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venerdì 6 giugno 2025

Ci vuole più freddezza

Com’era inevitabile, in queste ore i nodi stanno venendo al pettine, in una misura onestamente inattesa anche per chi vi scrive. Che però ci fosse qualcosa di sostanzialmente fallace nell’argomento secondo cui Trump o Elon fossero “uno di noi” qui, visto che nessuno ci legge, ci siamo sempre permessi di dirlo. Si tratta di un problema metodologico generale. Il mondo è troppo complicato per darci la garanzia che il nemico del nostro nemico (in quale battaglia?) sia matematicamente nostro amico, o amico dei nostri amici (cioè di altri nemici dei nostri nemici). Come corollario, quindi, non c’è nulla di così strano nel fatto che due nemici dei nostri nemici scoprano di non essere amici!

Questo dobbiamo sempre tenerlo a mente. Le grida di vittoria per battaglie vinte da altri, in altri paesi, su altri presupposti, in altri contesti, possono avere il significato tattico di rinforzare il morale della truppa, di rinsaldare il consenso. È successo anche a me, anch’io mi sono abbandonato a questa tentazione. Ricordo il mio intervento, che forse pochi di voi ricorderanno, al palazzo delle stelline a Milano nel 2016 quando ironicamente esordii con: “Dio è con noi, e adesso è con noi anche Trump!” Parlo ovviamente dello stesso Trump che poi, in un momento difficile di questo paese, fece il noto endorsement a Giuseppi. Cose che all’epoca era praticamente impossibile immaginare, anche per chi aveva scritto da poco il post in cui prevedeva che Pd e 5 Stelle si sarebbero saldati (ma onestamente la benedizione degli Stati Uniti a questo improbabile coniugio non me l’ero immaginata, non essendo per me chiaro allora, come non lo è ora, l’atteggiamento degli Stati uniti nei confronti del Problema, che è e resta l’euro, il che mi suggeriva di non addentrarmi in pronostici per i quali mi mancava un elemento essenziale).

Naturalmente questo non vuol dire che l’emersione di fatti o persone disruptive non debba essere salutata come un elemento positivo. Certamente lo è! Non vuole nemmeno dire che quanto terrorizza, destabilizza, o anche semplicemente infastidisce il Santo sinedrio piddino non sia di per sé un dato tattico positivo. Visto che non ci piace dove siamo, qualsiasi cosa smuova le acque è ovviamente benvenuta, perché in qualche modo ci aiuta a spostarci. Questa però è tattica, cioè la risposta alla domanda: come mi sposto, o come creo i presupposti per spostarmi? La strategia è una cosa diversa, risponde a un’altra domanda: dove voglio andare? Provando a definire in sintesi questo obiettivo, potremmo dire che vogliamo andare verso un mondo in cui la distorsione del mercato e l’ingerenza estera (entrambe a nostro danno) non siano l’essenza stessa delle istituzioni che ci governano, concorrendo ad aumentare la disuguaglianza e la tensione sociale. Un mondo cioè in cui la classe media e i ceti produttivi possano riappropriarsi di un minimo di voice e migliorare la loro posizione in termini reddituali dopo anni di arretramento relativo.

Vorremmo anche arrivarci vivi.

La questione che si pone quindi è su quali sponde dobbiamo giocare per mandare la palla in quella buca lì. Questo non presuppone necessariamente che i nostri compagni di strada la pensino come noi o abbiano i nostri obiettivi. Presuppone però un’altra cosa: che non ci dimentichiamo mai che il nostro interesse riguarda noi, non gli altri, che non possiamo chiedere ad altri di combattere la nostra battaglia, che se noi non siamo dalla nostra parte, nessun altro ci sarà, e che qualsiasi “vittoria” che non sia agita da noi non ci dà alcuna garanzia di avvicinarci in modo significativo ai nostri obiettivi. Presuppone cioè un minimo di freddezza, quella che consiste nell’essere consapevoli che non esisterà un evento palingenetico, una “vittoria risolutiva“, che nulla ci solleverà dal duro compito della militanza e del conflitto (che è poi il motivo per il quale continuo a tenere vivo questo blog).

Per questo motivo sconsiglierei di parteggiare per l’uno o l’altro dei contendenti. Sì, è abbastanza evidente che Musk ha una visione, come dire, un po’ rudimentale del debito pubblico. Tuttavia, non credo che il problema principale sia esattamente lì, se anche lo fosse non credo che si possa risolvere con un momento didattico (in questo senso quello che è successo con Salvini rappresenta probabilmente un’eccezione nella storia mondiale), non credo che il suo ex amico con cui ora sta baruffando sia un raffinato analista della teoria post-Keynesiana della sostenibilità del debito, e, per spostarci su un altro piano, sono un pochino scettico sul fatto che si possa prescindere dalla tecnologia di cui Musk dispone (e non parlo di auto). Quanto all’altro contendente, è indubbio che abbia scelto come vice un eloquente cantore dell’epopea della classe media, è (o sembra) evidente che nel conflitto fra Wall Street e Main street abbia scelto di schierarsi dalla parte di quest’ultima, tuttavia, se avessi un euro da scommettere, preferirei scommetterlo sui Lupi di Pizzoferrato in finale di Champions League, piuttosto che sull’idea che un miliardario statunitense passi le sue notti leggendo le analisi del capitalismo produttivista di Froud et al. (l’ultima volta ne abbiamo parlato qui, e nel frattempo pare che la Bce si sia accorta anch’essa del problema), ragionando su come sganciarsi dal coupon pool capitalism magari ristabilendo un minimo sindacale di financial repression. Non credo, e non glielo auguro, considerando che gli hanno sparato per molto meno!

Come dicevo qualche sera fa a una tavolata di manager, il fatto che la sinistra non difenda più i lavoratori per noi è un disastro, perché costringe noi a farlo, raddoppiando il nostro lavoro! Era ovviamente una battuta e così è stata intesa (volendo essere seri, dovremmo invece fare un discorso su perché la sinistra abbia rinunciato, bollandolo come interclassismo, al tentativo di tracciare una demarcazione tra interessi di classe rispondente alla realtà odierna, non a quella di due secoli fa), ma ci avvicina a un punto con cui vorrei concludere il mio sermone.

Il problema insito nell’aspettarsi che siano altri a combattere le nostre battaglie non è solo nell’indurci a una postura passiva, nel suggerirci di stare sdraiati sotto al palmizio della storia aspettando che cada la banana (o la noce di cocco?) del risultato da noi auspicato. Il problema è più sottile, e consiste nel rischio di illudersi, in un vuoto ideologico generale, che gli obiettivi del nostro alleato pro tempore, la sua ideologia, debbano necessariamente essere i nostri. Non è così e il rischio di abbagli è presente e concreto. Tanto per fare un esempio, la cosa che più mi preoccupa dell’intera vicenda dei dazi è la controproposta di “dazi zero“, che oltre a essere abbastanza insensata di suo, smentisce tutto quello che qui abbiamo sempre detto (prevalentemente da sinistra) e la Lega ha sempre detto (verosimilmente da destra) sui limiti del liberoscambismo (pensate alla battaglia contro TTIP e CETA, ad esempio).

Mi sembra un problema per noi lievemente più grave, non fosse altro perché ci riguarda direttamente, rispetto al fatto che il noto miliardario abbia idee troppo convenzionali sul debito pubblico.

Ma questo ve lo scrivo qui, dove nessuno lo legge, con la solita clausola: speriamo di avere torto!



martedì 8 aprile 2025

TTIP

Dunque, da quello che sono riuscito a capire la storia sta andando avanti così: arriva il poliziotto cattivo e dice di voler mettere dazi ritorsivi contro Paesi che da 10 anni il suo Paese denuncia come manipolatori di valuta. Ci sta, verosimilmente una manovra simile è ammessa anche dal WTO, che infatti (non so se ci avete fatto caso) nella disputa che si è sollevata è il grande assente, o quantomeno, se è intervenuto, non ha avuto da parte degli operatori informativi alcun particolare risalto. Strano, perché questa è proprio materia sua! Forse lo sberlone dato dal poliziotto cattivo all’OMS ha insegnato alle fallimentari istituzioni della globalizzazione ad abbassare le penne, o forse mi sono semplicemente distratto…

Partono dotte disquisizioni sulla fine della globalizzazione e sul desiderio del capitalismo di schierarsi dalla parte dei lavoratori (qui abbiamo aggiunto a questa pozione un discreto mestolo di punti interrogativi, ma noi siamo brutte persone…).

Poi arriva il poliziotto buono, che con accenti degni del miglior John Lennon ci dice: “Immagina un mondo senza dazi!”

Last but not least, arriva la causa degli squilibri a dire: “Ci piace un mondo senza dazi! Facciamolo, o altrimenti la nostra vendetta sarà terribile!”

E a questo punto il poliziotto cattivo si fa una risata omerica di fronte alle minacce del minacciato e si frega le mani soddisfatto per aver portato il risultato a casa.

Che ne dite, il ragionamento tiene?

In questo caso, buon Parmesan a tutti!


(… non metto link perché tanto non li leggete, e quando ci servirebbero, fra una decina d’anni, per capire a chi mi sto riferendo - nell’ordine: Trump, Musk, von der Leyen - i link sarebbero inevitabilmente corrotti, impedendoci di ricostruire questo esilarante momento storico caratterizzato, come tutti i momenti storici, dal fatto che a fare più rumore sono quelli con meno argomenti…)

(…a tanta raffinatezza non credo neanche io, ma vedo che in questo periodo si tende a perdere la bussola con una certa facilità. Se si parla di tattica, il nemico del mio nemico è necessariamente un mio amico. Se si parla di strategia, bisogna avere la capacità di guardare qualche mossa avanti. Inutile dire che, pur con tutti i condizionamenti che abbiamo imparato a leggere storicamente in testi come “Sorvegliata speciale“, se il Paese godesse di una maggiore autonomia la situazione sarebbe meno complessa da gestire e soprattutto da interpretare. L’obiettivo strategico è e resta chiaro…)

martedì 18 febbraio 2020

C'è tanto bisogno...

(...vi scrivo da un hotel qualsiasi di "Brassels". Ho evitato il distopico Radisson Red, ma anche, a scanso di polemiche, il lussuoso Sofitel - quello della Merkel, che comunque erano tutti pieni per il felice allineamento astrale di Consiglio dell'Unione Europea, Collegio dei Commissari e Settimana parlamentare europea, e sono da qualche parte fra Ixelles e Marolles, già a letto a un'ora in cui secondo i piani sarei dovuto atterrare. Ma il bello di avere a che fare con una maggioranza inconcludente è che ogni tanto ti si liberano degli spazi, e così son potuto partire prima, e arrivare prima. Se vogliamo, è anche il bello di essere gentile: un bel sorriso risolve tanti problemi, anche quello di dover seccare l'ufficio viaggi con una richiesta last minute. Ho già fatto qualche incontro, e ho imparato, come ogni volta, qualcosa di più. Ma ha senso condividerla con voi, che tanto non la capireste, a rischio di far capire quello che ho capito a chi non deve capire che l'ho capito? Direi di no, anche se... vedi alla voce "non lo capireste" - detto con affetto, ovviamente: ma dopo due settimane di #hadettoGioggettih che cosa volete che vi dica, se non, come sempre, quello che penso?

Poco male: qualcosa da dirvi, che credo possiate capire, ce l'ho, e ve lo dico. Non vi piacerà. Ma, del resto, non vi sarebbe piaciuto nemmeno quello che non avreste potuto capire. Perché fra me e voi, nonostante l'affetto che ci lega, sopra esemplificato da un qui bene amat bene castigat, c'è una differenza profonda e temo insanabile: a voi piace vincere, e a me combattere. Quindi io tendenzialmente vinco. Quanto vorrei potervi insegnare questo! Ma se non vi ho insegnato la tenacia in quasi dieci anni, temo di dovermi per una volta arrendere: sono un insegnante peggiore di quello che mi illudevo di essere...)


Mi manda un WhatsApp @_polemicamente (si chiamava così, una volta, prima di chiudere l'account), la regazzetta che mi fece notare con quanta freschezza il Governo olandese ammette, sul suo sito ufficiale, che stare nell'euro all'Olanda conviene perché altrimenti, dato il surplus commerciale del paese, il fiorino si apprezzerebbe, mettendo le esportazioni in difficoltà. Quando non saremo più una colonia sul sito del MEF ci sarà una serena constatazione uguale e contraria: ormai se ne sono accorti anche quelli intelligggenti (poverini: non sanno che fanno ridere i polli con queste verità postume che nei paesi civili sono tranquillamente affermate dagli uffici governativi, senza tanto latinorum economichese), e quindi fra un po' lo si potrà dire, ma non entro adesso in questo discorso. All'amica avevo chiesto di informarmi in merito alla ratifica del CETA che si sarebbe tenuta al Parlamento olandese, dove il premier Rutte ha una maggioranza risicata. La stampa anglosassòne palpitava temendo un esito infausto (per i suoi azionisti), ma poi l'amore (per il libero scambio) ha trionfato e il CETA è stato ratificato: 72 favorevoli contro 69 contrari alla Camera. Al Senato non andrà in modo molto diverso. Come spiegavo ieri a "Parole guerriere", non ratificare un trattato concluso da un Governo equivale a sfiduciarlo, e evidentemente la colla per poltrone non si vende solo in Italia.

A seguito di questa notizia ovvia, l'amica aggiunge un messaggio meno ovvio:


Altro argomento da non perdere di vista: sull'Algemeen Dagblad si scrive che l'Expertisecentrum Euthanasie dell'Aja ha ricevuto 3.122 richieste di eutanasia nel 2019: + 22% rispetto al 2018. Fanno 13 persone al giorno. L'aumento viene attribuito anche alla risonanza mediatica ottenuta dal caso della paziente affetta da demenza di cui ti scrissi mesi fa, caso sul quale la corte suprema deve ancora pronunciarsi (il medico in questione è stato accusato di omicidio, ma non ha subito conseguenza penali: nel 2012, stando all'articolo, la donna aveva firmato un documento dove dichiarava di voler morire nel caso fosse stata ricoverata perché demente. Tuttavia, quattro anni dopo, aveva detto al medico di non voler ancora morire; ma non è stata ritenuta in grado di esprimersi razionalmente al riguardo, dunque di decidere di e per se stessa, ed è stata fatta fuori). Sta di fatto che il numero di richieste accolte dalla clinica aventi come motivazione la demenza è passato da 70 (2018) a 96 (2019). La clinica lamenta carenze di personale medico e amministrativo, psichiatri innanzitutto: "De nood ist groot", cioè, in inglese: "We are in great need", ovvero: "C'è tanto bisogno". Dall'inferno è tutto, linea allo studio.



(...e ora, confortato da questi begli squarci premonitori sul nostro futuro europeo, ma anche americano - gira questa roba qui, che spero proprio non sia vera ma purtroppo è verosimile! - quel futuro in cui vi abbatteranno con un colpo alla nuca quando non sarete più produttivi - e vi useranno come fonte di proteine, perché tanto lì arriveremo, passando per le locuste! - mi godo il sonno del giusto, in attesa di una giornata di incontri piuttosto intensi. Vi lascio alle vostre divertenti elucubrazioni a base di "Tizio ha detto, Caio non ha fatto...". Non c'è nulla che possa stupirmi, soprattutto non in peggio, di quanto sto vedendo in questi giorni. L'umanità o la si ama o non la si ama: motivi per farlo, oggettivamente, non ce ne sono poi molti. Ma qui è andata così, e continua ad andare com'è sempre andata...)

giovedì 5 ottobre 2017

Due interviste

Prima intervista

Il  22 settembre si è svolto il primo direttivo di asimmetrie nella nuova sede operativa, che è ancora un cantiere. Quattro ore per decidere tante cose, dall'organigramma dell'associazione al programma del #goofy6. Marcello aveva detto che a un certo punto sarebbero venuto a intervistarlo, e così è stato: già che c'erano, hanno intervistato anche me, e questo è il risultato. Non fate caso al gatto morto che devo tenere in mano: la stanza è spoglia, il soffitto alto, l'acustica molto risonante: la pelliccia del gatto morto serve ad ovviare a questa risonanza.

I contenuti li lascio valutare a voi...


Seconda intervista

Il 19 marzo sono andato al Casale Alba due per un incontro dal titolo eloquente, che forse ricorderete:


Fra il pubblico c'era un simpatico giovine friulano, che poi mi contattò per un'intervista da pubblicare su questo interessante blog. Qualcuno di voi ha saputo, e qualcun altro intuito, che anno io abbia passato. Fatto sta che sono riuscito a rispondere alle sue domande (corrette e moderatamente stimolanti) solo qualche giorno fa. Non ho avuto alcuna risposta. A questo punto, visto che ho perso tempo a rispondere, l'intervista la pubblico qui (dove avrà molte più opportunità di essere letta). Fatemi sapere se vi interessa, e magari anche perché il mio parere oggi non viene più ritenuto interessante dal blog dei montanari (a proposito: fra pochi minuti sono su Radio Onda Rossa: Bagnaiextraparlamentaredisinistraaaaaaaa...).





> 1° Prof. Bagnai, l'Italia entrando nell'UEM ha adottato un cambio sopravvalutato - una delle cause principali della perdita di produttività delle aziende medio-piccolo - che, in assenza dello strumento della svalutazione esterna, impone sostanzialmente due vie per incrementare la competitività delle imprese: la deflazione salariale e la precarizzazione del lavoro. Si potrebbe dire, senza tema di smentita, che l'euro sia uno strumento di lotta di classe che ha completato il disegno di smantellamento dei diritti sociali, avviato con le politiche neoliberiste messe in atto dai primi anni 80. La sua battaglia di messa in luce della verità, vista la posta in gioco, dovrebbe essere portata avanti con decisione dalle forze che si definiscono anti-liberiste, da quelle che storicamente difendono  le fasce più deboli della popolazione.  Perché, allora, una larga fetta della sinistra radicale continua a vedere il tema dell'euro come un tabù?

Sono assolutamente d'accordo sulla definizione di euro, e più in generale di cambio fisso, come strumento di lotta di classe. È esattamente così che nell'agosto del 2011 posi il problema sul Manifesto (quotidiano che si definisce comunista). Per essere precisi: il cambio rigido, pressoché ovunque e in ogni tempo, è una istituzione il cui scopo è sovvertire il conflitto distributivo a danno del lavoro dipendente. A quell'epoca ancora non conoscevo, o non erano ancora stati scritti, i lavori che sostengono questa mia intuizione. Il ragionamento ha due semplici tappe: primo, come ha mostrato nel 2001 Ishac Diwan, economista della Banca Mondiale, nell'epoca del capitalismo finanziario il conflitto distributivo si combatte nei periodi di crisi finanziaria. Per noi non è una novità: pensate ad esempio al definitivo smantellamento della scala mobile e alla riforma dei meccanismi di contrattazione attorno alla crisi del 1992, e pensate all'ignominioso "FATE PRESTO!" che durante la crisi del 2011 annunciò le varie riforme di Monti, Fornero, Giovannini, ecc. Secondo: come hanno mostrato nel 2013 Atish Ghosh, Mahvash Qureshi, e Charalambos  Tsangarides, tre economisti del Fondo Monetario Internazionale, non si conoscono crisi finanziarie che non siano state precedute da periodi più o meno lunghi di rigidità del cambio. La rigidità del cambio fornisce una garanzia ai prestatori esteri: la garanzia che il loro credito non si svaluterà. Inutile dire che questo abbassa le cautele di chi presta: chi prende a prestito ne approfitta, salvo poi trovarsi in una situazione insostenibile, sia sul piano finanziario (troppi debiti) che su quello reale (il credito estero fomenta l'inflazione interna e quindi rende il paese meno competitivo). La crisi di finanza privata viene raccontata come una crisi di debito pubblico (questo perché soldi pubblici vengono spesi per salvare, direttamente o indirettamente, le banche private), e la crisi di competitività viene presa a pretesto per smantellare i presidi dei diritti dei lavoratori (dai meccanismi di contrattazione salariale, allo stato sociale). L'adozione di un cambio fisso, nell'esperienza storica del dopoguerra, è sempre ed ovunque un'aggressione ai diritti dei lavoratori.

> 2° Joseph Stiglitz, in un intervista uscita lo scorso anno sul Financial Times, ha dichiarato: "È importante che ci sia una transizione morbida fuori dall'euro, con un divorzio amichevole, verso un sistema euro-flessibile, con un Euro forte del Nord e uno più debole del Sud. Certo non sarebbe semplice. Il problema più rilevante riguarderebbe l'eredità del debito. Il modo più semplice sarebbe ridenominare tutti i debiti europei in debiti dell'euro del Sud". Crede che sia una proposta sensata o l'unica soluzione sia quella di ritornare alle monete nazionali?

Credo che a sinistra, se ci si vuole guardare in faccia senza vergogna, si dovrebbe ripartire da alcune basi metodologiche. Stiglitz quali interessi rappresenta? A tutti gli effetti, quelli di una certa finanza "atlantica" che ha fortissimamente voluto l'integrazione europea, in chiave antisovietica, come fondamentale base logistica per combattere la guerra fredda. I tempi sono cambiati, ma le radici del progetto sono quelle, e questo non andrebbe mai dimenticato, altrimenti si dimentica anche perché il crollo del nemico esterno, nel 1989, impartì al progetto integrazionista una spinta in avanti (la moneta unica). Sarebbe bello anche essere un po’ raffinati metodologicamente, e capire, ad esempio, che i cosiddetti economisti neokeynesiani sono più neoclassici che keynesiani (insomma, che Stiglitz è, metodologicamente, più parente di Milton Friedman che di Keynes, con tutto quel che ne consegue in termini ideologici: qui potrebbe soccorrere la lettura dell’ultimo libro di Paul Davidson). Con questa premessa, e anche scontando l'ovvia distorsione culturale che impedisce a studiosi statunitensi di afferrare la complessità dell'esperienza storica e politica europea (qui non ci sono né indiani né bisonti da sterminare, non partiamo né potremo mai partire da una tabula rasa...), la proposta di Stiglitz potrebbe avere un senso solo in chiave politica, come elemento per rendere accettabile il primo passo di un cammino che riporti la sovranità piena nelle mani in cui è stata posta dalle costituzioni antifasciste, almeno qui in Italia: il popolo (qui in Italia, quello italiano). L'unica proposta sensata è questa: il resto è cosmopolitismo borghese, espressione di quel complesso di Orfeo che, come Michéa ci ricorda, è alla radice dell'impossibilità della sinistra di dire qualcosa di effettivamente rivoluzionario e di contrastare in modo efficace il predominio del capitalismo globalista. Mi fa un po' pena chi parla di tornare "indietro" alle valute nazionali, dando a "indietro" una connotazione negativa. Sono ingenuità, riflessi pavloviani, dei quali a sinistra ci dovremmo veramente liberare, perché presuppongono una visione rettilinea del progresso umano che è del tutto aberrante, figlia di uno scientismo positivista ottocentesco che è più parente di Jules Verne che di Karl Marx. Negli anni '30 siamo andati "avanti" verso i lager, poi, dagli anni '40, siamo tornati dolorosamente "indietro" verso un mondo senza lager. Agli imbecilli che "non si può tornare indietro" credo che questa lieve incongruenza metodologica andrebbe fatta notare: identificare il calendario, lo scorrere del tempo fisico, con una manifestazione o addirittura uno strumento di progresso porta dritti alla barbarie.

> 3° A seguito della rottura della zona-euro, gli scenari che ci vengono prospettati sono sostanzialmente i seguenti: A) Prevale la ragionevolezza in cui i diversi interessi in campo vengono mediati da trattative di natura politica; B ) A prevalere è invece una politica di chiusura nazionalistica, portatrice di guerre commerciali e, nella peggiore delle ipotesi, anche di altro tipo.... Crede che la seconda opzione rappresenti un rischio concreto?  Pensa inoltre che, a seguito del recupero delle leve della politica economica, l'AES (Alternative Economic Strategy) proposta a metà degli anni '70 dalla sinistra labour, consistente  nel controllo dei movimenti speculativi di capitale e in una razionale gestione delle importazioni, potrebbe essere, assieme alla ripristino dello strumento della svalutazione esterna, la soluzione corretta per non incorrere in persistenti deficit della bilancia dei pagamenti?

Non va nascosto il pericolo che l'incoscienza delle nostre classi politiche ci fa correre. Non va nemmeno nascosto che se le classi politiche "conservatrici" sono parte del problema, quelle "progressiste" (à la Jules Verne) non sono certo la soluzione, per il semplice motivo che il loro determinismo positivista le porta ad affermare come inevitabili traiettorie che invece sono frutto dell'agire di interessi economici ben individuabili, sono del tutto umane e del tutto reversibili. Vorrei però che la piantassimo di dare messaggi fuorvianti, almeno noi. Questa storia dell’Europa che porta la pace, e uscendo dalla quale troveremmo la guerra, ormai non fa più ridere, e lo dico con molta amarezza. La "pace" portata dall'Europa si chiama Yugoslavia, Ucraina, Libia, col corredo di politici di sinistra che si fanno fotografare a braccetto di criminali neonazisti (neonazisti sul serio, non come i vertici di AfD). Punto. Le tensioni create da regole economiche assurde, dettate dal forte nel suo esclusivo interesse, hanno ridotto la Grecia in condizioni post-belliche e hanno dato alimento a partiti di destra ultraconservatrice, spazzando via gli utili idioti sedicenti di sinistra dal panorama politico europeo, con la felice (si fa per dire) eccezione del nostro paese, che non credo resterà tale (cioè un'eccezione) a lungo. Dire che la rottura della zona euro di per sé, necessariamente, condurrà a guerre commerciali significa fare un'operazione intellettualmente disonesta, della quale non si avverte il bisogno. La verità è che continuando a sproloquiare in questo modo si seminano nell'opinione pubblica i germi di una irrazionalità, di un pensiero magico, di una regressione infantile (i mercati ci faranno tottò perché siamo stati cattivi), della quale non ci sarebbe mai bisogno, e tanto meno ce ne sarà al momento della rottura. Vorrei solo che chi si esprime in questo modo ci portasse un precedente storico. Storicamente, la guerra viene prima, non dopo, lo smantellamento delle grandi unioni monetarie (quella austro-ungarica, quella sovietica), per il semplice fatto che le tensioni create dall'imperialismo monetario concorrono, generalmente, alla sconfitta dei grandi imperi (non ne sono la sola causa, ma una concausa rilevante sì), e che dopo la sconfitta della potenza imperiale di turno gli oppressi si riappropriano di spazi di autonomia. La guerra viene prima, ripeto, non dopo. Quindi? Certo: dobbiamo dircelo: il nostro principale fattore di rischio consiste proprio nel fatto di non avere una sinistra. Le cosiddette "ricette dell'AES" oggi vengono suggerite (se pure implicitamente) perfino da Fmi. Ma dove sono gli statisti "di sinistra" sufficientemente maturi dal punto di vista culturale e antropologico per rivendicare un proprio ruolo nella loro applicazione? Io, in Italia, non ne vedo, e per quel che mi riguarda considero falliti tutti i miei sforzi di far sorgere un barlume di consapevolezza. Dobbiamo anche dirci, con molta franchezza, che tutto è come sembra, e che il fattore umano, nei processi storici, una differenza la fa. Non aggiungo altro per carità di patria.

> 4° In un momento storico in cui il commercio internazionale sembra in fase di ripiegamento, o comunque in una fase non particolarmente brillante, quanto potrebbe guadagnare l'Italia da una ritrovata flessibilità del cambio valutario? Esistono già delle stime riguardanti l'elasticità delle esportazioni a un ipotetico nuovo cambio valutario?Come considerare poi il fatto che, in un mondo dominato dai flussi finanziari, guidati a loro volta dalle aspettative circa le scelte di portafoglio, il tasso di cambio non influenza pienamente l'andamento della bilancia commerciale?

Non vorrei che facessimo una grande insalata mista di luoghi comune e notizie fasulle (Luciano Barra Caracciolo li chiamerebbe "fattoidi espertologici") diffuse dai soliti noti: forse, almeno noi, potremmo risparmiarci questo calvario. A sinistra siamo rimasti in pochi, siamo una minoranza: cerchiamo di essere almeno buoni, se pure questo comporti essere un po' di meno. Stranamente, l'idea che le svalutazioni sarebbero inefficaci proviene oggi da una delle istituzioni di Bretton Woods, la Banca Mondiale. Questo non stupisce più di tanto: il conflitto di interessi è evidente. Una istituzione a trazione Usa difende un progetto a trazione Usa con il solito argomento che l'alternativa sarebbe peggiore o non soddisfacente (e quindi, anche se c’è, ci conviene fare finta che non ci sia). Ma queste sono scemenze, per almeno tre motivi. Il primo è che è veramente stupido, anzi, veramente americano (nel bene e nel male) far collassare la valutazione dei benefici di un'unione monetaria sull'unico punto dei benefici di una svalutazione. I danni di un'unione monetaria derivano in termini generali dal perdere sovranità monetaria, cioè, in pratica, dal mettere il rifinanziamento del proprio sistema bancario in mano a potenze estere spesso ostili, che possono approfittarne per condizionare i processi politici nazionali (come la vicenda della chiusura delle banche greche al tempo del referendum dovrebbe aver dimostrato). Il secondo è motivo che esiste una letteratura ampia, cui accennavo sopra, che evidenzia appunto come la rigidità del cambio accresca la fragilità finanziaria e la cattiva allocazione dei capitali (per chi crede che il sistema dei prezzi serva ad allocare le risorse): ormai è dato per assodato che la flessibilità del cambio è un ammortizzatore essenziale per evitare crisi finanziarie, e in effetti noi che ne siamo privi non riusciamo a venir fuori dalla crisi (e stiamo perdendo il sistema bancario). Il terzo è che l'evidenza econometrica non è univoca, o se mai lo è in senso contrario. Perfino gli studi che, con metodologie molto fantasiose, dimostrano come le elasticità dei flussi commerciali ai prezzi sarebbero diminuite (il condizionale è d'obbligo data la creatività degli studi), non riescono a dimostrare che lo siano abbastanza da rendere inefficace l'aggiustamento di cambio. Quindi, anche in quello che in fondo è l'ultimo dei problemi (il riallineamento del cambio reale, senz'altro meno rilevante del disporre di piena autonomia politica e del non mettere in pericolo il proprio sistema finanziario) i dati indicano che il recupero dello strumento del cambio sarebbe di aiuto. Forse, ogni tanto, quando si legge uno studio, sarebbe opportuno, in economia, come già si fa in medicina, andare a leggere chi lo abbia finanziato e quali possano essere le sue motivazioni. Questa prassi, quella di interrogarmi su quali interessi rappresenti il mio interlocutore, per me, è di sinistra.

> 5° In un' intervista recentemente rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, l'economista tedesco Hans Werner Sinn ha dichiarato che la Brexit sarà una catastrofe per la Germania. Lo sarà principalmente a causa delle regole sulla tutela della minoranza che determinano le decisioni prese dal consiglio dei ministri europeo. Con la nuova configurazione, infatti, la  D-Mark block (Austria-Germania-Finlandia-Olanda) senza la Gran Bretagna non arriverà a rappresentare il 36% della popolazione dell'Ue, percentuale minima per bloccare le decisioni. Al contrario, i Paesi del sud, più propensi, vista la loro fragilità industriale, a limitare il libero scambio, arriveranno al 42% . Macron, probabile vincitore delle presidenziali francesi, già parla di nuovo protezionismo europeo come risposta alla politica dell'amministrazione americana. Crede che tale cambiamento possa davvero spostare gli equilibri a favore dei paesi più deboli, al netto del problema legato all'istituzione monetaria?

A questa domanda, nel frattempo, ha già risposto la storia, ma la risposta che la storia ha dato l'ho anticipata nei miei libri e nel mio blog, ed è ovviamente no. Ripeto: a me sembra veramente strano che a sinistra, cioè nella sede del materialismo storico, ci si trovi impantanati in un racconto favolistico dell'esistente. La realtà, credo valga la pena di ribadirla, è un po' diversa. Mi spiace per chi si è raccontato per anni che una parte del paese (ovviamente quella migliore) aveva vinto una guerra che il paese aveva perso: il dato è che l'Italia è un paese sconfitto e militarmente occupato (sentivo oggi alla radio che ospitiamo cinquanta testate nucleari: non so se il dato sia corretto, ma credo di sapere che non sono nostre!). Il nostro spazio politico è determinato da questo dato. Una conseguenza di esso è che non esiste una ragionevole possibilità di creare alleanze fra "poveri" che consentano di muovere minacce ai "ricchi". Il neoprotezionismo di Macron, in effetti, è volto a tutelare la Francia dalle scalate di paesi periferici come l'Italia (abbiamo passato l'estate a parlarne). Come si può pensare che questo possa favorire l'Italia? La verità è che l'Europa serve a impedirci di difenderci, non solo sul piano economico, ma su tutti i piani. Basti guardare la differenza fra il caso Ustica (in cui la Francia fu costretta a fare almeno finta di non entrarci nulla) e il recente attacco alla Libia (portato avanti con spregiudicatezza in modo apertamente ostile al governo italiano). Non credo occorra aggiungere altro.

> 6° Cosa ne pensa della proposta, avanzata dal Prof. Brancaccio, di introdurre uno "standard sociale" sugli scambi internazionali?

Che è senz'altro interessante ma mi piacerebbe studiare meglio da quali meccanismi di "enforcement" questa proposta è assistita. Mi documenterò e le farò sapere. Temo però che anche in questo, come nei casi di infinite altre proposte "miglioriste", mi troverò a urtare contro un limite, che è quello del wishful thinking. Sarebbe bello se la Germania (o gli Usa, o la Cina) facessero quello che ci fa comodo (rispettivamente: pagassero di più i lavoratori, inducessero i paesi in surplus a mitigare le loro pretese, sostenessero la domanda mondiale). Purtroppo se non lo fanno un motivo hegelianamente ci sarà! La verità è che temo non abbia molto senso continuare a comprare tempo speculando su come il sistema potrebbe essere. Dobbiamo riflettere sul sistema così com'è. In questo senso, trovo efficace la formula proposta da Alfredo D'Attorre (prima di rischierarsi con " quelli dell'euro"): dovremmo rifiutare l'europeismo del dover essere, e abbracciare l'europeismo dell'essere. Cosa è l'integrazione europea? Chi l'ha voluta? A chi fa comodo? Di quale progetto è espressione? Questi interessi sono il vincolo all'interno del quale dobbiamo massimizzare il nostro interesse collettivo, nel tentativo di sopravvivere fino a quando sia possibile scardinarli, o approfittare della loro intrinseca contraddittorietà (vedi la recente vicenda elettorale tedesca). In altre parole, a me più che "cosa succederebbe se la Germania pagasse di più i suoi lavoratori" (per fare un esempio), interessa "cosa succederà visto che la Germania non ha alcuna intenzione di farlo". Ponendomi in questa prospettiva metodologica sono riuscito ad anticipare, nel 2011, l'avanzata delle destre alla quale stiamo assistendo. Un politico di sinistra che avesse avuto la lungimiranza o la follia di mettere in guardia contro questo pericolo, e di rintracciarne le radici nelle regole europee, adesso avrebbe un immenso patrimonio di credibilità da investire (certo, col forte vincolo dato dal fatto che il sistema dei media non avrebbe dato spazio alle sue posizioni). Viceversa, la sinistra si è impantanata nelle paludi del "questismo" (come lo definisce Il Pedante, un blogger che mi permetto di segnalare ai lettori): "non vogliamo questa Europa, ne vogliamo un'altra, perché la politica è sogno!". Ma il sogno non è sinistra: sinistra è riflettere sui processi oggettivi che rendono questa Europa, quella che vediamo, l'unica Europa possibile.

> 7° Per concludere vorrei tornare un attimo al problema della ridenominazione del debito in caso di uscita dall'unione monetaria: molti, come ad es. il prof. Salvatore Biasco (Lo stupefacente rapporto di Mediobanca sul debito pubblico e sull'euro, 09/03/2017), pongono l'accento sulle conseguenze per lo stato patrimoniale degli agenti economici, con un effetto catastrofico per la stabilità finanziaria. Oltre al monte di obbligazioni del debito pubblico non ridenominabili nella nuova lira (destinate ad aumentare a causa delle note Clausole di Azione Collettiva), vi sono 672 ml di debito privato estero. Il settore finanziario sarebbe investito da una impressionante mole di perdite; le banche andrebbero ricapitalizzate; il mercato del credito diverrebbe vischioso e ciò comporterebbe il fallimento di molte imprese; aumenterebbero le sofferenze bancarie, già oggi al 14%; alle perdite patrimoniali si sommerebbero quelle dovute al crollo delle azioni in borsa; l'intero attivo del comparto finanziario si deteriorerebbe drammaticamente; aumenterebbero, e di molto, i tassi d'interesse; anche i piccoli risparmiatori sarebbero colpiti dalle perdite; consumi e investimenti crollerebbero, portando alla disoccupazione di massa. Neanche la Banca centrale, tornata indipendente (e pur proibendo i movimenti di capitale) riuscirebbe a sostenere i prezzi delle obbligazioni e calmierare i tassi comprando titoli. I mercati perderebbero fiducia nei confronti dei titoli italiani, privati e pubblici. Le vendite sarebbero travolgenti e la Banca centrale dovrebbe assorbire un ammontare di titoli pari allo stock del terzo mercato obbligazionario del mondo. Vi è poi da considerare tutta la partita relativa al saldo del Target 2. Lo Stato, a causa della caduta verticale delle entrate e dell'aumento di spese per interessi, sarebbe ancora più condizionato nella gestione della politica economica di quanto lo era prima dell'uscita dall'euro. Questo scenario è realistico?

Il professor Biasco è molto preoccupato per le perdite in conto capitale che i BTP potrebbero subire se ci fosse un'impennata dei tassi di interesse (ho avuto modo di confrontarmi con lui su questo punto). Gli siamo vicini in questo suo comprensibile timore. Gli siamo un po' meno vicini nel suo benign neglect verso disoccupazione giovanile, deindustrializzazione, compressione dei diritti democratici, tutti mali che il regime attuale porta con sé. D’altra parte, dopo il bail in forse dovremmo chiederci se sia meglio, per i detentori di ricchezza finanziaria, subire una perdita in conto capitale per via di una eventuale impennata dei tassi di interesse, o un esproprio per via delle regole europee (cioè, sostanzialmente, per difendere l'euro). Vorrei esortare tutti a una maggiore deontologia professionale, che deve in primo luogo tradursi nel non formulare analisi fantasiose e prive di base fattuale. Chi tratteggia quadri a tinte fosche ha l'onere della prova, perché la letteratura scientifica, come ricordo in uno dei miei ultimi lavori, non dà atto di simili tregende. Al contrario: in generale, l'esperienza storica mostra che il crollo di unioni monetarie è scorrelato da brusche lacerazioni dei fondamentali macroeconomici (il che non deve stupire, visto che la logica delle unioni monetarie è meramente politica - redistribuzione del reddito - e quindi anche la loro fine risponde in primo luogo a istanze di carattere politico); l'esperienza italiana, poi, mostra che la configurazione dei fondamentali del nostro paese è particolarmente solida (siamo ancora in piedi nonostante anni di regimi proni a interessi esteri), e che il rischio finanziario del nostro paese, in caso di uscita, è minimo. Certo, il passato non è sempre una solida guida per il futuro, e di questo qualsiasi ricercatore è consapevole. Ma ignorare il passato credo lo sia molto meno, e in ogni caso dietro alla mia valutazione ci sono articoli pubblicati su riviste scientifiche di classe A (incluso il mio ultimo lavoro con Mongeau Ospina e Granville circa l'impatto macroeconomico di una dissoluzione dell'euro sull'economia italiana). Dietro alle valutazioni altrui, duole dirlo, ma spesso non si riesce a trovare nulla che non sia wishful thinking e "spannometria". Questo modo di fare è deleterio per la reputazione della scienza economica (che infatti esce sbriciolata da questa vicenda, ma ingiustamente: nelle riviste scientifiche quanto sta accadendo era stato ampiamente previsto, ed è veramente un peccato che questo patrimonio di conoscenze accumulato dai migliori studiosi internazionali venga dissipato dall'agire poco scrupoloso di studiosi di rilievo locale, quelli che parlano di “inflazione a due cifre negli anni ‘90”, di “svalutazione del 30% se si abbandona l’euro”, di guerre commerciali, e via rincarando); ma è soprattutto deleterio per la democrazia, e anzi, direi, per la politica tout court, perché lo scopo evidente di questi scenari terroristici è quello di imporre una visione "metodologicamente thatcheriana" (e quindi intrinsecamente, fattualmente, attivamente thatcheriana) dei processi sociali, è quello cioè di inculcare nel corpo politico tutto (elettori ed eletti) l'idea delirante e fascista che "There Is No Alternative", che non ci sia alternativa alle pulsioni di morte del capitalismo finanziario. Chi agisce in questo modo si prende una responsabilità, in senso etico e politico, i cui contorni, ne sono certo, sfuggono a molti, ma che la storia temo renderà evidenti. Non sarà un bel momento, ma forse da lì potremo ripartire per ridare un senso alle parole "fare sinistra". Condizione necessaria per questa riappropriazione di senso è che la classe politica “progressista” che ha attivamente partecipato al progetto europeo si tiri indietro con le buone. Non lo farà mai, e quindi, lo dico con grande dolore e con grande rispetto, dovremo attendere che essa sia spazzata via dalla storia, nel nostro paese, come lo è stata altrove. Lo si sarebbe potuto forse evitare, ma la storia non si fa con i sé e con il wishful thinking: il dato che abbiamo davanti ora è questo, recriminare è inutile, dobbiamo gestire questa situazione per noi particolarmente complessa, e dobbiamo farlo tenendo presente che proprio perché la nostra parte politica e i suoi rappresentanti saranno spazzati via, è indispensabile che i nostri ideali di solidarietà e giustizia sociale vengano affermati e difesi con intransigenza e immediatezza. Chi pensa a sinistra che il compromesso, la mediazione, possano assicurargli un futuro sbaglia. La sinistra europeista ha fallito: non può né potrà mai più spendere quel capitale di reputazione e credibilità politica che ha totalmente dilapidato. Dobbiamo ora accumularne un altro, su basi completamente diverse, voltando le spalle a un’esperienza di disastrosa subalternità al capitalismo globalista, senza inseguire vantaggi tattici immediati, e preparandoci a una lunga battaglia. In questo senso, ma solo in questo senso, la Thatcher aveva ragione: a questa operazione di igiene etica e intellettuale “There Is No Alternative”!




mercoledì 6 luglio 2016

CETA, UE e Brexit: oculos habent...

"Il CETA si fa, il CETA non si fa, il CETA dice questo, il CETA vuole quello"...

Per questo avete i gazzettieri.

Se siete qui è perché volete qualche riflessione originale, e io ve ne offro due al prezzo di una.

La prima: da quanto ce la menano col TTIP? Da anni. Qui ne parlammo (male) per primi nel 2014, evidenziando sì gli aspetti tecnici (le misure dei possibili impatti e i loro limiti metodologici, ad esempio), ma soprattutto gli aspetti comunicativi. Ecco, parliamo di questi. Del CETA da quanto sentite parlare? Da un paio di mesi. Ma le trattative vanno altresì avanti da anni. Il CETA non è molto diverso dal TTIP. Quindi, se si vuole fare un trattato di libero scambio non dico in segreto, ma con una certa discrezione, evidentemente lo si può fare. Son cose tecniche, laggente nun capischeno, e se ne sbatteno abbondantemente li cojoni (e io li capisco).

Ma allora perché la segretezza del TTIP viene ostentata con tanta insistenza? Una segretezza quasi caricaturale: i parlamentari che non possono portarsi nemmeno una matita per prendere appunti, o giù di lì, il documento custodito come nemmeno verrebbe custodita l'arca dell'alleanza, e via dicendo? Chissà...

Intanto, una variopinta corte dei miracoli di paladini della democrazia (?) combatte la sua battaglia, e noi tutti contenti: il bene vince, il male perde, la democrazia funziona. Un primo risultato, quindi, il TTIP l'ha senz'altro portato a casa, ed è quello di farci contenti e cojonati.

Se voi siete contenti. Io no, perché mamma mi ha fatto con l'orecchio musicale, e io qui la stecca la sento. Qualcosa che non torna nella storia c'è, e non è (solo) il contenuto del trattato, quanto (soprattutto) il modo in cui ce la stanno menando...

La seconda: torniamo al CETA. L'argomentone di quelli che dicono che lo scenario "norvegese" della Brexit (Inghilterra che entra nell'EFTA, e quindi nello Spazio Economico Europeo, riduce i suoi contributi a Bruxelles, e sostanzialmente si regola come prima, salvo poter riprendere un minimo di controllo sui flussi migratori - cosa a dire il vero incerta - e potersi muovere come meglio crede sui mercati emergenti) è che: "Eh, ma così non hanno voce in capitolo sulle regole comuni!"

Ora io dico: ma scusate, quando andate a comprare un'automobile, avete forse bisogno di sedere nel CdA della casa automobilistica di vostra elezione? Io non credo. L'idea che si possa trattare solo se si è al tempo stesso parte e controparte mi pare così, a pelle, un po' bislacca. Mi sembra che dica molto su come concepiscono il mercato e le trattative a Bruxelles, e poco su come va il mondo, perché, vedete, il mondo funziona in un altro modo.

Prendete ad esempio il CETA.

Noi al Canada vogliamo bene: il suo premier è un gran bonazzo (e pare non decerebrato, ma non ho esperienze dirette), ci sono tante foreste, le giubbe rosse, e poi c'è il mio stato, l'Alberta. Perché voi lo sapete, sì, che il Canada è uno dei grandi stati federali che Giove ci invidia: sarebbero, insomma, gli Stati Uniti del Canada, come l'Australia sono gli Stati Uniti dell'Australia, e l'India gli Stati Uniti dell'India. Certo, solo noi non riusciamo a fare gli Stati Uniti d'Europa: ci sono riusciti perfino gli indiani! Quelli di India, ovviamente. E quelli d'America? Bè, anche loro hanno dato alla causa il contributo che potevano dare: crepare. Sì, perché le grandi esperienze federali sapete come nascono, no? Prima si fa tabula rasa (l'India è un discorso a parte) e poi si fa una meganazione. Cosa che, a dire il vero, in Canada non è riuscita benissimo: gli indiani li hanno sterminati, i bisonti pure, ma i francofoni no, non ci sono riusciti (e forse non ci riusciremmo nemmeno noi in Europa), per cui il progetto proprio benissimo non va, tant'è che il mio caro amico Denis Grenier, musicologo del Québec, parla di Cacanada...

Ma sto divagando.

Noi, dicevo, al Canada vogliamo bene, ma alla fine che cos'è il Canada? Una immensa distesa di terra, abitata da appena 35 milioni di persone (poco più della metà della popolazione del Regno Unito: 65 milioni). Ora, capirete che, con buona pace degli scemi per i quali "nel mondo globale bisogna essere grandi" (territorialmente), i canadesi non sono supereroi: ne consegue che la loro produttività è umana, e pertanto il Pil del loro paese è, a dollari correnti, pari a 1552 miliardi: meno del nostro (1815 miliardi di dollari) e quasi metà di quello inglese (2849 miliardi di dollari).

Ora: voi volete dirmi che un paese al quale vogliamo bene, il Cacanada, che è un gigante in termini geografici, ma un normodotato in termini economici, riesce, dall'esterno dell'UE, a fare una "pace separata" con l'UE stessa, il famigerato CETA appunto, col quale dà alle sue aziende una bella serie di vantaggi, e un paese ben più forte economicamente, demograficamente, culturalmente, militarmente, il Regno Unito, non riuscirebbe a concludere accordi commerciali un minimo vantaggiosi per le multinazionali sue, o in esso insediate, senza doversi sorbire la fiatella etilica di Juncker?

Ma veramente pensate questo?

E allora siete come gli imbecilli che pensano che la grande Europa difenderà il proletario europeo dal capitalismo cattivo. Vedete come lo difende? Concludendo uno dietro l'altro accordi che permettono alle multinazionali di portare in tribunale gli stati sovrani se i regolamenti di questi ultimi ostacolano il libero commercio (il quale, storicamente, avviene sempre nell'interesse del più forte).

L'imbecille vi dirà: "Ma queFta non è l'Europa, non non vogliamo queFta Europa!".

Bene: sarà or che ve ne facciate una ragione: un'altra Europa non è poFFibile.

Un altro mondo sì: quello in cui oltre a tanta povera gente che avrebbe solo voluto vivere in pace protetta dalle istituzioni sociali e democratiche del suo paese, cominciassero ad andarsene, per par condicio, anche i Fognatori.

Ma questo mondo dobbiamo crearlo noi: ovviamente non sterminando i Fognatori (non vogliamo fondare uno stato federale, quindi la violenza, che deprechiamo, non ci serve), ma aprendo gli occhi e facendo ragionamenti semplici, quelli di fronte ai quali i mostri generati dallo scellerato Fogno della politica si dissolvono.

Insomma, ragionamenti come quelli che ho fatto oggi qui per e con voi: se un Trattato si può fare in segreto (come il CETA), è strano che la segretezza di un trattato come il TTIP venga invece sbandierata per creare allarme; e se uno stato che è la metà del Regno Unito, come il Canada, può negoziare con l'UE e dall'esterno dell'UE condizioni per sé vantaggiose, perché non dovrebbe riuscirci uno stato che è il doppio del Canada, come il Regno Unito?

Sono le cose semplici quelle che sempre sfuggono (forse perché semplice non vuol dire banale).

Le offro alla vostra discussione...


(...il sogno della politica genera mostri...)

(...domani giornata molto piena: vado a sentire Lavoie, poi Helleiner, poi ho un altro seminario del quale non posso parlarvi perché è under Chatham house rule. Cose che capitano quando il mondo diventa mainstream, e non ti può quindi più liquidare come eterodosso: ti fai tanti nuovi amici, e rimpiangi il tempo in cui erano tuoi nemici...)