Avrei altro da fare, ma quando è troppo è troppo.
Mi sono già occupato del modo in cui certe fonti di (dis)informazione
riportano quello che potrebbe accadere se la dracma uscisse dall’euro (in particolare, su
Repubblica). Non
credevo che la mia indignazione per una certa tendenziosa superficialità
potesse essere superata. Ma a Roma si dice che il peggio non è mai morto. E infatti,
un lettore del blog mi segnala
un articolo che suscita in me un’indignazione
ancor più motivata e profonda.
Perché, vedete, Livini, l’autore del “pezzo” di
Repubblica, in fondo faceva un esercizio ipotetico (cosa accadrebbe se...),
servendosi, tra l’altro di una fonte in lingua inglese. Volendo essere
indulgenti, le barriere linguistiche e una scarsa dimestichezza con la logica
degli esperimenti controfattuali potevano spiegare la lieve esagerazione
commessa: quella di valutare i costi del ritorno alla dracma a una somma pari a
circa il 40% del Pil dell’intera eurozona (una volta e mezzo il Pil tedesco),
anziché all’1.2% del Pil dell’Eurozona (metà del Pil greco), come riportato
dalla sua fonte. Peccati veniali, cosa volete che sia: una differenza di alcune
migliaia di miliardi di euro, ma si sa, se uno sceglie una carriera
“letteraria”, si può giustificare (?) la sua scarsa dimestichezza con le
aritmetiche, e poi, ripeto, qui in ogni caso si trattava di controfattuali,
cioè di stabilire “cosa succederebbe se”. E siccome “cosa succederebbe se” lo
scopriremo solo vivendo, come dire, certo, è una gaffe clamorosa, certo, è casualmente (?) orientata nel senso di
diffondere quel messaggio terroristico che evidentemente in Italia tutti i
quotidiani vogliono diffondere, certo, un quotidiano nazionale non è un blog e
dovrebbe agire in modo più responsabile, però, insomma, via, su, si può essere
indulgenti (e poi l’autore è amico di un amico: a proposito, siete ancora amici
dopo che hai detto che è incompetente?...).
Ma l’articolo del Corriere della Sera di cui voglio parlarvi
tante scuse non ne ha. Anche in esso si applica estesamente quello che Popper
chiamava il pinball theorem:
Hyp: if my grand-father
had had five balls
Th.: he
would have been a pinball
Insomma: “si mmi nonno c’aveva cinque palle era ‘n flipper”,
come dicono i saggi romani quando vogliono stigmatizzare la futilità di certi
controfattuali un po’ campati in aria.
Ma non è sui controfattuali di questo
articolo che voglio intrattenervi: ripeto, quello che succederà ai mutui, ai
tassi, ecc. lo vedremo presto, e ovviamente non sarà né una passeggiata, né un
Armageddon. Viceversa quello che è successo nel 1992 lo abbiamo visto tutti
(almeno, chi c’era), ed è consegnato alle statistiche economiche. Riportarlo in
modo grossolanamente distorto, per dedurne catastrofi epocali per noi in caso di
ritorno alla dracma (o alla lira), mi sembra quindi difficilmente scusabile. Gli autori si
espongono così, con una certa ingenuità, a una smentita, e soprattutto fanno
sorgere motivati sospetti, visto che la loro distorsione va, guarda caso, nel
solito senso: quello di ribadire nel cranio del lettore che non c’è
alternativa, che fuori dall’euro sarebbe la tragedia. Comincio a convincermi
del contrario, a giudicare da quante menzogne vengono dette da chi sostiene la
tesi catastrofista.
Per farvi capire quanto tendenziosamente distanti dalla
realtà siano le affermazioni dei due autori, occorre però che spieghi
rapidamente a chi non lo sa:
1)
come funziona la bilancia dei pagamenti, e
2)
come funzionavano gli accordi di cambio dello
Sme.
Come sempre, sono i dettagli a far
la delizia dell’intenditore. Forse vi annoierò un po’, ma potrebbe valerne la
pena.
La bilancia dei
pagamenti in pillole
La bilancia dei pagamenti registra i pagamenti determinati
dagli scambi di merci, servizi e prodotti finanziari fra i cittadini residenti
in un paese e i non residenti. Lo scopo è quello di stabilire se il saldo fra
pagamenti ricevuti e pagamenti effettuati è positivo o negativo (o nullo). Non
c’è nulla di molto strano: ognuno di noi ha una sua personale bilancia dei
pagamenti. Quando lavoriamo esportiamo servizi, e in cambio incassiamo denaro.
Quando facciamo la spesa importiamo merci, e in cambio esborsiamo denaro.
Quando mettiamo i soldi in banca, esportiamo un capitale (e in cambio riceviamo
un pezzo di carta che ci permette di recuperare il capitale con gli interessi).
Quando contraiamo un mutuo, importiamo un capitale (e in cambio firmiamo un
pezzo di carta nel quale ci impegniamo a restituire il capitale con gli
interessi).
Tutti capiscono che alla
fine della storia, non si può solo pagare: bisognerà pure incassare qualcosa,
ogni tanto, altrimenti per effettuare gli acquisti occorrerà contrarre debiti.
Semplice, no? Se non lavoro o non mi pagano devo comprare il pane a
credito: cioè a debito.
Bene.
Quello che succede per ognuno di noi rispetto a tutti gli
altri, succede anche per la somma di tutti noi rispetto a chi risiede in un
altro paese. Quindi in Italia entra valuta estera se gli italiani vendono merci
a non residenti (esportazioni di merci) o vendono titoli a non residenti
(importazioni di capitali), mentre esce valuta estera se si acquistano merci da
non residenti (importazioni di merci) o si acquistano titoli da non residenti
(esportazioni di capitali).
Dato che nel 1992 avevamo la nostra valuta, mi preme farvi
capire la relazione fra queste operazioni e il prezzo della valuta del paese,
cioè il suo tasso di cambio. Capiamoci: dire “entra valuta estera” significa
dire “viene domandata valuta nazionale”. Perché? Perché i casi sono due: l’esportatore
italiano o viene pagato in lire (e allora è l’importatore estero che ha
domandato lire sul mercato valutario, offrendo la valuta del suo paese), o
viene pagato in valuta estera (e allora è l’esportatore italiano che si rivolge
alla propria Banca centrale – ovviamente non di persona, ma tramite il sistema
bancario – offrendo la valuta estera e domandando valuta nazionale). Quindi
ogni operazione che determina un saldo positivo dei pagamenti tende a far
salire il cambio della valuta nazionale, perché il saldo positivo è appunto una
domanda netta di valuta nazionale. Di converso
tutto quello che fa defluire valuta estera
dal paese (cioè determina un’offerta di valuta nazionale) tende a far
deprezzare il cambio. Esempio: l’importatore italiano che chiede alla propria
Banca centrale dollari (quindi domanda valuta estera e offre valuta nazionale)
per pagare l’esportatore estero. Insomma, il residente che vuole un bene o un titolo
estero, per acquistarlo domanda valuta estera, offrendo valuta nazionale, che
quindi si deprezza.
Alla fine della giornata, se i pagamenti sono in equilibrio,
non ci sarà né offerta né domanda netta di valuta nazionale: tante ne è stata
domandata, tanta né è stata offerta: il suo prezzo, cioè il tasso di cambio, rimarrà
stabile.
Ma se i pagamenti non sono in equilibrio, i casi sono due:
1)
c’è stato eccesso di domanda di valuta nazionale
(da parte di esportatori di beni o importatori di capitali): e in questo caso
il cambio tenderà ad apprezzarsi;
2)
c’è stato eccesso di offerta di valuta nazionale
(da parte di importatori di beni o esportatori di capitali): e in questo caso
il cambio tenderà a deprezzarsi.
Ma... se il cambio è fisso come si fa?
Capiamoci. Il cambio non è la costante di gravitazione
universale. Non è qualcosa di iscritto dalla divinità nel grande libro della
creazione. È una cosa umana, mutevole, transeunte e convenzionale come tutte le
cose umane. Dire che il cambio è fisso non significa dire che esiste da qualche
parte un “muro dei cambi” dove nostro Signore, o Mosè sceso dal Sinai, con un
gran martellaccio e un chiodo “fissano” il cambio a una certa altezza. No, no,
non è così. Dire che il cambio è fisso, in un’economia moderna, significa dire
che qualcuno interviene attivamente, giorno per giorno, per ripristinare sul
mercato valutario condizioni di equilibrio.
Cosa vuol dire “ripristinare condizioni di equilibrio”?
Vuol dire che:
a)
se c’è eccesso di offerta di valuta estera
(eccesso di domanda di valuta nazionale) la Banca centrale, per evitare che il
cambio si apprezzi:
i.
può fare in modo che venga chiesta meno valuta
nazionale, e/o
ii.
può acquistare lei la valuta estera in eccesso
di offerta, mettendola nelle proprie riserve ufficiali.
b)
se c’è eccesso di domanda di valuta estera
(eccesso di offerta di valuta nazionale) la Banca centrale, per evitare che il cambio
si deprezzi:
i.
può fare in modo che venga chiesta più valuta
nazionale, e/o
ii.
può vendere lei la valuta estera richiesta, prendendola
dalle proprie riserve ufficiali, e “pulendo” così l’eccesso di offerta di
valuta nazionale.
Vediamo prima i sottocasi (i): come si fa a fare in modo che
venga chiesta più o meno valuta nazionale? Bisogna distinguere fra lungo e
breve periodo. Nel lungo periodo, certo, se il tuo cambio si apprezza, i tuoi
prodotti diventano più cari per gli importatori esteri, quindi le tue
esportazioni diminuiscono, quindi la domanda di valuta nazionale (offerta di
valuta estera) cala, quindi ti riporti in equilibrio. Il contrario se il tuo
cambio si deprezza. Ma quanto tempo ci vuole? E i fixing del cambio avvengono
quotidianamente (anzi, ormai minuto per minuto). Nel day by day bisogna agire rapidamente, e allora lo strumento diventa
il tasso di interesse.
Facciamo il caso (b)(i): c’è eccesso di offerta di
valuta nazionale (saldo negativo dei pagamenti): la Banca centrale alza il
tasso di interesse, gli investitori esteri sono invogliati, domandano titoli in
lire, e così le scarse esportazioni (o le eccessive importazioni) di merci sono
bilanciate da un afflusso (importazione) di capitali: saldo nullo, cambio
stabile. Se invece il paese si trova in surplus, può far scendere il tasso di
interesse: in questo modo gli afflussi per esportazioni (nette) di beni vengono
compensati da deflussi di capitali: saldo nullo, cambio stabile.
Questo meccanismo (mantenimento del cambio fisso agendo sul
tasso di interesse per bilanciare con i movimenti di capitali gli eccessi di
domanda/offerta di valuta) normalmente funziona, tranne in due casi.
Il primo caso è quando non lo si vuole far funzionare.
Esempio: la Cina. Dopo la crisi asiatica, la Cina ha agganciato il proprio
cambio al dollaro e si è mantenuta in surplus strutturale. Tutti domandavano
renminbi, ma il cambio non saliva. Perché? Perché la Banca centrale acquistava
lei tutti i dollari offerti in cambio di renminbi, e li metteva nelle proprie
riserve ufficiali. Perché? Ad esempio perché la crisi asiatica aveva dimostrato
che per un paese ancora in via di sviluppo non è una cattiva idea dotarsi di
una massa di manovra da spendere sui mercati valutari laddove ci sia necessità
di difendersi da attacchi speculativi. Better safe than sorry.
Il secondo caso è quando il meccanismo si rompe. Esempio: la
Svezia. Durante la crisi valutaria del 1992, il tasso di interesse in Svezia
arrivò al 500%. Generoso quanto inutile tentativo. Chi può credere a un tasso
simile? Quando arrivi a offrirlo di fatto hai già dichiarato di essere
sconfitto. A quel punto l’unico modo che hai a disposizione per “difendere” il
cambio è “spararti” tutte le riserve ufficiali (caso (b)(ii)) e poi svalutare.
Se svaluti prima regali meno riserve ai mercati.
Lo Sme in pillole
Il Sistema Monetario Europeo, instaurato alla fine del 1979,
era un accordo di cambio fra i principali paesi europei (a geometria variabile
nel tempo), con il quale questi si impegnavano a far oscillare il cambio delle
rispettive valute entro una banda molto ristretta (
±2.25%) attorno a una “parità
centrale” definita rispetto a una valuta scritturale, l’Ecu (European Currency
Unit). Insomma, il cambio era praticamente fisso.
Per inciso, vi ricordo che
anche nel regime di Bretton Woods il cambio non era esattamente fisso, ma
poteva oscillare di ±1%
intorno alla parità centrale (definita rispetto al dollaro). Insomma: anche i
cosiddetti sistemi di cambi “fissi” un minimo di flessibilità ce l’avevano, a
differenza dell’euro: chiaro, no?
L’Ecu era una unità di conto definita come “paniere” (media
ponderata) dei cambi delle valute europee, con pesi pari alle rispettive quote
sul Pil europeo. Insomma: ci si impegnava a non scostarsi troppo dal “valore
medio” delle valute della zona.
Vi faccio notare due cose.
Primo: se, partendo dalla posizione centrale, il paese A si
portava al margine superiore della banda e il paese B a quello inferiore, di fatto
A aveva rivalutato del 5% rispetto ad B, o B svalutato del 5% rispetto ad A.
Non era poco (per i precisini: in realtà l’aggiustamento era lievemente
asimmetrico per motivi tecnici che non interessano, e quindi l’entità
complessiva era del 4.5% anziché del 5%: oggi con l’euro abbiamo lo 0% di
flessibilità). La lira poi, riconosciuta figlia di un dio minore, aveva inizialmente
negoziato una banda di oscillazione più ampia (±6%), quindi la sua
flessibilità era ancora maggiore.
Secondo: se una valuta si trovava persistentemente spinta al
margine inferiore (superiore) della banda, la rispettiva Banca centrale doveva
intervenire innalzando (abbassando) il tasso di interesse o acquistando
(vendendo) la propria valuta in cambio di valuta estera. Naturalmente anche qui
l’origine del problema era nella competitività: si trovava spinto verso il
basso il paese con più inflazione, che quindi aveva partite correnti
tendenzialmente in rosso (poche esportazioni, molte importazioni). Per un paese
simile la situazione poteva rivelarsi insostenibile:
1)
perché essendo costretto a tenere alti i tassi
di interesse, vedeva rapidamente deteriorarsi la propria posizione fiscale
(vedi Italia);
2)
perché se invece decideva di intervenire a
sostegno della propria valuta acquistandola, dopo un po’ finiva le proprie
riserve ufficiali, ed era costretto ad arrendersi.
Per rimediare a queste prevedibili, prevedibilissime
situazioni di insostenibilità, lo Sme aveva previsto (appunto) due meccanismi. Una
valuta spinta all’estremo inferiore (o superiore) della banda di oscillazione
poteva:
1)
rinegoziare la parità centrale, concordandone
una più bassa (o più alta) con i partner europei;
2)
ricorrere all’aiuto del Fondo Europeo di
Cooperazione Monetaria (FECOM).
Notate: sono due meccanismi del tutto analoghi a quelli
previsti a suo tempo dal sistema di Bretton Woods. Anche in quel sistema era
possibile rinegoziare la parità col dollaro in caso di squilibri “fondamentali”,
ed era possibile (è possibile) ricorrere all’aiuto del Fondo Monetario
Internazionale in caso di squilibri di breve periodo. A proposito: voi il FECOM
lo avevate mai sentito nominare? Non credo. Perché? Semplice: perché ovviamente
già allora pochi, o meglio nessuno, erano interessati a soluzioni cooperative
delle crisi. E perché? Semplice: perché dalle soluzioni “traumatiche” c’era molto, ma molto da guadagnare.
Eh sì! Perché un sistema di cambi fissi ma aggiustabili è
esattamente quello che ci vuole per favorire la cosiddetta “speculazione
destabilizzante”.
Pensateci. Se un paese era spinto al margine inferiore della
banda, voleva dire che stava già da tempo in una situazione di tendenziale
deficit, quindi stava già accumulando debiti con l’estero. Su quei debiti stava
pagando interessi sempre più alti (a causa del tentativo della Banca centrale
di “difendere” la parità del cambio), il che aggravava la situazione (interessi
più alti = pagamenti più consistenti di redditi all’estero = maggiore deficit).
Non solo. Se la situazione si aggravava, la Banca centrale poteva sì
intervenire “pulendo” il mercato, cioè comprando lire contro dollari o marchi.
Ma naturalmente la Banca centrale italiana non può stampare dollari o marchi.
Gli speculatori sapevano bene quando la Banca centrale stava per finire le sue
munizioni. A quel punto scatenavano una massiccia vendita di attività
denominate lire, acquistando in cambio marchi, il che dava una spinta all’ingiù
al cambio. La Banca centrale italiana finiva le riserve (di fatto, vendeva agli
speculatori tutti i marchi che possedeva) e poi era costretta a svalutare (così
il giorno dopo gli speculatori con gli stessi marchi si compravano il 10% di
lire in più). Semplice, no? E allora perché ricorrere al FECOM, perché
aggiustare un meccanismo che, così com’era, faceva fare tanti bei soldini a chi
aveva le disponibilità sufficienti per manovrare sui mercati valutari?
Tenete presente che il problema, ora come allora, era
provocato da due ingredienti: l’esistenza di un differenziale di inflazione,
che peggiorava la posizione competitiva del paese in deficit; la rigidità del
cambio, che impediva di procedere con riallineamenti costanti, evitando
problemi. Naturalmente durante tutti gli anni ’80 i riallineamenti c’erano
stati, sia al rialzo che al ribasso (la cronologia è
qui).
Non era morto nessuno. La decisione di evitarli a tutti i costi era una
decisione politica, non tecnica, presa per i motivi per i quali si prendono le
decisioni politiche: perché qualcuno ci guadagnava (o ci avrebbe guadagnato).
Il 1992
Vi ricordo che nel 1986 aveva avuto luogo l’ultimo
riallineamento importante della lira. E vi ricordo anche che nel 1991 la lira
era entrata nella banda di oscillazione ristretta (cioè era passata da una
banda del
±6%
a una del
±2.5%,
ovviamente più difficile da difendere). E vi ricordo anche che dal 1986 al
1991, cioè nei 5 anni precedenti il 1992, l’Italia aveva avuto in media quattro
punti di inflazione in più della Germania (geniale l’idea di entrare in banda
ristretta con un simile differenziale di inflazione!). Gli ingredienti per un’esplosione
c’erano tutti, e infatti l’esplosione avvenne. Ma sentite come la raccontano
gli amiconi del Corriere.
“il nostro Paese
venne costretto ad abbandonare lo Sme, il sistema monetario europeo, dopo un
furioso attacco speculativo. Il dopo è storia, non finanza fatta con i «se».
Tra maggio e ottobre la lira perse il 25% rispetto al marco tedesco. Nel
periodo successivo i Bot andarono al 17%, l'inflazione schizzò e i titolari di
un mutuo in Ecu - il paniere che rappresentava le divise europee - o in altre
monete straniere maledissero la scelta extra valutaria. Perché la lira perse
terreno rispetto a tutte le monete forti.”
Asserzione numero 1:
in seguito a un attacco speculativo la lira perse il 25% rispetto al marco fra
maggio e ottobre.
La Fig. 1 riporta un decennio di tasso di cambio lira/Ecu
(in blu) e lira/marco (in rosso). I tassi sono quotati “incerto per certo”,
cioè misurano quante lire ci vogliono per acquistare un’unità delle altre
valute, quindi se aumentano vuol dire che ci vogliono più lire, cioè che la
lira si svaluta. Riporto il tasso col marco perché è quello citato dagli
autori, e quello con l’Ecu perché era il fulcro del sistema dei cambi. Va da sé
che siccome già allora la Germania esprimeva una quota importante del Pil
europeo, e per di più le valute di Olanda, Belgio e Austria erano strettamente
legate alla sua, ovviamente il “paniere Ecu” seguiva, come dire, le vicende dell’uovo
più grosso. Voglio dire che, come si vede nella figura, i tassi lira/marco e
lira/Ecu si muovevano di conserva.
La Fig. 2 riporta quello che è successo a questi due cambi
fra il maggio e l’ottobre del 1992.
Abbiamo “zoomato” sia in larghezza,
considerando solo i sei mesi dei quali gli autori parlano, sia in altezza,
rappresentando le due serie su due assi diversi, per far vedere meglio cosa è
successo: il cambio con l’Ecu è misurato sulla scala verticale di sinistra,
quello col marco sulla scala verticale di destra. A sentire gli autori, sembra
che la lira abbia progressivamente perso terreno, in questi sei mesi,
sotto le ondate di un attacco speculativo
(come sono cattivi, gli speculatori, e la povera liretta non poteva
difendersi). Ora, è evidente che le cose non stanno così.
Fra maggio e agosto i
due tassi di cambio stanno fermi, immobili (variazione media dello 0% al mese).
Poi fra agosto e settembre vediamo una fiammata verso l’alto, cioè una
svalutazione: ci vogliono 48 lire in più per acquistare un marco (il 6.3% in
più) e 74 lire in più per un Ecu (il 4.8% in più). E fra settembre e ottobre, un’altra
svalutazione: ci vogliono altre 73 lire in più per un marco, e altre 111 lire
in più per un Ecu (rispettivamente, un altro 9% e 6.8%). Quindi, in una sola
frase (“Tra maggio e ottobre la lira perse il 25% rispetto al marco tedesco”)
ci sono due errori: intanto, la perdita complessiva fra maggio e ottobre fu del
17% rispetto al marco (e del 12% rispetto all’Ecu). Poi, non avvenne “fra
maggio e ottobre”, ma “fra settembre e ottobre”.
Questo non è un dettaglio: fa parte del meccanismo dello
Sme, e soprattutto di come si era deciso di gestirlo. Si era, evidentemente,
deciso di gestirlo rinviando il più possibile i riallineamenti, che pure erano
perfettamente previsti, leciti e consentiti dalle regole scritte. Perché? In
teoria per un problema di “credibilità”: la rigidità del cambio, si diceva, avrebbe reso più credibili le politiche antinflazionistiche dei governi periferici.
Ma in pratica il rinvio dei
riallineamenti, a conti fatti, otteneva un unico, meno nobile, scopo: quello di consentire agli speculatori
dei guadagni ingenti e immediati una volta arrivati al punto di rottura.
Se veramente la lira avesse “perso terreno” gradualmente fra
maggio e ottobre, ovviamente gli speculatori avrebbero guadagnato molto di
meno. Perché? Perché certamente
non si sarebbero messi in tasca il 7% il 14settembre.
Magari si sarebbero messi in tasca il 2% a maggio, ma il riallineamento avrebbe
ridato fiato all’economia, rinviando riallineamenti futuri, e rendendoli meno
onerosi.
Quella di “caricare la molla” fino al punto di rottura era
evidentemente una decisione politica.
Capiamoci con un esempio tratto dalla nostra tragica
attualità. Secondo voi, se le persone così duramente colpite dal terremoto in
Emilia avessero potuto scegliere fra tre scosse di secondo grado e una di sesto
grado (quella che purtroppo si è verificata), cosa avrebbero scelto? È chiaro:
tre scosse meno violente. Ma il terremoto è un “act of God”, dicono gli inglesi,
che ha solo vittime, solo perdenti: non ci sono vincitori. La
svalutazione, invece, è un costrutto umano, ed ha vincitori e perdenti. E
naturalmente i vincitori ci guadagnano di più quanto più grande è la scossa.
Ecco perché le cose non sono andate come raccontano i due
(progressiva perdita di terreno fra maggio e ottobre) ma come raccontano i
dati: perdita secca a settembre.
Asserzione numero 2 –
“Nel periodo successivo i Bot andarono al 17%”
E vediamoli i tassi di interesse italiani. Per fissare le idee,
ve li faccio vedere nei 24 mesi dall’inizio del 1992 alla fine del 1993.
Secondo i nostri amiconi, a partire da novembre (periodo successivo alla
svalutazione), dovremmo osservare un’impennata dei tassi. E infatti:

Ho mantenuto le definizioni della mia fonte (le
International Financial Statistics). Vedete, il tasso sui Bot è il Treasury
Bill Rate, che effettivamente raggiunge un massimo pari al 18% (per
l’esattezza, 17.98%) ma, dettaglio, non dopo
la svalutazione, ma durante. In
effetti, noi stiamo usando dati mensili. Se avessimo dati giornalieri, vedremmo
che il picco viene raggiunto prima
della fatidica data del riallineamento (14 settembre). Come mai? Ve l’ho
spiegato prima. Il tasso di interesse andò alle stelle al culmine della crisi,
nel tentativo strenuo, ma matematicamente
destinato a fallire, di difendere la parità con l’Ecu. E quindi gli amiconi
stanno mentendo, perché, una volta svalutato, e addirittura
abbandonati gli accordi di cambio (il 17 settembre), ovviamente la necessità di
difendere il cambio veniva meno, e infatti i tassi di interesse dopo la svalutazione rapidamente scesero, non salirono, come vi dicono gli autori (sapendo di mentire?). Dopo ottobre il tasso sui Bot era già
sceso di 2.5 punti rispetto al massimo, e a febbraio del 1993 era sceso di
quasi sei punti, collocandosi a 12.05, cioè sotto il valore di gennaio 1992
(12.18). Quindi la storia che l’abbandono del cambio fisso ha fatto impennare i
tassi è falsa. E del resto, perché avrebbe dovuto essere vera?
Asserzione numero 3 –
“L’inflazione schizzò”
Ah, già, l’inflazione! Certo, certo, lo sappiamo quale
relazione c’è fra svalutazione e inflazione: una relazione che a voler
esagerare potremmo definire tenue, e questo sia sulla base dei dati, che di
precise teorie economiche (
ne abbiamo parlato qui). Ma il piddino medio è
educato al terrore dell’inflazione importata. Per lui la svalutazione si
trasferisce sui prezzi con un coefficiente pari a 1 (quello che gli economisti
chiamano coefficiente di
pass-through,
sì, proprio quello che in tutti gli studi empirici risulta invece molto più
basso). Tant’è che i nostri autori dicono solo “schizzò”, senza neanche dire
fino a dove,
perché si dà per scontato che se il cambio si svalutò del 25%
(anche se era il 17%), l’inflazione sarà salita almeno al 25% (o al 17%). E in
effetti, se l’inflazione fosse “schizzata”, ci saremmo anche potuti aspettare
un incremento dei tassi di interesse (che normalmente si adeguano
all’inflazione). Ma l’incremento dei tassi non c’è stato, e ovviamente non c’è
stato nemmeno lo “schizzo” (metafora poco elegante).
Lo abbiamo già visto con dati annuali nella Fig. 2 di
questo post,
ma rivediamolo con i dati mensili. La Fig. 4 riporta il tasso di inflazione e
di svalutazione calcolato mese per mese (la cosiddetta variazione
congiunturale).

Non so se è chiaro: le svalutazioni, come vedete,
raggiungono quasi il 9%, ci sono poi rimbalzi con rivalutazioni che arrivano al
4% (sempre mese per mese), ma non abbiamo né inflazione al 9% nel primo caso,
né deflazione al 4% nel secondo: i prezzi si muovono molto, ma molto, ma molto
di meno del tasso di cambio. Chiaramente, siccome i prezzi non sono influenzati
dal cambio, cade l’idea (che forse gli autori hanno in testa) di una fiammata
dei tassi causata da uno “schizzo” dell’inflazione a sua volta causato dalla
svalutazione del 25% (che invece era il 17%). Il tasso di crescita dei prezzi
(l'inflazione) se ne va bello pacioso per la sua strada, senza essere minimamente affetto
dalle paturnie del cambio. Se volete, apriamo lo zoom: ve lo faccio vedere su
un periodo più ampio, considerando i livelli (cioè il tasso di cambio, e
l’indice dei prezzi):

Ecco, giudicate voi: il livello dei prezzi è in rosso,
quello del cambio in blu. Vi sembra che quando il cambio schizza verso l’alto
(svalutazione) i prezzi ne risentano? A me sembra che continuino ad andare
dritti per la loro strada, con una crescita (inflazione) pressoché costante. E
infatti è così. Chi dice il contrario, chi dice che la svalutazione porterebbe altrettanta inflazione e quindi alti tassi di interesse, è solo
un dilettante (perdonabile) o un furbastro (meno
perdonabile). I fatti, in ogni caso, stanno in un altro modo.
Sintesi: i nostri raccontano la storia del 1992 in tre
affermazioni, che sono tutte e tre false. Sono false non per una sfortunata
fatalità, ma perché, come vi ho spiegato, forse annoiandovi, contraddicono
frontalmente la logica del sistema allora vigente:
1)
la svalutazione non fu graduale ma one shot perché questa era la logica del sistema che prevedeva cambi fissi ma aggiustabili, e perché in questo modo gli
speculatori ci guadagnavano di più;
2)
i tassi di interesse dopo la svalutazione non
salirono ma scesero, perché una volta svalutato (e ancor più dopo l’uscita
dallo Sme) non era più necessario tenerli alti per difendere il cambio;
3)
l’inflazione non schizzò verso l’alto perché non
lo fa mai, dato che il coefficiente di pass-through
è molto ma molto inferiore a uno.
E ora credo di non dovervi più spiegare perché da circa 20
anni non leggo più i giornali italiani. Voi regolatevi come credete, ma se poi vi mettono paura dell'uomo nero, e di notte avete incubi, non chiamate me. I miei figli hanno smesso da un po', sinceramente faccio a meno di ricominciare...
“Perché
vive un uomo simile?” ruggì sordamente Dmìtrij Fiòdorovič,
quasi fuori di sé dalla collera, alzando le spalle in modo tale da sembrare
quasi gobbo, “no, ditemi, gli si può ancora permettere di disonorare con la sua
presenza la terra?” e girò lo sguardo su tutti, indicando con la mano il
vecchio. Egli parlava con lentezza e misura... Ma tutta quella scena, giunta
ormai al colmo dello scandalo, finì nel modo più inatteso. A un tratto lo
starets si alzò. Aljòša, che dalla paura
provata per lui e per gli altri era quasi smarrito, ebbe tuttavia il tempo di
sostenerlo per un braccio. Lo starets fece un passo verso Dmìtrij Fiòdorovič
e, giuntogli vicinissimo, si abbandonò dinanzi a lui in ginocchio. Aljòša
credeva già che fosse caduto per lo sfinimento, ma non era così.
Inginocchiatosi, lo starets si prosternò a Dmìtrij Fiòdorovič
con un perfetto, preciso e consapevole inchino, e sfiorò anche la terra con la
fronte.
Bene, tutto questo per dirle che nel suo intervento video una cosa che mi ha fatto un po' dubitare è il suo riferimento al fatto che certe politiche economiche sono dettate dal (superficiale) nazionalismo. Mi sembra un po' poco. O no? (non è una domanda retorica, me lo chiedo davvero)
Senza voler fare per forza dietrologie, quali sono secondo lei altri fattori che portano a fare certe scelte economiche un po' allegre?