sabato 5 novembre 2022

La situazione è grave, ma non è seria

 (...rieccoci qui dopo una lunga parentesi. Il convegno di quest'anno è stato, a detta dei 299 partecipanti - 300 porta un po' male, come le Termopili e Sapri insegnano - il più appassionante di sempre. A beneficio di chi non c'era stiamo pubblicando i video sul nostro canale YouTube. Ci siamo emozionati alla rilettura di Flaiano da parte di Fabrizio Masucci, abbiamo riso alla rievocazione di due anni di delirio da parte di sua eminenza Osho, abbiamo apprezzato la fredda lucidità di Davide Tarizzo, abbiamo accolto con rispetto e attenzione anche compagni che sbagliano come l'amico Enzo Pennetta. Ma non è di questo che volevo parlarvi oggi. Oggi, come spesso abbiamo fatto qui, volevo mettere le cose in prospettiva...)


Le recenti dichiarazioni del Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco


(secondo cui "le prospettive dell'economia non preoccupano molto") manifestano una beatitudine su cui ci sarebbe da interrogarsi. Nella migliore delle ipotesi si potrebbe pensare che l'apparato "tecnico" voglia giocare un giochino piuttosto scontato: quello di lasciar credere che "il migliore" ci avesse posto su un sentiero virtuoso, in modo da poter addossare a chi gli è succeduto (noi) la responsabilità dei tempi grami che inevitabilmente ci attendono. Ma può anche darsi che un simile intento malizioso non ci sia, e questo è forse lo scenario peggiore. Quando l'anno prossimo saremo in recessione, voi avrete la bontà di ricordarvi che qualcuno ve l'aveva annunciata all'inizio di quest'anno, sulla base di una semplice analisi economica da libro di testo. Insomma, è la solita storia: nelle élite italiane qualcuno che ha letto il Dornbusch-Fischer c'è, ma è rara avis, e tendenzialmente non viene ascoltato, per il semplice motivo che la logica economica cozza contro certi "sogni" ideologici. Dal negazionismo verso la semplice aritmetica di ECON102 consegue un degrado generalizzato dei cosiddetti tecnici, che è forse la spiegazione più razionale di certe affermazioni avventate.

Cerchiamo allora, per l'ennesima volta, di mettere in prospettiva gli ultimi dati macroeconomici, per riflettere su quanto ci aspetta e per ribadire qualche punto di metodo.

Il Pil

...e partiamo da lui, dal Pil, il nemico ideologico degli sciroccati decrescisti. L'ultimo dato disponibile è la "stima flash" uscita il 31 ottobre scorso. I commenti evidenziano la sorpresa positiva (siamo cresciuti invece di calare), e il rapporto dell'ISTAT ci consegna una ulteriore buona notizia:


L'indice del Pil è al livello più alto dal 2010, e il suo valore in miliardi al suo valore più alto dal 2018:

(437.7 miliardi di euro).

Quindi "dall'inverno semo fora"?

No, naturalmente.

Per rendersene conto basta andare sul sito dell'Istat e ricostruire la serie partendo dal primo dato attualmente disponibile, che attualmente, per voi profani, è quello del primo trimestre 1996:

Questa semplice operazione ci permette di accertare che:

  1. il dato stimato per il terzo trimestre (estate) del 2022, cioè 437.7 miliardi, ci riporta indietro al primo trimestre del 2006 (437.9 miliardi), ovvero: siamo dove eravamo 67 trimestri fa (cioè un po' più di 16 anni fa);
  2. l'ultimo dato è inferiore del 3.5% al massimo storico raggiunto il primo trimestre del 2008 a 453.4 miliardi.

E già così si capisce che la situazione è estremamente grave. Ma quello che dovrebbe colpire nell'ultimo grafico è che vi si osserva una variabile che oscilla in un range fra i 350 e i 450 miliardi, e quindi manifesta un ciclo, senza mostrare alcuna particolare tendenza. Insomma: una variabile senza crescita di lungo periodo (in effetti, il tasso di crescita medio trimestre su trimestre è dello 0.15%). E la famosa crescita economica (che è crescita del Pil) dov'è?

Per vederla bisogna allargare lo zoom, e questo purtroppo voi non potete farlo, ma chi vi scrive sì. Usando l'edizione 1998 della contabilità nazionale trimestrale è possibile mettere questi dati in prospettiva, ricostruendo tutta la serie fino al 1970 (operazione che abbiamo fatto altre volte):

La parte evidenziata nel riquadro tratteggiato è quella che vedete nel grafico precedente. Come si intuisce, è l'ultima porzione di una storia di crescita che andava avanti da almeno 38 anni, e che nel 2008 si interrompe.

Qui ci sta un rapido approfondimento tecnico: potrebbe infatti sembrare che fino al 2008 le cose siano andate sostanzialmente bene, perché quella che si osserva è una crescita lineare con lievi oscillazioni cicliche. In effetti, le cose non stanno così, per il solito problema: 1 è l'1% di 100, ma il 10% di 10. Che cosa voglio dire? Che un aumento di 2.1 miliardi come quello del terzo trimestre del 1971 era un aumento dell'1% (perché il Pil trimestrale era poco sopra 200), mentre lo stesso aumento oggi è un aumento di circa lo 0.5% (perché il Pil trimestrale è di poco sopra 400). In altre parole, la storia che osservate non è una storia di crescita costante, ma di crescita a ritmi decrescenti, che dal 2008 diventa una storia di stagnazione.

Se aguzzate gli occhi, vedete anche bene il disastro austerità, che spezzò le gambe alla ripresa del 2011, e dal quale siamo usciti solo per cadere nel disastro COVID:


Ve lo evidenzio con un rettangolo arancione: sono cose che sapete, ma qualcuno è qui per la prima volta e ripassarle male non fa. Giusto per ricordare a chi vorrebbe percorrere la stessa strada che i salvataggi di Monti non ci hanno salvato...

Inflazione

Di questa abbiamo parlato da poco, ma ci sono aggiornamenti. L'Istat ha pubblicato i dati provvisori di ottobre: abbiamo quattro osservazioni da aggiungere, e il nostro grafico ora si presenta così:

Il giochino "mai così alta dal..." ci fa arretrare lungo l'asse dei tempi dal gennaio del 1986 al marzo del 1984 (un balzo indietro di due anni). Ma la cosa interessante non è questa, non è il giochino che interessa ai giornalisti, bensì un'altra: fra ottobre e settembre l'inflazione è aumentata di tre punti percentuali (da 8.9 in settembre a 11.9 in ottobre): un'accelerazione fortissima, la più rapida degli ultimi 66 anni. La seconda accelerazione più rapida si verificò nel settembre 1974, e portò l'inflazione al 23% dal 20.2% di agosto, con un aumento di 2.8 punti, e la terza accelerazione più rapida nel marzo del 1976, e portò l'inflazione al 13.9% dall'11.8% di febbraio, con un aumento di 2.1 punti.

Se confermata, questa accelerazione eccezionale non lascia presagire nulla di buono. La soglia del 15% è lì, a un passo, e poi, come ben sapete, e come del resto si vede anche nel grafico, i prezzi crescono più rapidamente di quanto scendano. C'è tanta letteratura su questa asimmetria, e anche noi abbiamo contribuito, portando in classe A un articolo nato su questo blog. Questo significa che le due cifre ce le terremo per un po' (se va bene, per almeno un annetto: ma deve andare bene), e al target della Bce, il 2%, ci torneremo forse in quattro o cinque anni (nella più rosea delle prospettive).

Il che mi porta a insistere su quello che da un po' vedo come il vero problema (confortato dal fatto che non mi pare che nessuno ne parli, qui da noi: il che significa che il problema è lì...).

Il tasso di interesse

La vulgata sui benefici dell'euro, una volta sfrondata dalle scemenze sui settant'anni di pace, si riconduce a due argomenti gemelli: l'euro ci avrebbe protetto dall'inflazione, e ci avrebbe assicurato bassi tassi di interesse.

Sul perché il primo argomento fosse fasullo ci siamo soffermati diverse volte, e ora che tutti possono vedere che avevamo ragione, possiamo tornarci sopra molto rapidamente:

  1. l'euro non poteva proteggerci (e non ci sta proteggendo) da una delle principali cause di inflazione, l'aumento dei prezzi delle materie prime, semplicemente perché questi aumenti sono spesso a tre cifre (dal 100% in su) ed è semplicemente impossibile pensare di compensarli con una pari rivalutazione del cambio (ne avevamo parlato appunto nel già citato post e altrove); il ragionamento è semplice: se il prezzo del petrolio in dollari raddoppia, per acquistare un barile con la stessa quantità di euro occorre che il valore dell'euro raddoppi: ma questo significherebbe far pagare il doppio i beni europei a tutti gli acquirenti esteri, uccidendo l'economia dell'Eurozona. Quindi, l'euro non può proteggere da shock da offerta come quello che stiamo subendo.
  2. Non solo: per essere sostenibile per tutti i Paesi dell'Eurozona, l'euro era destinato a svalutarsi, cioè ad andare nella direzione contraria di quella necessaria per contenere l'inflazione. Ne abbiamo parlato tante volte, ad esempio qui.

Ma era intrinsecamente fasullo anche il secondo argomento, quello sui bassi tassi di interesse, e per un motivo ben più insidioso: non perché i tassi non si sarebbero abbassati, ma perché in questo modo sarebbero usciti dal loro valore di equilibrio, diventando, in particolare, troppo bassi per i Paesi più fragili, e inducendo così in questi Paesi un eccessivo indebitamento pubblico e privato (ne abbiamo parlato ad esempio qui e in sedi scientifiche qui).

Comunque, queste cose le sapete. La sintesi è che ci troviamo con tassi di interesse che erano sostanzialmente fuori dall'equilibrio (depressi) già prima della crisi, e con un'inflazione estremamente elevata e persistente.

Questo significa che il tasso di interesse reale, cioè la differenza fra il tasso pattuito e l'inflazione, è in terreno negativo. Ve la dico semplice: chi presta soldi al 5% con l'inflazione al 10% ci rimette, perché è sì vero che gli verrà restituito il 5% in più di quanto ha prestato, ma nonostante quel 5% in più coi soldi che gli restituiranno comprerà il 5% di beni in meno. Per farvela capire meglio, un semplice esempio:

A inizio anno il filetto costa 30 euro al chilo, quindi con 30 euro si compra un chilo di filetto. Se Tizio si fa prestare da Caio 30 euro al 5%, compra subito un chilo di filetto, e a fine anno restituisce 31.50 euro. Peccato che se l'inflazione è al 10%, a fine anno il filetto è salito a 33 euro al chilo, e quando Caio va a comprarsi un filetto con 31.50 glie ne danno 950 grammi invece di un chilo (il 5% in meno).

Per questo motivo è indispensabile, nel ragionare sulla convenienza delle scelte finanziarie, considerare il tasso di interesse reale, cioè quello depurato dall'inflazione. Se lo facciamo, ci rendiamo immediatamente conto del fatto che la situazione odierna è assolutamente fuori scala:

I tassi di interesse reali oggi sono a un minimo storico, intorno al -10%. Dal 1975 in qua non si è mai vista una cosa simile, e quando si è visto qualcosa che gli somigliava (con i tassi reali intorno al -5% alla fine degli anni '70) è scattata in tempi relativamente brevi la correzione, sotto forma di brusco rialzo dei tassi nominali. Si vede abbastanza bene qui:

(guardate ad esempio il tasso a breve, in giallo, che passa da poco sopra il 10% alla fine degli anni '70 a oltre il 20% verso il 1982).

Con tutte le cautele del caso, fra cui l'osservazione che queste sono variabili riferite alla sola Italia (mentre la nostra politica monetaria è centralizzata a livello europeo), è evidente che gli incrementi di tassi praticati finora dalla Bce rischiano di essere solo l'antipasto. Nel 2022 il tasso sui depositi presso la Bce (quello che la Bce paga alle banche che depositano liquidità presso di lei) è aumentato di due punti da -0.5 a 1.5, e un incremento parallelo si è avuto per il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginale (quello che la Bce richiede quando presta soldi alle banche). Non è improbabile che nel 2023 si vada per la stessa strada, animati dal pio desiderio di "ancorare le aspettative", ottenendo come unico risultato quello di zavorrare l'economia. Non ci sarebbe nulla di strano: nel 2007 il tasso sulle operazioni di rifinanziamento (che oggi è al 2%) era al 5%, e quello sui depositi (che oggi è all'1.5%) era al 3%. Se anche l'anno prossimo la Bce portasse i suoi tassi al 5% o al 6%, non si tratterebbe quindi di valori "fuori scala" in termini storici. Ma:

  1. nel 2007 l'inflazione viaggiava attorno all'1.8% e oggi intorno al 12%, quindi oggi una correzione al rialzo di altri quattro o cinque punti sarebbe verosimilmente insufficiente, mentre d'altra parte:
  2. oggi abbiamo un'economia depressa, che avrebbe un disperato bisogno di investimenti già in condizioni normali, e ha un disperatissimo bisogno di investimenti perché costretta a finanziare la transizione ecologica. Un innalzamento dei tassi di quattro o cinque punti sarebbe esiziale.

Conclusioni

Sarà che sono un dilettante, ma a differenza dei professionisti citati in apertura sono molto preoccupato. Come ho cercato di farvi capire fin dal primo post di questo blog, in economia non esiste nulla di intrinsecamente buono o cattivo: dipende dalle circostanze e dai punti di vista.

Ad esempio: i bassi tassi di interesse di cui abbiamo beneficiato fino all'anno scorso erano sì fuori dall'equilibrio, ma questo in fasi diverse ha avuto (o avrebbe avuto) esiti diversi. Se all'inizio del secolo i tassi "troppo" bassi sono stati nefasti, perché hanno indotto il settore privato a indebitarsi senza che ve ne fosse una reale necessità (alimentando bolle immobiliari), durante il COVID e fino all'anno scorso erano un'opportunità, perché avrebbero consentito il settore pubblico di indebitarsi in una fase in cui ve n'era un'estrema necessità. Il 19 maggio 2020 quelli bravi ci dicevano sul loro giornale quello che noi da qualche mese stavamo ripetendo inascoltati in aula:

Il problema di quelli bravi è che ognuno pensa di essere migliore degli altri, e quindi fra loro non si ascoltano. In ogni caso, il "più migliore" (cit.) di questo saggio avviso non ne ha fatto nulla, e ha rinunciato a indebitarsi a tassi convenienti (cioè a tassi reali negativi), forse (!) per i motivi adombrati in questo tweet:

D'altra parte, i tassi di interesse reali negativi redistribuiscono risorse dal creditore al debitore, il che li rende particolarmente odiosi al creditore, ma li rende anche un'opportunità imperdibile  (che noi abbiamo perso grazie al "migliore") per il debitore pubblico che debba "liquidare" un ingente stock di debito, come qui abbiamo imparato anni fa grazie al lavoro di Carmen Reinhart e Belen Sbrancia (uno dei tanti lavori che ho imparato a conoscere da voi, quando questo non era un blog di pandemici, ma di gente di buonsenso e buone letture). Girarci intorno è inutile, le cose stanno come le mettono le gentili autrici di questo utile saggio. Quando il debito raggiunge certi livelli, per uscirne ci sono tre strade: il default, l'iperinflazione, o la crescita moderatamente inflazionistica. Oggi che veniamo da decenni di contesto macroeconomico relativamente ordinato, e che quindi sarebbe relativamente facile "ingegnerizzare" la soluzione meno traumatica, cioè la terza, flirtiamo pericolosamente con la prima soluzione, la più traumatica, semplicemente perché chi ha saldamente in mano un capo della corda vuole tirarla senza se e senza ma dalla parte sua, pensando che se ci sarà una crisi, se la corda si spezzerà, in terra ci finirà qualcun altro.

Un meccanismo psicologico e una dinamica sociale che qui abbiamo descritto tante volte, e che determina l'avvitamento verso il basso di cui parlammo qui.

Nel frattempo, è uscita la NADEF e me la vado a leggere. Ne parliamo appena possibile...