...non poteva che finire così!
Io che in quarant'anni non mi sono mai perso in montagna, nonostante nebbia, neve e notte, non potevo che perdermi alla mia prima escursione con l'esperto del luogo, con l'autoctono!
Bisogna sempre diffidare degli esperti, perché fatalmente cadono nella rete dell'inganno più insidioso, l'overconfidence, che tante vittime ha mietuto, non solo sui mercati finanziari.
L'amico mi aveva detto: faremo un anello!
Io, che scorte di energia ne ho (fin troppe), scorte di acqua ne avevo prese, e col mio zaino sovradimensionato ero pronto ad affrontare un range abbastanza ampio di condizioni metereologiche, non ero stato troppo a informarmi. Poteva sembrare che non mi fidassi, e infatti non mi fidavo, per il semplice motivo che quando si tratta della mia pelle mi fido solo di me (o del mio medico, più esattamente di uno di loro...). Ma proprio per questo, tanta (e tanto misconosciuta) era la mia delicatezza che non avevo chiesto "de preciso" dove saremmo andati, un po' per fatalismo, ma soprattutto perché per motivi di lavoro non avrei avuto il tempo di compulsare nevroticamente le carte e i repertori di itinerari della zona, bellissima (cioè abruzzese) ma a me ignota. Per una volta volevo saperne meno dell'autoctono, o, per meglio dire, volevo dare all'autoctono la soddisfazione di saperne più di me, volevo insomma lasciarmi sorprendere.
Ironia della sorte, eravamo alle falde di un monte di cui avevo negato l'esistenza a un amico proveniente da una regione che non esiste (il Molise): il Monte Meta, che per me era solo questo, mentre per lui era anche questo.
Aveva ragione lui (ma fino a un certo punto, perché il primo in realtà si chiama "la Meta", tout court).
L'amico (quello autoctono) voleva giragli intorno partendo dalla fine della sterrata e verosimilmente tornandoci, ma senza carta, senza bussola, senza GPS. Del resto, basta poco, che cce vò: è una collinetta di 1784 metri (cento meno del Secine) e dovevamo solo girargli intorno.
Vi spiego in breve com'è andata, con l'aiuto di questa diapositiva:
tratta da qui (cioè da uno di quei siti che di solito consulto prima quando da umile non autoctono mi organizzo per riportare la pelle a casa...).
Parcheggiata la macchina alla fine della sterrata (puntino rosso in basso), in località Vallopiana, partiamo seguendo l'indicatore per Valle Strina:
con l'idea di percorrere un anello in senso antiorario (quello evidenziato in fucsia). Sentiero ottimamente segnato, arriviamo in breve alla Valle Strina, appartata, solitaria, bellissima. A Capo di Serre troviamo un indicatore che ci segnala a destra la deviazione per il Vado di Focina, cioè questa qui:
ricalcata in violetto (Vado di Focina è il "guado", il colle che si affaccia sull'alta Val Pescara, precisamente sulla patria dell'arrosticino: Villa Celiera), ma noi proseguiamo lungo la valle proseguendo verso Nord, fino a quando non si palesa, a una strettura, la mole del Prena:
Mai viste così tante genziane:
e tanta altra vegetazione con cui non vi tedio. Proseguendo, la vista si apriva sempre più su Campo Imperatore, visto da sud, con (da destra a sinistra) Camicia e Prena:
Il piccolo Tibet d'Abruzzo, ma anche lo scenario di tanti spaghetti western. A un certo punto pieghiamo a Nord Est, seguendo un sentiero laterale, e ci fermiamo a mangiare nel punto più a Nord dell'anello, vicino a un roseto, da qui si godeva di una vista magnifica su Campo Imperatore, col ristoro Mucciante, Fonte Vetica, e tutte le cose che chi sa vedrà e a chi non sa non interessano:
Rinfrancati, ripartiamo, e qui attenzione, perché arriva l'errore. Ci muoviamo verso Sud Est seguendo la freccia rossa:
ma io ero convinto che ci stessimo muovendo verso Sud, perché non mi ero reso conto che dal crinale principale, evidenziato dal tratto celeste, si distaccava un crinale secondario, evidenziato in giallo, che si muoveva, appunto, verso est. Quindi, mentre io pensavo che stessimo restando sul ciglio occidentale dell'altipiano del Voltigno, in realtà ne stavamo percorrendo il ciglio settentrionale in direzione Est (cioè verso Vado di Focina - Villa Celiera).
Ora, come ben sanno gli #abruzzesiautentici e i #parlamentarichefrequentanoilterritorio, quindi, ça va sans dire, non io, il nome del Voltigno è associato a tristi ricordi. Questo per dirvi che se tutto mi predisponeva all'ottimismo (il tempo smagliante, la vegetazione lussureggiante, il sentiero comodo e ben segnato, e le tante creaturine del buon Dio
che accompagnavano il nostro cammino), una certa sottile inquietudine comunque mi permeava, quella tensione con cui inizia ogni episodio delle serie americane che tanto mi conciliano il sonno, al cui inizio, invariantemente, uno o più personaggi ignari e spensierati si imbattono, quando meno se lo aspettano, nelle macabre vestigia di un qualche orrendo crimine. E insomma, si va e si va, e io mi aspettavo (pensando di andare a Sud) di imbattermi prima o poi nel sentiero che partiva da Capo di Serre e che mi avrebbe permesso (pensavo), traversando verso Ovest, di tornare nella Valle Strina, e da lì alla macchina. Sarebbe in effetti stato così se i capricci della tettonica non ci avessero messo in mezzo il crinale giallo! Seguendolo, arriviamo a un altro segnavia, in località "La Zingarella":
e li qualquadra non mi cosa, perché a destra mi sarei aspettato la Valle Strina! Comunque, con l'esperto, decidiamo che è meglio andare a destra (cioè, credevamo noi, a Ovest) che a sinistra. Invece destra era Sud, perché eravamo ruotati di 90 gradi! Entriamo in una faggeta solenne, popolata di faggi colonnari:
ed estremamente poco frequentata. A un certo punto, penso che anche se il segnale non c'è, la bussola del telefono dovrebbe funzionare. Do un'occhiata, e mi rendo conto che stiamo procedendo verso Est, cioè, per capirci, verso Villa Celiera (patria dell'arrosticino), non verso Villa Santa Lucia, insomma: verso il margine dell'altopiano opposto a quello in cui avevamo parcheggiato. Si apre a destra (che a questo punto è Sud) un sentiero con segni bianco-rossi, ma anche sbarrato da qualche ramo. Decidiamo di andare a Sud seguendo i segni, finché i segnali terminano e il sentiero non riesce su un prato ripido, popolato di verbaschi in piena fioritura:
che finalmente ci consente di capire dove siamo: non sul margine occidentale, ma su quello settentrionale dell'altopiano, verso il quale dobbiamo scendere per risalire poi sul bordo occidentale che ora è alla nostra destra:
Eravamo dove non avremmo dovuto essere, ma almeno lo sapevamo. La cosa non è priva di vantaggi, del resto. Il mio amico, cui lasciavo fare il passo, vede davanti a sé un grosso felino selvatico (bella esperienza: io guardavo a dove mettevo i piedi), segno evidente che da lì nessuno mai passava. Con qualche minima cautela, perché l'erba alta non facilita il passaggio (e può nascondere qualche sorpresa) arriviamo al fondo del catino, che presenta tratti da brughiera irlandese:
Sulla nostra destra la pastorella Giulia con le sue pecore (questa è un'altra storia su cui non mi dilungo):
e di fronte a noi un lago di erba rigogliosa e in fioritura: fioriva la scabiosa, fioriva il verbasco, fioriva soprattutto la piantaggine:
una pianta che, con le sue spighe prodighe di polline, riesce sempre a commuovermi. E, in effetti, solo grazia a un minimo di copertura antistaminica riesco ad arrivare vivo al ciglio dell'altopiano da cui dovevamo riguadagnare la macchina. Volto lo sguardo indietro:
ci facciamo i duecento metri di salita all'ombra, ma lì partono lacrime e starnuti (che è sempre meglio di lacrime e sangue):
Il problema non era nemmeno questo, quanto il fatto che l'amico carissimo che mi aveva portato con sé, avendo qualche anno più di me, era passato per qualche malanno che presumo aspetti al varco anche me (ma va detto che il mio rapporto con le analisi cliniche è come quello con le carte geografiche: le uso per evitare sorprese, mentre il suo rapporto con le analisi cliniche è come quello con le carte geografiche: non le usa, forse perché ama le sorprese, che però in caso di negligenza raramente sono buone...). Insomma: al momento di affrontare la salita mi dice che era la prima escursione che faceva dopo un intervento non banale. Un pensiero mi traversa la mente: "Ho trovato uno che è più testa di cazzo di me! Ecco perché mi sta simpatico. Ma ora come lo riporto su?"
Con qualche pausa (e uno scenario di disaster recovery che prevedeva che io andassi su rapido a prendere la macchina e poi scendessi per la sterrata a prenderlo) tutto si risolve per il meglio, e in cima al ciglio dell'altopiano assistiamo allo spettacolo della nebbia che agli irti colli piovigginando sale:
Conclusione fresca di una giornata non calda e ombreggiata, per fortuna, visto che mi ero dimenticato la crema solare (no comment: sul Monte Amaro mi sarei scortecciato come una betulla).
La morale della favola è che un occhio alla bussola conviene comunque darlo (peraltro io ho anche un lussuosissimo GPS ma devo imparare a usarlo e sono un po' neofobo...).
Tuttavia, nonostante questo aneddoto durato 15.6 km contenga interessanti ammaestramenti, non era di questo che volevo parlarvi. Volevo invece soddisfare questa curiosità:
KitKot3 ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Il suicidio europeo (ancora sulla produttività)":
Buongiorno, come da sua richiesta le rammento:
>Chiedo venia per il fuori tema, ma potrebbe esplicitare in un breve post l'ultima frase del suo TW?
Grazie.
TW @AlbertoBagnai 7:41 AM · 11 nov 2024
Pubblicato da KitKot3 su Goofynomics il giorno 16 nov 2024, 07:44
A me sembrava di essere stato abbastanza esplicito:
ma posso provare a esserlo di più, in base al noto principio "meglio perdere un amico che una buona risposta".
Non è perché l'attacco alla proprietà privata è di sinistra che l'overtourism debba diventare di destra, perché è di destra anche la difesa dell'identità culturale.
Capisco e politicamente sostengo la battaglia politica perché chi è proprietario di appartamenti possa, entro determinate regole, disporne come desidera, ma non assocerei questa battaglia alla negazione del fatto che l'overtourism sia oggettivamente un problema in realtà come Roma, e possa potenzialmente diventarlo ovunque si sragioni di "turismo come petrolio del Paese". Tra l'altro, le masse di barbari lobotomizzati, teleguidati con le cuffiette da guide annoiate e frettolose, non credo alberghino in B&B. Si può quindi difendere l'affitto breve senza denigrare chi difende il proprio diritto a essere se stesso nel proprio mondo, e chi denuncia l'assurdità di certi modelli di sviluppo totalmente sbilanciati.
Sarà che da toscano mi capita di essere ormai straniero in patria, una patria devastata, deturpata, mutilata da orde di turisti e dal desiderio suicida di offrire loro la Toscana che si pensava che loro si immaginassero e chiedessero, in una sorta di perverso beauty contest keynesiano:
(qui per i neofiti), anziché, semplicemente, la Toscana risultante dall'essere e voler essere se stesso (e quindi, tra l'altro, non particolarmente ospitale) di ogni toscano! In effetti, quando Claudio ha tuittato, in un afflato di sincerità dal quale escluderei intenti di captatio benevolentiae:
avrei avuto (da toscano) la risposta immediata: "Lo so io cos'è, gli è che tu in Toscana un ci sei nato!"(ma mi sono morso la lingua e non l'ho detto perché sembrava poco carino).
Per me la Toscana non potrà mai più essere felicità, ma solo lutto. Il centro di Firenze sventrato dai turistifici mi accora e mi abbatte quanto l'idea che qui presto troveremo una di quelle carbonarerie H24, dove buttadentro slavi attirano nuovi benestanti cinesi allettandoli con un bel piatto di pasta scotta da mangiare sorseggiando un cappuscheeno a qualsiasi ora del giorno e della notte (capisco il jet lag, ma Dio santo!). Anzi, a dire il vero Firenze mi deprime più di Roma, perché Roma l'ho sempre e solo subita e gestita, mentre in fondo Firenze fino agli otto anni è stata casa mia.
E il paradosso è che ora vedo pregiati esponenti di classi politiche orgogliosamente autoctone costruirsi "sul territorio" un destino di sradicati, andando alla ricerca non di se stessi, ma di quello che secondo loro "il turista" potrebbe desiderare. Tanto orgogliosi di appartenere al centimetro quadrato in cui sono nati, e solo a quello, quanto ansiosi di lasciarlo devastare da un'orda di automi standardizzati che sorseggiano uno spritz con una pizza margherita alle 10 come si abboffano di spagetti bolognaise alle 17.
Ora, per carità: esattamente come il diritto alla proprietà privata, anche quello alla mobilità è sacro e inviolabile.
Ma il diritto a non farsi rompere i coglioni vogliamo prenderlo in considerazione, per un futuro abbozzo di carta fondamentale?
Potrebbe aprire prospettive innovative.
Perché alla fine la mobilità è anche quella del romano che vorrebbe poter andare dal punto A al punto B senza testare infinite volte il principio di impenetrabilità dei corpi, o vorrebbe poter tornare in locali di qualità non spiazzati dalla legge di Gresham (nella versione secondo cui la ristorazione cattiva scaccia la buona).
Si tratta di un'ipotesi, che vi sottopongo astrattamente, perché per me che nella natura ci vado, e che ne leggo il linguaggio semplice e piano, è piuttosto chiaro che il mondo al disotto dei mille metri presto diventerà insalubre: ci facciano quindi ciò che vogliono, e noi attrezziamoci in una defensible position.
Da Roccaraso è tutto, ora scatenatevi, che io dormo. Domani (cioè oggi) andrò sul Monte Zurrone per una bella cerimonia, ma anche di questo parleremo un'altra volta.
Nessun commento:
Posta un commento
Tutti i commenti sono soggetti a moderazione.