Vi ricordate i tempi eroici degli inizi? C’era quel tipo
strano, quel giornalista, Donald, come lo chiamavamo, che aveva trovato una
teoria della Provvidenza,
la
MMT, che avrebbe salvato il mondo, e i suoi santoni erano cinque colleghi
americani, uno dei quali, Wray, non venne mai in Italia, mentre gli altri, uno
dopo l’altro, sparirono, quando realizzarono (secondo me un filo troppo tardi)
che andare in giro accanto a un tipo strano non era esattamente il miglior modo di
render servizio alla propria credibilità scientifica (per quanto nelle tournée
in provincia si possa anche essere accomodanti, se il cachet è buono).
In effetti, io stesso avevo grosse difficoltà a collocare
quello strano manipolo di colleghi sia politicamente (nello spettro che va dal
patologicamente ingenuo al pericolosamente losco, perché in fondo timeo Yankees et dona ferentes...), sia
scientificamente, perché quello che trapelava delle loro teorie miracolose era,
nel referto ecolalico ed agglutinato degli adepti, una orrenda mistura di
banalità presentate come teorie miracolose (i saldi settoriali), e di sconclusionate assurdità. Ho capito
dopo, soprattutto grazie a Gennaro Zezza (santo subito) che i colleghi né si fregiavano
delle banalità (era il giornalista de cujus che le enfatizzava, essendo molto probabile che fossero le
uniche cose che aveva capito), né propugnavano esattamente le assurdità (che
per lo più diventavano tali dopo esser passate per l’opera di divulgazione
molto testosteronica del simpatico Piero Angela “rivoluzionario”). Una, in
particolare, colpiva la mia immaginazione. Ogni due per tre c’era un bischero
che mi scriveva, o interveniva sul blog, o mi insultava in altri blog, dicendo:
“Ma insomma, Bagnai, lo sanno tutti che la tassazione non serve a finanziare lo
Stato: il suo unico scopo è quello di controllare l’inflazione!”. Al che io
generalmente rispondevo: “Eeeeeeeeeeeeeeeeeeh!?”. E la risposta, saccente, era:
“Certo, perché con la tassazione dreni liquidità, quindi ci sono meno soldi in giro, quindi i prezzi calano, e d’altra parte lo Stato non avrebbe
bisogno di imporre tributi perché basta che stampi”. Al che io opponevo un
cortese ma fermo: “Le faremo sapere, chiamiamo noi...” e la storia finiva lì.
Tutto quello che ricavavo da questo discorso è che c’erano
quattro turisti americani in giro per l’Italia che dicevano di essere
keynesiani e si facevano pagare per raccontare la teoria quantitativa della
moneta, quella secondo la quale, appunto, è la moneta, esogenamente creata
dallo Stato, a causare direttamente i prezzi (dal che consegue che lo Stato è
il nemico dei risparmiatori, dei quali erode i sudati risparmiucci stampando
moneta, ragion per cui questo potere gli va assolutamente tolto). Insomma: il
sogno del fruttarolo nel mio libro, per chi lo ha letto (e chi non lo ha letto si
legga un manuale di economia). “Il mondo è bello perché è vario”, pensavo. “Evidentemente
ci sono persone che possono dirsi keynesiane oggi sostenendo tesi che sarebbero
sembrate fasulle a un neoclassico di fine Ottocento. Finché mi staranno fuori
dai coglioni, bene così.” In effetti si sono attenuti alla distanza di
sicurezza, e poi Gennaro mi ha spiegato che loro non la pensano esattamente
così, che hanno capito, e meglio di me, che la moneta è endogena, ecc. E io
pensavo: “Meglio ancora”.
Tuttavia, continuo a percepire una certa ruggine fra questi
keynesiani ex della Provvidenza (perché nel frattempo il guru tradito ha emesso
una fatwa su tutti loro) e la spiegazione keynesiana standard della dinamica
dei prezzi: la curva di Phillips. La curva di Phillips dice una cosa molto
semplice, condivisibile, e comprovata empiricamente: la dinamica dei salari è
influenzata dal tasso di disoccupazione. Se c’è molta disoccupazione i salari
crescono di meno perché i lavoratori sono in una posizione contrattualmente
debole (pur di avere un lavoro accettano qualsiasi condizione), se c’è poca
disoccupazione i lavoratori hanno il coltello dalla parte del manico: la
domanda tira, e i datori di lavoro, che hanno necessità di soddisfarla,
accettano di pagare meglio gli operai.
Punto.
Non c’è molto di più, e non c’è molto di meno.
Questa teoria è stata attaccata all’inizio degli anni ’70 (più
esattamente, nel 1968) da Milton Friedman e poi dai suoi seguaci per il
semplice e ottimo motivo (dal loro punto di vista) che indicava come l’inflazione
non fosse un fenomeno puramente monetario, ma l’esito di un conflitto “di classe”
(per usare una parola grossa). Questo i neoclassici non potevano ammetterlo, perché sarebbe stato ammettere che l'inflazione non è una variabile "tecnica" ma "politica" (il risultato di un conflitto e di una mediazione), il che avrebbe evidentemente impedito a governi tecnici di atteggiarsi a salvatori della patria prima a Santiago del Cile e Buenos Aires, e poi da noi. Naturalmente, se l’inflazione non è causata
dallo “stampare moneta” (espressione dilettantesca che accomuna i nostrani
adepti della scuola di Chicago, da Giannino a Zingales), allora per
controllarla non occorre “affamare la bestia” (cioè comprimere la sovranità
monetaria dello Stato, e, a monte, quella fiscale, perché se lo Stato non spende
poi non deve nemmeno “stampare”).
Basta semplicemente affamare i lavoratori,
cioè reprimere la domanda in modo che la disoccupazione cresca. Se invece si
vuole il contrario, cioè si vuole che la disoccupazione sia più bassa,
occorrerà accettare un’inflazione moderatamente superiore: verranno erosi i
risparmiucci, forse, e i piccoli Gollum piddini, sconsolati, vedranno “
il loro tessssssoro”
perdere di potere d’acquisto. Però lavoreranno, e così i loro figli, e l’economia
crescerà, e le retribuzioni verranno adeguate al nuovo livello dei prezzi,
eccetera.
Meglio avere più potere d’acquisto nonostante i prezzi siano più
alti, o averne di meno nonostante i prezzi siano stabili? La risposta dei
piddini la conosciamo tutti, la vostra spero, per voi, sia diversa.
Non vi sto a rifare tutta la storia dell’attacco alla curva
di Phillips “da destra”. I dati e i fatti dimostrano che era pretestuoso (per
chi fosse interessato c’è ad esempio “The fall and rise of Keynesian economics”
di
uno de passaggio
– come al solito),
ma quello che mi affascina è l’ipotesi che oggi la curva di
Phillips sia veramente sotto attacco “da sinistra”.
Come dicevo oggi a Radio Padania, ci sono cose che uno come
me, che ha fatto il liceo nei favolosi anni Settanta, non si sarebbe mai
aspettato di poter vedere. La sinistra extraparlamentare che sostiene un
progetto ultracapitalista perché “l’euro è contro il dollaro”, ad esempio.
Ma
certo che eventuali “Keynesiani contro Phillips” mi sembrerebbero meno
credibili dei “Marxisti
per Tabacci” (e mi farebbero considerare seriamente “Feudalesimo e libertà”
come un’alternativa credibile).
Ho rapidamente svolto queste riflessioni (molto più rapidamente
di quanto sia possibile scriverle o leggerle) capitando su
questo
tweet di Stephanie Kelton, un tweet del quale sinceramente stento a capire
il significato (if any). Forse non so abbastanza bene l’americano.
Insomma, par
di capire che per la Kelton la curva di Phillips sia morta: le banche centrali,
con le loro sagge politiche (cioè “stampando” meno moneta) avrebbero domato
questa bestia feroce, e inoltre, all’abbassarsi del livello, sarebbe anche
calata la reattività dell’inflazione alla disoccupazione, che quindi non
spiegherebbe più nulla. Nessuna relazione fra disoccupazione e inflazione, l’inflazione
fenomeno monetario... Sarà mica che la storia, com’è quel detto, si ripete la
prima volta come Friedman e la seconda come Kelton? Comunque, nel suo grafico,
che riporto per vostra comodità:
l’evidenza è inequivocabile. Il grafico è uno scatter, e
come si legga ve l’ho spiegato illustrandovi la legge di Travaglio
qui.
Le nuvole di punti rappresentate sono tre, per tre diversi periodi storici: 1975-1984
(blu); 1985-1994 (rosso); 1994-2013 (giallo). La nuvola di punti blu, riferita
agli anni ’70-‘80 ha un orientamento negativo: al crescere della disoccupazione
l’inflazione cala in uno spettro dal 14% al 6% (la disoccupazione è misurata
come scostamento dal tasso di disoccupazione “naturale”, ma non entro in questi
dettagli); quella gialla, riferita all’ultimo decennio, è piatta: al variare
della disoccupazione l’inflazione resta ancorata attorno al 2%.
Brave banche centrali! Il mercato del lavoro non conta più
nulla, e forse hanno ragione i compagni del PD, ma anche di SEL, ma anche di
Rifondazione: con delle banche centrali così brave a proteggere il potere d’acquisto
dei lavoratori, a cosa servono i sindacati?
Bene, abbiamo un pensiero di meno, andiamo a dormire
tranquilli, che sono le 23.
Ma... a proposito: in Italia com’è andata? Perché quella
roba lì, quella che piace alla Kelton, è riferita alla media delle economia
avanzate. Magari a noi interessa un po’ il dettaglio, no?
Ecco, mi sono divertito a vedere com’è andata in Italia
utilizzando il database del modello di a/simmetrie, che va dal 1970 al 2013.
La nuvola di punti dal 1970 al 2013 per l’economia italiana
è questa:
una pendenza negativa c’è, a dire il vero, ma la relazione è
molto, molto dispersa. La varianza della disoccupazione spiega solo il 29.5% di
quella del tasso di crescita dei salari, il che lascia supporre che ci sia
stato, nel corso del tempo, un cambiamento.
Allora, facciamo una cosa: vediamo cos’è successo dal 1998 a
oggi. È successo questo:
...ooooops! E qui, se ci fossero dei memmetari (ma credo
siano tutti scomparsi col compianto Donald, e la SStoria avrà tirato la catena)
apriti cielo!
“Ecco, lo vedi, Bagnai, ci stai mentendo, ha ragione la Kelton,
che è brava, buona e bella [Ndr: a me
piace di più Joan
Robinson, comunque], la disoccupazione spiega solo il 3% della variazione
dei salari, un aumento di un punto del tasso di disoccupazione lascia
praticamente inalterato il tasso di variazione del salari (lo abbassa di 0.09) quindi
la curva di Phillips è morta, quindi la moneta crea inflazione, quindi le tasse
servono solo per controllare l’inflazione...”
e via quindeggiando, così, in modo
piacevolmente rapsodico, inanellando una stronzata dietro l’altra con quella
sicumera che oggi, due anni dopo, ci fa anche un po’ tenerezza...
Sic transit gloria mundi...
Ecco, ora che si sono sfogati, vediamo intanto per
completezza cosa è successo dal 1970 al 1997. È successo questo:
Ri-ooooops! (ma stavolta lo dico io). Dal 1970 al 1997 la
disoccupazione ha spiegato più del 70% della variazione della crescita dei
salari, è in media ogni aumento di un punto del tasso di disoccupazione faceva
diminuire di 2.4 punti la variazione percentuale dei salari...
Mmmmh... Qui i conti non tornano. Non è che Stefaniuccia sta
facendo lo stesso giochino che nel 1976 fece Robertino (Lucas)? Quale gioco?
Quello di esaminare su un grafico a due dimensioni una relazione ad almeno tre
dimensioni.
Aspettate, vi faccio vedere una cosa. Queste sono le serie
storiche di inflazione salariale, disoccupazione, e flessibilità del mercato
del lavoro in Italia (indice OCSE):
Notate niente? Vi aiuto. Normalmente la variazione dei
salari si muove in controtendenza rispetto a quella della disoccupazione, ma c’è
un periodo piuttosto lungo nel quale crescita dei salari e disoccupazione
scendono insieme, e quando è? All’incirca per un decennio a partire dal 1998,
cioè a partire dalle riforme del mercato del lavoro, che fanno precipitare
verso il basso l’indice di rigidità del mercato del lavoro.
Ah, ecco...
Quindi le cose non stanno proprio come Stefaniuccia nostra
ci racconta: non è successo solo che le banche centrali belle buone e brave ci
hanno protetto. Direi piuttosto che, come spiego nel mio libro, esse hanno
creato le condizioni per sbriciolare i diritti dei lavoratori, dopo di che è
stato possibile dargli dei simpatici lavori precari, senza che facessero troppo
gli schizzinosi sulla paga, riducendo al tempo stesso la disoccupazione e il
tasso di crescita dei salari.
Molti di voi questo ameno processo sul quale mamma Memmeta
tace lo hanno vissuto sulla loro pelle e me lo raccontano, ed è per questo che
qualche volta sono un po’ ruvido coi dilettanti: perché col culo degli altri si
può essere qualsiasi cosa, anche keynesiani!
In termini tecnici, le riforme avrebbero fatto slittare
verso il basso la curva di Phillips, per cui la nuvola di punti gialla che
estasia la nostra Stefaniuccia non sarebbe la prova che la curva di Phillips è
morta: sarebbe semplicemente la prova del fatto che essa è slittata, e quindi i
punti gialli non sarebbero punti lungo una curva piatta, ma punti tracciati da
una curva che si stava progressivamente spostando a sinistra.
C’è modo di verificarlo? Sì, ma bisogna effettuare un’analisi
di regressione, inserendo nella relazione bivariata fra variazione dei salari e
disoccupazione anche l’indicatore di flessibilità. Insomma, ci vuole la
tecnica, le fumisterie econometriche con le quali i Bisin e i Pasquinelli non
sono a proprio agio. Ci dispiace per loro. Non ho mai avuto tempo di spiegarvi
bene la teoria della regressione, abbiamo appena iniziato, ma qualcuno la
conosce, e cercherò di aiutarvi a interpretare i risultati. Intanto, vi faccio vedere le relazioni bivariate nei tre sottocampioni, cioè ripeto con un altro software quello che sopra ho fatto con Excel:
Vedete? I numeri sono gli stessi. Attenzione (lo dico per gli espertoni): non sto ovviamente dicendo che queste siano le curve di Phillips dell'Italia (né tantomeno quella del modello). Nella curva di Phillips c'è di più, naturalmente, e si potrebbe discutere a lungo sulla fondatezza statistica di queste equazioni. Se volete, provateci, io vi aspetto qui.
Ma vediamo cosa succede se nell'equazione riferita a tutto il campione inserisco la variabile FLEX, cioè l'indicatore OCSE:
Succede che la curva di Phillips passa dallo spiegare il 29% della variabilità dell'inflazione salariale allo spiegarne l'80% (è il valore indicato come R-squared nel tabulato): niente male per un'equazione fatta sbracato sul letto con due serie di dati scaricate da Internet! Succede anche che che per ogni punto di disoccupazione in più ci sono due punti di crescita salariale in meno, e che ogni punto di diminuzione della rigidità sposta di 0.06 (cioè di 6 punti percentuali) verso il basso la curva di Phillips. Risultato? Semplice. La progressiva "flessibilizzazione" del mercato del lavoro ha tirato "in basso e a sinistra" la nostra rudimentale curva di Phillips in questo modo:
Ma guarda un po'... Basta inserire nel quadro il convitato di pietra, le riforme, ed ecco che l'evidenza si riconcilia con la teoria. La curva di Phillips continua a esistere, ma cè stato un cambiamento strutturale, le famose riforme strutturali, che si chiamano così appunto perché dovrebbero modificare la struttura dell'economia, cioè le leggi che ne rappresentano il funzionamento, e che, se le rappresenti graficamente, sono curve. Dato che l'indicatore di rigidità OCSE, grazie a Treu, Biagi, ecc., è sceso da 3.57 a 1.89, l'intercetta della curva di Phillips (cioè il valore che l'inflazione salariale avrebbe a una teorica inflazione zero) è sceso, sul grafico, da circa il 31% a circa il 19%. Va da sé che la relazione "vera" è non lineare, che ci sono altre variabili dentro (l'inflazione, la produttività, ecc.).
Se venite a un mio corso di econometria parliamo anche di questo.
Ma intanto ricordatevi un paio di cose.
Primo: la disoccupazione resta l'unico strumento a disposizione dei rentier, dei piccoli Gollum piddini, per controllare l'inflazione. Quindi er pensionatuccio renziano che protegge il suo gruzzoletto (non si sa bene da cosa) fa proprio bene: quei soldi guadagnati col sudore della fronte (per lo più altrui) gli serviranno per mantenere suo figlio, che grazie alla deflazione resterà disoccupato fino a 65 anni, e così il figlio di suo figlio, per settantasette volte sette generazioni.
Secondo: non capisco cosa abbiano i Memmetari contro questa spiegazione del processo inflattivo, ma va bene così. Solo che, amici, io nei dati ci sono incanutito. A differenza dell'altro Alberto, Bisin, che di bivariate parlava un po' estemporaneamente, io se c'è qualcosa che non torna in uno scatter lo vedo subito, amici cari. Quindi nun ce provate, perché nun attacca.
Peraltro, devo ancora trovare qualcuno che confuti le mie supposte "bivariate" così come a me è stato facile confutare quella di Memmeta. Qualche volta bastano due variabili. Qualche volta non ne bastano tre. La vita non è semplice, nemmeno per voi che avendo letto questo blog sapete già tutto di economia (beati voi...). Ma, come diceva Totò, io modestamente lo nacqui. Signore? No, econometrico.
Eris sacerdos in aeternum.