domenica 31 dicembre 2023

Il PD, ovvero la crescita negata (il mio discorso di fine anno).

Quest'anno, oltre alla consueta presenza degli sciroccati, la platea del #goofy12 registrava anche una ristretta ma qualificata presenza di esponenti della classe dirigente del nostro Paese. Il "laboratorio nero":

Il pubblico del convegno internazionale Euro, mercati, democrazia 2023

nel corso degli anni ha prodotto qualcosa.

Tornando a Roma in compagnia di uno di questi manager, gli chiedevo quali impressioni aveva tratto dal convegno, quali cose lo avessero colpito, e i suoi main takeaways erano due: questo:

(tratto dalla relazione di Daniela Tafani), e questo:

Il grafico della vergogna nazionale

tratto dalle mie considerazioni conclusive: il grafico recante l'andamento del Pil italiano dal 1950 a oggi, insieme alla sua tendenza calcolata dal 1950 al 2007, ed estrapolata dal 2008 a oggi.

L'anomalia evidenziata da questo grafico è così vistosa, lo scostamento del Pil effettivo dal suo andamento tendenziale è così pronunciato, così apparentemente incolmabile, la cicatrice inferta al percorso di crescita del Paese così profonda e visibile, da condurre a una conclusione: qualsiasi ragionamento sul presente e sul futuro del nostro Paese che non parta esplicitamente da questo dato,  che non lo ponga al centro dell'attenzione, che non ne proponga una spiegazione, che non illustri un possibile percorso di ripresa, non può aspirare al rango di discorso, ma resta confinato nell'ambito delle chiacchiere. Detto in altre parole, mi sembra che per fare credibilmente politica in Italia si dovrebbe innanzitutto sapere che è successo questo (e vi assicuro che quasi nessuno lo sa), poi tentare di capire perché è successo (e oggi vi proporrò qualche linea di indagine), e infine valutare se e come sia possibile recuperare (e fino ad oggi, mi spiace, ma posso solo indicare quali sono, alla prova dei fatti, delle false soluzioni). La necessità, per un politico, di confrontarsi con questo fenomeno non scaturisce tanto dal fatto che i cittadini, e quel loro sottoinsieme sempre più ristretto che sono gli elettori, sappiano che è successa una roba simile. Anch'essi vivono, come chi li rappresenta, nell'ignoranza di questo dato mostruoso. Schiacciati come sono, come siamo, nella dimensione quotidiana, non gli si può chiedere quella memoria e quella prospettiva storica che può avere chi, come me, per mestiere ha studiato e insegnato l'analisi di lungo periodo delle serie storiche, e quindi sa dove trovarle e come leggerle!

Ma il fatto è che l'entità del disastro è tale che i cittadini non possono non soffrirlo nella loro carne viva. L'ignoranza di questo fatto economico, che è un dato politico, è la fonte principale di una serie di abbagli politici. Il più ricorrente è il mitologema delle sconfinate praterie della moderazione, che si troverebbero al "centro", e pullulerebbero di elettori. Nessun popolo cui è stata fatta una cosa simile può essere moderato, e questa non è una mia ubbia, ma è il risultato di analisi pubblicate su prestigiosissime riviste scientifiche. L'altro è il mitologema della "sciura Maria", che, indubbiamente, di processi stocastici integrati ne sa poco, ma che, ripeto, non può non avvertire (e nei discorsi di tutti i giorni, ve lo assicuro, avverte) che qualcosa si è rotto, e che in tasca ha il 30% in meno di quanto avrebbe se questo qualcosa non fosse stato rotto!

Non è consigliabile, per un politico, ignorare questo fatto, e ignorare quelle che la letteratura scientifica  ci indica come sue conseguenze più probabili (ad esempio, la tendenza alla polarizzazione del discorso politico, ovvero, in altri termini, la scomparsa del centro).

Oggi parleremo di questo.

Partiremo dal mettere in evidenza le dimensioni assolutamente anomale del fenomeno che stiamo vivendo dal 2009 e che, come vi ricordavo in un post precedente, qui già nel 2015 definivamo come la crisi più grave nella storia dell'Italia unita. Poi cercheremo di individuarne le cause prossime. Infine, ragioneremo su qualche possibile soluzione.

La crisi più grave nella storia dell'Italia unita

La crisi da cui ci stiamo a fatica riprendendo è senza ombra di dubbio la più grave nell'intera storia dell'Italia unita: è una crisi che lascerà una cicatrice duratura, visibile per i lunghi secoli a venire, un episodio sul quale gli storici non potranno non interrogarsi, e sul quale sarebbe opportuno che cominciassimo a interrogarci anche noi, tanto più che vi siamo direttamente coinvolti.

Per apprezzare la veridicità di questa affermazione vi propongo il grafico del Pil italiano dall'unificazione ai giorni nostri:

Figura 1

La serie rappresentata è quella del Pil in milioni di euro ai prezzi del 2010 (il Pil reale, cioè quello depurato dall'inflazione), ricostruita partendo dai dati forniti dalla Banca d'Italia (li trovate qui). Due cose colpiscono: la brusca accelerazione della crescita dopo la Seconda guerra mondiale, e l'altrettanto brusco arresto della crescita dopo il 2007, molto più pronunciato e visibile di quello determinato dalla Seconda guerra mondiale.

Questo dato, però, va però analizzato criticamente, anche per evitare futili contestazioni. Nel leggere un grafico simile va sempre ricordato che 1 è il 10% di 10 ma l'1% di 100. Il dato assoluto conduce i meno esperti a pensare che l'ultima crisi finanziaria globale, in seguito alla quale il Pil è diminuito di 146 miliardi di euro, dal massimo assoluto del 2007 al minimo relativo del 2013, sia stata più distruttiva della Seconda guerra mondiale, che ha fatto diminuire il Pil di 84 miliardi di euro dal massimo relativo del 1939 al minimo relativo del 1945 (tutti i dati sono a prezzi 2010). La lettura corretta è un'altra: nel 1939 il Pil era pari a 191 miliardi di euro (ai prezzi 2010), e quindi il calo di 84 miliardi in sei anni determinato dalla guerra era pari al 43% del valore di partenza; nel 2007 il Pil era pari a 1687 miliardi (ai prezzi 2010) e quindi il calo di 146 miliardi in sei anni corrisponde all'8.6%. Insomma: è ovvio che in termini percentuali l'intensità della crisi attuale è meno profonda di quella determinata da un conflitto che coinvolse l'intera penisola (a differenza della Grande guerra, che infatti nel grafico nemmeno si vede).

Per apprezzare la dimensione relativa, cioè in termini percentuali, della recessione, bisogna usare la scala logaritmica:

Figura 2

che rende subito evidente come la Seconda guerra mondiale di danni ne abbia fatti molti di più (e ci mancherebbe)!

Ma il punto è un altro: all'epoca della Seconda guerra mondiale ci vollero solo dieci anni per tornare al punto di partenza: già nel 1949 il Pil era lievemente superiore a quello del 1939. Oggi, nel 2023, sedici anni dopo l'inizio della crisi (ricordate i subprime?), il nostro Pil è ancora inferiore al valore del 2007, e secondo il Fmi non tornerà al valore del 2007 prima del 2026. Ho inserito le linee tratteggiate orizzontali appunto per facilitarvi questa lettura. Insomma: se definiamo, in modo riduttivo, l'uscita da una crisi come recupero del livello di reddito antecedente, la crisi attuale, nelle previsioni abitualmente rosee del Fmi, durerà il doppio di quella causata dall'ultimo conflitto mondiale.

Questa cosa non è banale, per almeno due motivi.

Primo, è discutibile che l'uscita da una crisi possa essere definita semplicemente come il ritorno alla casella di partenza: ragionare così significa ipotizzare implicitamente che se la crisi non ci fosse stata, cioè se il Pil non fosse diminuito, ci sarebbe però stata crescita zero, per cui il Pil sarebbe stato fermo- Non ci sono motivi per pensare che questa ipotesi sia ragionevole: il controfattuale rispetto al quale valutare l'impatto della crisi non può essere un controfattuale "a crescita zero", ma su questo torneremo dopo.

Secondo, il Pil è un flusso, il flusso di redditi prodotti e distribuiti in una unità di tempo (un anno, negli esempi di questo post). Chiedo: è peggio perdere 50 per un anno o 10 per 10 anni? Il prolungarsi della crisi è comunque il prolungarsi di un lucro cessante. In altri termini, anche ammettendo che il controfattuale "a crescita zero" sia quello adeguato, in ogni caso le cose andrebbero viste così:

Figura 3

considerando come "lucro cessante" della crisi le aree che abbiamo evidenziato in rosso, cioè la somma degli scostamenti (negativi) del Pil dal valore cui era arrivato prima della crisi. Se ragioniamo in questi termini, la distanza fra le due crisi si avvicina di molto: il "lucro cessante" (cioè la somma delle perdite di Pil rispetto al valore iniziale lungo gli anni della crisi) della Seconda guerra mondiale fu pari al 154% del valore del Pil nel 1939, ma con lo stesso criterio ad oggi la crisi in corso ci è costata il 91% del Pil del 2007, e non è finita. Sto poi trascurando il fatto che oggi almeno in teoria non siamo in guerra, che le nostre fabbriche e le nostre infrastrutture di trasporto non vengono bombardate, ecc. Che in un contesto non bellico si sia riusciti a distruggere il 91/154 = 59% del Pil distrutto nel più feroce contesto bellico sperimentato dal nostro Paese dovrebbe essere un dato eloquente, no?

C'è un altro modo per rendere l'idea di quanto sia eccezionale la situazione che stiamo vivendo, ed è tentare di esaminarla con gli occhi di uno storico del XXII secolo. Immaginiamo che da ora in avanti il Pil italiano cresca a quello che è stato il suo tasso medio di crescita dall'entrata nell'euro, lo 0,5% annuo (non abbiamo particolari motivi per credere che senza un'alterazione profonda del contesto istituzionale il nostro Paese in media riesca a fare di più).

Uno storico del 2123 osserverebbe questa situazione:

Figura 4

e a meno di non essere molto distratto non potrebbe non porsi una domanda: "Ma fra il 2007 e il 2026 che diavolo è successo?" Un buco di 20 anni, in effetti, rimane appariscente su un'estensione di oltre due secoli e mezzo di storia! Il nostro amico storico andrà a vedere se c'è stata una guerra (io farei così), e non la troverà, o non la capirà...

Una crisi italiana

Vorrei a questo punto scansare un altro equivoco: quello che un risultato così eccezionale dipenda dalla natura eccezionale dello shock che ha colpito l'economia italiana a seguito della bancarotta Lehman e della crisi finanziaria globale. Se osserviamo il tasso di crescita del Pil mondiale notiamo in effetti che dal 1950 a oggi il primo valore negativo corrisponde alla crisi del 2009:

Figura 5

Tuttavia, anche dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 avevamo assistito a una decelerazione del Pil mondiale molto pronunciata. Inoltre, la crisi globale (in effetti, le crisi globali, comprendendo anche quelle del 1973 e del 1979) hanno colpito tutti. Solo in Italia, però, gli effetti dell'ultimo shock globale sono stati così persistenti. Ciò suggerisce che il problema non sia stato lo shock, ma il modo in cui si è deciso di gestirlo.

Per dare un'idea di cosa intendo, ho replicato per Francia, Germania e Italia lo stesso esperimento: partendo dal 1950, ho calcolato la tendenza di crescita del Pil fino al 2007 e l'ho estrapolata dal 2008 al 2022, confrontando questa previsione ex post con i valori storici del Pil dal 2008 al 2022. Dico subito, a beneficio degli eventuali esperti, che a questo esperimento attribuisco un valore puramente descrittivo. So bene che una tendenza lineare non necessariamente è il miglior modello esplicativo della crescita di un Paese, semplicemente perché il paper scientifico più letto dagli economisti della mia generazione l'ho letto anch'io, ma a me qui interessa un modo semplice ed espressivo per evidenziare un possibile cambiamento di struttura.

I risultati sono questi:

Figura 6

Figura 7

Figura 8

(l'ultimo grafico coincide, ovviamente, con quello da cui siamo partiti).

Il confronto è piuttosto eloquente: nei primi 57 anni i tre tracciati sono indistinguibili: nei tre Paesi il Pil reale si sviluppa secondo una traiettoria pressoché lineare, con scostamenti di modesta entità e persistenza. Dopo lo shock del 2009 le cose però cambiano. In tutti e tre i Paesi il tracciato del Pil passa in modo persistente al di sotto della tendenza 1950-2007, ma solo in Italia si registra un arresto della crescita delle dimensioni evidenziate in figura 8.

Ha stato il debbitopubblico!

Questa dimensione comparatistica è utile, perché ci aiuta a sfrondare il dibattito da alcune spiegazioni semplicistiche del fenomeno. Tipicamente, la reazione del collega evoluto cui faccio vedere il grafico riferito all'Italia è: "Beh, ma per forza, prima crescevamo facendo debito pubblico!" Una spiegazione che si coniuga con l'idea (errata) che l'austerità sia stata necessaria e abbia fatto diminuire il debito pubblico (mentre i dati dicono che è andata al contrario). Per capire che la soluzione non può essere cercata in quella direzione basta dare un'occhiata ai dati, accostando a ogni tracciato quello del rapporto debito/Pil:

Figura 9

Figura 10

Figura 11

Da questi grafici desumiamo a colpo d'occhio:

  1. che il debito pubblico non esiste solo in Italia (molti giornalisti nostrani ne sembrano convinti) e che negli ultimi anni è andato crescendo un po' ovunque, quindi, se la crescita fosse sospinta dal debito, non lo sarebbe solo da noi;
  2. che il Pil un po' ovunque è rimasto sulla sua traiettoria tendenziale di crescita anche nei periodi in cui il debito pubblico anziché crescere diminuiva, come ad esempio in Francia e in Italia fra la metà degli anni '50 e la metà degli anni '60, o in Italia dalla metà degli anni '90 al 2007, il che smentisce l'idea che la crescita del Pil in Italia fosse sostenuta solo da quella del debito;
  3. in particolare, che in Italia non solo il Pil è rimasto sulla sua traiettoria anche quando il debito scendeva (vedi sopra) o restava sostanzialmente stazionario (come dal 1974 al 1982), ma è addirittura cresciuto bruscamente quando il Pil ha smesso di crescere, per cui l'idea che dietro alla tenuta della crescita italiana prima del 2007 ci fosse l'espansione del debito è smentita radicalmente: non si capirebbe infatti perché all'ultima impennata del debito corrisponda una tombale stagnazione!

Le spiegazioni "debitopubblicocentriche" di queste dinamiche direi quindi che non ci aiutano. Non c'è, nella traiettoria del debito pubblico italiano, una frattura di intensità pari a quella che vediamo nel Pil, qualcosa che ci possa dire che la crescita si è interrotta perché il debito ha smesso di sostenerla: anzi, con l'ultimo decollo del debito la crescita si è interrotta! In definitiva, non c'è nemmeno una particolare eccezionalità italiana nel panorama europeo: certo, il nostro debito è più grande, ma la sua dinamica di fondo è analoga a quella degli altri Paesi. In altri termini, non c'è nulla nella dinamica del nostro debito che ci aiuti a spiegare ictu oculi perché si è rotta la dinamica della nostra crescita, in un periodo in cui, dopo lo shock Lehman, quella degli altri Paesi rimaneva relativamente imperturbata.

Nel caso dell'Italia, poi, basta mettere le cose in prospettiva:

Figura 12

per cogliere immediatamente che la relazione fra debito e crescita non è così meccanicistica come si vuole far credere, e in particolare che il nesso di causalità non è così banale (cioè non va necessariamente dal debito alla crescita). Basta vedere che dal 1897 al 1913, così come dal 1995 al 2007, il rapporto debito/Pil era avviato su una solida traiettoria decrescente, interrotta nel primo caso dalla Grande guerra, e nel secondo dalla Grande austerità. In entrambi gli episodi di consolidamento non traumatico il Pil ha continuato a crescere e la diminuzione del rapporto debito/Pil è stata di oltre un punto percentuale l'anno, a testimonianza del fatto più volte citato dal ministro Giorgetti che le "salvaguardie" tedesche (cioè la regola che il rapporto debito/Pil debba comunque diminuire di un punto all'anno) l'economia italiana se le è sempre potute permettere. Aggiungo che in entrambi i casi si sono alternati governi "de destra" e "de sinistra" (che un secolo fa venivano qualificate dell'aggettivo di "storiche"). Non è quindi supportata dall'evidenza storica la consueta idea che la disciplina fiscale sia di destra e la dissolutezza di sinistra, né la sua versione più moderna ma altrettanto idiota che la disciplina fiscale sia di sinistra e la dissolutezza di destra. Piuttosto, quello che questo grafico dimostra è che se non le si rompono troppo i coglioni l'Italia riesce a generare sufficienti risorse da servire e ripagare il proprio debito, e infatti in tutti questi anni formalmente non ha mai fatto bancarotta (dico formalmente perché l'iperinflazione immediatamente successiva alla Seconda guerra mondiale fu una bancarotta de facto, come qui abbiamo più volte ricordato).

L'ultima parte del grafico, viceversa, suggerisce come il debito esploda quando l'applicazione di regole idiote comprime la crescita. Ma a beneficio di chi, intossicato da anni di lettura di ponderosi editoriali zero tituli, sia convinto del contrario, sarà utile sostenere questa intuizione con ulteriori elementi probanti. Entriamo quindi in dettaglio.

Le componenti della (non) crescita

Dato che prima del 2007 i grafici di Francia, Germania e Italia sono sostanzialmente indistinguibili, mentre dopo il 2007 l'Italia sperimenta la catastrofe che abbiamo descritto, potrebbe essere utile scomporre la crescita del Pil di questi tre paesi nel contributo delle rispettive componenti: i consumi privati (C), i consumi collettivi (G), gli investimenti (I) e le esportazioni nette (NX), in modo da vedere quale di queste componenti spieghi l'arresto della crescita italiana o, per altri versi, la persistenza della crescita degli altri Paesi.

Vi spiegai molto tempo addietro come si fa questa scomposizione. Forse qualcuno di voi ricorda questa tabella:

Tabella 1

la cui spiegazione è qui. In sintesi, il contributo alla crescita del Pil di ognuna delle sue componenti:

Y = C + G + I + NX

è dato dal prodotto del tasso di crescita della componente per la sua incidenza sul totale al tempo precedente (ad esempio, nella tabella, il contributo di x alla crescita di z è dato dal prodotto del tasso di crescita di x, 0.25, per l'incidenza di x su z, 0.4, cioè a 0.1). Il senso di questa semplice regola matematica è che una componente contribuisce di più alla crescita del totale se cresce molto in fretta o se esprime una grande percentuale del totale.

Nell'effettuare questa analisi incontriamo una difficoltà pratica, determinata dal fatto che le serie del Pil suddiviso nelle sue componenti non sono disponibili a partire dal 1950. I dati più recenti sono sul database dell'OCSE e partono dal 1980. Utilizzando questi dati e considerando due sottocampioni, uno dal 1980 al 2007, e l'altro dal 2007 al 2019 (ho lasciato fuori la crisi Covid), la scomposizione della crescita del Pil nelle sue componenti porta a questo risultato:

Figura 13

che, oltre a dirci cose che sappiamo (vediamo subito quali) ci evidenzia anche un'anomalia di dimensioni tali da costituire un buon indizio su cosa possa essere successo in Italia dal 2007 in poi.

Cominciamo dalle cose che sappiamo: sono riassunte dalle prime tre barre, quelle che si riferiscono al periodo 1980-2007. In quel periodo l'anomalia è costituita dalla Germania, la cui crescita è trainata per quasi il 40% dalle esportazioni nette (in giallo), una componente che in Francia e Italia dà invece un contributo trascurabile. Come altresì sappiamo (ne abbiamo parlato per tutto il post precedente), a questa dipendenza dalle esportazioni corrisponde, per via della relazione X - M = S - I, una repressione degli investimenti. Questi, in effetti, fra il 1980 e il 2007 contribuiscono ad appena il 13% della crescita tedesca, contro il 25% della Francia e il 24% dell'Italia. Un'altra differenza più sottile (ma altresì nota) fra i percorsi di sviluppo di questi tre Paesi risiede nell'incidenza dei consumi collettivi (spesa pubblica in stipendi e consumi intermedi), che mentre offrono un contributo molto contenuto alla crescita in Germania (l'11% del totale), danno una spinta piuttosto vigorosa alla crescita in Francia (spiegando il 21% della crescita), con l'Italia in posizione intermedia (intorno al 16%).

Nel periodo 1980-2007 insomma le differenze fra i percorsi di crescita seguiti fra i vari Paesi ci sono, ma per leggerle occorre una certa attenzione.

La scomposizione del tasso di crescita nel periodo 2007-2019 invece ci fornisce un quadro molto più differenziato e netto. Notiamo a prima vista tre cose:

  1. in Francia il contributo delle esportazioni nette diventa negativo, in conseguenza dello sprofondare del saldo della bilancia dei pagamenti;
  2. in Germania il contributo delle esportazioni nette sostanzialmente si azzera (il saldo estero fra 2007 e 2019 rimane sui 200 miliardi di euro);
  3. in entrambi i Paesi questa dinamica avversa viene compensata da un aumento del contributo dei consumi collettivi (spesa pubblica) alla crescita;
  4. in Italia gli investimenti crollano, contribuendo alla crescita dell'economia per il -117%, mentre esplode il contributo delle esportazioni nette, che sale al 65%. Tuttavia, dato che anche i consumi (privati e collettivi) danno un contributo negativo, fra 2007 e 2019 l'economia si contrae (come abbiamo visto nei grafici precedenti).

Per facilitarvi la comprensione di questi risultati vi riporto qui l'impianto dei calcoli per l'Italia:

Tabella 2

dove vi segnalo che, per aiutare l'intuizione del lettore, nell'ultima riga, quella che riporta la scomposizione percentuale del tasso di crescita fra 2007 e 2019, ho moltiplicato tutto per -1, altrimenti, dato che il tasso di crescita in quel periodo è negativo, le componenti che lo hanno tirato giù (e quindi hanno segno meno) sarebbero apparse con segno positivo (perché meno diviso meno fa più). Ma il punto è che fra 2007 e 2019 i consumi collettivi sono diminuiti di 14 miliardi e gli investimenti di 83 miliardi: si capisce che una mano in discesa l'hanno data, mentre non si capisce come si faccia a dire che in questo Paese "non è stata fatta austerità"...

Austerità e investimenti

Che gli investimenti (intesi come investimenti fissi lordi, come formazione di capitale fisso, cioè come acquisto di macchinari, attrezzature, immobili e automezzi industriali) siano un motore della crescita nessuno può negarlo. Meno che meno possono contestarlo gli "offertisti", cioè gli "economisti" che negano il ruolo della domanda nello stimolare la crescita in un'economia di mercato, perché convinti che sia l'offerta a creare la domanda, cioè che sia l'aumento dello stock di capitale produttivo a stimolare la capacità di spesa. Teoria un po' astrusa (la vita di ogni singolo imprenditore vero - cioè non da talk show - testimonia il contrario!), ma di cui qui apprezzeremo un pregio: rende incontestabile l'idea che la spesa in capitale fisso (gli investimenti di contabilità nazionale) siano un motore della crescita!

Il lato positivo delle idee sbagliate è che si possono usare nel modo giusto, fornendo argomenti difficilmente controvertibili da chi le propugna: se dimostriamo che c'è stato un problema con gli investimenti, sarà difficile per gli economisti ottocenteschi (quelli tutti offerta e distintivo, insomma!) contestare che questa sia la radice del problema di crescita che finora abbiamo documentato!

Un'analisi di lunghissimo periodo di questa variabile non è particolarmente agevole: ricordo, per inciso, che l'esigenza di tenere una contabilità nazionale si manifestò dopo la crisi del 1929 e in particolare dopo la sua soluzione (la Seconda guerra mondiale), una soluzione che per un po' suggerì alle opinioni pubbliche quanto oggi sembra abbiano dimenticato, ovvero che per quanto l'intervento pubblico nell'economia potesse sembrare indesiderabile, la sua assenza conduceva ad alternative peggiori! Bisognò attendere quindi il 1947 perché i primi conti nazionale venissero pubblicati negli Usa e il 1952 perché venisse elaborato dalle Nazioni Unite uno standard internazionale, lo SNA (System of National Accounts), tale da rendere le statistiche confrontabili fra Paesi. Aggiungiamo il fatto che il lodevole scrupolo di fornire una rappresentazione dei fatti sempre più aderente alla realtà spinge gli istituti di statistica nazionali e sovranazionali a frequenti revisioni dei criteri di calcolo. Ne consegue che non per tutti i Paesi sono disponibili serie omogenee a partire almeno dal Secondo dopoguerra (che è poi il motivo per cui nella sezione precedente abbiamo utilizzato i dati a partire dal 1980).

Con questi caveat, vediamo se è possibile rispondere alla domanda che ci siamo posti: la vistosa anomalia documentata dalle Figure 1 e 8 è almeno in parte spiegabile con una dinamica particolarmente avversa degli investimenti? La domanda in parte è oziosa perché la risposta viene dalla Tabella 2 ed è sì, ma dare un'occhiata ai dati e in particolare entrare nel dettaglio di che cosa abbia fatto il Governo (cioè esaminare l'andamento degli investimenti pubblici) qualcosa aggiungerà.

Cominciamo con l'esaminare la dinamica degli investimenti nei tre principali Paesi dell'Eurozona, utilizzando tutti i dati annuali disponibili sul sito dell'OCSE (che presto passerà qui):

Figura 14 - Fonte: OCSE.

La Figura 14, come anticipato, non può che essere coerente con i risultati della Figura 13 (visto che i dati sottostanti sono gli stessi), ed evidenzia che per l'Italia la situazione è grigia, anche in senso figurato: il calo anomalo degli investimenti è in effetti vistoso. L'anomalia è più chiara se a ogni tracciato associamo la propria tendenza dall'inizio della serie al 2007, facendo per gli investimenti un'operazione analoga a quella fatta per il Pil nelle figure dalla 6 alla 8. Per comodità lo faccio in un'unica figura: 

Figura 15 - Fonte: OCSE.

Come era facile aspettarsi, solo in Italia si manifesta un vistosissimo scostamento dalla tendenza degli investimenti verso il basso, scostamento che comincia a ricomporsi solo dal 2021, lasciando comunque i valori storici un centinaio di miliardi al disotto di quelli tendenziali. Francia e Germania (quest'ultima, a dire il vero, con qualche difficoltà in più) riescono invece a mantenere la traiettoria.

Ora, visto così il fenomeno è già eloquente e potrebbe contribuire a spiegare l'anomalia della Figura 8. Tuttavia, anche qui vale la pena di allargare lo zoom, e possiamo farlo utilizzando la base dati della Banca d'Italia da cui abbiamo tratto la serie secolare del Pil. Quella degli investimenti si presenta così:

Figura 16 - Fonte: https://www.bancaditalia.it/statistiche/tematiche/stat-storiche/stat-storiche-economia/index.html

Ecco, forse (dico forse) così si capisce meglio di che cosa stiamo parlando.

Una roba come quella successa dopo il 2007 non si era mai vista, e anche qui, ovviamente, valgono i caveat che abbiamo espresso per la Figura 1: il problema non è (solo) l'entità del crollo degli investimenti, ma (anche e soprattutto) la persistenza di questo crollo, che "mèccia" (dall'inglese to match: quelli bravi parlano così) perfettamente con la persistente stasi della crescita italiana. Poi si può parlare di debito pubblico, qualcuno mi parlava di società signorile di massa, le spiegazioni possono essere tante: se siete bravi, trovatemi una spiegazione che "mècci" ugualmente bene e mi farete un favore! Dico sempre che se rinasco voglio essere inutile: se si scoprisse che la contabilità nazionale e ECON102 sono irrilevanti forse riuscirei a coronare il mio sogno in questa vita!

A scanso di ulteriori equivoci, siccome so che i dati della Figura 15 sembrano diversi da quelli della Figura 16, ve li metto insieme, così vi rendete conto meglio:

Figura 17 - Fonte: Banca d'Italia e OCSE.

Lo scarto che vedete fra il dato OCSE e il dato Banca d'Italia è spiegato esclusivamente dalla diversa base dei prezzi (i dati OCSE sono ai prezzi 2015 e quelli Banca d'Italia ai prezzi 2010), ma il profilo temporale delle serie è assolutamente identico.

Per dare evidenza numerica a quanto è successo, per aiutarvi a quantificare (oltre che visualizzare) il buco degli investimenti che ha determinato il buco della crescita, vi fornisco anche un grafico con gli scostamenti fra la traiettoria storica e quella tendenziale (scostamenti che in Italia ovviamente sono sempre negativi):

Figura 18 - Elaborazione su dati OCSE.

e visto che sono una brutta persona e voglio rovinarvi il veglione, vi fornisco anche una tabella coi numeri e la loro somma cumulata, così è più chiaro:

Tabella 3 - Gli scostamenti degli investimenti dal rispettivo tendenziale e la loro somma cumulata.

Insomma, pare che dal 2009 a oggi abbiamo lasciato sul terreno una roba tipo 1587 miliardi di euro di mancati investimenti rispetto alla tendenza statistica, laddove la Francia ne ha fatti 145 in più e la Germania, che come sappiamo non se la passa benissimo, 592 in meno (risultato negativo, ma pari a un terzo del nostro disastro).

Gli investimenti pubblici

A questo punto un offertista potrebbe rifugiarsi in corner facendo un'osservazione in linea di principio corretta: è difficile stabilire un nesso di causazione univoco fra investimenti e Pil, perché gli investimenti sono almeno in parte endogeni, cioè dipendono dal livello generale dell'attività economica. L'imprenditore, quando decide di acquistare una macchina o di edificare un capannone, lo fa considerando vari fattori fra cui la ragionevole aspettativa di vendere quello che intende produrre, cioè le aspettative di domanda a lungo termine. Se le aspettative non sono formate razionalmente, ma risentono degli ultimi dati storici, in presenza di una recessione un imprenditore si aspetterà che la domanda sia bassa anche in futuro e posporrà gli investimenti.

Per i più raffinati, faccio notare che per fare questa obiezione il solito sbarbatello awanagana col pieiccdì (che tanto si affaccerà, vedrete) dovrebbe rinunciare a due caposaldi del suo "pensiero": l'idea che l'offerta sia esogena rispetto alla domanda, e l'idea che le aspettative si formino razionalmente. Ma siccome gli sbarbatelli awanagana hanno il pieiccdì, ma non hanno Aristotele, facilmente, per amor di polemica, possono contraddire se stessi, pur di negare l'evidenza. Fine della chiosa per i raffinati.

Tornando al punto: l'obiezione, di per sé, è ragionevole. C'è però un "ma": non tutti gli investimenti sono endogeni, cioè affidati agli animal spirits dei lettori del Sole 24 Ore (cioè di quelli che all'epoca di questo disastro credevano che Giannino fosse un economista)! Gli investimenti pubblici sono in mano al decisore pubblico, e quindi esogeni. Più esattamente: in un modello particolarmente raffinato dell'economia ci potremmo aspettare che essi dipendano dal Pil attraverso una "funzione di reazione" dell'autorità politica, tramite la quale questa reagisce ai segnali che provengono dall'economia. In questo caso, tipicamente, ci si dovrebbe aspettare che a un calo dell'attività economica debba corrispondere un incremento degli investimenti pubblici, con funzione anticiclica. Questo, ovviamente, non in Europa, dove le regole sono procicliche. Inoltre, la teoria economica di ECON102 (che è meglio del nulla di cui dispongono media e magistrature, ma non è un gran che) racconta che gli investimenti pubblici, dovendo essere finanziati, spiazzano gli investimenti privati (perché per pagarli lo Stato o alza le imposte o si indebita, esercitando una pressione al rialzo sui tassi, producendo in entrambi i casi effetti depressivi sugli investimenti privati), ma la vita di tutti i giorni ci dicono che in pratica invece di crowding-out (spiazzamento) si ha crowding-in, ovvero gli investimenti pubblici favoriscono quelli privati. Basti pensare a quale incentivo possa avere un'azienda a investire in un distretto industriale dove magari la manodopera è anche preparata e relativamente conveniente, ma che è isolato dal resto del mondo a causa di una rete infrastrutturale fatiscente! In questo caso prima viene l'investimento pubblico, rigorosamente non digital e non green, cioè la strada, e poi viene l'investimento privato. E di esempi simili se ne potrebbero fare a centinaia.

Per dirimere quindi il nodo, vediamo che cosa hanno fatto gli investimenti pubblici. Nel sistema dei conti nazionali, gli investimenti che entrano nella definizione di Pil (cioè la I nell'identità Y = C+I+G+X-M) non possono essere facilmente scomposti in pubblici e privati per i motivi descritti qui. Per scorporare la componente pubblica bisogna quindi far riferimento ai conti dei settori istituzionali. C'è poi una ulteriore difficoltà, consistente nel fatto che questi conti sono in valori nominali, quindi occorre deflazionare i dati per depurarli dall'inflazione (operazione che ho fatto utilizzando il deflatore degli investimenti lordi e con cui non vi tedio ulteriormente). Vediamo allora i dati, almeno quelli che riporta il sito dell'OCSE:

Figura 19

Direi che almeno per quanto riguarda l'Italia la situazione è piuttosto chiara: si vede bene come fra 2009 e 2014 si siano persi per strada quasi 24 miliardi di euro di investimenti pubblici, e come la tendenza si sia invertita solo con l'arrivo dei cattivi (noi) nel 2018. Qui non ci sono storie: non credo sia contestabile che l'andamento degli investimenti pubblici risente di precise scelte di politica economica. Inutile che veniate qui a dirmi che #hastatoabberluscone perché la serie comincia a scendere dal 2010. Lo so benissimo e sono con quelli che considerano che fare come il PD sia stato, da parte di Berlusconi, un errore gravissimo. Fatto sta che finché c'era lui la flessione era rimasta nell'ambito di altre sperimentate storicamente, come quella fra 1991 e 1994 o quella fra 2001 e 2002. Dopo inizia qualcosa di molto diverso: un serious fiscal overkill che è suscettibile di spiegare l'anomalia osservata in Figura 1 (o Figura 8).

Ma il grafico, che è un po' più confuso degli altri perché per la prima volta non vediamo la Germania in posizione di preminenza (ci avevate fatto caso?) ha anche altro da dirci. Effettuiamo la stessa analisi descrittiva applicata agli investimenti privati, analizzando gli scostamenti delle serie dalle rispettive tendenze:

Figura 20 - Fonte: OCSE.

E qui troviamo una sorpresa (relativa): la Germania, che nel periodo precedente alla crisi, aveva represso gli investimenti per promuovere le esportazioni, è l'unico Paese a reagire in modo anticiclico, con investimenti pubblici superiori al tendenziale. La Francia, invece, condivide, in qualche modo il percorso dell'Italia, con investimenti inferiori al tendenziale.

Ma allora?

Si torna ai bei tempi! Qui è quando arrivava lo scemotto simpatizzante di FARE per fermare il declino a dire: "Ecco, lo vedi, Bagnai, che le tue spiegazioni non tengono? Hai fatto tutta questa storia per dimostrare che l'austerità ha ucciso il Paese, ma poi la Francia ha tagliato pure lei gli investimenti pubblici e in Francia non si vede una cosa nemmeno lontanamente simile a quella successa da noi, e quindi il nostro disastro ce lo meritiamo perché dipende dai nostri mali atavici, il debito pubblico, la coruzzione (si scrive così), il familismo amorale, la tabaccaia scalabile e i camion di faldoni!"

(...ai nuovi del blog che non capissero questi riferimenti di alta dottrina economica suggerisco questa esilarante disamina dei mali italiani fatta da uno che se ne intende...)

E lo scemotto awanagana si prendeva, di prassi, una bella sportellata, altrimenti non sareste qui in tanti!

La sportellata dov'è? Beh, è hidden in plain sight nella Figura 13! Ma prima ricordiamoci di una cosa: se siamo arrivati qui è perché il nostro amico awanagana ha ammesso che gli investimenti dipendono dalle aspettative di domanda, e queste a loro volta dipendono dall'andamento attuale della domanda aggregata (insomma: del Pil). Ora, vi ricordo che le componenti del Pil determinate dall'azione di Governo sono due: oltre agli investimenti pubblici, ci sono anche i consumi pubblici o collettivi che dir si voglia, che in larga parte corrispondono al consumo di beni e servizi pubblici da parte dei cittadini, valorizzato presuntivamente con la remunerazione corrisposta a chi questi beni o servizi li fornisce: medici, poliziotti, ecc. Sì, forse non lo ricordate ma i consumi collettivi coincidono in larga parte con la spesa per stipendi della PA. Comunque, poco importa: fatto sta che sono una componente di domanda e che vengono controllati dal Governo. Per accertare se sia vero o meno che l'austerità non c'entri nulla col disastro italiano (tesi ardita, ma c'è chi la sostiene) dobbiamo allora completare il quadro.

L'analisi, condotta col metodo consueto, è in questa figura:

Figura 21 - Fonte: OCSE.

e, come vedete, ci fornisce un quadro coerente con quello della Figura 13: la principale differenza fra il nostro e gli altri Paesi è che qui da noi dopo la crisi del 2008, e in particolare a partire dal 2011 (quindi dalla legge di bilancio 2010, quindi ancora una volta è stato Berlusconi, per capirci, lo so benissimo, ed è una lezione per la destra, non per me...), sono stati repressi anche i consumi collettivi, che invece in Francia sono rimasti sostanzialmente sul tendenziale, e in Germania hanno progressivamente superato il tendenziale. Per capirci, verso il 2014 (cioè quando noi scrivevamo questo, o questo, per dire...), fra minori investimenti e minori consumi pubblici rispetto ai rispettivi tendenziali ballavano circa 85 miliardi. Se consideriamo l'effetto di spiazzamento determinato da questi tagli sulle aspettative di domanda e sullo stato delle infrastrutture (Pubblica Amministrazione inclusa), se poi ci aggiungiamo gli ulteriori effetti finanziari via accumulazione di NPL e applicazione delle sagge regole bancarie europee alla nostra economia, ecco, allora cominciamo a spiegarci la Figura 1...

Confessio regina probationum

Che poi, per chi è qui da un po', e quindi, tornando a bomba, non per le persone serie, per la classe dirigente, per quei bravi "practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influences", e che invece "are usually the slaves of some defunct economist", come ci ricorda un defunct economist, per noi, insomma, tutti questi ragionamenti, più che scontati, sono inutili. A che ci serve un simile apparato probatorio, quando abbiamo la regina delle prove, la confessione!? Quello che vediamo negli innumerevoli grafici che vi ho proposto è il risultato di una scelta deliberata: la scelta di distruggere la domanda interna italiana per recuperare competitività:


Il ragionamento di Monti è limpido, a meno di un piccolo salto logico. In effetti, visto che, come sappiamo, in contabilità nazionale sarà sempre:

S - I = X - M

(ne abbiamo parlato tante volte, ad esempio qui), il modo più spiccio per recuperare non la competitività (qui sta il salto logico), ma la sua apparenza, cioè un miglioramento del saldo commerciale X - M positivo, è tagliare la componente pubblica di I, o i consumi collettivi (perché S = Y - C - G, e quindi tagliando i consumi collettivi G ragionieristicamente innalzi S... se non fosse che economicamente Y cala, ma il discorso sarebbe lungo).

Insomma, fra le tante cose che non vanno delle politiche di austerità, oltre al fatto di distruggere il Paese, c'è anche quello che non risolvono nessuno dei problemi che vorrebbero risolvere: non abbattono il rapporto debito/Pil, perché il Pil cala più del debito (e di questo rischio Monti, se lo ascoltate bene, è perfettamente consapevole); non migliorano la competitività del Paese, perché il taglio degli investimenti pubblici e del numero e delle retribuzioni dei funzionari pubblici va in direzione esattamente opposta, ma consentono di fingere che la competitività sia migliorata, perché tagliando i redditi si tagliano le importazioni, e il saldo commerciale va su. Monti dice che ci sarebbe voluta una "demand operation" europea, insomma, che si sarebbe aspettato che la Germania aprisse i cordoni della borse per remunerare, via maggiori acquisti di beni italiani, la nazione che era stata "prima della classe" (in autolesionismo). Lo credeva veramente? Come al solito, come sempre, insisto su un punto: a me non interessa se c'era o ci faceva (come dicono a Roma): a noi deve interessare quello che ha fatto.

Ha fatto quello che vedete in Figura 1.

La sintesi estrema di quanto ci siamo detti fino a questo punto è che il disastro rappresentato in Figura 1 è frutto di deliberate scelte politiche compiute dai governi a trazione PD (con qualche timido accenno da parte di Berlusconi, che venne spazzato via subito perché non sufficientemente convinto, come vi dissi fin dall'agosto del 2011).

I non-rimedi

Mi sia concessa una brevissima divagazione politica.

Ieri commentavamo la decisione dell'amico Gianluigi di uscire dal proprio partito per essere libero di dire quello che desiderava, per tornare ad essere una voce critica. Doveva essere proprio una caserma, Italexit, se nemmeno il suo leader riusciva ad esprimersi liberamente nel suo ruolo! Noi qui siamo aiutati dal fatto che, come sapete, questo blog non esiste, il che offre due vantaggi immediati: nessuno viene a disturbarci, in un luogo che non c'è, e quindi qui possiamo dire quello che ci pare, per quanto politicamente scorretto o politicamente inopportuno. In particolare, possiamo dire quello che abbiamo sempre detto, ad esempio questo (con l'occasione, registro un simpatico plagio del titolo che mi rassicura: siamo decisamente più letti, o meno originali, di quanto crediamo di essere, ed entrambe le cose sono positive).

Vado al punto. So che può sembrare politicamente contraddittorio sottolinearlo, e aggiungo quanto è  forse scontato aggiungere (ma better safe than sorry), cioè che anche qui, dove posso dire quello che mi pare, ritengo che il lavoro fatto da questo Governo per raddrizzare il legno storto del PNRR sia meritevole, se non altro perché scongiura che al danno di esserci entrati si aggiunga la beffa di non ricevere i soldi (quanto a rendicontarli, non ci riuscirà nessuno, per cui direi di stare tranquilli...). Fatta questa doverosa quanto superflua premessa, arrivo al punto che immaginate: sì, il PNRR, anzi, scusatemi: leingentirisorsedelPnrrr (detto alla grillina, tutto d'un fiato), non è una soluzione. Non lo dico io e non lo direi comunque per animosità politica verso chi ha mal concepito e peggio gestito il nostro ingresso in questo meccanismo (la "bioggiadimiliardi" non poteva che essere la sorella gemella del "graduidamende"). Lo dice la Commissione Europea perché lo dicono i dati, di cui vi fornisco fonte e diapositiva:

Figura 22 - Fonte: https://www.consilium.europa.eu/media/65610/ip253_en.pdf

Figura 23 - Fonte: https://economy-finance.ec.europa.eu/system/files/2023-12/ip258_en.pdf

Il recupero degli investimenti rispetto al livello del 2019, visibile a fine periodo nelle Figure 15 e 16, dovrebbe proseguire, ma si prevede (lo prevede la Commissione) che nel 2024 e nel 2025 le ingentirisorsedelpnrr saranno una componente sostanzialmente minoritaria (fra un terzo e un quarto) del recupero di investimenti pubblici rispetto al livello del 2019. Insomma: l'UE ci ha aiutato a scavarci la fossa, ma ci lascia da soli a riempirla. Operazione che, ne converrete, sarebbe più semplice se intanto ne uscissimo (che avete capito!? Ovviamente intendevo dalla fossa!).

Concludendo

Qui si dovrebbe aprire una lunga discussione, ma devo chiuderla perché la famiglia, Capodanno, gli auguri, ecc. ecc. ecc. Va bene così. Ovviamente nessuno, includendo in questo nessuno anche tu che mi stai leggendo, ha realmente colto la gravità della situazione in cui ci troviamo. Ci vuole un po' per afferrarne i contorni: un quarto del Pil che se ne va giù per il tubo, a beneficio sostanzialmente di nessuno (perché a tutti, e più che agli altri ai debitori diffidenti, sarebbe convenuto lasciare intatta la capacità di generare valore del nostro Paese)! Non c'è miglior esempio dei danni che può arrecare la schiavitù degli uomini pratici dalle idee di qualche economista defunto! Ma per quanto sia un fatto che segnerà per sempre (ovvero: fino a quando si misurerà il Pil) la storia del nostro Paese, non è certo un buon motivo per rovinare la festa agli altri. Quindi ora vi lascio. Ma c'è un impegno che dovremmo prenderci per il 2024: diffondere consapevolezza.

La Figura 8, se presentata col dovuto garbo, è suscettibile di scuotere le coscienze.

Basterà dire, con la vostra congeniale delicatezza, al vostro piddino di riferimento:

Figura 24 - Mappa illustrata della crisi.

"Tesoro di papà, noi eravamo in A, da A siamo arrivati in B, saremmo quindi dovuti arrivare in C, giusto? Ma invece siamo in D. Secondo te, che cosa è successo? Visto che fra C e D ballano 400 miliardi sarebbe utile farsela una domanda, non credi?"

Arriveranno i camion di faldoni, arriverà er debbitopubblico, arriverà la società signorile di massa, arriverà #aaaaacoruzzione, arriveranno i costidellapolitica, arriverà la qualunque, statene certi: arriverà di tutto, tutto tranne la macroeconomia, la contabilità nazionale, e i dati. E alla fine della processione, però, mancheranno sempre 400 mijardoni de euri! Sarà quindi lecito ripetere, lasciato passare un po' di tempo, la domanda, smontando con delicatezza, uno dopo l'altro, i preconcetti dei vostri amici che "sanno di sapere" (li chiamammo così, ricordate?).

Ci vorrà molta pazienza, ma bisognerà insistere, perché, purtroppo, tutto passa da lì: il problema della natalità, quello del debito pubblico, quello del riscatto del Paese. Perché 


e quindi mettere al centro della riflessione politica la Figura 1 conduce naturalmente a una rivoluzione copernicana: da "abbattere il debito per liberare risorse" (il mantra che ci siamo sentiti ripetere mentre Monti portava il debito dal 120% al 132% del Pil) a "liberare risorse per abbattere il debito".

Liberare le risorse da cosa?

Mi sembra abbastanza chiaro: da un insieme di regole quanto meno inutili (perché quello che prescrivono siamo stati in grado di realizzarlo prima che esse ci venissero imposte) ma più verosimilmente dannose (perché la loro applicazione ci ha portato dal punto B al punto D).

Insisto: non fate l'errore del cattivo insegnante! Non pensiate che chi vi sta intorno sappia quello che è successo. La Figura 8 non l'ha vista nessuno: solo voi! La Figura 1 è stata per anni nella homepage dell'ISTAT, ora sostituita dal questa versione più anodina:


(abbiamo parlato qui dell'importanza di avere un buono zoom), ma nessuno ha fatto un plissé! Quei numeri, in fondo (dico quelli della Figura 8) non vuole vederli nessuno. Non li vuole vedere chi ne è stato causa, ma, ripeto, forse nemmeno chi ne è stato vittima vuole capire l'intensità della nostra crisi. Eppure è da lì che dovremo ripartire. La domanda che mi pongo, che vi pongo, che ci poniamo da tempo è: sarà possibile costruire una coscienza collettiva di questo problema senza l'intervento di un fatto traumatico (intendo: veramente traumatico)?

La risposta che mi do, che vi do, da quando ho iniziato a rivolgermi a voi, è sempre la stessa: dipende da noi.

Buon anno!

(...portato a termine sotto una gragnuola stordente e insensata di messaggi di auguri, e ci sono anche quelli che si incazzano se non gli rispondi subito! Per fortuna che ci sono, aggiungo, così capisci chi si rende conto e chi no - e purghi la rubrica. Voglio bene a tutti, ma credo che invece di 4038 "anche a te e alla tua famiglia" sia stato più utile scrivere queste brevi note sull'unico problema che abbiamo. Risolto questo, si risolve tutto il resto. Sul come e perché sia difficile risolvere questo, credo di aver scritto qualcosa tempo addietro, e siccome la situazione non è cambiata, se non per confermare quanto prefiguravamo - cioè che il Paese era nelle sabbie mobili - posso tranquillamente rinviare agli scritti di undici anni fa. Per il resto:


senzadubbiamente...
)

sabato 30 dicembre 2023

Paragone e Carnevale (Maffè)

(...si parva licet...)

(... la dimensione dialettica del piddino è l'autogol. La mia dimensione tattica è il vilipendio di cadavere. Lo so, sono una brutta persona, arrogante, rancorosa. Oppure potreste vederla così: so aspettare, perché so che ne varrà la pena. Come ci siamo detti mille e una volta, a me non piace essere indebitamente aggressivo! Perché devo usarti violenza, beninteso: verbale, col rischio di passare dalla parte del torto e la certezza di contravvenire ai miei principi, quando so che ti eliminerai da solo? Poi, però, quando le cose finiscono come devono finire, quando i fatti dimostrano le mie ragioni, i casi sono due: o ho dimenticato, o non perdono. E ultimamente non dimentico spesso. Molti amici che ci seguono da poco non capiranno, due soli - se non ricordo male, Paolo e Nat - assisterono ad alcuni degli episodi che riferirò: la storia di questo blog, la storia del Dibattito, della community, è una storia molto lunga, si è svolta nel tempo, con i suoi alti e i suoi bassi, le sue vittorie e le sue sconfitte. Una cosa però mi è sempre stata chiara: io un'idea in testa la avevo e cercavo di trasmetterla con onestà intellettuale. Anche altri avevano in testa le loro idee, sia ben chiaro! Non so però quanto fossero impegnati a diffonderle o a dissimularle...)

Paragone

E così Paragone, vecchio amico di questo blog (come vedremo), dove lo soprannominammo affettuosamente "er Cotenna" (tutti qui hanno avuto un soprannome: ricordate "er Melanzana"?), e così Gian ha finalmente fatto coming out: alla fine, altro non era che un gatekeeper! Il fine dichiarato (da lui) della sua attività politica era l'intercettazione del dissenso per impedirne la canalizzazione verso forze politiche strutturate, verso partiti di massa suscettibili di indirizzarlo al sovvertimento dei rapporti di forza! Un'operazione, insomma, regressiva, di difesa tanto strenua quanto subdola dell'esistente...

Immaginate la mia sorpresa!

Non me lo sarei mai immaginato... o forse sì?

Intanto, il suo essere un gatekeeper era uno scontato "di cui" del suo essere transitato armi e bagagli fra gli ortotteri, i gatekeeper par excellence, come vi avevo spiegato (inascoltato) a suo tempo. Ma credo che la stragrande maggioranza degli italiani, e anche dei lettori di questo blog, non abbia ancora capito la natura degli ortotteri nemmeno dopo il voto DECISIVO alla von der Leyen:


(che pure hanno visto tutti). Anzi! Magari fra quelli che più berciano contro l'UE, ci saranno proprio tanti che a questa UE hanno dato un ultimo soffio di vigore votando per i gatekeeper ortotteri!

All'epoca, quindi (si parla del 2013), non fui particolarmente sorpreso nel constatare che l'amico Gian, er rivoluzzzionario, diceva una cosa e ne faceva un'altra. L'apertura della Gabbia a settembre 2013 fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi erano state offerte tante garanzie, la possibilità di aprire un dibattito in condizioni almeno di parità, in un contesto meno ingessato di quello della Rai, ecc. ecc. Avevo chiesto, in realtà, molto poco, e mi era stato promesso, per attirarmi, tanto. Ma le cose non stavano esattamente così: ovviamente quello che si desiderava non era darmi la possibilità di parlare, ma sfruttare il seguito che avevo (a quasi due anni dall'apertura del blog i numeri erano già elevati, anche se non avevamo ancora sconfitto il Sole 24 Ore...), e anche, se possibile, farmi passare per uno squinternato un po' pazzotico, nel tentativo di screditarmi, e soprattutto di screditare le tesi che sostenevo.

Quando rileggo (e dovreste farlo anche voi) quello che scrissi allora da un lato mi colpisce il fatto che, tutto sommato, ragionassi già in modo abbastanza politico:


dall'altro il fatto che, verosimilmente, fossi anch'io irretito dal miraggio del "semomijonismo":


Non so se all'epoca seguiste il mio consiglio di staccargli la spina, e laddove lo abbiate fatto non so che esito questo consiglio abbia avuto. Detto fra noi, non credo che fossimo "mijoni", e comunque la tesi der Cotenna era proprio che io "non bucavo lo schermo" (!), e non portavo audience (!),  insomma: l'esatto contrario di quello che dicevano tutti gli altri autori o conduttori. Mi resta da capire come si faccia a seguire l'auditel in diretta mentre si conduce, ma un giorno lo capirò. Come vi racconto nel post citato, e come avevo scritto su Twitter cinque giorni prima, per me era chiaro che quella trasmissione sarebbe stata un trappolone. Era stata costruita per esserlo, ne ero consapevole, come ero consapevole che sarebbe stato l'ultimo: perfino il prestigioso TvBlog lo riportò con dovizia di particolari (inutile dire che di tutto questo dibattito sul Dibattito all'epoca non seppi nulla: avevo altro a cui pensare). Testimonianza questa del fatto che, a mia insaputa, all'epoca ero già un personaggio.

A scanso di equivoci, preciso che i rapporti erano rimasti cordiali. Non vorrei che dal modo diretto, personale con qui questo blog viene condotto e scritto qualcuno desumesse che io trasformo le questioni politiche in questioni personali! Certo, la politica la fanno le persone, ma ci sono quelle due paroline magiche che sempre vi ripeto (dinamiche oggettive) che dovrebbero farci deporre le animosità e i rancori. Del resto lo dicevo: "senza avvelenarci". Così, quando me lo ritrovai accanto in Senato, i rapporti erano, ovviamente, cordiali, come devono essere fra colleghi. Tuttavia, il dato è che un personaggio così... come dire... haut en couleur, lo tenevamo rigorosamente fuori dalle chat importanti (o che ritenevamo tali: diciamo dalle chat di vertice), e il suo modus operandi, molto articolato sul caro e vecchio "dimo famo", lo escludeva dalle riunioni più rilevanti. Che lo volesse e ne fosse consapevole o meno, era proprio la sua ostentata vocazione barricadera a neutralizzarlo, a vietargli l'accesso ai luoghi del potere (o di quel che ne resta in una colonia), e quindi a impedirgli di influire, di condurre nei fatti le battaglie che tanto bene (ma meno di noi!) conduceva a chiacchiere!

Il dubbio se ci fosse o ci facesse non mi impediva di dormire la notte. L'importante era che non mandasse per aria quello che stavamo facendo. La resistenza al MES è stata possibile non grazie, ma malgrado lui, ed evitando scrupolosamente di coinvolgerlo, ad esempio!

Ora la spina l'amico se l'è staccata da sé, con motivazioni che meritano un'accurata analisi:


Quindi il ragionamento è: io fondo un partito per combattere una battaglia (che essendo una battaglia politica richiede numeri), ma poi, quando vedo che altri partiti la sostengono in modo coerente, lo sciolgo, perché la coerenza degli altri sottrae spazio al dissenso che voglio esprimere.

Mi sembra che ci sia parecchio che non torna, giusto?

Intanto, il partito di Gian si chiama (o chiamava) Italexit: un brand su cui si è molto discusso, ma che incarna una battaglia assolutamente degna di essere combattuta. Non si capisce in che modo il fatto che il Parlamento italiano abbia dato un segno di vitalità svuoti di significato questa battaglia. Non è semplicissimo capire cosa sia successo. Magari chi ha innalzato questo vessillo si aspettava di avere più seguito? Oppure era lui il primo a non crederci, a non saper argomentare il perché di una certa proposta politica (e forse proprio per questo non riusciva ad aumentare il proprio consenso)? Certo è che da qualche tempo serpeggiava un certo scontento. Gli iscritti lamentavano la mancanza di un chiaro indirizzo politico, diciamo così, cioè si sentivano presi per i fondelli. Oppure, ancora, cominciavano a intuire che lo scopo del progetto non fosse additivo (dare una speranza agli elettori delusi e impaludati nelle sabbie mobili dell'astensione) ma sottrattivo (togliere quello zero virgola che, soprattutto negli uninominali, potesse consentire al centrodestra di prevalere sul centrosinistra)? E che in questo caso, una volta raggiunto l'obiettivo, la conseguenza naturale fosse buttare nel cesso tradire i militanti che avevano permesso di conseguirlo?

Non credo a tanta perfidia. Ripeto: dinamiche oggettive. Quello che dice Paragone è giusto: purtroppo per chi vuole cambiare le cose c'è solo la Lega. Deal with it.

Ma basterà questo tanto illustre quanto sonoro tonfo a sgominare i "famoerpartitisti"?

Ovviamente no.

E quindi passiamo ad altro.

Carnevale Maffè

"Il fatto che lo Stato si metta a fare emissioni dirette per i risparmiatori non è una bella notizia: lo Stato deve emettere per gli investitori istituzionali perché valutare il rischio dello Stato non è una cosa facile per i piccoli risparmiatori. Non basta guardare il tasso di interesse, bisogna guardare il rischio, e come fa un piccolo risparmiatore a valutare correttamente il rischio della Repubblica Italiana? Questo è il segnale che dobbiamo dare. I BTP sono comunque uno strumento finanziario: non siamo più negli anni ’80, abbiamo la libertà dei capitali, dal mio punto di vista la corretta educazione a un risparmiatore italiano è: prendere strumenti finanziari diversificati, ben bilanciati, dove si valuta bene il rischio. L’idea di investire direttamente in un BTP a me personalmente non è mai piaciuta e non piacerà mai. Che lo Stato si metta a piazzare titoli direttamente ai risparmiatori non è una notizia matura, è una notizia, come dire, ancora da Repubblica del risparmio provinciale… I tassi sono ancora negativi dal punto di vista reale, avete parlato di aumenti dei tassi: vero, ma siamo ancora in territorio di tassi sostanzialmente negativi o neutri. Quindi il messaggio, cari risparmiatori, è: lo Stato non è mai un interlocutore ottimo, quando si tratta di investire."

(qui, da 1:47).

Sentire una simile sconclusionata petizione di principio su una emittente pubblica (nell'imbarazzo palpabile della conduttrice) il giorno in cui partiva l'asta del primo BTP valore mi infastidì molto. Decisi di lasciar correre. Temporeggiare è un'opzione tattica la cui validità non può essere sopravvalutata. Avendo temporeggiato, oggi posso dire che se per Carnevale Maffè "lo Stato non è mai un interlocutore ottimo, quando si tratta di investire", per la Banca d'Italia la banca presieduta da Carnevale Maffè pare non sia una interlocutrice ottima quando si tratta di depositare i propri risparmi. Sarà poi la storia a giudicare. Il piccolo risparmiatore provinciale italiano non sarà in grado di valutare il rischio, ma a quanto pare questa è una malattia diffusa.

Di lui conservo un caro ricordo. Un annetto dopo l'episodio che vi ho ricordato qua sopra (l'apertura della stagione de La Gabbia nel settembre 2013), l'amico di cui qui parliamo volle incontrarmi a cena a Milano. Io ero con due di voi, che se lo ricorderanno (e credo che capirono allora che il blog era una cosa importante). L'argomento era il solito: quanto sei bravo, quanto sei bello, certo le tue tesi sono un po' estreme, però sei molto bello, sei molto bravo, ma... hai esaurito la tua spinta propulsiva! Vieni con noi, avrai un pubblico più ampio, le tue idee avranno più risonanza, certo dovrai un po' sorvegliare la tua prosa, ma ne trarrai vantaggio, ecc. ecc.

Io opposi un cortese ma fermo: "Le faremo sapere, chiamiamo noi!"

Poco dopo nacque Econopoly:


L'anno dopo mandai a stendere il Sole 24 Ore:

Per inciso: nel 2015 facevo 800.000 pagine mese da solo, figurati se avevo bisogno di andarmi a cacciare in una simile compagnia! Ma anche lì l'argomento era lo stesso: espresso non come "non buchi lo schermo!", ma come "ormai hai esaurito il tuo potenziale!".

S'è visto!...

Resta per me un grande mistero come faccia (o abbia fatto, non so le loro ultime vicende) un gruppo editoriale collegato a una importante associazione datoriale ad avvalersi di certe voci:


Evidentemente queste voci avranno un pubblico!

Il che mi fa pensare, e qui concludo, che la democrazia rappresentativa forse tanto bene non funziona, perché io non credo di rappresentare il pubblico di questa roba qua (mentre la bibliometria tutto sommato va rivalutata, perché quando si dice "non vale un'acca" ci si riferisce, evidentemente, all'h-index).



(...insomma: io non dico che dobbiate necessariamente essere miei amici! Dico solo che vi conviene scegliere bene i nemici. Se volete un consiglio: sceglieteli impazienti e smemorati...)

(...amico, qui c'è un risparmiatore provinciale che ha messo tutto in BTP e ha una cosa da dirti...)

(...aspettiamo a breve il prossimo...)