lunedì 24 giugno 2019

Verso l'infimo e oltre!

Rischierò di essere ripetitivo.

Esattamente come, nel tentativo più o meno riuscito di darvi qualche rudimento di analisi macroeconomica, ho scelto di insistere su pochi strumenti, snelli e solidi, fra cui il principale è l'analisi dei saldi settoriali (iniziando col primo e col secondo post dedicati alla "Premiata armeria Hellas", e proseguendo poi per numerosissimi altri post dove il metodo è stato applicato ai paesi più disparati, dalla "A" di Azerbaijan alla "S" di Slovenia), così, ora, per farvi capire come funziona la politica, devo fornirvi alcuni strumenti essenziali per interpretare i dati politici che vi vengono forniti dai mezzi di informazione.

Il più essenziale è semplicissimo da mandare a mente, e anche piuttosto agevole da comprendere nelle sue articolazioni principali, oltre a essere già stato espresso in modo molto più autorevole da tanti prima di me. Eppure, con mio grande rammarico e stupore, vedo che proprio non vi entra in testa! Ma io sono tenace, altrimenti non vi starei scrivendo da questa scrivania dopo l'incardinamento del decreto "crescita", ma da un'altra scrivania dopo una lezione... sui saldi settoriali (!), e quindi insisto. Non potete, e quindi non dovreste, arrischiarvi in analisi politiche (né tanto meno in proclami o roboanti ultimatum secondo il modulo "Radames discolpati!" riportato in auge dagli "zerovirgolisti" di destra), non dovreste, ripeto, arrischiarvi in analisi politiche senza aver prima ben capito e interiorizzato un dato ovvio: i giornali mentono.

Voglio subito chiarire, a scanso di equivoci, che questo non è un giudizio soggettivo, nel duplice senso che (i) non è una mia valutazione soggettiva (è un dato di fatto, come vi ho non ampiamente dimostrato - avrei tonnellate di altri esempi!); e (ii) non è un giudizio sulle intenzioni soggettive dei giornalisti. Non sto assolutamente dicendo che i giornalisti siano "cattivih!" o che lavorino male: dire che i giornali mentono non significa assolutamente dire che i giornalisti siano mentitori. Parole diverse esprimono concetti diversi. Semplicemente, le dinamiche oggettive del loro lavoro conducono naturaliter i nostri amici giornalisti (che conosciamo e stimiamo) alla menzogna. Una menzogna che quindi, proprio in quanto determinata da fenomeni oggettivi, è molto più sistematica e pervasiva di quanto sarebbe se a causarla fosse (solo) una ipotetica mens rea, che ogni tanto potrebbe essere distolta da un suo ipotetico obiettivo di volontaria alterazione del dato.

Nessuna volontà soggettiva, per quanto ferrea, potrebbe ottenere un risultato così graniticamente uniforme e coerente. Non dobbiamo quindi voler male ai giornalisti, trattarli con asprezza, o rampognarli. Semplicemente, dobbiamo non comprare più i giornali, e cambiare canale all'apparire del notiziario (visto che non è l'apparir del vero di leopardiana memoria, ma quello del falso).

I motivi oggettivi cui alludo sono almeno di tre ordini, e due mi erano chiari anche prima di vivere dall'interno le dinamiche della vita parlamentare. Il terzo, che forse è il più devastante, mi è apparso con evidenza solo da dentro il palazzo (essere "dentro" un po' di differenza la fa). Nell'ordine, direi: (i) subalternità al capitale; (ii) ignoranza e fretta (miscela esplosiva!); (iii) selezione avversa.

La subalternità al capitale

Della subalternità al capitale ha parlato con tanta chiarezza Gramsci (come ho ricordato nel mio articolo su Micromega), per cui non credo di aver molto da aggiungere. La sua analisi, pubblicata sull'Avanti! nel 1916, la trovate qui a p. 21 sotto il titolo "I giornali e gli operai", e il suo invito a boicottare la stampa borghese, pur se viziato da un ovvio conflitto di interessi (Gramsci scriveva per la concorrenza!), è ben argomentato e, con le dovute rettifiche alle categorie di classe utilizzate all'epoca, del tutto attuale. Il nocciolo è qui:



"Tutto ciò che [la stampa borghese, ndr] stampa è costantemente influenzato da un'idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all'ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione. Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell'opera di difesa spiegata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi invece pagare... dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente. Centinaia di migliaia di operai, dànno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo cosí a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete in tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: «Perché ho bisogno di sapere cosa c'è di nuovo». E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possano essere esposte con un'arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso." 


...e 103 anni dopo non credo che ci sia molto da aggiungere. Detto, ovviamente, sine ira et studio. Ma, fatte le debite proporzioni, pensare che oggi grandi industriali o grandi banchieri (gli unici che possono permettersi quei costosi giocattoli in perdita che sono i media) siano così solleciti del vostro interesse da fornirvi strumenti per promuoverlo a discapito del loro mi sembra sia un pochino ingenuo, ne converrete, come pure non occorrono i sensi di ragno di Spiderman per capire che c'è qualcosa che non va quando Landini parla come Giannino (o Giannini)...

Quindi i giornali vi mentono (rectius: vi forniscono una visione partigiana ed artefatta della realtà) perché espressione di interessi costituiti non necessariamente allineati ai vostri: se non siete almeno milionari, è fortemente probabile che ci sia un deciso disallineamento. Ma anche qui, insisto: il giornalista, poverino, non è colpevole, non può farci nulla. Sì, d'accordo, Upton Sinclair, ma non è così semplice. Non è un mero problema venale. Se fosse così, potremmo fare una colletta e corrompere i giornalisti perché dicano la verità! (A beneficio degli ultimi arrivati, chiarisco che non ci servono verità metafisiche: ci bastano verità tecniche, come quella che negli anni '70 la disoccupazione era circa la metà di quella attuale...).

Il problema è più complesso perché corre ormai quasi un secolo (per l'esattezza, 99 anni) da quella conferenza di Bruxelles in cui, come ci racconta Clara Elisabetta Mattei nel suo The guardians of capitalism, gli esperti di economia si raccolsero per elaborare il messaggio, oggi diremmo il frame (nel senso di Lakoff) sul quale articolare il dibattito economico per riprendere il controllo della restless post-war civil society (inquieta società civile post-bellica). Un messaggio a noi ormai tristemente noto: quello dell'austerità. Di "Stato come una famiglia", di "medicina che fa bene solo se è amara", di "riparare il tetto quando il Sole splende - ma anche quando piove", e consimili baggianate moralisteggianti è stata permeata, a botte di milioni e milioni spesi a fini propagandistici, la coscienza civile europea lungo tutto un secolo. Certo, fa specie vedere un giornalista che si crede "di sinistra" dimenticare Gramsci e allinearsi a Giannino (non a von Hayek: a Giannino!). Ma bisogna essere indulgenti: i mezzi dispiegati per frantumare le categorie logiche ed economiche con l'illogica emotiva e moralisteggiante ad uso del padrone di turno sono stati ingenti. Dove non riuscì Keynes, nonostante le sue indubbie qualità letterarie e una fastidiosa tendenza ad azzeccare le previsioni, non presumo di poter riuscire io, o per lo meno non subito, e certamente non da solo.

Ovviamente, il fatto che tutto fosse chiaro a Gramsci 103 anni fa rende inescusabili quei lettori "de sinistra" che ancora si abbeverano alle fonti del mainstream. Quelli "de destra", porelli, in fondo sarebbero assenti giustificati. Ma ci sono altri due argomenti che voglio sottoporre loro, per dotarli di quel fondamentale presidio di igiene del dibattito che è la disinfezione dai media.

L'ignoranza (e la fretta)

Le dinamiche oggettive della produzione di notizie non sono di natura tale da condurre a ottimi risultati, e questo ce lo possiamo dire con sincerità (e con sincerità lo ammettono i giornalisti, che sono nostri amici - come la Germania, che a loro tanto piace...). Il rifiuto istintivo da parte dei lettori della qualità scadente e del discorso artefatto e internamente incoerente, qui tante volte espresso, trasforma i media in imprese in perdita. Chi ci lavora, pagato poco, col passare del tempo è pagato di meno, il che, in questo come in altri settori, non è un grande incentivo a lavorare bene, tanto più che alla fine uno può cavarsela col "copia e incolla" dei lanci di agenzia delle 17, aggiungendo qualcosa ad colorandum. Questo spiega perché di fatto quello che leggiamo è, con pochissime eccezioni, un "giornale unico", scritto da chi apre i cancelli dell'informazione alimentando le agenzie, secondo il meccanismo descritto da Marcello Foa ne Gli stregoni della notizia.

E poi c'è un altro problemino.

Le dinamiche oggettive (anch'esse) che ci hanno condotto alla crisi più lunga e profonda della nostra storia (vi rinvio a un articolo in cui i dati non sono aggiornati, semplicemente per ricordare a me stesso che qui certi dati si facevano vedere quando nessuno ne parlava) determinano una conseguenza ovvia: l'economia sta prendendo sempre più il centro della scena. Un processo assistito dal fatto che l'Europa del Fogno (che non è un errore di battitura ma un errore politico) non è mai decollata, riducendosi, come era logico succedesse, ad una mera espressione economica. Ora, l'economia e il pianoforte hanno due cose in comune. La prima è che possono piacere o non piacere (c'è chi preferisce il clavicembalo, ad esempio). La seconda è che vanno studiati da piccoli. Quando sento pretenziosi laureati in laqualunque esternare saccenti in materia della quale nulla sanno, e nella quale si addentrano con la grazia (e l'inevitabile destino) di un toro Miura in un campo minato, mi viene da sorridere di compassione: rivedo certi miei studenti...

La situazione quindi è questa: persone che capiscono poco di una materia della quale non sanno niente vi dicono tutto quello che sapete.

(...si badi bene, sono ammirevoli: da niente a poco è tanta roba!...)

Cosa può andare storto?

Un esempio lo chiarirà, ma ad esso devo premettere due brevi parole per calarlo nel contesto.

Nonostante che la proposta dei minibot sia stato lanciata da Claudio Borghi nel dibattito italiano sette anni fa al primo compleanno di questo blog, e nonostante che io abbia la massima stima per Claudio, come sapete il tema non mi ha mai ispirato particolarmente. Se fate una ricerca del termine minibot su questo sito trovate solo interventi dei lettori, per lo più senza mia risposta. Non c'è un motivo particolare. Non ricordo un intervento di Claudio sulla teoria dei saldi settoriali, il che non significa che non sia d'accordo con essa! Certo è che io di quella roba non ne ho mai parlato. Ma se fate una ricerca con le parole chiave Bagnai e minibot trovate tutt'altro: dal Corriere (tanto nomini...) a Next al Post, passando (grazie a Dio) per una testata seria come Lercio (vi risparmio testate minori...) è tutto un chiamarmi in causa in modo più o meno esplicito, ma sempre piuttosto infondato (date le premesse che vi ho esposto).

Ora, caso vuole che i minibot siano da più di un anno nel contratto di governo, e il fatto che i media se ne accorgano solo oggi già la dice lunga, ma il tema non è questo. L'indecorosa gazzarra che sta tenendo banco da qualche ora sui media (e che fra poche ore sarà sostituita dalla successiva indecorosa e infondata gazzarra) è nata in questo modo qui:


Il travisamento che ha portato a tante dotte analisi si basa su una tecnica semplicissima: si fa una domanda assurda, e si riporta solo la risposta! Voglio solo attirare la vostra attenzione su un punto. In episodi come questi non c'è necessariamente malizia. A me sembra perfettamente possibile, e molto più probabile, che una domanda così dadaista sia potuta venire in mente al volenteroso operatore dei media per il motivo molto semplice che lui, di che cosa siano i minibot, non sa nulla! Che la cartolarizzazione di un debito dello Stato possa servire ad evitare la procedura di infrazione (intendendo quella per debito eccessivo: ovviamente, ce ne sono anche per i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, ma il giornalista non si riferiva certo a queste ultime...) può venire in mente solo a chi non sappia di che cosa sta parlando.

Ed ecco un caso preclaro di come l'esplosivo mix di ignoranza e fretta (con la solita porca vanagloria di fare lo "scuppone") fa girare in tondo per due giorni il meraviglioso circo dei media. D'altra parte, se i circhi sono tondi, un motivo c'è...

Un altro caso di consimile dinamica la trovate, se interessa, qui.

Inutile dire che queste dinamiche che, soggettivamente o oggettivamente, tendono a creare un incidente all'interno della maggioranza (fra o nei partiti che la compongono) ci sono ormai note. A noi addetti ai lavori questo fenomeno è perfettamente chiaro, e così se con Alessandro ci siamo sentiti per il piacere di salutarci, anche Claudio e Giancarlo hanno chiarito l'episodio perché dovevano parlare di altro, certo non di una fanfaluca simile.

E qui si arriva al terzo punto, la selezione avversa.

La selezione avversa

I meccanismi che vi ho descritto fin qui determinano due conseguenze piuttosto ovvie in chi come me esercita attività politica a un certo livello. La prima è che non crediamo minimamente a quello che ci dicono i giornali, al punto che, personalmente, nemmeno li leggo. Non mi interessa che cosa dicano di me perché so come lavorano, e quindi non mi interessa che cosa dicano degli altri, o facciano dire agli altri. La seconda è un po' meno evidente a chi sta all'esterno, ma non meno gravida di conseguenze. Siccome sappiamo che qualsiasi cosa diremo sarà travisata o per esigenze di "linea editoriale" (l'ipotesi "Gramsci", di cui questo è un caso), o per mera ignoranza (la storia dei minibot secondo me ricade in questa categoria), quelli di noi che hanno per le mani pratiche minimamente rilevanti ben si guardano dall'accostarsi ai giornalisti, cui rimane, come unico conforto, come unica speranza di arrivare un secondo prima del loro collega, la platea dei nostri colleghi che, per una serie di motivi, non hanno incarichi di rilievo. Ad esempio: i senatori eletti sono 315 e le Commissioni permanenti quattordici, il che comporta che 301 senatori eletti non saranno Presidenti di Commissione permanente, pur essendo magari più preparati di chi ci è capitato (io faccio una fatica bestiale a star dietro a tutto), e pur avendo, in certi casi, maggiori informazioni del Presidente su affari specifici (ad esempio, quando tocca a loro fare da relatori). Fatto sta, però, che a certe riunioni, per problemi meramente organizzativi, ci vanno solo certe persone, che un filo diretto col comando ce l'hanno solo alcuni, ecc., e i giornalisti, a causa del loro comportamente, in modo pressoché sistematico parleranno solo con gli altri. Quindi i "retroscena", i "fonti parlamentari", ecc., sono basati su notizie frammentarie provenienti da fonti non sempre vicinissime ai luoghi dove si esaminano i problemi e si stringono gli accordi politici. Ne conseguono analisi distorte non solo per i due motivi di cui sopra (le dinamiche di classe e quelle del processo produttivo), ma anche perché a causa delle due dinamiche di cui sopra i giornalisti si precludono l'accesso a materia prima sgrezzata: devono prendere quello che trovano, e ogni tanto cadono male. Non tutti hanno bisogno di visibilità: io, ad esempio, l'aborro, tant'è che voi vi lamentate perché non mi vedete abbastanza in tv. Altri magari ne hanno più bisogno, ma allora non necessariamente hanno notizie attendibili. Analisi ulteriormente distorte portano a una ulteriore ritrosia da parte di chi sa ad accostarsi a chi per un motivo o per l'altro falla. Restano solo fonti secondarie, e la conseguenza è un ulteriore scadimento.

Mario Sechi, che è intervenuto prima di me alla scuola GEM2019, mi dicono abbia analizzato in questi termini questo fenomeno, lamentandosene: "non si trovano più fonti parlamentari!". Mario è una persona onesta e (a me) simpatica, anche se sono ideologicamente molto distante da lui. Non credo di dovergli chiarire il perché le fonti si prosciughino! A me piacerebbe, considerandolo un interlocutore intellettualmente stimolante proprio perché non la pensa come me, poter condividere con lui qualcosa di quello che posso condividere (perché nel mio lavoro non tutto si può e non tutto si deve condividere). Ma purtroppo, nonostante che lo stimi, come stimo pochi altri (che quindi non cito perché in una lista breve le omissioni involontarie sarebbe offese cocenti), devo privarmi del piacere di interloquire con lui perché tanto una delle tre porche dinamiche qui descritte alla fine entrerebbe in gioco, rovinando un rapporto che finora è stato, e spero continui comunque ad essere, cordiale.

Chi le cose le fa (come Giorgetti, per fare un esempio...) ha poco tempo per raccontarle, e chi, come me, avrebbe più tempo per comunicare, alla fine pensa che se tanto il giornalista deve mettergli in bocca parole non sue, forse può anche farlo senza la sua collaborazione!

Concludendo

Ecco: quello che vi ho detto oggi, e che "taggo" con la parola "propaganda" (un tema di cui qui ci siamo occupati estesamente) sta alla politica come l'aritmetica dei saldi settoriali sta alla macro. Interessi costituiti, ignoranza e selezione avversa (particolarmente forte in questa stagione politica) rendono, purtroppo, i media assolutamente inattendibili. Basta saperlo. Sapere poi quali sono le dinamiche che li rendono tali aiuta ad esercitare un'attenzione critica mirata. Occorre un filtro molto potente per isolare dal gran noise la poca informazione che porta.

Noi lo vediamo anche come un'opportunità. Alla fine, il nostro nemico spara da solo i fumogeni che gli impediscono di capire che cosa stiamo realmente facendo! Se provassimo noi, che siamo persone ingenue e sincere, a fuorviare i giornalisti per essere lasciati in pace sugli affari che ci stanno a cuore, non potremmo riuscirci tanto bene quanto ci riescono da se stessi (tutto l'affaire minibot è un caso di scuola meraviglioso)!

Voi, invece, dovete stare un pochino più attenti, almeno, se volete che i rapporti restino cordiali. Chi interloquisce su Twitter in modalità "Radames discolpati" perché Giorgetti ha detto e perché Molinari ha fatto fino a oggi è stato bloccato sporadicamente. Dopo questa ampia ed esaustiva spiegazione sarà bloccato sistematicamente. Vado su Twitter per informarmi e divertirmi. Il melodramma non è divertente, e chi non capisce cose semplici, come quelle che ho spiegato oggi, difficilmente sarà portatore di informazioni rilevanti.

Pax et bonum.



lunedì 17 giugno 2019

Una fastidiosa, inutile, caduta di stile

Un giornalista che in fondo era una brava persona e che forse pensava di essere più intelligente di tanti altri (e sicuramente di esserlo dei suoi colleghi) mi iniziò, tempo addietro, a due milestones del giornalismo. La prima è la nota frase di Upton Sinclair: "È difficile far capire qualcosa a qualcuno se il suo stipendio dipende dal non capirla", la seconda è la non meno nota frase di David Broder: "Signor Presidente, eravamo qui prima che arrivaste e saremo qui dopo che ve ne sarete andati".

La prima resta senz'altro vera.

Come sapete, ieri sono stato ospite di una trasmissione televisiva molto seguita. Il mio intervento è qui. Come forse anche saprete, la trasmissione molto seguita è oggettivamente organica ad una autorevole testata (autorevoli giornalisti dell'autorevole testata mi accolgono ogni volta che la trasmissione molto seguita mi ospita).

Non condivido le valutazioni aggressive da molti espresse sui social nei riguardi della gentile conduttrice della trasmissione televisiva molto seguita, nonché direttrice editoriale dell'autorevole testata. Con me è sempre stata cortese e corretta. Il suo lavoro è fare domande, anzi: domande scomode. Se poi, a chi nel dibattito c'è stato fin dall'inizio, queste domande sembrano scontate, banali, ripetitive, inutili, ridondanti, e soprattutto tutt'altro che scomode, non fa nulla. Domandare è lecito, rispondere è cortesia. La notizia (o meglio: una delle notizie) ieri era qui, ma mi è capitato già decine di volte di andare in trasmissioni con conduttori in teoria molto scaltriti e di offrire loro volontariamente o involontariamente notizie delle quali essi non hanno ritenuto di voler approfittare, e magari, chi sa, avevano ragione loro. Il mondo dell'informazione è misterioso, tant'è che questo blog, che farebbe (e ha fatto) inorridire un qualsiasi studente triennale di Scienze della Comunicazione, ha promosso il dibattito politico di questo paese, ha contribuito al cambiamento, e mi ha portato da dove vi scrivo, cioè da un posto in cui in un Paese normale non avrei mai voluto essere (con grande strepito dei poverini che invece non avevano altra ambizione nei loro ristretti orizzonti).

È quindi in un clima di serena e distesa cordialità che prima di entrare in trasmissione esternavo, rivolgendomi più alla direttrice editoriale dell'autorevole testata, che alla cortese conduttrice della trasmissione molto seguita, il mio fastidio viscerale per una prassi a quanto pare insopprimibile nel giornalume italiano, questa. Grande condivisione, grande afflato etico e deontologico, contenuto ma fermo sdegno sotto l'usbergo del "noi non siamo come gli altri" (nessuno, a domanda, risponde di esserlo), e così, fra una pizzetta, un sorso d'acqua, due buffetti di cipria e una aggiustata al nodo della cravatta si entra in trasmissione.

Ero appunto venuto a via Teulada dicendo a qualcuno su Twitter: "Il vantaggio della televisione è che lì nessuno può virgolettarti".

Santa ingenuità!

Tornato a casa, qualcuno mi sottopone questo titolo dell'autorevole testata che non è come tutte le altre:


Così, a orecchio, una frase simile non mi ricordavo di averla detta, ma tanta è la mia riverenza per l'autorevole testata, e la mia simpatia per la sua cortese direttrice editoriale, che ho pensato di essermi sbagliato io, e per averne certezza sono andato a rivedermi il video. Con grande stupore, arrivato al minuto 19:40 del filmato, ascolto (col consueto piacere) delle parole lievemente diverse, queste:

A questo atteggiamento ricattatorio, mafioso, se dovessero evidenziarsi dinamiche di questo tipo - non dico che le dinamiche siano di questo tipo, ma se si dovesse vedere che le dinamiche sono di questo tipo, cioè che l'attacco al nostro paese è pretestuoso - allora io sono il primo a dire, e sono convinto che lo farebbe senza bisogno che nessuno glielo dica, che il ministro Tria opporrebbe un fermo no!

Hanno dimenticato una parolina, i titolisti. La parolina "se". Eppure l'avevo sottolineata due volte. Non è una parolina di poca pregnanza. Un conto è dire: "sei un mafioso", e un conto è dire "se ti comporti da mafioso con te non tratto".

Non chiedo a un giornalista, di testata autorevole o non autorevole, di sapere cosa sia una protasi e un'apodosi: oggi regna la Scienza della Comunicazione, e il greco (insieme ai greci) è stato bandito dall'Europa, ad majorem productivitatem. Ma la parolina "se" è importante, ha un certo ruolo anche nella cultura dell'Anglosassonia, che per i giornalisti, soprattutto quelli delle testate autorevoli, resta un riferimento.

Ricordate?

Se riesci a non perdere la testa quando tutti intorno a te
la perdono e ti mettono sotto accusa.

Se riesci ad avere fiducia in te stesso
quando tutti dubitano di te,
ma a tenere nel giusto conto il loro dubitare.

Se riesci ad aspettare senza stancarti di aspettare
o essendo calunniato a non rispondere con calunnie,
o essendo odiato a non abbandonarti all’odio,
pur non mostrandoti troppo buono,
né parlando troppo da saggio.

Se riesci a sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni.
Se riesci a pensare senza fare dei pensieri il tuo fine.
Se riesci ad incontrare il successo e la sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo.

Se riesci a sopportare di sentire le verità
che tu hai detto distorte da furfanti
che ne fanno trappole per sciocchi
o vedere le cose
per le quali hai dato la vita distrutte e umiliarti
a ricostruirle con i tuoi strumenti oramai logori.

Se riesci a fare un solo fagotto delle tue vittorie
e rischiarle in un solo colpo a testa e croce
e perdere e ricominciare da dove iniziasti senza
mai dire una sola parola su quello che hai perduto.

Se riesci a costringere il tuo cuore, i tuoi nervi,
i tuoi polsi a sorreggerti anche dopo molto tempo
che non te li senti più ed a resistere
quando ormai in te non ce più niente
tranne la tua volontà che ripete “resisti!”

Se riesci a parlare con la canaglia
senza perdere la tua onestà
o a passeggiare con i re
senza perdere il senso comune.

Se tanto nemici che amici non possono ferirti
se tutti gli uomini per te contano
ma nessuno troppo.

Se riesci a colmare l’inesorabile minuto
con un momento fatto di sessanta secondi
tua è la terra e tutto ciò che è in essa
e quel che più conta sarai un uomo, figlio mio.


Ecco.

Propongo una diversa chiusa:

Se riesci a non titolare con un virgolettato farlocco
non perderai i tuoi lettori,
e quel che più conta non sarai un giornalista, figlio mio.

Una mia libera interpretazione, per carità: ormai abbiamo visto che "così fan tutti", e quindi diciamo che il virgolettato farlocco ha sostituito l'iscrizione al peraltro inesistente (nel dibattito) albo dei giornalisti. Regnino pure barbarie e inciviltà, si creino incidenti sul nulla, si strepiti a beneficio di nessuno! Il mondo va dove deve andare, fottendosene di noi e delle nostre tatticucce. Dopo di che, c'è chi sa dove stiamo andando, e chi non lo sa, e fra chi lo sa c'è chi resiste e chi accompagna.

Vi lascio con un'altra considerazione. Credo che la nostra generazione di politici sarà la prima a poter restituire all'attuale generazione di giornalisti le parole di Broder: noi eravamo qui prima che voi arrivaste, e saremo qui dopo che il mercato vi avrà cancellato.

Sarebbe bello poter avere rapporti civili, ma se proprio non è possibile, ricordo quali sono i termini del negoziato: io non ho bisogno di visibilità, e voi avete bisogno di notizie. Un po' di correttezza porterebbe a uno scambio paretiano. Virgolettati anomali sono una colossale market failure.

Amen.

(...e ora vado, che mi aspettano...)

domenica 16 giugno 2019

Riforme strutturali

Prima che i professionisti dell'informazione, quelli col patentino del Ministero della Verità, se ne approprino con la loro prosopopea di Don Ferrante tutti epicicli e ipse dixit, devastandolo e lordandolo come cinghiali in un orto, vorrei darvi qui, nel luogo dell'informazione e della resistenza, qualche ragguaglio su un argomento del quale ho parlato sul Corriere della Sera, con la cordiale e reattiva assistenza di Alessandro Trocino: la riforma della governance di Banca d'Italia.

Intanto parto da un dato tecnico-parlamentare: il disegno di legge, come potete vedere, è a firma dei capigruppo, Romeo e Patuanelli. Questo significa che il tema, pur non essendo nel contratto di governo, è fortemente sentito e condiviso dalla maggioranza.

Ovviamente neanche il Corriere si è potuto sottrarre a questa prassi (non c'è niente da fare, non ci riescono, è più forte di loro ma se ne accorgono solo quando ci vanno di mezzo i loro amici), e quindi, con il solito virgolettato farlocco, mi ha attribuito nel titolo del cartaceo quello che invece è un obiettivo di maggioranza (e che quindi condivido, va da sé: ma un conto è condividere, un conto promuovere). Fatto sta che se non ve lo avessi detto nemmeno ve ne sareste accorti, perché il cartaceo non lo legge più nessuno, e uno dei motivi credo siano appunto i virgolettati farlocchi.

Tornando a cose più serie: si è arrivati a questa forte condivisione attraverso un percorso che sarà descritto nelle mie memorie se e quando avrò voglia di scriverle (e di morire per lasciarvele leggere). So che vorreste sentirvi dire il contrario, ma di questo, come di altri processi politici, sono stato mero testimone più che attore: quando i tempi sono maturi, le cose avvengono da sé, e chi lotta per resistere aiuta l'avversario. Del resto, il semplice fatto che il Corriere, o meglio il suo titolista, mi attribuisca sostanzialmente questo disegno, vale a dimostrare che le cose sono andate in un altro modo (duole doverlo dire, ora che i rapporti sono cordiali, ma amicus Plato sed magis amica veritas). Quelli più alfabetizzati di voi si potranno fare facilmente un'idea di come siano andate, e sarà un'idea abbastanza precisa (una roba tipo Proverbi 16:18).

Come avrete visto dalla sua scheda, nella quale in seguito potrete seguirne l'iter, il disegno non è ancora stato assegnato: è al drafting per la compilazione (i disegni di legge vengono rivisti, corretti e impaginati da uno speciale servizio i cui funzionari evidenziano eventuali problemi di coordinamento legislativo, di omogeneità stilistica e di contenuto, oltre agli inevitabili refusi, ecc.). Sarà assegnato, così mi è stato detto da chi ha il compito di farlo, alla mia Commissione, che è competente per materia. Nel frattempo è stato risolto un altro problema di tecnica parlamentare, quello dell'acquisizione del necessario parere della Bce, rispetto al quale il Regolamento del Senato non prevede una procedura esplicita.

Apro e chiudo una parentesi per evidenziare che la mancanza di una procedura normata dal Regolamento per il compimento di atti dovuti come l'acquisizione dei pareri della Bce è una plastica rappresentazione del disinteresse degli "europeisti" per l'Europa (isomorfo a quello dei "buonisti" per la bontà: essere europeisti non è volere l'Europa, ma volersi sentire europei, cioè migliori dei propri concittadini italiani, esattamente come essere buonisti non è volere la bontà, ma volersi sentire buoni, cioè migliori dei propri concittadini italiani). Va anche detto che normalmente gli atti legislativi per i quali questo parere è richiesto sono stati emanati per decreto legge (pensate ad esempio alle varie riforme del credito, come quella delle popolari e quella delle Bcc), e quindi l'autorità nazionale che doveva acquisire il parere era il Governo. I casi in cui il Parlamento si è trovato a dover acquisire un parere, per una legge di iniziativa parlamentare, sono pochi e forse nulli, il che spiega perché i Regolamenti tacciano sul punto. Aggiungo che i Governi di solito non hanno richiesto il parere preventivamente (cosa della quale la Bce si è più volte lamentata, e in fondo a ragione: che mi chiedi a fare il parere se intanto emani un atto che entra immediatamente in vigore?). Anche questa notazione tecnica la mettiamo in conto al rispetto che gli "europeisti" hanno per l'Europa: le uniche regole che interessa loro rispettare sono quelle di bilancio, purché sfilino soldi dalle vostre tasche e mettano in difficoltà l'attuale Governo. Su tutte le altre sono sempre stati più elastici (lo testimonia il "tesoretto" di procedure di infrazione che abbiamo ereditato).

Quanto ai contenuti del ddl, i meno disattenti si ricorderanno di avermeli sentiti anticipare in aula il 6 marzo scorso (non fatevi distrarre dalla mia eloquenza musicale: le parole che dico non le estraggo a caso da un'urna, solitamente hanno un perché, e oggi capite il perché di queste):



Avevo detto che indipendenza non significa autonomia, ed eccone la dimostrazione pratica: anche se a molti spiace (gli sono vicino nel loro dolore), e pur con una quantità di condizionamenti sui quali qui non mi soffermo (anche se dovreste esserne consapevoli), pare che i Parlamenti, ancora, abbiano potere legislativo, e in particolare si mormora che siano loro (ancora per un po') a delineare il quadro normativo all'interno del quale operano i vari organi dello Stato, incluse le Autorità, che sono indipendenti sì (e poi vediamo bene che cosa questo significhi nel caso specifico), ma non autonome. Il potere di dotarsi di leggi, di normare il proprio funzionamento, e di giudicare se stessi, non è indipendenza: è qualcos'altro (autonomia, autocrinia, autodichia, ecc.). Indipendenza è scegliere i propri obiettivi e il modo di realizzarli: e questo potere, alla nostra Banca centrale nazionale, nessuno vuole sottrarlo (anche perché non lo ha più da tempo).

Avevo anche chiarito che nei paesi che piacciono tanto a certi italiani (quelli meno sensibili all'interesse del loro Paese), le cose funzionano in un certo modo. Quale? Bè, lo sapete: a me piace basarmi sui fatti, e i fatti sono questi:

  1. Austria
  2. Belgio
  3. Cipro
  4. Estonia
  5. Finlandia
  6. Francia
  7. Germania
  8. Grecia
  9. Irlanda (con spiegazione)
  10. Italia
  11. Lettonia
  12. Lituania
  13. Lussemburgo
  14. Malta
  15. Olanda
  16. Portogallo
  17. Slovacchia
  18. Slovenia
  19. Spagna
(...questa è l'informazione di servizio, fattuale, che ci aspetteremmo da quelli che frignano perché il mercato li sta spazzando via...)

La lista rinvia agli Statuti delle Banche centrali nazionali dei 19 paesi dell'Eurosistema, cioè di quel sottoinsieme di paesi dell'Unione Europea (che in quanto tali appartenengono al Sistema Europeo delle Banche Centrali) la cui valuta è l'euro. Una lettura appassionante per la maggior parte di voi, suppongo. Non vi dico quanto lo sia stata per me! Per evitarvi lunghe notti insonni, vi faccio una rapida sintesi delle modalità di costituzione degli organi di governo delle Banche Centrali Nazionali (BCN), e in particolare del Direttorio (Governing Board, Comité de direction, Direktorium, ecc.), partendo da quanto succede a casa nostra.

In Italia il percorso è tracciato dall'art. 18 dello Statuto e si divide in due: un binario è seguito per la nomina del Governatore, e un altro per la nomina degli altri membri del Direttorio (forse lo saprete, se ne è parlato molto sui giornali). Il Governatore viene nominato "con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore" (art. 18(1)). L'oggetto misterioso qui è il Consiglio superiore. Il Consiglio superiore è normato dall'art. 15 dello Statuto, ed è composto dal Governatore e da 13 consiglieri, nominati dall'assemblea su proposta di un comitato nomine costituito all'interno dello Statuto.

Nel caso della nomina del Governatore, il Consiglio ha funzione meramente consultiva (non risulta che il suo parere sia vincolante, mentre lo è la deliberazione del Consiglio dei Ministri). Sono però più penetranti i suoi poteri per quanto attiene agli altri membri del Direttorio. L'art. 18(3) stabilisce che "Il Consiglio superiore, su proposta del Governatore, nomina il Direttore generale e i Vice Direttori generali". Vero è che ai sensi dell'art. 18(5) "Le nomine, i rinnovi dei mandati e le revoche del Direttore Generale e dei Vice Direttori generali debbono essere approvati con decreto del Presidente della Repubblica promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri di concerto col Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Consiglio dei ministri.", e quindi il Governo deve in qualche modo essere coinvolto, ma i pesi sono rovesciati: a differenza di quanto accade per il Governatore, nella nomina degli altri membri del Direttorio è il Consiglio dei Ministri, non il Consiglio superiore, ad avere funzione consultiva.

Quindi, tirando le fila del discorso: la maggioranza nell'organo di gestione è determinata da un Consiglio superiore costituito per cooptazione (con un passaggio formale attraverso un voto in assemblea). Parlamento: non pervenuto. Società civile: non pervenuta.

Si potrebbe argomentare che una tale blindatura sia necessaria per garantire l'indipendenza. Se così fosse, una simile governance per cooptazione sarebbe lo standard nei paesi dell'Eurosistema. Ma non è così. Un'analisi degli statuti non permette di ravvisare altri casi di nomina del Direttorio da parte di un organo che nomina se stesso (ovviamente sto semplificando, ma l'essenza è questa), con l'unica possibile eccezione della Grecia, che un po' si avvicina a questo schema (nomina da parte del Consiglio generale, a sua volta parzialmente eletto dall'Assemblea dei soci).

In effetti, nei restanti 17 casi (tolte quindi Italia e Grecia) i modelli sono i più svariati, sostanzialmente riconducibili però a poche categorie:

1) direttorio di prevalente nomina governativa, come in Austria (art. 33 dello Statuto), Cipro (art. 13 dello Statuto; n.d.r.: la versione disponibile online non mi pare sia aggiornata, devo incaricare i tecnici di verificare che sia tuttora valida), Francia (art. L.142-8), Irlanda (come esposto nella brochure che vi ho allegato), Lussemburgo (art. 12(2)), Malta (art. 8 e 9), Olanda (art. 12(2)), Portogallo (art. 27), Spagna (art. 24).

Nota bene: formalmente c'è quasi sempre un passaggio presidenziale (fanno eccezione, ad esempio, i direttori della Banca Centrale di Malta, nominati direttamente dal primo ministro, o quelli della Banca Centrale del Portogallo, nominati direttamente dal Consiglio dei ministri). Quando parlo di "nomina governativa" intendo dire che in ogni caso è il Governo (o addirittura un singolo ministro) a designare e proporre i nomi. Ad esempio in Portogallo e Spagna la proposta è del Ministro delle finanze (in Spagna il MEF propone solo i direttori e non il governatore). Quanto formale o sostanziale sia il potere del Capo dello Stato nei singoli paesi non saprei dirvelo e dipende naturalmente dagli assetti costituzionali formali e materiali di ognuno di essi. Fatto sta che in metà degli altri 18 paesi dell'Eurosistema il Governo è direttamente (e in alcuni casi esclusivamente) coinvolto nella scelta del Direttorio, senza che nessuno ravvisi in questo una lesione del principio di indipendenza. Anche questa affermazione va qualificata: ci sono casi, come quello olandese, in cui la shortlist da sottoporre alla nomina (regia, in quel caso) viene effettuata da un Consiglio di sorveglianza, e quindi non dal Governo. Solo che il Consiglio di sorveglianza prevede un membro di nomina governativa, e gli altri eletti dall'assemblea degli azionisti, e... lo Stato è azionista unico!

2) direttorio di prevalente nomina parlamentare (anche qui diretta o indiretta), come in Estonia (art. 10), Finlandia (art. 13), Lettonia (art. 22), Lituania (art. 10), Slovacchia (art. 7) e Slovenia (art. 35-37). Anche qui ci sono diverse sfumature: si va dalla Slovenia dove il Parlamento elegge su proposta del Presidente della Repubblica, alla Finlandia, dove i membri del direttorio diversi dal Governatore (nominato dal Capo dello Stato) sono eletti da una Commissione di supervisione a sua volta eletta dal Parlamento.

3) sistemi "misti", come quello tedesco (tre membri di nomina governativa e tre di nomina parlamentare, art. 7), o quello belga, in cui i nomi sono proposti da un "Consiglio di reggenza" (art. 23), che però non è totalmente autoreferenziale, poiché prevede cinque membri di nomina governativa, due proposti dai sindacati e tre dalle associazioni datoriali e della società civile.

Ora, vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che in tutti questi casi, evidentemente, la Bce ha ritenuto che il coinvolgimento del Parlamento, o addirittura del Governo, nella nomina dei vertici, non violasse il principio di indipendenza stabilito dall'art. 7 del Capo III del Protocollo 4 "Sullo statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea", il quale viene così definito:

"Conformemente all'articolo 130 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nell'esercizio dei poteri e nell'assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dal presente statuto, né la BCE, né una banca centrale nazionale, né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della BCE o delle banche centrali nazionali nell'assolvimento dei loro compiti."

Qui le sottolineature sono due: quella sui compiti, che ai senso dell'art. 3 dello stesso protocollo sono:

— definire e attuare la politica monetaria dell'Unione;
— svolgere le operazioni sui cambi in linea con le disposizioni dell'articolo 219 di detto trattato;
— detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri;
— promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento.

e quella sul sollecitare o accettare istruzioni. Evidentemente si dà per scontato che in questo, come in consimili casi anche italiani di scelta governativa (AGCOM) o parlamentare (privacy) di membri di una autorità indipendente, la nomina da parte di un organo costituzionale dello Stato non implichi subalternità del nominato alle indicazioni del nominante.

Quindi il nostro provvedimento non è minimamente lesivo dei principi dei Trattati, e ove mai lo dovesse sembrare, sarà la Bce, il cui parere aspettiamo con rispetto, a spiegarci perché un modello di governance che va bene in Germania, in Italia dovrebbe essere lesivo dell'indipendenza. Confido nel fatto che in questa come in altre occasioni la Bce non ravviserà criticità nel lavoro di questa maggioranza.

Comunque, chi deve pronunciarsi è Francoforte: il resto sono chiacchiere da bar.

Qual è il vero punto dolente, alla luce dei pessimi risultati che non possiamo né nascondere sotto il tappeto (impossibile), né attribuire sic et simpliciter alla proverbiale "grande moria delle vacche" di fausta memoria? Il punto è che nessuno vuole intromettersi nel modo in cui la nostra BCN definisce e raggiunge il suo obiettivo di politica monetaria (che in larga misura è è definito dalla BCE: la famosa inflazione al 2%), o svolge più in generale gli altri compiti che le sono attribuiti, né tanto meno nel modo in cui essa svolge le ormai residuali funzioni di vigilanza che le competono. Dobbiamo però chiederci se definire le linee generali di politica finanziaria e creditizia di un paese sia compito del Parlamento o delle autorità indipendenti, cioè se queste autorità abbiano anche funzioni di indirizzo (decidano dove si vuole andare), oltre che di controllo e garanzia (verifichino che non vengano commessi abusi). Il protocollo sul SEBC, in effetti, non prevede fra i compiti la definizione degli indirizzi generali di politica creditizia del paese, e questo spiega perché in un sistema che vuole integrarsi, ma nel quale coesistono modelli molto diversi di sistema creditizio, coesistono anche modelli molto diversi di governance delle BCN.

In altre parole: l'indipendenza è reciproca, come logica vuole e come dovrebbe essere, o a senso unico, come pare sia stata in passato?

Faccio un esempio che conosco bene: la scelta di penalizzare (se non addirittura eradicare) il credito territoriale. Studi recenti come quello di Masera (Community banks e banche del territorio), ma anche un semplice sguardo europeo (non europeista) alla realtà che ci circonda e alle prassi delle economie vincenti, ci dimostrano che questa scelta è antistorica. Ma anche se fosse la cosa più opportuna da fare (e non lo è), chi dovrebbe decidere se andare in questa direzione o meno? Il Parlamento, dove siedono i rappresentanti eletti dei territori, il Governo (che ha la fiducia del Parlamento), o una entità "indipendente" cui simili compiti non sono attribuiti dai Trattati? Voglio essere molto esplicito: a me non piace né un mondo in cui la politica condiziona la vigilanza, né un mondo in cui la vigilanza condiziona la politica. Entrambi questi mondi sono instabili: il primo perché porta ad abusi nella concessione del credito, con conseguenti problemi di sofferenze bancarie e di fallimenti; il secondo perché rischia di indirizzare il sistema creditizio in direzioni divergenti da quelle del sistema Paese e della sua economia reale, che rischiano di essere funzionali solo agli interessi di un organismo burocratico non rappresentativo della comunità nazionale. Dare la colpa di una decina di fallimenti bancari di un certo spessore (un unicum nella storia bancaria di questo paese) agli imprenditori che "sono poco produttivi perché sono troppo piccoli", e consimili amenità, scollate dall'evidenza empirica e da sostanziosi filoni di ricerca, è una scappatoia sempre meno credibile, e comunque ottiene, come principale risultato, quello di sollevare l'indignazione degli imprenditori e dei risparmiatori (cui i partiti che li rappresentano devono dare risposte).

Per quanto questo possa sembrare controintuitivo, la strada scelta finora per ovviare a questi problemi di commistione, quella della totale autoreferenzialità, in tutta evidenza non li ha risolti. Quindi dobbiamo adeguare il nostro assetto istituzionale. Se la vigilanza necessariamente condiziona la politica, come è in qualche modo inevitabile che sia, allora occorre che al suo interno abbiano voce, come in tutti i paesi civili, anche gli orientamenti generali di indirizzo politico del paese, affinché non si crei uno iato fra istituzioni e cittadini che alla fine si risolve in un unico modo: nella perdita di credibilità delle istituzioni. Succede in Belgio, succede in Finlandia, succede in Germania (in cui, data la rilevanza del credito territoriale, non a caso metà dei componenti del direttorio è nominato dal Bundesrat - la "Camera delle Regioni", per semplificare - di concerto col Governo).

Perché non dovrebbe succedere anche da noi?

L'unico argomento che ha chi vuole contrastare questa legittima esigenza è il disprezzo verso gli italiani. E, come potete sentire sopra, io la sfida l'ho lanciata: venite, cari, venite in Commissione o in Aula a dirci che gli Italiani (che vi hanno eletto) non si meritano istituzioni con governance di livello europeo perché sono dei pezzenti, dei corrotti, degli Untermenschen! Venite a dirci che questo popolo corrotto e decadente non merita di avere voce in capitolo in una materia, quella creditizia, nella quale (peraltro) le autorità tecniche e indipendenti non hanno un track record brillantissimo! Venite, carissimi, a insultare in pubblico, con resoconto stenografico, i vostri elettori! Tutto vento nelle nostre vele, amici cari. Passare da atteggiamenti tatticistici a una sincera e genuina condivisione dell'esigenza primaria di difendere l'interesse nazionale, facendo le vere riforme strutturali, quelle delle istituzioni che sono determinanti per la competitività del nostro Paese, conviene più a voi che a noi. L'epoca in cui la sfida della competitività si giocava sui salari, cioè sulla pelle della gente, l'avete aperta voi col jobs act, in ossequio ai desiderata della Bce, e l'hanno chiusa l'8 marzo 2018 gli elettori. Ora dobbiamo restituire ai lavoratori una vita dignitosa, e occuparci di altri aspetti della competitività: per esempio, l'accesso al credito, i tempi della giustizia, la semplificazione amministrativa. Tutte cose esplicitamente considerate in quelle classifiche come il Doing business, di cui tanto vi riempite la bocca per vilipendere il paese, ma che verosimilmente non avete mai letto con attenzione.

E ora possiamo liberare i cinghiali: lasciamo che entrino nell'orto, mangiando i fiori e estirpando gli arbusti. Già immagino i soliti noti, i soliti laureati in qualsiasi cosa non sia l'economia, stracciarsi le vesti sulla lesione dell'indipendenza (inesistente, come vi ho dimostrato), evocare l'Ungheriaaaaaaaa con accenti patetici (senza naturalmente farsi mancare il rituale riferimento a Weimar e all'Argentina), parlare di deriva autoritaria (che equivale a dire che il Governo controlla la Corte Costituzionale perché il Parlamento ne elegge un terzo dei componenti!), e via delirando.

A tutti questi amici, e a tanti altri che vorrebbero venirmi a trovare a Palazzo Carpegna, mi limito a dire una sola cosa: non chiedere mai per chi suona l'Europa. L'Europa suona sempre per te.

Traduco per i tanti diversamenti perspicaci che da quando sono diventato famoso razzolano da queste parti.

L'europeismo liturgico di chi ci ha preceduto era anche e soprattutto un europeismo tattico, quello degli europeisti con le tasche altrui, quello di chi contava di sopravvivere ai necessari costi di transazione e di adattamento scaricandoli sugli altri. Questo opportunismo ha contribuito alla divisione del Paese e quindi al suo insuccesso a livello internazionale. Ora giriamo pagina e leggiamo la prossima, su cui troviamo scritto prima caritas incipit ab ego. Tradotto, significa che per difendere l'Europa (attenzione alle parole) bisogna difendere l'Italia, e per difendere l'Italia bisogna, in primo luogo e in via pedagogica, che ogni italiano abbia la sua quota parte di quello che ha chiesto per gli altri italiani. Avete chiesto il mercato? Eccolo! Avete chiesto istituzioni adeguate ai migliori standard europei? Eccole! Ne volete ancora? Ce n'è! Ne volete di meno? Parliamone, tutti insieme, da italiani, e decidiamo insieme la nostra strada. Non volete? Mi dispiace, allora: per ora la maggioranza è questa. Voi sapete che il dialogo vi è stato offerto.

Sarà senz'altro un dibattito parlamentare molto interessante,  e sono sicuro che tutti impareremo molto. Intanto, leggetevi (voi) gli altri statuti, così saprete (voi) di che cosa stiamo parlando, e riderete, come me, nel leggere i resoconti dei soliti noti. Non siate cattivi con loro: ci regalano un sorriso, e di questi tempi, oggettivamente, è "tanta roba"!


(...se ci sono refusi o domande correggo e rispondo dopo in 1/2 h - alle 14:30 su Rai 3 con Lucia Annunziata...)

domenica 2 giugno 2019

Ancora sulle regole

Il Financial Times torna su un tema del quale qui ci siamo occupati per anni, e che ora dovremo approfondire, quello delle regole fiscali. Le posizioni del mainstream, come previsto, sono in rapida evoluzione. La logica della deflazione è quella della concentrazione del reddito e della ricchezza: una logica politicamente insostenibile nel lungo andare, almeno in un regime democratico. Nonostante i media ci raccontino il gran successo elettorale degli unionisti, in giro si nota una certa preoccupazione. Darci dei fascisti può funzionare nel brevissimo periodo, ma nel lungo andare bisognerà pur trovare una strategia meno perdente dell'insultare chi ti ha votato contro! Per giustificare il fatto che adesso (cioè dopo aver impoverito i poveri, ma prima di impoverire tutti i ricchi!) bisogna fare investimenti c'è chi drammatizza la "crisi climatica" (il verde, per gli investimenti, si porta sempre bene...), e c'è chi invece se la prende con le regole, scoprendo l'acqua calda, ovvero che il concetto di Pil potenziale è una colossale scemenza.

Il migliore articolo che ho trovato su questo argomento è quello di Heimberger e Kapeller (2017). Se avremo tempo, lo leggeremo insieme, ma il messaggio è molto semplice, ed è quello che vi avevo illustrato nell'articolo sulle regole (scritto prima di leggere questo contributo "tecnico"): il Pil potenziale, per come viene calcolato, è semplicemente una sorta di media dei passati risultati economici. Se, per motivi dipendenti dal ciclo economico globale, un paese in un determinato anno ha un risultato economico fortemente negativo, perché il resto del mondo non ha domandato i suoi beni, le regole di Bruxelles attribuiranno a questo paese, da lì in avanti, una ridotta capacità di offrire, cioè di produrre, beni, e quindi qualsiasi manovra sulla spesa pubblica che implichi una maggiore domanda di beni sarà vista come inflazionistica, perché la domanda determinata dalla maggiore spesa pubblica (o dalla ridotta raccolta fiscale) "urterà" contro una capacità produttiva ridotta e quindi genererà inflazione (per la legge della domanda e dell'offerta).

Naturalmente, ragionando in questo modo un paese che viene "tirato giù" da una crisi non potrà mai permettersi (secondo Bruxelles) lo sforzo fiscale necessario a "tornare su", perché altrimenti rischierebbe l'inflazione, quella orrenda tassa sui più poveri, l'unica che ai ricchi sta tanto a cuore non mettere, forse perché quando ce n'era un po' di più i poveri non stavano così male, come qui vi dimostrai numeri alla mano (forse dovremmo capire che i ricchi fanno gli interessi di se stessi, e quindi seguire i loro consigli e le analisi delle loro televisioni solo se siamo anche noi ricchi come loro... nel qual caso avremmo di meglio da fare che guardare la TV!). In questo senso le regole di Bruxelles obbligano a mantenere un certo livello di disoccupazione, un congruo esercito industriale di riserva, quello compatibile col cosiddetto NAIRU.

Ma il dato paradossale è che, senza rendersene conto, gli offertisti, quelli secondo cui non è possibile che la produttività sia influenzata dal lato della domanda, e quindi in particolare non è possibile che abbia risentito del rallentamento delle esportazioni (come noi abbiamo argomentato qui e pubblicato qui e qui), costruiscono una misura di offerta (il prodotto potenziale) totalmente e irrazionalmente dipendente dall'andamento della domanda! Insomma: nella loro prassi si conformano, in modo inconsapevole e distorto, alla logica che forse dovrebbero seriamente e consapevolmente prendere in considerazione nelle loro teorie, quella post-keynesiana.

Se, per un momento, e senza particolare pretesa di scientificità, ci adeguassimo al loro modo di ragionare, considerando domanda e offerta come due mondi distinti e separati, dovremmo dirci che il fatto che per un anno la domanda internazionale crolli non dovrebbe influenzare più di tanto il potenziale produttivo di un paese, che quindi dovrebbe restare sulla sua traiettoria storica (a differenza dal risultato effettivo, condizionato appunto dal crollo della domanda). Insomma, in questo grafico:


la misura del Pil potenziale più attendibile (nella logica offertista) dovrebbe essere la linea tratteggiata grigia, che estrapola la tendenza storica fra il 1980 e il 2007. Il Pil potenziale del Fmi (come quello dell'Ocse e quello dell'Ue), invece, si adegua passivamente al risultato storico, cioè alle dinamiche della domanda. Il risultato è che se un governo chiede, in circostanze visibilmente eccezionali come quelle del 2009, di fare uno sforzo di bilancio (più spese, minori entrate) per tornare sul suo sentiero di crescita di lungo periodo (la linea grigia), Bruxelles risponde di no "perché altrimenti fai inflazione", indipendentemente dal fatto che lo sforzo sia dentro o fuori la regola del 3%. Secondo Bruxelles, per essere chiari, superando l'1,6% di deficit nel 2019 avremmo portato il Pil a eccedere il potenziale, facendo accelerare l'inflazione!

Ma (per aggiungere al danno la beffa), anche restando nella loro logica da minus habens, ci sarebbe da chiedersi: dove sarebbe mai il danno se accelerassimo l'inflazione italiana? Dallo scoppio della crisi dei "debiti sovrani" (cioè pubblici) l'inflazione in Italia è stata in media dell'1.3%. Ci siamo persi uno 0.7% di inflazione all'anno per 10 anni, cioè 7 punti di inflazione cumulata, che avrebbero contribuito ad alleviare il peso del nostro debito.

Ma questo non interessa apparentemente a nessuno.

Il dato vero è un altro: il riferimento al Pil potenziale, voluto (paradossalmente) e elaborato da economisti e funzionari italiani della Commissione per aggiungere "flessibilità" alle regole, si è rivelato un inutile cappio al collo, perché ci ha condannato ad avanzi primari eccessivi, che hanno ucciso la nostra crescita, quando l'esperienza dimostra che la regola del 3%, quella sancita dai Trattati, nonostante fosse irrazionale e controproducente, l'Italia se la poteva permettere e come!

I numeri sono qui:


Nei 20 anni dall'inizio di questa fantastica avventura la Francia ha violato la regola 13 volte, la Germania 7, e l'Italia 9 (di cui una per pochi decimali: faremmo meglio a dire 8). Diciamo che siamo stati molto più tedeschi che francesi. Il deficit francese in media è stato del 3.6% del Pil, quello tedesco dell'1.2% (bravi, ma naturalmente ci sono controindicazioni), e quello italiano del 3.0%. Di conseguenza, gli scostamenti dalla regola del 3% sono stati in media praticamente nulli, mentre nel caso della Francia gli scostamenti cumulati equivalgono a 11.3 punti di Pil di deficit (e per la Germania a 35.5 punti di Pil di surplus).

Invece di impiccarci ai bizantinismi del deficit strutturale, ci sarebbe convenuto, e ci converrebbe, tenerci la regola iscritta nei Trattati, che alla prova dei fatti ci avrebbe offerto molto più spazio fiscale della cosiddetta "flessibilità", calcolata sul nulla, con algoritmi che non sono più capiti neanche da chi li ha congegnati, su basi statistiche fragili e continuamente soggette a revisione, con una totale opacità rispetto al controllo democratico dei cittadini, e con margini di discrezionalità più ampi e più arbitrari di quelli che il feticismo delle regole, in teoria, dovrebbe permettere.

Questo bel capolavoro è dovuto per lo più a seguaci di quello che chiamò queste regole "stupide".

Certo, la regola del 3% nominale è stupida. Ma impreziosirla di tanti arzigogoli non ha aiutato molto il Paese (posto che lo si volesse fare), anzi! Siamo qui ridotti a non considerare come eccezionali circostanze in cui il nostro Pil viaggia quasi 400 miliardi di euro al disotto della sua traiettoria inerziale, perché per il metodo di calcolo "intelligente" col quale abbiamo corretto le regole "stupide" va bene così! Se questo è essere intelligenti, ben vengano gli stupidi, anche perché fra l'altro, com'è ben noto, votano male, cioè per il partito di chi vi scrive (cosa della quale io li ringrazio)!

Le posizioni del mainstream, ripeto, sono in rapida evoluzione, e una parte del merito è di questa comunità.