venerdì 13 giugno 2025

Venosa

Che poi alla fine, la domanda è una e una sola, semplice, essenziale: ma se qui ci sono voluti venire i longobardi (per non farla lunga), e poi i normanni (con vari interludi a base di bizantini e saraceni), e poi gli svevi, e poi gli angioini, eccetera (la storia la sapete), ma un motivo ci sarà, o no?

In queste strade lastricate di pietra bianca, come a Montescaglioso, o a Conversano, spira lo stesso vento tiepido e secco, si palesano allo svoltare di un angolo gli stessi torrioni, le stesse facciate di cattedrali, testimonianze di un passato vivo e glorioso su cui forse si è voluto distendere il manto dell’oblio, nel deliberato intento di non accoglierlo nell’alveo della storia patria.

Ma io qui sto bene, meglio di dove si potrebbe supporre che io possa stare bene, cioè in quella Toscana dove sono nato, ma che, anche secondo i toscani che ci sono rimasti, purtroppo non esiste più. L’acqua del fiume di Eraclito non si è limitata a scorrere: è stata anche inquinata profondamente e irrimediabilmente. Qui, forse, sarà anche successa la stessa cosa, ma il mio vantaggio è che non me ne accorgo, perché, anche se a casa degli Altavilla mi sento come a casa mia, questa non è casa mia. I beni informati, peraltro, fra cui il prezioso Mauro, sostengono che esistano da queste parti insospettabili oasi di autenticità, sfuggite ai turisti e agli antropologi (ma non sempre ai prefetti, che nel sacro nome della sicurezza abrogano con un tratto di penna tradizioni millenarie - quando forse la soluzione più corretta sarebbe tenere fuori dai coglioni i turisti, soprattutto quelli attirati dai social).

La guida del castello mi spiegava Carlo Gesualdo, ed io, che sono persona di buon cuore, me lo lasciavo spiegare, salvo che, a sentirlo collocare nel tardo Seicento, non potevo trattenere un “forse un pochino prima…”.

Naturalmente, siccome siete ovunque, siete anche qui, e quindi c’era qualcuno che aveva visto la slide del post precedente, e che ha fatto la domanda dello studente (quella di cui sapeva la risposta). Ma io ho parlato prevalentemente di altro, sono partito dal grafico di Wolff, ho fatto notare che il gap fra produttività e salario reale va riempito con tanto debito, ho raccontato un po’ di storia del debito, e siamo andati avanti per un paio d’ore e oltre, con tante domande.

Ma forse la cosa che mi porterò dietro di questa giornata è un’altra, anche perché legata a un ricordo particolarmente tenero, quello di una vacanza fatta con Uga giù in Puglia da amici (li conoscete entrambi). Il legame in realtà è abbastanza tenue: un autogrill sulla Telesina dove avevamo mangiato bene e dove da allora mi fermo ogni volta, anche oggi, quando passo da queste parti. Mi siedo e sto per ordinare, quando da un tavolo si avvicina una signora poco più che mia coetanea, molto distinta e ammodo, che direttamente mi chiede: “Ma lei è Bagnai?”

Una delle tante agnizioni che hanno punteggiato la storia di questa bella d’erbe famiglia e di lettori, fra le quali resta insuperata quella del maestro Iacomini a Scurcola Marsicana: “Ma tu somigli a Bagnai!” “Ma io sono Bagnai!” (e l’un l’altro abbracciava).

Comunque, oggi ho risposto semplicemente: “Sì!”, e la signora ha proseguito: “La seguo su Facebook, lei fa i video dalla macchina!” (e io pensavo: per forza, il blog non esiste! Ma quanta gente vede questi video che a giudicare dalle statistiche sono così poco virali?…), aggiungendo: “Di che partito è?” Ovviamente, io che non mi tolgo la cravatta neanche in piscina, come dice il mio capo, non mi tolgo l’Albertino neanche in spiaggia, come non mi sarei tolto le spalline da sottotenente quando ero in servizio, però, siccome evidentemente oggi ero di buon umore, invece di indicare il marchio della bestia come faccio di solito, benignamente rispondevo: “Sono nella Lega, sono con Salvini!” E la signora, accorata ma misurata, dignitosa, composta, affidandosi, aprendosi, mi ha detto: “Mi raccomando tre cose: le ZTL, il gender nelle scuole, e il lavoro delle donne.” E mentre le prime due cose mi erano abbastanza chiare, sulla terza forse si intuiva che avevo bisogno di qualche delucidazione: “Io ho sei figli, mio marito è già pensionato, il lavoro nelle donne dovrebbe essere organizzato diversamente, dovrebbe almeno tener conto degli orari delle scuole”.

E insomma questa signora, che molto evidentemente non era community, che stava andando per motivi che comprenderete a Pietrelcina con due amiche altrettanto distinte e molto più che mie coetanee, e che per motivi imperscrutabili la mattina mi ascolta parlare su Facebook delle cose di cui parlo con voi, dopo un percorso più che decennale, cose che non sempre sono immediatamente intuitive per chi il percorso non lo ha seguito, e che possono legittimamente sembrare prive di attinenza con la realtà, astratte, fumose, per qualche motivo che ignoro, ma che mi ha commosso, ha sentito il desiderio di condividere con me queste preoccupazioni tanto concrete.

E qui ci sarebbero tante considerazioni da fare, ma ne faccio due. La prima è: perché io? E la seconda è: ci siamo abituati a considerare centrali dei temi che strutturalmente lo sono, ma che rispetto a quelle che tante persone perbene percepiscono come minacce immediate sono oggettivamente laterali (a meno di non dedicare un tempo che forse nessuno ha a ricostruire il percorso che conduce da una certa organizzazione dei rapporti sociali di produzione alle ZTL, al gender, alla negazione della maternità).

Le persone non vogliono spiegazioni, vogliono soluzioni e hanno tutto il diritto di volerle. Alla fine è anche per questo che Claudio e Massimiliano ci misero un bel po’ a convincermi…


Preparando Venosa: i trend della globalizzazione.

Scusate, la risposta ai prodotti del metabolismo è ulteriormente ritardata. Ieri sono tornato a casa crepato dopo una giornata di sedute e incontri, e ho dormito dalle 21 alle 7, ora sto preparando slides per Venosa, che per me è soprattutto cromatismo espressionista:

ma effettivamente sarebbe anche un culmine del classicismo. Tutta roba comunque che all'estero non hanno (avuto). Comunque, in attesa della mia risposta, i prodotti del metabolismo hanno avuto quella della cronaca, cioè dell'agenzia del loro regime (non del mio), che purtroppo li smentisce.

Strano, eh?

Mica tanto, in effetti...

Ma dato che oggi sono di slides (in quindici anni di dibattito pubblico, che parlassi a braccio o che preparassi un discorso, non sono mai riuscito a riciclare nulla, per il semplice motivo che visto che chi mi ascolta comunque non mi capisce, ho preferito utilizzare queste occasioni per provare a capire qualcosa io, studiando...), volevo condividere con voi una cosa che era sotto i miei occhi, e che non avevo mai visto. Questa:


Per i diversamente vedenti, sottolineo che quello che non avevo mai realizzato era questo:


Nel nostro (mio, me ne prendo la responsabilità) discorso abbiamo sempre concettualizzato l'austerità come la correzione di uno squilibrio di flusso, come uno sforzo per riportare sui valori positivi in cui si trovava attorno al 1996 (prima che iniziasse il percorso verso l'euro) il saldo delle partite correnti, cioè l'indebitamento estero netto (barre azzurre), che si era andato deteriorando fino a raggiungere un minimo intorno al 2010 (freccia verde). In effetti, se invece consideriamo lo stock, cioè la posizione finanziaria netta sull'estero (spezzata rossa), si vedono due cose: la prima è che lo squilibrio, cioè il progressivo accumularsi di debito estero netto, è in effetti qualcosa che comincia da molto prima. Il massimo della posizione netta sull'estero è stato raggiunto nel 1980 all'8% (nel 2023 eravamo quasi lì: 7.5%) e il progressivo deterioramento era andato avanti per oltre trent'anni, fino al -23.2% del 2013 (quindi non per un quindicennio: per il doppio di un quindicennio). Ne consegue (ed è questa la seconda cosa che volevo segnalarvi) che l'austerità nei fatti è stata chiamata a correggere uno squilibrio di stock molto più grave e risalente di quello che appare dai dati di flusso. Questa analisi quadra con quello che vediamo nel famoso grafico della sconfitta (presentato qui):


Se infatti accostiamo lo scostamento del tendenziale (in verde) all'evoluzione delle partite correnti non vediamo particolari ragioni per il disastro che dalla B di Bagnai ci ha portato alla D di depressione anziché alla C di crescita:



All'inizio degli anni '90, ad esempio, c'era stata una correzione degli squilibri di flusso di entità simile (le barre azzurre erano tornate positive) senza bisogno di uccidere il Pil. Se invece confrontiamo lo scostamento dal tendenziale con gli squilibri di stock il quadro è diverso:


e in effetti l'entità epocale dello scostamento dal tendenziale è abbastanza in linea con l'entità epocale della correzione dello squilibrio di stock (le barre rosse che tornano in territorio positivo).

Possiamo anche metterla in un altro modo, che forse ci può aiutare a capire. La flessibilità del cambio ci ha aiutato a correggere (senza farci troppo male) il saldo delle partite correnti, ma non ci ha impedito di accumulare comunque una posizione netta sull'estero negativa. Ovviamente questo racconto va circostanziato, possibilmente non con osservazioni idiote del tipo: "Ma la correzione dello squilibrio di stock inizia alle 13 del 14 febbraio 2014 mentre lo scostamento del Pil dal tendenziale alle 14 del 13 febbraio 2012!" (se un terremoto è di magnitudo 8 quello che c'è dopo la virgola non interessa nemmeno ai sopravvissuti), o con il grande classico "correlazione non significa causazione!" (non sto - ancora - parlando di nessi causali). Quella che propongo è dichiaratamente una rappresentazione suggestiva di un fatto stilizzato, il cui principale messaggio è farci capire l'entità dello stress che il Paese ha subito nel lodabile empito di rimborsare in tutta fretta i propri creditori esteri.

Poi si può entrare nei dettagli, cosa che vi lascio fare volentieri, perché ora devo guidare per quattro ore...

(...mi sa che questa slide a Venosa non la faccio vedere...)

mercoledì 11 giugno 2025

Ancora sul ruolo internazionale dell’euro

Il gentiluomo di quella nobil patria natio alla quale io forse fui troppo molesto si era espresso così sui dieci rotoli di morbidezza del 10 maggio scorso: “ La moneta europea ha recentemente attratto un rinnovato interesse da parte degli investitori internazionali, anche a causa delle turbolenze geopolitiche verificatesi negli Stati Uniti, che hanno determinato flussi di capitali significativi verso l’Europa.” Insomma, baluginava all’orizzonte il coronamento del sogno bagnato degli europeisti, quello di scalzare il dollaro dal ruolo di global safe asset, sembrava ormai a portata di mano (conferendo in extremis una rivincita all’astro nascente della sinistra di destra).

Ma oggi il destino cinico & baro, in un imprevedibile (🤭) colpo di coda, si accanisce a maramaldeggiare sugli euristi. Il FT ci fa infatti sapere che “Gold overtakes euro as global reserve asset”.

Insomma, quando le cose si mettono male nessuno si fida di un esperimento sociale senza capo né coda, e ci si regola invece secondo le parole di Verdi: “Torniamo all’antico, sarà un progresso!”

Un saggio avviso, che dovremmo seguire anche noi, possibilmente prima di essere costretti a farlo…

(…no way!…)

(…devo rispondere ad alcuni prodotti del metabolismo (pdm), ma voglio farlo con calma e difficilmente ne avrò prima del weekend. Questa però era troppo gustosa per non condividerla con voi…)





lunedì 9 giugno 2025

Storia di un referendum

Vi rifaccio in tre punti la storia dell'ultimo referendum, tragicomicamente conclusasi oggi.

Il punto giallo (agosto 2011) è quello in cui Draghi, nella sua famigerata lettera scritta in quanto Presidente entrante in Bce, chiedeva al Governo italiano "una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti" (le altre richieste sono dettagliate qui).

Il punto rosso (gennaio 2014) è quello in cui Renzi annunciò il jobs act.

Il punto verde è quello in cui un sindacato giallo ammantato in una bandiera rossa ha preso una sonora musata, non riuscendo ad arrivare nemmeno al 30% di partecipazione (amen).

Ieri la mia Uga (semper laudetur) mi chiedeva del referendum, argomento che giustamente interessa ai giovani. Mia risposta: "Un referendum con cui il PD, che ha tolto diritti ai lavoratori quando la disoccupazione era al 13% e in crescita, vuole restituirglieli ora che la disoccupazione è al 5.9% e in calo. Poi fai tu...".

Sono stato unemotionally factual, come direbbe Capezzone. Che cosa lei abbia fatto poi non lo so, ma francamente me ne infischio.


(...ma godo, anche perché io ho la coscienza a posto, lui no...)

domenica 8 giugno 2025

Due trade-off sul debito pubblico

Continuo a ricevere graditi segni di apprezzamento per l’intervento che ho svolto ieri a Rapallo e che trovate nel post precedente. Qualcuno ha anche chiesto che vengano pubblicate le slide e lo farò senz’altro, ma prima vorrei evidenziare rapidamente qui due cose che non sono nelle slide, ma che ho detto e sulle quali secondo me è importante fissare l’attenzione.

Un falso trade-off

La prima cosa sulla quale vorrei farvi riflettere è una evidente limitaziine della teoria economica standard, secondo la quale gli investimenti pubblici sono in qualche modo alternativi rispetto agli investimenti privati, nel senso che, per usare il linguaggio degli economisti, li “spazzerebbero” (il termine inglese utilizzato è: crowding out). Questa visione deriva dall’idea molto stilizzata secondo cui l’unica determinante del volume degli investimenti è il tasso di interesse. Se le cose stessero così, allora avrebbe un senso pensare che qualora lo Stato effettui investimenti finanziandoli in deficit, cioè con emissioni di debito pubblico, e ipotizzando che queste emissioni facciano innalzare il tasso di interesse, allora l’investimento pubblico determinerebbe una contrazione di quello privato attraverso il canale del tasso di interesse. In realtà, come ho cercato di spiegare ieri (ma non solo ieri) fra le determinanti complessive della redditività di un investimento ci sono anche le condizioni complessive della domanda aggregata e lo stato delle infrastrutture. Nessuno investe per portare al mercato con una strada che non c’è un bene che nessuno domanda. Voi (ad eccezione di Corrado) lo fareste? Io no, ma io non faccio testo: il problema è che non lo fa nessuno. Bisognerebbe quindi parlare di crowding in (non out) dell’investimento privato da parte di quello pubblico. Se lo si facesse, si capirebbe anche perché in un periodo in cui i tassi di interesse sono stati tenuti molto bassi, l’investimento privato in effetti non è esploso. Il motivo è semplice: perché in contemporanea sono stati tagliati gli investimenti pubblici, deteriorando lo stato della domanda aggregata complessiva e lasciando andare in malora le infrastrutture. La teoria economica corretta è quella che meglio si adatta ai dati: quello che vi ho detto spiega perché può succedere che l’acqua ci sia, ma il cavallo non beva.

Un vero trade-off

Un’altra cosa che non vorrei passasse inosservata nelle pieghe del discorso è riferita a una effettiva difficoltà alla quale un livello elevato di debito pubblico può esporre. Questo sfugge ancora a molti, ma è importante che noi, che preferiamo anticipare gli eventi (umilmente consapevoli del fatto che comunque non siamo in grado di influire più di tanto su di essi), ci mettiamo la testa. Livelli elevati di debito pubblico determinano un trade-off fra stabilità macroeconomica (intesa come controllo dell’inflazione) e stabilità finanziaria. Il motivo è molto semplice: dato che l’inflazione dipende dalla legge della domanda e dell’offerta, e che, conseguentemente, l’unico strumento che una banca centrale ha per controllarla è abbattere la domanda innalzando i tassi di interesse, quando le posizioni debitorie sono molto elevate c’è il rischio che un innalzamento dei tassi di interesse motivato dal desiderio di contrastare l’inflazione renda troppo oneroso rifinanziare le posizioni debitorie in essere. Detto in un altro modo, e pensando al debito pubblico, quando agli inizi degli anni ‘80 Paul Volcker avviò la sua politica di tassi di interesse elevati per combattere l’inflazione, il livello medio di debito pubblico nei paesi avanzati si situava attorno al 40%, e l’innalzamento dei tassi reali di circa quattro-sei punti avviò in molti paesi una spirale per cui ci si indebitava per pagare gli interessi sul debito. Ora il debito medio è oltre il doppio, cioè oltre l’80%, e quindi anche innalzamenti più contenuti dei tassi di interesse potrebbero farci entrare in una spirale simile, che potrebbe mandare fuori controllo le esposizioni debitorie pubbliche, ma soprattutto private. Per questo motivo sarebbe importante che queste venissero in qualche modo diluite, spingendo sulla crescita nominale, cioè sulla crescita reale e sull’inflazione.

Ecco: queste due cose nelle slide non c’erano, ma erano forse le due cose più importanti che avevo da dire ieri. Spero vi abbiano aperto delle prospettive utili.


sabato 7 giugno 2025

Rapallo (sul green e l’Europa)

Qui c’è il motivo per cui non sono riuscito a rispondervi (e ora sto per imbarcarmi):


Dovevo preparare questo intervento. Sono sempre le stesse cose, ma non negli stessi tempi e non alle stesse persone. Il risultato si è visto, il messaggio è passato (ascoltate i commenti degli altri, nei loro interventi tutti molto interessanti), stiamo portando la nostra voce in altri ambienti e piano piano ci costruiamo spazi di ascolto e di reputazione che ci saranno utili.

Ci vediamo più tardi per i commenti a questo e agli ultimi post, ma intanto volevo condividere un’osservazione che mi è venuta in mente lavorando a questo intervento: è strano come quelli secondo cui lo Stato è come una famiglia (una tribù variopinta che a quanto abbiamo visto annovera anche miliardari “visionari”) chiedano allo Stato di non comportarsi come si comporta una famiglia quando deve acquistare un bene capitale (un’automobile, una casa)! Le famiglie (o le aziende) per acquistare macchinari o edifici si indebitano. Secondi i gianninizzeri, lo Stato, invece, non dovrebbe indebitarsi mai, nonostante che sia ormai chiaro come chi sta alimentando una pericolosa catena di Sant’Antonio sia il settore privato: è quest’ultimo a indebitarsi per pagare dividendi, non il settore pubblico, e lo dice l’OCSE!

Questa è la consistenza dei nostri interlocutori social. Sono decisamente migliori e fortunatamente più rilevanti quelli in carne ed ossa. Spiaze per Serendippo! 😢

venerdì 6 giugno 2025

Chi esporta merci esporta capitale (umano)

Abbiamo ormai perso ogni speranza di far capire al secol superbo e sciocco (LVI incluso) che per mera contabilità la somma dei saldi merci e capitali (rectius: la somma algebrica del saldo delle partite correnti e del conto finanziario della bilancia dei pagamenti) deve (must) essere nulla. Non si tratta di alchimia o di convenzione! Si tratta della rappresentazione nitida e facilmente comprensibile di un dato di fatto. Quando l’esportatore italiano incassa dollari (e in bilancia dei pagamenti si registra quindi un segno più, come sempre quando la valuta entra), la storia non finisce, ne manca un pezzo importante.

Con i suoi dollari l’esportatore può fare tre cose:

1) tenerli in tasca (ma a meno che non sia Eta Beta questa strategia potrebbe dimostrarsi rapidamente insostenibile, oltre a essere finanziariamente poco conveniente);

2) acquistarci attività finanziarie denominate in dollari, per non tenere contante ozioso e infruttifero, nel qual caso in bilancia dei pagamenti si registrerebbe un segno meno (un’uscita di valuta annotata nel conto finanziario);

3) convertirli in euro per comprarsi un gelato (o per fare investimenti produttivi), nel qual caso si registrerebbe ugualmente un segno meno sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti, perché la Banca centrale non è come il deposito di Paperone un gigantesco hangar blindato colmo di dollaroni metallici ballanti e sonanti, ma un ufficio popolato da una burocrazia più o meno amica del Paese ma sicuramente razionale, che quindi con i dollari che le vengono ceduti in cambio di euro acquista attività denominate in dollari (con relativa annotazione in uscita nella bilancia dei pagamenti).

Punto.

È così difficile? Apparentemente sì, se perfino LVI non capisce che non puoi chiedere al contempo più competitività e meno fuga di capitali! La competitività, in quanto venga raggiunta, si manifesta come esportazione di merci e quindi esportazione (o fuga) di capitali.

Ri-punto.

Ma c’è un’altro aspetto su cui non si riflette abbastanza, che nessuno vede (strano…), nonostante sia sotto gli occhi di tutti, nonostante perfino 🍇 lo abbia in qualche modo confessato a denti stretti.

Seguitemi: per esportare devi essere competitivo, giusto? Per essere competitivo devi tagliare i salari (lo ha detto Draghi), giusto? Ma se i salari di ingresso sono troppo bassi, che cosa fanno i giovani migliori? Ma è semplice: emigrano in cerca di migliori opportunità! Quindi in un’unione monetaria chi vuole esportare merci vuole esportare capitale umano, vuole separarsi dai propri figli.

Dite che non vuole?

Eh, no: Keynes dice che vuole, perché ricordate che cosa afferma ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”? Ve lo ricordo: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo”! Quindi quando sentite qualcuno, come 🍇 o chi gli è intellettualmente subalterno, parlare di competitività della nostra economia sappiate che lui vuole separarvi dai vostri figli, di quello sta parlando, perché ora funziona così, perché qualcuno (non noi) ha voluto che funzionasse così. Il presupposto per non esportare capitale umano è un mercato interno florido e dinamico, è un modello di crescita basato sulla domanda interna, e quindi wage led, non export led.

Aspetto argomentate confutazioni di queste ovvietà.

Ma ora… decollo per Genova!

Destroying domestic demand: il disegnino

Credo che qui tutti ricordino le parole di Monti: "We are actually destroying domestic demand..." (per chi se le fosse dimenticate o non le avesse mai sentite sono qui), la spudorata confessione del fatto che le politiche procicliche, il consolidamento fiscale, insomma, l'austerità, era stata una politica deliberata volta a recuperare competitività, come oggi ammette lo stesso Draghi:


(per i diversamente capaci di unire i puntini: in altre parole, il risanamento dei conti pubblici era solo un pretesto per effettuare politiche redistributive accampando uno stato di necessità, e infatti i conti pubblici non li abbiamo risanati e mai avremmo potuto farlo così per i motivi a suo tempo esposti).

Per un qualche motivo mi è venuta voglia di fare il disegnino di questo bel capolavoro, non tanto quello dell'Italia (ormai lo conoscete), quanto quello dell'Unione Europea:


Qui vedete i dati dell'OCSE. Notate che gli Stati Uniti viaggiano su livelli di domanda interna (definita come somma di consumi, compresi quelli pubblici, e investimenti, compresa la variazione delle scorte) superiori al 100% del Pil: è un dato coerente con la loro posizione di importatori netti. Noterete anche che dalla metà degli anni '90 sostanzialmente all'inizio della crisi dei subprime questa percentuale è andata crescendo, fino a quando il botto del 2008 non ha un po' ridimensionato la domanda interna (via crollo del credito).

Il tracciato europeo è molto diverso. Per sedici anni il peso della domanda interna è rimasto sostanzialmente costante. Poi, dopo il 2011, si è ridimensionato bruscamente, scendendo di più di due punti percentuali, per poi rimanere su un sentiero inferiore.

Questa cosa si vede anche coi dati AMECO:


e anche coi dati Eurostat:


Insomma: è nei dati.

Nei dati, naturalmente, c'è anche quella che abbiamo chiamato la "sostituzione etnica" di una platea di consumatori con un'altra:


Si vede bene, no?

Qui gli ultimi tre anni sono previsti, e la previsione è che a breve questo assetto rimanga invariato, nonostante i pressanti e accorati appelli a rinvigorire la domanda interna (ma anche la competitività, cioè la domanda estera) dell'Eurozona. Il grafico si divide esattamente in due: nella prima metà, il mercato interno funziona (i tedeschi vendono e i PIGS comprano), e quindi i conti con l'estero sono in equilibrio. Nella seconda metà il mercato interno non funziona: i tedeschi vogliono vendere ma i PIGS non possono più comprare (essendo stata destroyed their domestic demand, cioè i loro redditi), per cui il surplus produttivo si scarica all'estero generando gli squilibri che sappiamo e cui gli Stati Uniti hanno reagito come sappiamo.

Dice: "E vabbè, ma quanto sò incazzosi gli americani! Che vuoi che siano tre punti di Pil di surplus!? Sta a gguardà er Pil nell'uovo..."

Beh, come vi ho spiegato il 5 marzo a Roma, tre punti di Pil sò 400 mijardi di euro, e la storia ci insegna che gli americani hanno ucciso (figuratamente, e non solo) per molto meno:


Lo so, sono cose che sapete, che sappiamo, soprattutto qui (le sappiamo dal 2011, da prima che ce le spiegasse Monti, cui noi spiegammo in anticipo il suo fallimento: Draghi con tutto il rispetto non è nemmeno in partita!...).

Tuttavia, pensavo che questo disegnino:


potesse interessarvi.

Sperando di aver fatto cosa gradita, mi pregio pertanto di porgervi i miei più cordiali saluti (e vado a fare un altro disegnino).

Il vostro affezionatissimo,

Guru.

Ci vuole più freddezza

Com’era inevitabile, in queste ore i nodi stanno venendo al pettine, in una misura onestamente inattesa anche per chi vi scrive. Che però ci fosse qualcosa di sostanzialmente fallace nell’argomento secondo cui Trump o Elon fossero “uno di noi” qui, visto che nessuno ci legge, ci siamo sempre permessi di dirlo. Si tratta di un problema metodologico generale. Il mondo è troppo complicato per darci la garanzia che il nemico del nostro nemico (in quale battaglia?) sia matematicamente nostro amico, o amico dei nostri amici (cioè di altri nemici dei nostri nemici). Come corollario, quindi, non c’è nulla di così strano nel fatto che due nemici dei nostri nemici scoprano di non essere amici!

Questo dobbiamo sempre tenerlo a mente. Le grida di vittoria per battaglie vinte da altri, in altri paesi, su altri presupposti, in altri contesti, possono avere il significato tattico di rinforzare il morale della truppa, di rinsaldare il consenso. È successo anche a me, anch’io mi sono abbandonato a questa tentazione. Ricordo il mio intervento, che forse pochi di voi ricorderanno, al palazzo delle stelline a Milano nel 2016 quando ironicamente esordii con: “Dio è con noi, e adesso è con noi anche Trump!” Parlo ovviamente dello stesso Trump che poi, in un momento difficile di questo paese, fece il noto endorsement a Giuseppi. Cose che all’epoca era praticamente impossibile immaginare, anche per chi aveva scritto da poco il post in cui prevedeva che Pd e 5 Stelle si sarebbero saldati (ma onestamente la benedizione degli Stati Uniti a questo improbabile coniugio non me l’ero immaginata, non essendo per me chiaro allora, come non lo è ora, l’atteggiamento degli Stati uniti nei confronti del Problema, che è e resta l’euro, il che mi suggeriva di non addentrarmi in pronostici per i quali mi mancava un elemento essenziale).

Naturalmente questo non vuol dire che l’emersione di fatti o persone disruptive non debba essere salutata come un elemento positivo. Certamente lo è! Non vuole nemmeno dire che quanto terrorizza, destabilizza, o anche semplicemente infastidisce il Santo sinedrio piddino non sia di per sé un dato tattico positivo. Visto che non ci piace dove siamo, qualsiasi cosa smuova le acque è ovviamente benvenuta, perché in qualche modo ci aiuta a spostarci. Questa però è tattica, cioè la risposta alla domanda: come mi sposto, o come creo i presupposti per spostarmi? La strategia è una cosa diversa, risponde a un’altra domanda: dove voglio andare? Provando a definire in sintesi questo obiettivo, potremmo dire che vogliamo andare verso un mondo in cui la distorsione del mercato e l’ingerenza estera (entrambe a nostro danno) non siano l’essenza stessa delle istituzioni che ci governano, concorrendo ad aumentare la disuguaglianza e la tensione sociale. Un mondo cioè in cui la classe media e i ceti produttivi possano riappropriarsi di un minimo di voice e migliorare la loro posizione in termini reddituali dopo anni di arretramento relativo.

Vorremmo anche arrivarci vivi.

La questione che si pone quindi è su quali sponde dobbiamo giocare per mandare la palla in quella buca lì. Questo non presuppone necessariamente che i nostri compagni di strada la pensino come noi o abbiano i nostri obiettivi. Presuppone però un’altra cosa: che non ci dimentichiamo mai che il nostro interesse riguarda noi, non gli altri, che non possiamo chiedere ad altri di combattere la nostra battaglia, che se noi non siamo dalla nostra parte, nessun altro ci sarà, e che qualsiasi “vittoria” che non sia agita da noi non ci dà alcuna garanzia di avvicinarci in modo significativo ai nostri obiettivi. Presuppone cioè un minimo di freddezza, quella che consiste nell’essere consapevoli che non esisterà un evento palingenetico, una “vittoria risolutiva“, che nulla ci solleverà dal duro compito della militanza e del conflitto (che è poi il motivo per il quale continuo a tenere vivo questo blog).

Per questo motivo sconsiglierei di parteggiare per l’uno o l’altro dei contendenti. Sì, è abbastanza evidente che Musk ha una visione, come dire, un po’ rudimentale del debito pubblico. Tuttavia, non credo che il problema principale sia esattamente lì, se anche lo fosse non credo che si possa risolvere con un momento didattico (in questo senso quello che è successo con Salvini rappresenta probabilmente un’eccezione nella storia mondiale), non credo che il suo ex amico con cui ora sta baruffando sia un raffinato analista della teoria post-Keynesiana della sostenibilità del debito, e, per spostarci su un altro piano, sono un pochino scettico sul fatto che si possa prescindere dalla tecnologia di cui Musk dispone (e non parlo di auto). Quanto all’altro contendente, è indubbio che abbia scelto come vice un eloquente cantore dell’epopea della classe media, è (o sembra) evidente che nel conflitto fra Wall Street e Main street abbia scelto di schierarsi dalla parte di quest’ultima, tuttavia, se avessi un euro da scommettere, preferirei scommetterlo sui Lupi di Pizzoferrato in finale di Champions League, piuttosto che sull’idea che un miliardario statunitense passi le sue notti leggendo le analisi del capitalismo produttivista di Froud et al. (l’ultima volta ne abbiamo parlato qui, e nel frattempo pare che la Bce si sia accorta anch’essa del problema), ragionando su come sganciarsi dal coupon pool capitalism magari ristabilendo un minimo sindacale di financial repression. Non credo, e non glielo auguro, considerando che gli hanno sparato per molto meno!

Come dicevo qualche sera fa a una tavolata di manager, il fatto che la sinistra non difenda più i lavoratori per noi è un disastro, perché costringe noi a farlo, raddoppiando il nostro lavoro! Era ovviamente una battuta e così è stata intesa (volendo essere seri, dovremmo invece fare un discorso su perché la sinistra abbia rinunciato, bollandolo come interclassismo, al tentativo di tracciare una demarcazione tra interessi di classe rispondente alla realtà odierna, non a quella di due secoli fa), ma ci avvicina a un punto con cui vorrei concludere il mio sermone.

Il problema insito nell’aspettarsi che siano altri a combattere le nostre battaglie non è solo nell’indurci a una postura passiva, nel suggerirci di stare sdraiati sotto al palmizio della storia aspettando che cada la banana (o la noce di cocco?) del risultato da noi auspicato. Il problema è più sottile, e consiste nel rischio di illudersi, in un vuoto ideologico generale, che gli obiettivi del nostro alleato pro tempore, la sua ideologia, debbano necessariamente essere i nostri. Non è così e il rischio di abbagli è presente e concreto. Tanto per fare un esempio, la cosa che più mi preoccupa dell’intera vicenda dei dazi è la controproposta di “dazi zero“, che oltre a essere abbastanza insensata di suo, smentisce tutto quello che qui abbiamo sempre detto (prevalentemente da sinistra) e la Lega ha sempre detto (verosimilmente da destra) sui limiti del liberoscambismo (pensate alla battaglia contro TTIP e CETA, ad esempio).

Mi sembra un problema per noi lievemente più grave, non fosse altro perché ci riguarda direttamente, rispetto al fatto che il noto miliardario abbia idee troppo convenzionali sul debito pubblico.

Ma questo ve lo scrivo qui, dove nessuno lo legge, con la solita clausola: speriamo di avere torto!



giovedì 5 giugno 2025

Inflazione, energia e logaritmi

(...breve momento didattico sulla presentazione dei dati...)

Utilizzando il Pink sheet e i World Development Indicators ho costruito questo grafico che accosta l'indice del prezzo dell'energia (globale) all'indice dei prezzi al consumo italiano:

Si nota che l'indice dei prezzi dell'energia è più volatile dell'indice dei prezzi al consumo e la correlazione fra i due indici è relativamente debole. Dato che le due serie hanno entrambe tendenza crescente, la loro correlazione va filtrata su serie depurate dalla tendenza (prendendo le differenze prime o i tassi di crescita), altrimenti si otterrebbe una correlazione spuria (le due serie sembrerebbero in relazione semplicemente perché sono entrambe crescenti, ma questa correlazione potrebbe essere illusoria, come in questi casi). La correlazione fra i tassi di crescita è 0.33.

C'è tuttavia un problema: l'indice dei prezzi dell'energia è in dollari, ma l'indice dei prezzi al consumo dell'Italia è in valuta nazionale, che non è mai stata il dollaro! Possiamo convertire l'indice dei prezzi dell'energia in valuta nazionale moltiplicandolo per il cambio "valuta italiana/dollaro" (in LCU per US$, local currency units  per dollaro, costo in valuta italiana di un dollaro). Dato che i prezzi sono espressi come indici, possiamo ribasare il tasso di cambio perché valga 1 nell'anno base, in modo che gli indici continuino a valere 100 nell'anno base. Il risultato è:


e la correlazione (calcolata sui tassi di crescita) aumenta a 0.41. Si noti che l'aver espresso i prezzi dell'energia in valuta nazionale, anziché in dollari, non altera poi in modo così drammatico il profilo della serie, contro la narrazione secondo cui quando c'era la liretta occorrevano carriole di banconote per un barile di petrolio (se fosse stato così, in questo grafico il costo dell'energia dovrebbe schizzare verso l'alto negli anni della lira, per poi scendere, ma invece il suo profilo è molto simile al quello del costo espresso in dollari).

In ogni caso, la situazione dei prezzi dell'energia sembra molto più disastrosa verso la fine che verso l'inizio del grafico. Anche questa è un'illusione ottica: dipende dal fatto che 1 è il 10% di 10 ma solo l'1% di 100: all'inizio del grafico, partendo da valori bassi, anche variazioni impercettibili erano in realtà percentualmente rilevanti. A questo si rimedia prendendo la scala logaritmica, che trasforma i dati in modo che la pendenza della curva corrisponda al tasso di crescita percentuale della curva stessa:


Inquadrati (correttamente) così, si vede che gli shock petroliferi degli anni '70 sono stati fenomeni molto più devastanti dell'ultima crisi energetica che tanto ci ha fatto penare.

Del resto, lo si potrebbe vedere anche prendendo i tassi di crescita delle variabili:


Qui si notano due cose: che le variazioni dei prezzi dell'energia negli anni '70 raggiunsero picchi del 250%, mentre l'episodio più recente vede un incremento intorno al 75%: non lamentiamoci troppo! La seconda cosa interessante è che la risposta dell'inflazione allo shock di offerta è sostanzialmente proporzionale nel tempo. Con un picco di crescita dei prezzi dell'energia intorno al 200% si ebbe un picco di inflazione intorno al 20% e con un picco di crescita dei prezzi dell'energia intorno al 70% si è avuto un picco di inflazione attorno al 7%. Il pass-through da prezzi globali dell'energia a prezzi al consumo è rimasto quello, circa il 10%. Quella che è cambiata, evidentemente, è la persistenza della risposta inflattiva allo shock: negli anni '80 la discesa dell'inflazione fu più lenta, prese un decennio, nonostante il controshock petrolifero del 1986. Ai giorni nostri è stata pressoché immediata, come dicono anche le cronache.

La maggior persistenza è attribuita all'operare di meccanismi di indicizzazione dei salari. Quello che mi colpisce (ve ne avevo già parlato), però, è che il pass-through sia rimasto sostanzialmente identico. Insomma: se oggi incorressimo in uno shock da offerta come quelli degli anni '70, cioè se il prezzo dell'energia triplicasse, avremmo nuovamente un'inflazione in doppia cifra al 20%.

Basta saperlo.

(...ci dormo sopra...)