia nei due sensi: si può anche argomentare, ponendosi dal lato dell'offerta, che il calo della popolazione e quindi dei lavoratori causi un calo del prodotto. Non mancano tecniche sofisticate per sciogliere questi nodi e individuare la relazione del nesso causale. Certo è che la risposta a quale sia questa direzione è dentro ognuno di noi, soprattutto di chi ha avuto l'opportunità di vivere in un Paese diverso, più autonomo.
Mi avvio a concludere.
Oggi siamo tutti d'accordo (qualcuno con genuina e motivata convinzione, qualcuno obtorto collo) sul fatto che le politiche di austerità siano state un fallimento, ma documentare quanto, come e perché lo siano state temo non sia un esercizio inutile.
Siamo anche tutti d'accordo, lo ribadisco per rassicurare eventuali commentatori distratti o maliziosi, che l'unione monetaria sia irreversibile.
Tuttavia, onestà intellettuale vuole che si convenga anche sul fatto che con le regole date essa è insostenibile, per due motivi:
1) perché pone un trade-off fra competitività e sostenibilità finanziaria (del sistema pensionistico, ma più in generale di tutte le posizioni debitorie);
2) perché rende strutturalmente inutile l'adesione al mercato unico.
Che senso ha infatti aderire a un mercato unico se quando arriva una crisi globale, e quindi il mercato unico europeo servirebbe come sbocco per la produzione europea, l'unica risposta che si riesce a escogitare è un taglio dei salari e degli investimenti pubblici europei, cioè, di fatto, la sterilizzazione del potere d'acquisto di questo mercato, la sua obliterazione de facto come mercato di sbocco dell'Unione?
Come riportare sostenibilità nella costruzione europea?
Credo che la chiave sia nel ripercorrere all'indietro il percorso che abbiamo fatto fin qui. Se le minacce alla sostenibilità del primo pilastro (e di tante altre cose, fra cui tutte le posizioni debitorie pubbliche e soprattutto private) vengono dalla mancata crescita, a sua volta causata da tagli degli investimenti eseguiti in ossequio a regole di bilancio, bisogna ripartire dalle regole di bilancio, evitando che esse richiedano il taglio degli investimenti in condizioni di crisi. La riforma delle regole di bilancio attualmente in itinere va nella direzione giusta, ma dobbiamo anche dirci che, pur riconoscendo e apprezzando gli sforzi del Governo italiano, resta da compiere ancora uno sforzo perché la crescita torni al centro della politica europea.
Dobbiamo anche guardarci dall'atteggiamento di chi, per non assumersi la responsabilità di scelte i cui esiti sono quelli che vi ho illustrato, oggi strizza pericolosamente l'occhio al keynesismo bellico. Quello che serve al Paese sono opere di pace: investimenti in capitale fisico e in capitale umano. Sottolineo questo punto: non è logicamente coerente che un sistema che a parole attribuisce tanta importanza allo sviluppo del capitale umano penalizzi la spesa in capitale umano (istruzione, sanità...) considerandola spesa corrente. Senza una golden rule intelligentemente costruita, e quindi "inclusiva", come oggi si usa dire, il futuro dell'Unione Europea è l'avvitamento su se stessa, è quel ruolo di buco nero della domanda mondiale cui la condanna la logica della svalutazione interna.
Un futuro triste, ma meno tragico di quello verso cui ci conduce chi oggi, in un Paese in molte sue parti privo di strade percorribili, con un'edilizia scolastica da qualificare, con una sanità pubblica che comincia ora a riprendersi dalla stagione dei tagli, vede nella costruzioni di armi l'unica legittimazione dell'intervento pubblico nell'economia. Esercitiamo la massima cautela nei riguardi di queste tesi, che, se non contrastate, possono condurre alla più catastrofica delle previsioni autorealizzanti.
Concludo su una nota positiva: i risultati conseguiti dall'INPS in termini di tenuta dei conti, in particolare del sistema pensionistico, sono buoni. Se valutati alla luce di quello che abbiamo fatto alla nostra economia, sono miracolosi. Sopravvivere a una simile distruzione di valore, come quella causata dalla svalutazione interna, non è cosa banale. Se ne riconosca il merito a chi ha guidato e indirizzato, nei vari ruoli, il lavoro di questa importante istituzione.