(segue la trascrizione della mia audizione da parte della Commissione Finanze della Camera il 4 dicembre 2013. Questo è il video, che alcuni già avranno visto:
e le slide le potete scaricare qui. Dal video noterete una certa stanchezza, e ve ne ricorderete i motivi.
Nella trascrizione ho fatto un moderatissimo editing, restando il più possibile aderente al tono colloquiale. Mi son tenuto gli anacoluti, ma ho aggiunto qualche link alle fonti e qualche grafico, che per rispetto del tempo degli onorevoli non avevo inserito nelle slide consegnate alla Commissione - peraltro, sono dati che a loro sono certamente noti, come ad esempio l'andamento del debito pubblico italiano.
e le slide le potete scaricare qui. Dal video noterete una certa stanchezza, e ve ne ricorderete i motivi.
Nella trascrizione ho fatto un moderatissimo editing, restando il più possibile aderente al tono colloquiale. Mi son tenuto gli anacoluti, ma ho aggiunto qualche link alle fonti e qualche grafico, che per rispetto del tempo degli onorevoli non avevo inserito nelle slide consegnate alla Commissione - peraltro, sono dati che a loro sono certamente noti, come ad esempio l'andamento del debito pubblico italiano.
In questa audizione ho inteso sottolineare due concetti fondamentali, facilmente desumibili dalla macroeconomia elementare:
1) le politiche di austerità sono una scelta obbligata a causa della rigidità nominale determinata dall'euro;
2) di conseguenza, l'euro è contrario alla ratio di una unione economica, perché la sua adozione costringe a politiche che, in caso di problemi, distruggono il mercato interno.
Il primo punto deriva dalla più banale logica economica: la domanda di un bene dipende dal reddito del consumatore e dal prezzo relativo. La domanda di beni esteri quindi dipende anche dal cambio, che è una componente del prezzo di questi beni. Se introduci un elemento di rigidità nel cambio, dovrai compensare con una maggiore variazione del reddito. Quando, come ora, il problema è il debito estero, la soluzione è comprare (importare) di meno dall'estero, o vendere (esportare) di più. Ma dato che il reddito del resto del mondo è esogeno (non lo controllano né Letta né Napolitano), l'unica cosa che un paese col cambio ingessato può fare per migliorare le cose nel breve periodo è agire sul reddito dei propri cittadini, forzandoli a comprare di meno. Come lo fa? Semplice: togliendogli soldi (che poi avvia, attraverso i meccanismi di stabilità tipo MES, ai creditori esteri).
Vorrei anche ricordare che la svalutazione, in un paese in deficit estero che abbia conservato la propria valuta nazionale, non è di per sé una sleale macchinazione di governanti cialtroni o di rapaci finanzieri. È la semplice e fisiologica conseguenza del fatto che se il resto del mondo per comprare i tuoi beni deve prima comprare la tua valuta nazionale, quando compra di meno i tuoi beni, allora domanda di meno anche la tua valuta, e quindi questa si deprezza fisiologicamente per la legge della domanda e dell'offerta.
È il mercato, bellezza! Se non piace basta dirlo! A me non piace tantissimo, altrimenti non insegnerei politica economica, ma distorcerlo a svantaggio del mio paese mi piace anche di meno, sai?
Eppure, chissà perché, gli spaghetti-liberisti sono tutti pro-market sfegatati, tranne quando il mercato in questione è quello delle valute. D'altra parte, ora siamo in una situazione nella quale siccome i beni di alcuni paesi dell'eurozona - tipicamente la Germania - per una serie di motivi sono molto domandati anche all'esterno dell'eurozona, questo fa apprezzare la valuta di tutti, cioè l'euro, anche quando l'apprezzamento sarebbe richiesto per aggiustare i conti di uno solo, e svantaggia gli altri paesi, che invece sono in deficit, e quindi sono vieppiù costretti a castrare il proprio reddito per evitare squilibri ormonali - pardon, strutturali - di bilancia dei pagamenti. Ovviamente questo dipende anche dal fatto che il paese in surplus è il più grosso (la Germania), e alcuni di quelli in deficit sono minuscoli (la Grecia).
Il secondo punto è meno ovvio, o se volete più originale. Pare che nessuno si sia accorto che i paesi europei sono impegnati in una politica di svalutazione interna competitiva. Con in più il dettagliuzzo, che a voi è ben noto, e che generalmente sfugge, che questa politica è la risposta a un'aggressione provieniente dai paesi forti. A differenza della svalutazione esterna (quella del cambio) la svalutazione interna, passando per l'austerità, distrugge il mercato interno, ed è quindi sostanzialmente suicida, in particolare perché annulla il beneficio di unirsi ad altri paesi per creare un grande mercato, comune o unico che sia. Una cosa talmente semplice ed evidente che chi ha gli occhi foderati di PhD non se n'era accorto, nonostante, ahimè, la logica sottostante sia stata chiaramente esposta da uno di loro, come vedrete qua sotto!
Che poi uno dovrebbe chiedersi, come si chiedeva uno di voi non ricordo se qui o su Twitter: "Chissà perché quelli che temono così tanto il currency debasement, la svalutazione della moneta, sono invece così tolleranti con il labour debasement, con la svalutazione del lavoro?" E la risposta potrebbe essere nella domanda: magari perché di currency ne hanno molta (anche e soprattutto quando sono "de sinistra") e lavorare hanno lavorato poco (anche quando sono "economisti d'area der sindacato"). Naturalmente se avete una spiegazione migliore, io son qui per accoglierla. Ognuno difenda pure i suoi interessi, ma non faccia finta di difendere quelli altrui, perché gli altrui di turno, scoperta l'impostura, potrebbero anche irritarsi, e in questo periodo molti hanno i nervi a fior di pelle...
I due punti sottolineati qua sopra li avevo esposti alla conferenza di Pescara, della quale devo ancora terminare di pubblicare i lavori, e ribaditi nel mio incontro con l'IDV, poi ancora al Parlamento Europeo, e poi nuovamente al convegno di Roma, al quale era presente anche Jacques Sapir, che a sua volta ha ripreso questi semplici argomenti - il secondo dei quali pare fosse finora sfuggito a tante menti eccelse! - in un suo post. Gli altri colleghi del Manifesto di Solidarietà Europea mi hanno altresì onorato accogliendo questo semplice, ma basilare, concetto in una dichiarazione congiunta che spero di potervi presto proporre.
Vorrei anche sottolineare il perché intendo che questo sia il discorso che chiude un anno, e ne apre un altro, nel quale auspico si possa condurre un dibattito che abbia un senso, e che si liberi, magari non immediatamente, ma rapidamente, dalle ipocrisie che ci hanno finora impedito di procedere speditamente nell'elaborazione di una coscienza critica (soprattutto a sinistra). Il motivo è molto semplice: nell'audizione ho cercato di essere il più chiaro possibile, e a grandi linee credo di esserci riuscito, per cui d'ora in avanti i colleghi per i quali "l'austerità è di destra ma l'euro di sinistra" - o anche semplicemente chi si sciacqua la bocca con la parola austerità ma non pronuncia la parola euro perché "mamma non vuole e De Cecco nemmeno" - dovranno argomentare punto per punto, chiarendo - in particolare - come sarebbe possibile secondo loro fare politiche espansive di qualunque tipo (fiscale, monetario) e a qualsiasi livello (nazionale, sovranazionale) in presenza di cambi rigidi senza aggravare il deficit estero dei paesi più deboli, oppure faranno meglio a cambiar disco, scegliendone uno meno rotto.
Vorrei anche ricordare che la svalutazione, in un paese in deficit estero che abbia conservato la propria valuta nazionale, non è di per sé una sleale macchinazione di governanti cialtroni o di rapaci finanzieri. È la semplice e fisiologica conseguenza del fatto che se il resto del mondo per comprare i tuoi beni deve prima comprare la tua valuta nazionale, quando compra di meno i tuoi beni, allora domanda di meno anche la tua valuta, e quindi questa si deprezza fisiologicamente per la legge della domanda e dell'offerta.
È il mercato, bellezza! Se non piace basta dirlo! A me non piace tantissimo, altrimenti non insegnerei politica economica, ma distorcerlo a svantaggio del mio paese mi piace anche di meno, sai?
Eppure, chissà perché, gli spaghetti-liberisti sono tutti pro-market sfegatati, tranne quando il mercato in questione è quello delle valute. D'altra parte, ora siamo in una situazione nella quale siccome i beni di alcuni paesi dell'eurozona - tipicamente la Germania - per una serie di motivi sono molto domandati anche all'esterno dell'eurozona, questo fa apprezzare la valuta di tutti, cioè l'euro, anche quando l'apprezzamento sarebbe richiesto per aggiustare i conti di uno solo, e svantaggia gli altri paesi, che invece sono in deficit, e quindi sono vieppiù costretti a castrare il proprio reddito per evitare squilibri ormonali - pardon, strutturali - di bilancia dei pagamenti. Ovviamente questo dipende anche dal fatto che il paese in surplus è il più grosso (la Germania), e alcuni di quelli in deficit sono minuscoli (la Grecia).
Il secondo punto è meno ovvio, o se volete più originale. Pare che nessuno si sia accorto che i paesi europei sono impegnati in una politica di svalutazione interna competitiva. Con in più il dettagliuzzo, che a voi è ben noto, e che generalmente sfugge, che questa politica è la risposta a un'aggressione provieniente dai paesi forti. A differenza della svalutazione esterna (quella del cambio) la svalutazione interna, passando per l'austerità, distrugge il mercato interno, ed è quindi sostanzialmente suicida, in particolare perché annulla il beneficio di unirsi ad altri paesi per creare un grande mercato, comune o unico che sia. Una cosa talmente semplice ed evidente che chi ha gli occhi foderati di PhD non se n'era accorto, nonostante, ahimè, la logica sottostante sia stata chiaramente esposta da uno di loro, come vedrete qua sotto!
Che poi uno dovrebbe chiedersi, come si chiedeva uno di voi non ricordo se qui o su Twitter: "Chissà perché quelli che temono così tanto il currency debasement, la svalutazione della moneta, sono invece così tolleranti con il labour debasement, con la svalutazione del lavoro?" E la risposta potrebbe essere nella domanda: magari perché di currency ne hanno molta (anche e soprattutto quando sono "de sinistra") e lavorare hanno lavorato poco (anche quando sono "economisti d'area der sindacato"). Naturalmente se avete una spiegazione migliore, io son qui per accoglierla. Ognuno difenda pure i suoi interessi, ma non faccia finta di difendere quelli altrui, perché gli altrui di turno, scoperta l'impostura, potrebbero anche irritarsi, e in questo periodo molti hanno i nervi a fior di pelle...
I due punti sottolineati qua sopra li avevo esposti alla conferenza di Pescara, della quale devo ancora terminare di pubblicare i lavori, e ribaditi nel mio incontro con l'IDV, poi ancora al Parlamento Europeo, e poi nuovamente al convegno di Roma, al quale era presente anche Jacques Sapir, che a sua volta ha ripreso questi semplici argomenti - il secondo dei quali pare fosse finora sfuggito a tante menti eccelse! - in un suo post. Gli altri colleghi del Manifesto di Solidarietà Europea mi hanno altresì onorato accogliendo questo semplice, ma basilare, concetto in una dichiarazione congiunta che spero di potervi presto proporre.
Vorrei anche sottolineare il perché intendo che questo sia il discorso che chiude un anno, e ne apre un altro, nel quale auspico si possa condurre un dibattito che abbia un senso, e che si liberi, magari non immediatamente, ma rapidamente, dalle ipocrisie che ci hanno finora impedito di procedere speditamente nell'elaborazione di una coscienza critica (soprattutto a sinistra). Il motivo è molto semplice: nell'audizione ho cercato di essere il più chiaro possibile, e a grandi linee credo di esserci riuscito, per cui d'ora in avanti i colleghi per i quali "l'austerità è di destra ma l'euro di sinistra" - o anche semplicemente chi si sciacqua la bocca con la parola austerità ma non pronuncia la parola euro perché "mamma non vuole e De Cecco nemmeno" - dovranno argomentare punto per punto, chiarendo - in particolare - come sarebbe possibile secondo loro fare politiche espansive di qualunque tipo (fiscale, monetario) e a qualsiasi livello (nazionale, sovranazionale) in presenza di cambi rigidi senza aggravare il deficit estero dei paesi più deboli, oppure faranno meglio a cambiar disco, scegliendone uno meno rotto.
Questo, ovviamente, escludendo l'unica soluzione che avrebbe un senso: che queste politiche siano fatte a livello nazionale dai paesi più forti, richiesta oggetto di infiniti "accorati appelli".
Ma gli accorati appelli si qualificano ormai per quello che sono: un maldestro tentativo di cadere in piedi in ogni possibile scenario, dandosi una sverniciatina di sinistra (quanto è cattiva l'austerità signora mia! Quanto è buono lo Stato!), ma guardandosi bene anche solo dal nominare lo strumento principe della mobilità, e quindi della capacità offensiva, del capitale nell'Eurozona: l'euro, appunto. Euro che, vorrei ricordare agli stimati colleghi, non è stato fatto per permettere ai piddini antropologici di viaggiare senza portarsi dietro la calcolatrice. No. Questo possono crederlo loro, che nella propria sterminata presunzione di sapere ritengono di essere il centro del mondo e delle relative scelte di politica economica! L'euro è stato fatto perché chi intendeva prestare dissennatamente non dovesse correre alcun rischio, o meglio, lo trasferisse sui contribuenti dei paesi politicamente deboli. È stato fatto, insomma, per dare al capitalismo più rapace un ulteriore vantaggio nella sua lotta contro il lavoro. È l'integrazione finanziaria, bellezza!
L'euro è l'integrazione finanziaria, e l'integrazione finanziaria è la disintegrazione del lavoro.
Perfino l'onorevole Fassina - che per molti di voi, in camera caritatis, è un servo sciocco del capitale - lo ha ammesso, e addirittura a Servizio Pubblico: il problema nasce a causa dell'eccessiva mobilità dei capitali! Vi siete fatti sorpassare a sinistra da Fassina! Certo, per voi deve essere un bello smacco, voi che siete "critici"!
Lo vedete il disegnino?
Da quando si schiaccia l'elettrosalariogramma? Dall'inizio degli anni '80, dalla fine dell'epoca della repressione finanziaria, cioè dall'inizio della progressiva, inarrestabile e finora incontrollata deregulation dei mercati finanziari. La coperta è sempre quella, e se la tiri dalla parte del capitale, permettendogli di fare il porco del comodo suo (che è quello che voi volete, difendendo l'euro), necessariamente il lavoro prenderà freddo (che è quello che fate finta di non volere): il sistema diventerà instabile, e il capitale trionfante condurrà l'economia verso una colossale crisi debitoria, per i semplici e ovvi motivi che ho spiegato al Parlamento Europeo.
(ah, già, ma lì non dovevo andarci, perché mi avevano invitato i conservatori! Eh, capisco...)
Quelli che vogliono l'euro ma anche la Tobin tax, poi, mi fanno veramente pena, e forse anche un po' ribrezzo, perché ci dovrà pure essere un limite a quanto uno può essere baggiano, no? Come dire: "Caro capitalista, vieni, facciamo la lotta di classe! Io ho una fionda, a te regalo un mitra, ma ti tolgo lo 0.01% di pallottole dal caricatore pieno!" Del resto, questi geni dell'arte della guerra, questi incorrotti difensori della vedova e dell'orfano, sono anche quelli che volevano l'euro ma non volevano Marchionne, ricordate?
Questa è l'idea "di sinistra", l'idea"foriera di pace" che state difendendo! Ascoltate Panagiotis, e chiedete scusa ai greci! Ascoltate Alberto e chiedete scusa agli spagnoli! Certo, con gli italiani non vi potete scusare, me ne rendo conto: sarebbe nazionalismo, Dio ne guardi!
Mi è doloroso rimarcarlo: nonostante ci siano più le mezze stagioni, ci sono troppi mezzi economisti per tutte le stagioni. Chi nega la catena causale che lega la presenza dell'euro alla necessità di fare politiche autodistruttive sta semplicemente difendendo il regime eurista. Ovviamente, la sua scelta è lecita, come ogni scelta politica. Le mia pacate parole non intendono certo contestare la legittimità di questa scelta, come di qualsiasi altra scelta politica, non sia mai! Fra l'altro, non è nemmeno detto che questa scelta sia "di destra" in senso partitico, visto che in Italia, per motivi sui quali ci sarebbe da dire molto, uno dei baluardi dell'eurismo è proprio il sindacato. Questo concorre a spiegare perché sia la sinistra partitica a difendere a spada tratta, anche se ormai da sola, l'euro. Le mie pacate parole intendevano rimarcare un altro punto: non è lecito camuffare una simile scelta da atteggiamento "progressista", quando è evidente che essa conculca i diritti dei lavoratori, e più in generale dei "piccoli" - partite Iva loro malgrado, piccoli commercianti, piccoli imprenditori, artigiani, ecc. - né proporla come verità "tecnica", quando qualsiasi Econ102 basta a smentirla, come vedrete qua sotto, e nel successivo post dedicato al dibattito sul mio intervento. Ma tanto, ormai, queste pezze rosse son cucite col filo nero: non attacca più, colleghi! Dite la verità, dopo vi sentirete meglio...)
Ringrazio il
presidente e ringrazio la Commissione per aver ritenuto di coinvolgermi in
questa iniziativa. Una sola rettifica per dovere di cronaca: io in realtà insegno
Politica economica, presso l’Università Gabriele D’Annunzio e ho seguito un percorso di
ricerca che mi ha portato ad occuparmi, nel corso della mia carriera
accademica, della sostenibilità degli squilibri di bilancia dei pagamenti e
degli squilibri fiscali nei paesi in via di sviluppo, e anche, ultimamente,
nell'Eurozona.
Penso che nella
mia qualità di esponente del mondo accademico il mio ruolo in questa sede
istituzionale sia quello di fornire ai decisori
politici alcuni elementi di giudizio che provengono dalla letteratura economica,
alcuni dati di fatto che consentano loro di orientarsi nel quadro che abbiamo
davanti, nel grande quadro, perché suppongo, e sono anzi certo, consapevole,
con grande umiltà, del fatto che su tutta una serie di snodi tecnici, legislativi, ecc., riguardanti
gli aspetti della gestione della politica tributaria ognuno di voi è molto più
competente di me.
Io vorrei
insistere in particolare su tre punti:
1) vorrei evidenziare la relazione che
esiste fra l'euro e la necessità di orientare la politica tributaria e quella fiscale
nel senso dell'austerità;
2) vorrei anche
evidenziare, in senso più ampio, il rapporto che c'è fra l'adozione dell'euro e le logiche che dovrebbero guidare un’unione economica, per vedere se il meccanismo monetario attuale sia compatibile in
effetti con la logica di un’unione economica;
3) vorrei anche rapidamente attirare la vostra
attenzione, senza fare una lezioncina ma semplicemente fornendo alcuni elementi
critici, su quello che gli studi scientifici più recenti ci dicono del rapporto
fra il vincolo esterno, inteso come adozione di un cambio forte o di una valuta
forte, e gli incentivi che i paesi forti e deboli di un’unione economica hanno a
compiere le necessarie riforme strutturali.
Vorrei
partire da un presupposto che credo sia condiviso da chiunque in questa commissione,
come in tutto il paese, cioè che l’Italia, come tanti altri paesi del resto, è
un paese intrinsecamente perfettibile, che ha bisogno di riforme. Il problema è
capire se legarsi a paesi più forti di noi attraverso uno strumento monetario e
attraverso regole fiscali di un certo tipo sia la migliore strada per compiere queste
riforme. Tutto qui.
L'austerità c'è perché c'è l'euro
Circa le
prospettive della politica tributaria nel quadro dell'euro quello che mi sento
di poter dire è che gli squilibri che si sono accumulati negli ultimi dieci
anni, e il comportamento dei partner europei (cosa importante perché qui ci stiamo
interrogando su cosa si possa fare alla luce della presidenza italiana dell’Unione,
quindi ci siamo ci stiamo interrogando implicitamente sui rapporti con i nostri
partner europei), bene: alla luce di questi squilibri e dei nostri rapporti coi
partner europei, nel quadro dell’euro la politica tributaria in Italia può
operare solo nel senso dell’austerità.
La cosa interessante è che la politica di
austerità è stata al contempo efficace ed inefficace.
È stata inefficace
rispetto agli obiettivi dichiarati ex ante,
che erano quelli di risanare le finanze pubbliche, e rispetto a queste abbiamo
visto che è stata un totale disastro, perché il debito pubblico è schizzato a
livelli che non sperimentavamo più dall’inizio degli anni ’90.
È stata però
efficace rispetto all'obiettivo vero, dichiarato ex post, ovvero quello di aggiustare i conti con l'estero.
Per capire
cosa intendo, vorrei ricordarvi quella che è la visione ormai
ampiamente condivisa, sia nella letteratura scientifica che nelle sedi
istituzionali, circa la vera natura della crisi economica in atto, e per questo vi
vorrei citare le frasi con le quali il vicepresidente della Bce Vitor Constâncio, il 23 maggio del2013, ad Atene, ha descritto la crisi che stiamo vivendo, dicendo che “gli
squilibri che stiamo subendo hanno tratto origine fondamentalmente da una spesa
crescente del settore privato... che è stata finanziata dal settore bancario
dei paesi e creditori... il mercato finanziario europeo non si è comportato
come la teoria prevedeva che si comportasse...” (la teoria, evidentemente,
sposata dal presidente Constâncio),
“l’esposizione dei paesi creditori verso i paesi in crisi si è quintuplicata...
questo ha portato i paesi in crisi a perdere competitività”.
La mia
sintesi è che il presidente Constâncio
sta dicendo che la crisi è stata determinata dal fatto che le economie
periferiche sono state drogate dalla possibilità di indebitarsi con l'estero a
tassi agevolati, e in particolare di indebitarsi con i paesi del centro dell'Eurozona,
del core, diciamo con la Germania. In tutto questo il settore pubblico c'entra poco: la crisi è stata un colossale fallimento della finanza privata.
Se vedete la
quinta slide della prima pagina, c'è un semplice indicatore che ci fa capire che
la nostra crisi non è una crisi debito pubblico ma di debito privato:
(immagine tratta dal primo post di questo blog).
Per ogni paese abbiamo due barre: quella blu misura l'incremento del debito pubblico, quella rossa l'incremento del debito estero, nel periodo di gestazione della crisi. Si vede che in paesi come l'Irlanda, l’Italia, la Spagna il debito pubblico è addirittura diminuito, in paesi come la Grecia dal 2000 al 2007 il debito pubblico è rimasto pressoché stabile, quello che è aumentato ovunque è il debito estero, il che significa che sono stati i settori privati di questi paesi, cioè le famiglie e le imprese ad indebitarsi con creditori esteri, e questa peraltro è la causa dell'attuale crisi del sistema bancario.
(immagine tratta dal primo post di questo blog).
Per ogni paese abbiamo due barre: quella blu misura l'incremento del debito pubblico, quella rossa l'incremento del debito estero, nel periodo di gestazione della crisi. Si vede che in paesi come l'Irlanda, l’Italia, la Spagna il debito pubblico è addirittura diminuito, in paesi come la Grecia dal 2000 al 2007 il debito pubblico è rimasto pressoché stabile, quello che è aumentato ovunque è il debito estero, il che significa che sono stati i settori privati di questi paesi, cioè le famiglie e le imprese ad indebitarsi con creditori esteri, e questa peraltro è la causa dell'attuale crisi del sistema bancario.
Si tratta di una relazione estremamente semplice: se taglio la spesa pubblica, o alzo le imposte,
di fatto diminuisco i redditi disponibili dei privati. Ciò determina due effetti benefici sui
conti esteri, ma dolorosi per l'economia. Se diminuisco i redditi privati
riduco i consumi e quindi riduco le importazioni e migliorano i conti esteri. Al
tempo stesso creo disoccupazione, è triste ma è così, riesco a
imporre flessibilità a dei lavoratori che pur di rientrare nel mercato del
lavoro accettano condizioni contrattuali meno favorevoli, e in questo modo
modero i salari (è quella che si chiama "svalutazione interna"), e
per questa via aumento le esportazioni. Quindi, se ci fate caso, l'austerità
ha due effetti positivi sui conti esteri: aumenta (un po’ più lentamente) le
esportazioni e diminuisce (immediatamente) le importazioni.
Viceversa, per
quel che riguarda i conti pubblici, non ci dobbiamo aspettare che l’austerità abbia
effetti necessariamente positivi, e il motivo è esposto in questo schema:
Se io taglio la spesa pubblica o alzo le imposte, evidentemente migliora il saldo di bilancio, e questo è un effetto positivo. Il fatto è che però, in questo caso, il secondo effetto è negativo e annulla i benefici del primo, perché se taglio la spesa pubblica taglio comunque redditi, domanda interna, riduco gli imponibili, quindi riduco il gettito fiscale. Il saldo di bilancio, che è migliorato perché ho ridotto le spese, poi peggiora perché diminuiscono le entrate. I due effetti si compensano almeno in parte, il deficit pubblico migliora di poco, il debito continua a crescere, ma siccome abbiamo abbattuto il Pil, il rapporto debito-Pil esplode, che è quanto abbiamo visto nella prima immagine.
Se io taglio la spesa pubblica o alzo le imposte, evidentemente migliora il saldo di bilancio, e questo è un effetto positivo. Il fatto è che però, in questo caso, il secondo effetto è negativo e annulla i benefici del primo, perché se taglio la spesa pubblica taglio comunque redditi, domanda interna, riduco gli imponibili, quindi riduco il gettito fiscale. Il saldo di bilancio, che è migliorato perché ho ridotto le spese, poi peggiora perché diminuiscono le entrate. I due effetti si compensano almeno in parte, il deficit pubblico migliora di poco, il debito continua a crescere, ma siccome abbiamo abbattuto il Pil, il rapporto debito-Pil esplode, che è quanto abbiamo visto nella prima immagine.
Osservate la seconda slide della seconda pagina:
Si vede benissimo che dal 2011, cioè dall’avvento del governo Monti e dall'inizio dell'austerità, in effetti, mentre il saldo di bilancio pubblico è passato da -3.6 a -3.2 punti di Pil, con un miglioramento 0.4 punti di Pil, il saldo estero è passato da - 3 a zero con un miglioramento di 3 punti di Pil. In altre parole, nonostante la professione economica sia tanto disprezzata, i dati si sono conformati esattamente a quello che la professione economica prevede, cioè che una politica di austerità abbia effetti immediati ed efficaci sul saldo estero, ed effetti molto meno efficaci sul saldo pubblico.
Si vede benissimo che dal 2011, cioè dall’avvento del governo Monti e dall'inizio dell'austerità, in effetti, mentre il saldo di bilancio pubblico è passato da -3.6 a -3.2 punti di Pil, con un miglioramento 0.4 punti di Pil, il saldo estero è passato da - 3 a zero con un miglioramento di 3 punti di Pil. In altre parole, nonostante la professione economica sia tanto disprezzata, i dati si sono conformati esattamente a quello che la professione economica prevede, cioè che una politica di austerità abbia effetti immediati ed efficaci sul saldo estero, ed effetti molto meno efficaci sul saldo pubblico.
D'altra
parte che il reale obiettivo di queste politiche fosse quello di, come dire,
venire incontro ai creditori esteri più che alle esigenze del paese, riducendo
l'indebitamento dell'Italia verso l'estero, in una situazione nella quale il debito pubblico, come abbiamo visto, stava già diminuendo, lo anche detto in termini
abbastanza espliciti il presidente Monti, intervistato da Fareed Zakaria alla
CNN il 18 maggio 2012, quando ha dichiarato che l'Italia stava guadagnando posizioni migliori in termini di competitività a causa delle riforme
strutturali, che avevano permesso di “distruggere la domanda interna”
(letterale) attraverso l'austerità (fiscal
consolidation è il termine aulico per austerità):
Il presidente Monti concludeva con un’osservazione interessante, che è questa: “Siccome noi abbiamo distrutto la nostra domanda, se non ci sarà una politica europea, fatta non da noi, ma dagli altri, di espansione della domanda, i benefici che abbiamo raggiunto non saranno sostenibili nel lungo periodo". Insomma: noi per pareggiare i conti con l'estero abbiamo “ucciso” il Pil, e così abbiamo fatto salire il rapporto debito-Pil, creando un problema di sostenibilità del debito pubblico che prima non c'era, ma se gli altri non ci aiutano dovremo continuare su questa strada avvitandoci in una spirale deflazionistica.
Il presidente Monti concludeva con un’osservazione interessante, che è questa: “Siccome noi abbiamo distrutto la nostra domanda, se non ci sarà una politica europea, fatta non da noi, ma dagli altri, di espansione della domanda, i benefici che abbiamo raggiunto non saranno sostenibili nel lungo periodo". Insomma: noi per pareggiare i conti con l'estero abbiamo “ucciso” il Pil, e così abbiamo fatto salire il rapporto debito-Pil, creando un problema di sostenibilità del debito pubblico che prima non c'era, ma se gli altri non ci aiutano dovremo continuare su questa strada avvitandoci in una spirale deflazionistica.
Questo è
molto importante osservarlo, perché la percezione che si è avuta nel dibattito
italiano è stata, vi ricordo, che dopo
le elezioni tedesche la Germania finalmente avrebbe fatto delle concessioni, e
si sarebbe messa su un percorso di maggiore cooperazione con i paesi europei.
Ma abbiamo visto che in Germania in realtà dopo le elezioni tedesche la governance politica non è uscita
esattamente rafforzata, è dovuta venire a compromessi anche con il partito
socialdemocratico, ma questo non ha particolarmente migliorato le cose, perché
in realtà l'atteggiamento del partito socialdemocratico, come avevo anticipato nella
mia opera di divulgazione e di pubblicistica, e come si sapeva, com’era evidente,
è molto molto più, come dire, di chiusura nei riguardi dei partner europei, rispetto
a quello dei conservatori.
Quindi,
fondamentalmente, vorrei ricapitolare questo punto, prima di andare avanti.
L’austerità a cosa serve?
Serve di fatto a praticare la svalutazione interna, cioè a recuperare
competitività se non si può aggiustare il cambio. La svalutazione interna è
resa necessaria perché non si può avere svalutazione esterna, cioè perché non
si può aggiustare il valore del cambio. C’è un preciso nesso
causale monodirezionale che dice che siccome c’è l’euro dobbiamo fare soluzione
interna, e quindi dobbiamo fare austerità. Questo è importante capirlo, perché
nel dibattito politico e nel dibattito economico, alcuni miei colleghi continuano
ad attribuire alla austerità, e non tanto all'esistenza di regole monetarie,
come dire, un po’ irrazionali il fallimento conclamato delle politiche europee.
Di fatto l'Eurozona è l'unica area nella quale la domanda sta flettendo, mentre
negli Stati Uniti e in Giappone sta crescendo:
Il punto fondamentale è che la contrapposizione austerità vs. euro non ha senso, perché questi due fenomeni sono strettamente legati: dobbiamo fare austerità perché c’è l’euro.
Questo è il punto che va afferrato. Se non si afferra questo purtroppo ci si avviluppa in un dibattito privo di senso. In altre parole, a contrario, se noi potessimo oggi ceteris paribus, a parità di altre condizioni, raddoppiare con una bacchetta magica il reddito di tutti gli italiani, cosa che ogni politico vorrebbe evidentemente poter fare, soprattutto prima delle elezioni, il risultato sarebbe che la maggior parte di questo reddito andrebbe speso ahimè in beni esteri, perché gli attuali rapporti di prezzo che si sono creati all'interno dell'unione, e il fatto che il 50% del nostro commercio è comunque con i paesi dell’Unione europea (per una cosa che gli economisti chiamano gravity model of trade e che le persone di buon senso capiscono, ed è che commerci evidentemente di più col tuo vicino, perché ci sono dei costi di trasporto), bene: siccome rispetto ai nostri vicini abbiamo dei rapporti cambio, quindi di prezzo, che attualmente sono svantaggiosi a noi, se noi facessimo una politica di domanda espansiva semplicemente andremmo ad alimentare e a consolidare la crescita delle altre economie.
Quindi, in buona sostanza, dentro l'euro le speranze di crescita, anche agendo sulla leva fiscale o sulla leva tributaria ahimè sono poche.
Il punto fondamentale è che la contrapposizione austerità vs. euro non ha senso, perché questi due fenomeni sono strettamente legati: dobbiamo fare austerità perché c’è l’euro.
Questo è il punto che va afferrato. Se non si afferra questo purtroppo ci si avviluppa in un dibattito privo di senso. In altre parole, a contrario, se noi potessimo oggi ceteris paribus, a parità di altre condizioni, raddoppiare con una bacchetta magica il reddito di tutti gli italiani, cosa che ogni politico vorrebbe evidentemente poter fare, soprattutto prima delle elezioni, il risultato sarebbe che la maggior parte di questo reddito andrebbe speso ahimè in beni esteri, perché gli attuali rapporti di prezzo che si sono creati all'interno dell'unione, e il fatto che il 50% del nostro commercio è comunque con i paesi dell’Unione europea (per una cosa che gli economisti chiamano gravity model of trade e che le persone di buon senso capiscono, ed è che commerci evidentemente di più col tuo vicino, perché ci sono dei costi di trasporto), bene: siccome rispetto ai nostri vicini abbiamo dei rapporti cambio, quindi di prezzo, che attualmente sono svantaggiosi a noi, se noi facessimo una politica di domanda espansiva semplicemente andremmo ad alimentare e a consolidare la crescita delle altre economie.
Quindi, in buona sostanza, dentro l'euro le speranze di crescita, anche agendo sulla leva fiscale o sulla leva tributaria ahimè sono poche.
L'euro è contrario al fondamento razionale di un'unione economica
Vorrei
attirare la vostra attenzione sul secondo punto, riguardante il fondamento razionale
delle unioni economiche. Noi viviamo immersi in un serie di messaggi che sono con
grande abilità, con grande sottigliezza propagati dai media, messaggi che presentano una
propria plausibilità, ma dalle cui seduzioni è importante che il decisore politico prenda
distacco. In particolare, molto spesso, quando parliamo del nostro percorso
europeo, usiamo quella che io chiamo la teoria del grande pennello. Non so se
ricordate la pubblicità del pennello Cinghiale: per dipingere una grande parete
occorre un pennello grande. Allora, calata nella realtà della politica
economica internazionale, della globalizzazione, la teoria del grande pennello
è che siccome la Cina è grande, anche noi dobbiamo diventare grandi, perché se
i competitor sono grandi, anche noi
dobbiamo essere grandi. Non vi è una particolare razionalità economica, in
realtà, in questo tipo di atteggiamento.
Intanto, vi fornisco un immediato controesempio: il primo paese che mi viene in mente (perché tra l'altro, insegnando Economia della globalizzazione, devo spiegare ai miei studenti che ci sorpasserà per reddito e nel 2050 sarà il secondo paese al mondo per reddito pro capite, come si vede nell'immagine sottostante), cioè la Corea del Sud, è un paese schiacciato fra il gigante cinese e quello giapponese.
Stranissimamente (si fa per dire) non mi risulta che abbia sentito il desiderio di stringere un’unione monetaria né con la Cina né con il Giappone, ma ha preferito rimanere piccolo e flessibile, il che qualche cosa dovrebbe dirci. Potrei anche annoiarvi sulla sua struttura di vantaggi comparati, che è molto simile alla nostra (è un paese vocato all'export manifatturiero, privo di materie prime, e con un moderato svantaggio comparato nel settore primario):
Perché non ha fatto l’unione monetaria con il Giappone o con la Cina, dovremmo chiederci?
La risposta viene dalla teoria economica. Mi piace citare in questo senso Alberto Alesina, di Harvard, che nel 1997, nei Brookings Papers on Economic Activity, che sono una rivista estremamente prestigiosa, commentando un articolo di Maurice Obstfeld, dell'Università di Berkeley, chiarì un punto fondamentale, ovvero che il beneficio fondamentale di un’unione economica è la creazione di un vasto mercato interno che funga da ammortizzatore contro shock esterni di domanda. Mi spiego: crolla l'America perché c’è il crollo dei subprime, la gente si trova per strada e noi non esportiamo più verso l'America. Ma che ci importa? Se abbiamo un grande mercato interno la nostra crescita è alimentata da consumi e investimenti dei nostri cittadini. Questo sarebbe il senso di stringere un’unione economica.
Intanto, vi fornisco un immediato controesempio: il primo paese che mi viene in mente (perché tra l'altro, insegnando Economia della globalizzazione, devo spiegare ai miei studenti che ci sorpasserà per reddito e nel 2050 sarà il secondo paese al mondo per reddito pro capite, come si vede nell'immagine sottostante), cioè la Corea del Sud, è un paese schiacciato fra il gigante cinese e quello giapponese.
Stranissimamente (si fa per dire) non mi risulta che abbia sentito il desiderio di stringere un’unione monetaria né con la Cina né con il Giappone, ma ha preferito rimanere piccolo e flessibile, il che qualche cosa dovrebbe dirci. Potrei anche annoiarvi sulla sua struttura di vantaggi comparati, che è molto simile alla nostra (è un paese vocato all'export manifatturiero, privo di materie prime, e con un moderato svantaggio comparato nel settore primario):
Perché non ha fatto l’unione monetaria con il Giappone o con la Cina, dovremmo chiederci?
La risposta viene dalla teoria economica. Mi piace citare in questo senso Alberto Alesina, di Harvard, che nel 1997, nei Brookings Papers on Economic Activity, che sono una rivista estremamente prestigiosa, commentando un articolo di Maurice Obstfeld, dell'Università di Berkeley, chiarì un punto fondamentale, ovvero che il beneficio fondamentale di un’unione economica è la creazione di un vasto mercato interno che funga da ammortizzatore contro shock esterni di domanda. Mi spiego: crolla l'America perché c’è il crollo dei subprime, la gente si trova per strada e noi non esportiamo più verso l'America. Ma che ci importa? Se abbiamo un grande mercato interno la nostra crescita è alimentata da consumi e investimenti dei nostri cittadini. Questo sarebbe il senso di stringere un’unione economica.
A fronte di questo vantaggio, come sempre in economia, ci sono svantaggi, nel senso che in una unione, come voi sperimenterete in prima persona nei vostri rapporti per esempio con le istituzioni europee, più si è più si fa fatica a decidere, meno si è flessibili ecc. Nel 1997 Alberto Alesina confrontando i costi con i benefici, cioè il costo della scarsa flessibilità e della scarsa adattabilità alle sfide lanciate dalla globalizzazione (che un mastodonte necessariamente subisce), rispetto al beneficio di avere un mercato interno, concludeva che sarebbe stato meglio per l'Italia restare fuori dall'euro. Poi nel frattempo ha cambiato idea, io non so bene perché lo abbia fatto, ma questo comunque riguarda lui e la sua coscienza, non i nostri lavori oggi.
Quello su cui vorrei però attirare la vostra attenzione è che la svalutazione interna è incompatibile con la logica di un’unione economica. Perché? Perché se facciamo un’unione economica per avere un mercato interno florido, che ci difenda dagli shock esterni, ma ci troviamo poi nella situazione nella quale per difenderci da shock esterni dobbiamo uccidere la domanda interna, come vi ho detto all'inizio, cioè praticare politiche di austerità per promuovere la svalutazione interna. Con l'euro in caso di shock negativi di domanda i paesi in difficoltà possono cavarsela solo distruggendo la domanda interna, come ha molto apertamente e onestamente detto il presidente Monti alla CNN, cosa che ha scandalizzato tante persone, ma non può scandalizzare un economista, perché qualsiasi economista sa che se non puoi fare un aggiustamento di prezzo, cioè di cambio, devi fare un aggiustamento di reddito. Nelle funzioni di domanda, inclusa quella di importazioni, queste due cose: reddito e prezzi, se ne blocchi una puoi muovere solo l’altra.
Di fatto quindi l’euro ci impone di rinunciare all'unico beneficio effettivo (secondo Alesina, 1997) di un’unione economica: quello di disporre di un vasto mercato che ci isoli da shock esterni.
Così facendo, a ogni crisi obbliga voi, in questa aula, a cercare nuovi modi di sottrarre reddito ai cittadini italiani, onde evitare che essi mandino in deficit la bilancia dei pagamenti.
L'euro è un impedimento sulla strada delle riforme
In effetti questa cosa non è un'assoluta novità, credo, per nessuno di voi, che più di me e per motivi di percorso professionale siete interessati al dibattito politico, perché i politici autori dell'entrata nell'euro hanno ampiamente confessato che l’euro come scelta aveva un fondamento politico e non economico. Il fondamento politico era a diversi livelli. Uno degli argomenti che vengono ripetuti più spesso (lo ho sentito anche questa mattina in una trasmissione radiofonica un pochino orientata alla quale ho dovuto partecipare) è quello secondo cui legandoci a un paese più forte e più virtuoso di noi saremmo stati costretti a fare delle riforme, a diventare più bravi. Questo atteggiamento è quello di chi dice che diciassette uccelli se legati insieme volerebbero meglio: lo sintetizzo così.
Entriamo nel
merito: intanto fosse anche vero che legandoci a paesi più forti noi diventeremmo
migliori perché faremmo le necessarie riforme strutturali, le riforme
strutturali sono quelle dal lato dell'offerta (mercato del lavoro ecc.). Ora,
il punto è che noi siamo in una crisi da carenza di domanda, quindi di offerta
ce n’è anche troppa, per cui in questo momento occuparci delle riforme
strutturali, cioè di aumentare l'offerta quando di offerta ce n'è troppa, non
mi sembra il massimo della razionalità (poi ovviamente entrerò nel merito se me
lo chiederete).
Ma il punto più interessante, o che almeno spero possa interessarvi, è che in generale il rapporto fra euro e incentivi alle riforme esattamente contrario di quello che viene propagandato. Mentre a noi è stato detto che legarci ci avrebbe stimolato a fare riforme, ormai esiste un corpo di letteratura scientifica piuttosto ampio e convincente che chiarisce come in realtà i vincoli esterni, i cambi fissi, sono uno stimolo a rinviare, anziché ad anticipare, le riforme, per motivi molto semplici che vi illustrerò pianamente. E c’è anche un terzo punto: ormai esiste un corpo di letteratura scientifica piuttosto consolidato che dice che comunque, dove sono state fatte le riforme strutturali, in particolare quelle relative alla flessibilità del mercato del lavoro, esse hanno avuto effetti controproducenti proprio sulla produttività del lavoro, e anche qui il motivo è abbastanza intuitivo e cercherò di spiegarvelo nei limiti tempo che ho.
L'argomento
secondo il quale legando a paesi migliori saremmo migliorati ha un antico
lignaggio e deriva da un articolo di Giavazzi e Pagano pubblicato sulla European Economic Review del 1988,
chiamato “L'importanza di legarsi le mani”, nel quale appunto si argomentava
che un governo, o comunque una classe politica, cioè fondamentalmente voi,
legandovi le mani a quelle di un paese supposto più virtuoso, sareste stati
costretti a fare la cosa giusta, che nell’occasione in cui quell'articolo venne
scritto era quella di avere meno inflazione.
In realtà analisi successive hanno chiarito che questo atteggiamento è un pochino semplicistico, e questo non solo e non tanto perché da un punto di vista democratico forse è anche giusto che un paese dove tutto sommato la sovranità è esercitata dal popolo possa decidere di comportarsi come meglio crede, ma per due motivi razionali.
Il primo è che, come hanno notato Tornell e Velasco nel Journal of Monetary Economics del 2000 (ma il lavoro circolava già dal 1995), i cambi flessibili sono uno strumento di disciplina dei governi, perché se un governo sbaglia, per esempio facendo una politica fiscale troppo espansiva, e quindi cominciando a indebitarsi con il resto del mondo, immediatamente il tasso di cambio flette, dando al mercato un immediato segnale del fatto che qualcosa non va. Non solo: il mercato comincia ad assorbire gradualmente delle perdite, perché se il paese svaluta chi ha prestato subirà una perdita su cambi, e si regola, si ferma, smette di prestare.
Cos'è successo in Europa invece?
È successo che paesi che in cui il settore pubblico o privato aveva atteggiamenti di spesa eccessiva si sono visti a prestare soldi a profusione semplicemente perché è mancato il segnale che la svalutazione del loro cambio avrebbe dato ai mercati. Perché la Grecia si è potuta indebitare ai livelli ai quali si è indebitata? Semplice: perché era credibile. Non vi fidate delle persone che vi dicono che in economia esistono cose solo buone o solo cattive. La credibilità, come tutti gli aspetti economici, ha un lato positivo e un lato negativo. Il lato positivo è che se sei credibile ti danno tanti soldi. Il lato negativo è che facilmente te ne danno troppi, e poi devi restituirli e non sai come fare. Questo è quello che è successo alla Grecia. Avesse avuto la dracma, questa si sarebbe svalutata e non saremmo arrivati alla crisi alla quale siamo arrivati. Ma questa cosa, che si sapeva dal 2000 e forse anche da prima, è stata recentemente ripresa da Fernandez-Villaverde ed altri (stiamo parlando di università come la LSE e la Columbia) in un articolo intitolato Political credit cycles (I cicli politici del credito), pubblicato sul prestigioso Journal of Economic Perspectives, nel quale si sostiene molto convincentemente una tesi molto semplice: è stato proprio l'accesso al credito a buon mercato, garantito dall'integrazione monetaria europea, che ha permesso ai paesi deboli di rinviare le riforme. Se non ci fosse stata una totale integrazione monetaria, paesi che si stavano indebitando troppo sarebbero stati penalizzati dai mercati con l'imposizione i tassi d'interesse più alti da subito, oltre che con la svalutazione del cambio, e semplicemente non avrebbero potuto fare quello che hanno fatto. Peraltro questa cosa l'aveva detta anche Martin Feldstein nel 2005, e sto parlando di una persona che è stato capo dipartimento ad Harvard, nonché presidente del National Bureau of Economic Research. Vorrei anche che uscissimo dalla trappola di dire che gli americani parlano male dell'euro perché sono invidiosi. Esorterei ad avere un atteggiamento un pochino più aperto rispetto alle teorie che provengono da studiosi che insegnano in università così prestigiose.
Quello che
sfugge, tra l'altro, e che in realtà è poi la chiave di lettura che vi propongo
per un altro paio di snodi sui quali vorrei attirare la vostra attenzione, è
che, proprio per il fatto che in economia non c'è nulla di intrinsecamente e totalmente
buono per tutti, o intrinsecamente e totalmente cattivo per tutti, questa
situazione, che spesso viene definita come una situazione che ha avvantaggiato
la Germania, che quindi sarebbe cattiva, egoista e colpevole (secondo alcuni
politici che si definiscono europeisti ma che per difendere l'euro attizzano in
Italia sentimenti antigermanici - cosa che per me è un paradosso), questa
situazione in realtà ha effetti di incentivo perversi anche sulle economie forti,
e il motivo è molto semplice. Intanto se rimuovi i segnali che il mercato
valutario dà, i creditori hanno un incentivo a prestare troppo, perché sanno
che non incorreranno nel rischio di cambio. Perché i tedeschi hanno prestato
così tanto ai greci, per esempio? Perché non essendoci più la dracma sapevano
che avrebbero rivisto euro. Forse infatti rivedranno euro, ma forse anche no.
Il punto però è esattamente quello che diceva il vice presidente Vitor Constâncio (trovate appunto la
citazione all’ inizio). Ma c'è anche un altro aspetto. Tutti sappiamo che
insomma l'euro è una moneta forte per noi ma debole per la Germania. Il problema
è che se un paese riesce a fare profitti perché ha una valuta troppo debole, chiaramente
non ha poi incentivi ad investire. Se ci fate caso, l'ultima slide di pagina 3 vi
fa vedere che la Germania è il paese che ha il più basso rapporto fra
investimenti e Pil nell'Eurozona, cosa che spesso non viene considerata.
Mi soffermo su un terzo punto, che è quello del reale impatto delle riforme strutturali, e poi mi avvio a concludere.
Le riforme strutturali dovrebbero migliorare l'offerta, ma la letteratura scientifica recente spiega però che la flessibilitàdel mercato del lavoro ha compromesso la produttività del lavoro, e questo non solo in Italia ma più in generale in Europa. Ci sono due lavori molto importanti di Robert Gordon e Ian Louis Dew-Becker, pubblicato nel 2008, e un altro di Francesco Daveri e Maria Laura Parisi, pubblicato nel 2010, che analizzano appunto il rapporto fra flessibilità del mercato del lavoro e produttività, scoprendo che quando si introduce flessibilità nel mercato del lavoro, soprattutto in uscita, per cui un lavoratore, come dire, si trova ad occupare posizioni precarie e non ha la possibilità di crescere con l'azienda, la sua produttività fatalmente cala, perché fondamentalmente il fatto di avere contratti a breve termine, di passare da una parte all'altra, impedisce quell’accumulazione di capitale umano che soprattutto in un sistema come quello italiano, basato sulla piccola e media impresa, avviene nel contesto dell’impresa e nel contesto di un rapporto di lavoro stabile e duraturo con un’impresa dove il lavoratore acquisisce queste competenze.
Mi soffermo su un terzo punto, che è quello del reale impatto delle riforme strutturali, e poi mi avvio a concludere.
Le riforme strutturali dovrebbero migliorare l'offerta, ma la letteratura scientifica recente spiega però che la flessibilitàdel mercato del lavoro ha compromesso la produttività del lavoro, e questo non solo in Italia ma più in generale in Europa. Ci sono due lavori molto importanti di Robert Gordon e Ian Louis Dew-Becker, pubblicato nel 2008, e un altro di Francesco Daveri e Maria Laura Parisi, pubblicato nel 2010, che analizzano appunto il rapporto fra flessibilità del mercato del lavoro e produttività, scoprendo che quando si introduce flessibilità nel mercato del lavoro, soprattutto in uscita, per cui un lavoratore, come dire, si trova ad occupare posizioni precarie e non ha la possibilità di crescere con l'azienda, la sua produttività fatalmente cala, perché fondamentalmente il fatto di avere contratti a breve termine, di passare da una parte all'altra, impedisce quell’accumulazione di capitale umano che soprattutto in un sistema come quello italiano, basato sulla piccola e media impresa, avviene nel contesto dell’impresa e nel contesto di un rapporto di lavoro stabile e duraturo con un’impresa dove il lavoratore acquisisce queste competenze.
Vorrei
giusto fare un rapidissimo commento sulle ultime due figure che trovate a
pagina 4.
Veniamo accusati di non aver fatto le riforme strutturali, ma la linea nera fa vedere molto bene in che cosa è consistita la riforma strutturale della Germania: è consistita nella massiccia precarizzazione del mercato del lavoro che ha consentito una discesa della quota salari di circa 7 punti in 4 anni (mi riferisco al rapporto fra salari e Pil), quindi in una massiccia svalutazione competitiva salariale. Questo è un tipico esempio di politica beggar-thy-neighbour, cioè di politica di svalutazione aggressiva nei riguardi dei propri vicini, che poi saremmo noi. Ma questa politica ha dei costi sociali.
Li vedete nell’ultima figura, che mostra come l'indicatore di disuguaglianza dei redditi, il delta del Gini, in Germania sia decollato a partire dalle riforme strutturali. Ora, il problema è questo: la Germania è un paese ricco, e quindi se paga un po' di meno i suoi operai, gli operai stanno peggio di prima, ma stanno sempre meglio degli operai di un paese povero.
Se ci si lega a un paese ricco in un sistema che impone che l'aggiustamento in risposta a shock esterni passi attraverso la riduzione dei salari, vincerà sempre il paese ricco, perché quando il paese povero cerca di fare lo stesso tipo di aggiustamento, dovrà abbassare i salari al di sotto della soglia di sussistenza, che è poi quanto succede ora in Grecia.
L'euro sta diventando un gioco a somma negativa
Cosa dovrebbe chiedere e non potrà ahimè ottenere l'Italia durante il semestre europeo?Mi dispiace concludere su questa nota negativa, che non vuole esprimere sfiducia nella capacità del vostro lavoro, nelle vostre competenze, e nelle competenze delle persone che ci rappresentano in Europa. Purtroppo, vedete, io ho molti colleghi i quali attualmente sostengono che risolveremo tutto andando in Europa a battere i pugni sul tavolo. Colleghi miei, quelli per i quali il problema è l’austerità: “Adesso andiamo in Europa e battiamo i pugni sul tavolo, così costringiamo l'Europa a fare meno austerità!”. Un vostro collega che non nomino, parlando con un mio collega che non nomino, ha fatto questa semplice obiezione: “Ma, gentile economista, il tavolo non c'è!”. Vale a dire: in Europa non esiste un reale spazio di negoziato ed è la crisi stessa che lo dimostra, perché se i paesi europei avessero avuto una reale volontà politica di cooperare, nulla avrebbe impedito loro di farlo già adesso, a bocce ferme. Anche con l'assetto istituzionale attuale la Germania avrebbe potuto fare quelle politiche cooperative che da quattro o cinque anni tutti i maggiori economisti mondiali le consigliano di fare nell'interesse di tutti. Ma lei non le sta praticando, e quindi ahimè credo che nessuno riuscirà, sbattendo i pugni sul tavolo che non c'è, a ottenere quello che si dovrebbe ottenere.
Cosa si
dovrebbe ottenere secondo me? (un “secondo me” di assoluta umiltà, nel senso che tutto quello
che vi ho detto, ci ho tenuto anche a sottolinearlo, non sono idee mie ma provengono
da studi di altri economisti).
È evidente
che bisognerebbe ripensare le regole europee, e se uno proprio ci tenesse a mantenersi
nell’euro, dovrebbe quantomeno orientare la politica fiscale nel senso di indirizzarla
all'obiettivo esterno cioè all'obiettivo di mantenimento di conti esteri equilibrati,
come di fatto già accade, ma in modo simmetrico. Vedete, all'inizio di questa relazione
ho cercato di illustrare che la politica dell’austerità è stata fondamentalmente lo strumento attraverso il quale, tagliando i redditi, i paesi
deboli hanno rimesso a posto i loro conti esteri. Bene: praticata in questo modo, si tratta di una
politica intrinsecamente asimmetrica, perché costringe chi è in posizione di debolezza a
diventare ancora più debole uccidendo il proprio mercato interno. In un'Europa
che volesse crescere armoniosamente e che volesse veramente profittare del
beneficio di un'unione economica, cioè del beneficio di avere un grande mercato
interno, bisognerebbe che anche i paesi in surplus facessero la loro parte, cioè facessero politiche più espansive. Bisognerebbe
quindi introdurre una simmetria nelle regole fiscali europee, che in qualche
modo assicurasse che i paesi in situazione di surplus facessero politiche più
espansive.
Ci vorrebbe anche
un'altra cosa, richiesta da tantissimi economisti, in Italia Emiliano
Brancaccio, in Germania Eckhard Hein, ecc., ma posso citarne tantissimi altri,
cioè ragionare sul fatto che non si può avere una maggiore integrazione economica
europea se non si armonizza prima l'economia reale, e in particolare quello che
è il cuore dell’economia reale, cioè il mercato del lavoro. La penultima figura
mostra che il paese più produttivo (la Germania) è quello che ha tagliato di più
i salari. Occorrerebbe invece che si stabilissero delle regole, che l'Italia si
facesse promotrice, laddove potesse, di regole nel mercato del lavoro che
garantissero un'evoluzione delle retribuzioni in termini reali, cioè in termini
di potere d'acquisto, conforme all’evoluzione della produttività del lavoro. In
tal modo i paesi meno produttivi sperimenterebbero certo una minore dinamica
salariale, però quelli più produttivi sperimenterebbero una maggiore dinamica salariale
(cosa che in Germania non c'è stata). Sperimentando una maggiore dinamica
salariale sarebbero in grado di sostenere, attraverso le proprie importazioni,
l'economia degli altri paesi, e si potrebbe effettivamente crescere insieme,
cosa che adesso è impossibile.
Questo, naturalmente, come dire, vi toglierebbe un po' di lavoro, nel senso che, in quanto commissione finanze, con una maggiore crescita voi sareste in grado di far affluire alle casse dello Stato un maggiore gettito, senza dover imporre ulteriori balzelli alla popolazione che qui vi via inviato a tutelare i propri interessi economici.
Come dicevo, purtroppo, l’Italia non riuscirà a ottenere queste cose, perché se ci potesse riuscire semplicemente non saremmo in crisi, e purtroppo temo che allo stato attuale delle cose, e questa è una valutazione ormai ampiamente condivisa, se anche le ottenesse, queste regole razionali non annullerebbero la necessità di un riallineamento dei cambi nominali fra i paesi dell'eurozona, cioè del ritorno a valute nazionali.
Voglio chiudere, e mi prendo ancora due minuti, per farvi notare un dettaglio riferito all’altro discorso, quello del sistema bancario. Ormai emergono segnali di insofferenza nei riguardi dell'attuale assetto anche da parte dei paesi forti, cioè in particolare della Germania. Questi segnali di insofferenza derivano dal fatto che se fino ad adesso l’Unione Economica e Monetaria è stata un gioco a somma nulla, dove uno vinceva e gli altri perdevano, adesso sta diventando un gioco a somma negativa (come dice Alberto Montero Soler). Credo che tutti sappiate che la situazione della Germania è meno florida di quanto una certa stampa un po' propagandistica spesso ci vuole far credere, e credo che sia da attribuire a questo il fatto che Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, abbia chiesto che nel prossimo stress test sulle banche europee sia imposto il fatto di pesare i titoli del debito pubblico all'attivo con coefficienti che esprimano la rischiosità del paese emittente. Una decisione su questo non è ancora stata presa, Vitor Constâncio mi pare abbia detto che verrà presa a gennaio, ma vi vorrei far riflettere su una cosa: qualora questa decisione venisse presa sarebbe una decisione estremamente grave, perché significherebbe ammettere che i titoli di stato sono rischiosi, cioè significherebbe ammettere che le famose parole di Mario Draghi “we will do whatever it takes to defend the euro, and believe me, it will be enough” (faremo tutto quanto necessario per difendere l’euro, e credetemi, sarà abbastanza) verrebbero in questo modo sconfessate. Il fatto che la Bundesbank abbia voglia di sconfessare in questo momento Draghi, cioè il difensore dell’euro, fermo restando che la Germania non è un monolite come non è un monolite l’Italia (non vi conosco tutti ma so che rappresentate correnti politiche diverse, diversi partiti, diversi orientamenti, e la stessa cosa succede in Germania), segnala che in Germania una parte dell’establishment è stanca di questo gioco e vuole sganciarsi. Siccome in Europa, non per colpa nostra, lei comanda un pochino più di noi, credo che questo ci imponga una riflessione, che deve essere una riflessione sugli scenari futuri più che sulla difesa di un passato che si è dimostrato finora fallimentare.
Vi ringrazio
per l'attenzione e sono a vostra disposizione.
(come si dice: fatemi sapere, chiamate voi. Io me ne sto alla finestra, come la mia nonna Quartina affacciata per ore sul corso di Jesi, a osservare lo struscio. Sapete, la gioventù che mira, ed è mirata, e in cor s'allegra? Una tradizione marchigiana, insomma. Lei, però, non era una macroeconomista. Il suo approccio era più micro: da impercettibili indizi - l'abbigliamento, il modo in cui le persone che si incontravano si salutavano, o mancavano di farlo, l'assenza o la presenza a certi orari di alcuni attori di quella variegata Comédie humaine - lei riusciva, tenace, paziente, a risalire la catena delle cause, a distillare una torbida e velenosa sintesi, che invariabilmente si condensava in questa sentenza politicamente scorretta: "Le donne è puttane munto be'...". Ecco, la sua, forse, più che una micro, era una macro microfondata (quella che ormai piace a solo Stagnaro, che non ha letto Kirman). D'altra parte, se lo diceva lei, che in quanto donna, per quanto fuori mercato, era pur sempre in conflitto d'interessi... Ma è delle donne come degli italiani: per ogni donna sul mercato le altre sono zoccole, per ogni italiano gli altri sono improduttivi. Chi avrà ragione? Nessuno, credo. E poi, di quella casa affacciata sul Corso, e del suo ombroso cortile interno, non ricordo solo questo. Ricordo anche le parole della principessa Maria, appese sopra alla macchina da cucire da una persona che aveva molto sofferto, per la più crudele delle sciagure, la più contraria all'ordine naturale delle cose: la morte di un figlio primogenito. Ricordate quelle parole? "Tutto comprendere è tutto perdonare").
(...chi non capisce è piddino!).
(...per il nuovo anno, e prima che queste cose le dicano tutti - cosa che non tarderà ad accadere...)
(come si dice: fatemi sapere, chiamate voi. Io me ne sto alla finestra, come la mia nonna Quartina affacciata per ore sul corso di Jesi, a osservare lo struscio. Sapete, la gioventù che mira, ed è mirata, e in cor s'allegra? Una tradizione marchigiana, insomma. Lei, però, non era una macroeconomista. Il suo approccio era più micro: da impercettibili indizi - l'abbigliamento, il modo in cui le persone che si incontravano si salutavano, o mancavano di farlo, l'assenza o la presenza a certi orari di alcuni attori di quella variegata Comédie humaine - lei riusciva, tenace, paziente, a risalire la catena delle cause, a distillare una torbida e velenosa sintesi, che invariabilmente si condensava in questa sentenza politicamente scorretta: "Le donne è puttane munto be'...". Ecco, la sua, forse, più che una micro, era una macro microfondata (quella che ormai piace a solo Stagnaro, che non ha letto Kirman). D'altra parte, se lo diceva lei, che in quanto donna, per quanto fuori mercato, era pur sempre in conflitto d'interessi... Ma è delle donne come degli italiani: per ogni donna sul mercato le altre sono zoccole, per ogni italiano gli altri sono improduttivi. Chi avrà ragione? Nessuno, credo. E poi, di quella casa affacciata sul Corso, e del suo ombroso cortile interno, non ricordo solo questo. Ricordo anche le parole della principessa Maria, appese sopra alla macchina da cucire da una persona che aveva molto sofferto, per la più crudele delle sciagure, la più contraria all'ordine naturale delle cose: la morte di un figlio primogenito. Ricordate quelle parole? "Tutto comprendere è tutto perdonare").
(...chi non capisce è piddino!).
(...per il nuovo anno, e prima che queste cose le dicano tutti - cosa che non tarderà ad accadere...)