La situazione del nostro paese non è semplice, e questo lo vediamo tutti. I motivi sono tanti, e
qui ce n'è una lista esauriente. Volendo però "prioritizzare", credo che una chiave di lettura efficace ce la fornisca niente meno che la quarta carica dello Stato, Bruno Vespa, che nel suo ultimo libro pare si chieda: "
Siamo italiani, siamo bravi. Perché non reagire?". Consiglio di leggere attentamente, e a seguire fornisco la mia risposta: non riusciamo a reagire perché siamo stati occupati dalle SS.
No, aspettate, non vorrei ci fosse un equivoco! Non sto parlando di quei buontemponi dalle divise impeccabili che arrivavano cavalcando rombanti moto con sidecar per commettere con la proverbiale efficienza germanica le efferatezze figlie (oggi ci dicono) del nazionalismobrutto. Le Schutz-staffeln non ci sono più, e, se ci fossero, sarebbero per noi meno distruttive delle nuove SS: le Sinistre Subalterne.
Salto l'ovvia premessa, che, oltre a non essere originale, credo sia familiare e condivisa dai lettori di questo blog e di Orizzonte48: il maggioritario, come mi pare avessero chiarito
ex ante tanti politologi (ma io non sono un politologo, quindi non vi saprei dare un riferimento), è un modo per costringere gli elettori a scegliere fra due destre. Qui ci occupiamo della destra che fa finta di essere una sinistra, e che quindi, come ho chiarito
fin dal mio primo intervento nel dibattito, e come è del resto piuttosto scontato, è quella che viene regolarmente incaricata di fare il lavoro sporco per il capitale. Ma attenzione: se il problema fosse che il maggioritario serve al capitale per canalizzare il dissenso verso una falsa alternativa, prevenendo la formazione di spazi politici alternativi, forse la soluzione sarebbe relativamente facile. Alla fine, la gente vota anche un po' col portafogli!
Solo che, vedete, se è il male che vince, e il bene che perde, è anche perché il male è piuttosto scaltro. In particolare, qui da noi questa scaltrezza si manifesta col fatto che di sinistre ce ne sono due: non c'è solo quella dei macellai dal grembiule rosa (impersonata dal compagno Renzi del jobs act, che poi è il compagno - di merende - del compagno Hollande della loi travail e del compagno Schroeder delle riforme Hartz). Alla sinistra di governo (che è una destra) si associa una sinistra "critica" (che non è una sinistra), accomunate entrambe da una caratteristica che non dovrebbe essere "di sinistra": la subalternità (al capitale).
Il motivo per il quale non reagiamo, come Vespa (giustamente) chiederebbe che facessimo, è perché siamo stati occupati dalle SS, le Sinistre Subalterne. Per dirla in modo più aulico: quella parte dello spettro politico che non si identifica con partiti conservatori (i quali, per definizione, non vogliono "reagire": vogliono lasciare le cose come stanno, conservarle), è occupata da partiti che obbediscono, in modo diverso ma ugualmente distruttivo, alle logiche più miopi del grande capitale.
Lo ripeto: sinistra "di governo" e sinistra "critica" sono entrambe subalterne, ma in modi diversi e con conseguenze diverse. In particolare, se la subalternità della sinistra di governo è più facile da smascherare e da combattere (quindi, potenzialmente, meno esiziale per quanto riguarda la possibilità di articolare un discorso di opposizione al sistema), la subalternità della sinistra critica è quella che effettivamente paralizza in questo momento qualsiasi capacità di reazione del paese.
Vediamo allora come si manifestano, queste due subalternità.
Quella della sinistra di governo, credo lo abbiate constatato tutti, si manifesta nell'idea che occorre piegarsi ai voleri di entità sovranazionali, in modo da acquisire la reputazione di paese disciplinato nell'osservare le regole, perché questo consentirà, in un indefinito futuro, di sedersi a un ipotetico tavolo di un fantomatico negoziato avendo una evanescente credibilità che consentirà di difendere con una improbabile risolutezza delle imprecise rivendicazioni.
Insomma, sarebbe il calendismo, dal nome del figlio d'arte: quello che vuole
rispettare le regole per cambiarle. In realtà, chi vuole rispettare le regole lo fa perché vuole rispettarle, e vuole rispettarle perché, come sappiamo benissimo qui,
avendo letto Featherstone, la medicina amara che le regole impongono va bene a lui per primo, dato che il risultato di queste regole è sempre e comunque una ridistribuzione del reddito dal basso verso l'alto, cioè verso gli strati sociali dove,
comme par hasard, si trova chi queste regole vuole imporci. Faccio notare che il simpatico Calenda, pur avendo dato una veste piacevolmente dadaista a questa filosofia politica, non se l'è certo inventata: in fondo, l'idea di soggiacere a regole esterne, deprecandole, non è altro che il "paradosso della debolezza", teorizzato a metà anni '90 da Edgar Grande:
Insomma: nel
balletto fra Padoan e Moscovici, tanto per capirci, si percepisce immediatamente che i due stanno dalla stessa parte, e che quella parte non è la nostra, ma (legittimamente) la loro!
Ora, questa subalternità è relativamente facile da smascherare. La letteratura scientifica l'ha teorizzata 20 anni or sono, come pezzo importante della strategia complessiva di espropriazione della democrazia, quella strategia che consisteva nell'attribuire ad organismi "
al riparo del processo elettorale" la responsabilità di decisioni classiste e contrarie agli interessi della maggioranza. Inoltre, si dovrebbe capire (se si fosse di sinistra) che esistono i rapporti di forza, e che il piegarsi a chi ci vuole sottomettere non è il modo migliore di gestirli. Non lo è in generale, e non lo è riguardo alla Germania,
dominus di queste regole, con la quale,
come ci ha chiarito tanto bene Flassbeck (economista tedesco) semplicemente non si tratta. Si va lì, e si dice: "noi faremo così, e ti suggeriamo di cooperare". Non è possibile che un paese come il nostro, che ha una configurazione di fondamentali tutto sommato favorevole (surplus primario di bilancio statale, surplus di partite correnti, rischio da redominazione basso o addirittura,
secondo stime recenti, inesistente), e che al contempo, se uscisse, farebbe saltare il banco, non usi questo potere negoziale.
O meglio: non sarebbe possibile, se chi ci governa non fosse convinto della bontà dell'agenda che ci viene imposta, perché da questa agenda trae vantaggi in termini di classe (spostamento della distribuzione del reddito a favore del capitale) e personali (Padoan che vuole andare a Bruxelles e Calenda che vuole tornarci, ad esempio).
Insomma: la sinistra di governo è subalterna perché persegue una politica di destra volendolo fare, e naturalmente facendo finta di non farlo, salvo attribuire all'"Europa" la responsabilità della marachella, quando viene scoperta!
Ma anche la sinistra critica è subalterna, perché si lascia dettare l'agenda politica dalla destra.
Il meccanismo, in questo caso, è diverso, ma il risultato è analogo. Il fatto è che, c
ome D'Attorre ha onestamente ed efficacemente riconosciuto sul Fatto Quotidiano, la cosiddetta "sinistra" ha sostenuto per anni un progetto che di sinistra non era: l'euro. Lui la butta sul costituzionale, e fa benissimo: sono argomenti fondati. Ma qualsiasi economista "critico" dovrebbe porsi la domanda che ho posto ieri ai miei colleghi qui a Manchester: come avete potuto credere che fosse "di sinistra" un progetto che affida le proprie speranze di salvezza alle virtù riequilibratrici della mobilità dei fattori di produzione, cioè del capitale (Maastricht) e del lavoro (Schengen)? Credere che facilitando il gioco delle forze di mercato tutto vada a posto vi sembra di sinistra?
In effetti, non lo è, e il problema della sinistra critica è che sa di aver propugnato politiche neoliberiste, e se ne vergogna (forse anche perché ci ha guadagnato di meno di quanto ci abbiano guadagnato, a livello di classe e personale, gli esponenti della sinistra di governo): di conseguenza, vive una fase adolescenziale nella quale, come ogni adolescente (er Palla docet), deve costruirsi un'identità attraverso la negazione. Insomma: questa sinistra che per decenni è stata ottusamente, meschinamente e autolesionisticamente fascista oggi deve affermare non tanto il proprio essere "sinistra" (quindi patria di proposte critiche e consapevoli a difesa delle classi lavoratrici - da definire in modo coerente con la realtà attuale), quando, in modo disperato, grottesco, caricaturale, il proprio non essere "destra".
Invece di intraprendere una strada di riflessione seria, che oggi tanti testi potrebbero favorire, questa "sinistra" prende una strada più semplice, ma di più sicura presa su un elettorato che, pur percependo il tradimento ed essendo schiacciato dai suoi risultati, non riesce a spogliarsi dalla logica dell'appartenenza: semplicemente, negare che i problemi sollevati dal nemico di turno siano rilevanti.
Salvini dice che l'euro è un problema? E allora l'euro non è un problema. Salvini dice che l'immigrazione è un problema? E allora l'immigrazione (e la migrazione interna, da non dimenticare mai) non sono problemi.
E via così, con tutti i simpatici corollari: Bagnai ha parlato con Salvini? Allora non è di sinistra. Bagnai è amico di Borghi? Allora io non ci parlo.
Ora, partendo dalla fine: a me di non parlare con quattro coglioni scappati di casa potrebbe anche non interessarmi molto. Qui parlo con Marc Lavoie, con Malcolm Sawyer, con Tony Thirlwall, ecc. Non ho certo bisogno di trarre legittimazione né stimoli intellettuali dal dialogo con dei cretini. Il punto quindi non è questo e non è mai, per quanto mi riguarda, personale. Tutti i punti che sollevo sono sempre e solo politici, e se sembrano personali è solo perché, per motivi che non capisco, in Italia questo blog e la mia persona sono stati finora il dibattito sull'euro. Dato, questo, paradossale, perché, come vi ho sempre detto, le idee che ho portato in questo dibattito per lo più non sono mie, e tante persone, incluse quelle che oggi ragliano oscene imprecisioni dalle colonne di giornali eccessivamente compiacenti, avevano capito prima e meglio di me dove andasse a parare il progetto.
Il problema politico è evidente: se tu ti rifiuti di considerare come problematici dei temi che sono portati nel dibattito politico dal personaggio che hai eletto come nemico di riferimento per ricostruirti una identità, di fatto lasci che sia questo personaggio a definire (se pure in negativo) il tuo programma politico.
Ora, bisognerebbe capire una cosa, che, mi rendo conto, è difficile da capire per chi ha operato per tanti decenni nel perimetro ristretto della logica dell'appartenenza. Esattamente come gli elettori non sono "i nostri elettori", i problemi non sono "i nostri problemi". I problemi (la deflazione salariale imposta dall'euro, la gestione della migrazione funzionale a questo progetto di deflazione) sono di chi ne soffre, e chi ne soffre sono gli strati sociali più bassi (inclusi commercianti, professionisti, piccoli imprenditori manifatturieri e dei servizi non finanziari, coltivatori diretti, ecc.). Se vuoi essere di sinistra, devi risolvere i problemi di queste persone, che non sono risolvibili se non attraverso una ridefinizione complessiva del rapporto dell'Italia con l'agenda neoliberista europea (euro compreso, per i motivi spiegati sopra, ovvero perché l'integrazione finanziaria attribuisce al capitale un devisivo vantaggio sul lavoro, come ho spiegato con dovizia di dettagli
il primo maggio scorso). Questa sinistra che non capisce che facendo favori al capitale non si fanno favori al lavoro dà un pessimo spettacolo di sé, e induce ai peggiori sospetti.
Associata all'idea che "non bisogna parlare di euro o di migrazione perché questi sono i temi di Salvini" (e non dei poveracci che ne soffrono) è anche l'idea che "noi dobbiamo ricominciare a parlare al nostro popolo" (espressa larvatamente da D'Attorre). Un'ottima idea, che incontra però due ostacoli: il primo è che è difficile rivolgersi a persone la cui vita è devastata da un problema, partendo dalla negazione della rilevanza di quel problema "perché è un tema di Salvini" (o "delle destre nazionaliste populiste xenofobe che fanno piangere la madonnina di Berlaymont"). Il secondo è che se i tuoi numeri sono il 5%, non fosse che per un fatto di aritmetica, devi attrezzarti per parlare anche agli elettori degli altri, e possibilmente per toglierglieli.
Non entro qui in un discorso più ampio, che ovviamente non sarebbe compreso: la patria è in pericolo (sì, lo dico apposta in un modo tale che i coglioni non possano capirlo: ma io non sono un politico...), e quindi occorrerebbe rivolgersi agli italiani, anziché al "nostro popolo" (fra l'altro, presupponendolo in tal modo etnicamente superiore agli altri popoli della penisola, e questo nel momento stesso in cui ci si scaglia contro il razzismo xenofobo!). Se ci fate caso, Bruno Vespa lo fa (da persona intelligente): si rivolge atli italiani, e questo è solo uno degli innumerevoli esempi di come la sinistra adolescenzialmente subalterna si lasci sorpassare a sinistra dalla destra (Vespa non credo possa essere visto come un pericoloso rivoluzionario: ma è, lo ripeto, una persona intelligente).
Supponiamo di non voler entrare quindi in un discorso di interesse nazionale (ma perché poi non farlo?). In ogni caso, il problema è che se dal 5% vuoi passare al 10%, e poi al 20%, e non hai dietro i capitali di qualche potenza politica o economica estera, come minimo devi cercare di allargare lo spettro del tuo consenso evitando di rivolgerti al tuo feudo. Ecco: proviamo a fare uno sforzo di immaginazione, proviamo a immaginare che in una democrazia rappresentativa gli elettori non siano i "tuoi" elettori (come nei romanzi russi le "anime" sono del proprietario terriero), ma siano una risorsa contendibile. A questo punto la domanda è: cerco di appropriarmene negando rilevanza ai loro problemi (perché sono "problemi della destra", in senso soggettivo), o cerco di capire che questi problemi sono oggettivamente frutto di una strategia capitalistica facilmente individuabile, e quindi elaboro una critica di questa strategia?
La sinistra critica subalterna non riesce a fare gli interessi della classi subalterne molto di più di quanto ci riesca la sinistra di governo subalterna, dalla quale però, almeno, non ci aspettiamo che voglia farlo.
Tornando quindi all'inizio, cioè alla domanda di Vespa: riusciremo a reagire quando la sinistra critica uscirà dalla fase adolescenziale, e invece di costruirsi un'identità "per negazione", il che la priva di qualsiasi spazio di reale proposta politica (perché i temi che affliggono le classi lavoratrici sono per troppo tempo stati lasciati alla destra, come avevo vanamente prefigurato nel 2011), si costruisca un'identità positiva, facendo proposte alternative che non siano "non ne parlo perché ne parla Salvini (ieri Berlusconi, domani chissà)", ma siano la costruzione di un modello di società più equo. Questa costruzione passa attraverso una consapevolezza che la sinistra critica non ha perché non vuole averla, e perché si è fatta scippare dalla destra i testi che la propongono. Non è stata una mossa molto intelligente, anche se forse alternative non ce ne erano. Il
mea culpa di D'Attorre potrebbe essere il primo passo di un percorso diverso, di riscatto, quello che qui abbiamo chiesto fin da
Eurodelitto ed eurocastigo. Alla fine, quattro anni dopo, ci siamo arrivati perché dovevamo arrivarci. Questo passo sarà efficace e indicherà un vero cambiamento di rotta solo se sarà seguito dalla scelta adulta di definire autonomamente (e non in negativo) i temi della propria proposta politica, partendo da una prassi che qui pratichiamo, ma che i partiti sembrano aver dimenticato: l'ascolto.
Solo definendo i problemi oggettivamente, strategicamente, rispetto a chi ne soffre, anziché soggettivamente, tatticamente, rispetto a chi li ha messi sul tavolo, una delle due sinistre (quella "di sinistra") riuscirà a liberarsi dalla sua subalternità. Se non lo farà, verrà fatalmente sorpassata a sinistra dalla sinistra "di destra". Il che, forse, ad alcuni potrebbe anche non sembrare un problema: non importa se il gatto è cremisi o scarlatto, basta che ci tiri fuori dalla trappola. E invece il problema credo ci sia: la mancanza di consapevolezza (che certi terroristi della sinistra "di sinistra" hanno finora attivamente fomentato) è il pericolo più grande che ci aspetta nella gestione del "dopo",
come ci siamo già detti.
Speramo bene.