(...come sa chi c'era, qui abbiamo spesso festeggiato il primo maggio.
Nel 2013, ponendo il tema della produttività del lavoro nei suoi corretti termini scientifici [astenersi "-ini"], che poi sarebbero diventati un paper: "Italy's decline and the balance-of-payments constraint".
Nel 2014, per litigare con uno che poi è diventato un amico, e affermare un principio che mi veniva contestato, e ora tutti riconoscono, perfino il salmonato britannico: l'euro non si è affermato come valuta di riserva internazionale:
[qui], come avevo scritto nel 2012:e naturalmente i motivi di questo insuccesso temo somiglino molto a quelli che ci dicemmo all'epoca. Al post del 2014 ci fu un seguito, originato da una vostra osservazione.Nel 2015, quando, avendo ormai preso le misure dell'enorme, insormontabile problema culturale che il Dibattito poneva, volli mettere in evidenza un vostro commento sui nostri nemici di classe, i semicolti, la cui Halbbildung veniva stigmatizzata da tal Pinocchio [chissà se è ancora qui? Lui aveva capito, non era della generazione "punturina", quindi forse potrebbe essere nei paraggi...]. La frustrazione di Pinocchio è quella in cui ci riconosciamo ancora oggi tutti noi:
ora che la Storia si sta ripetendo, senza che appaia immediatamente evidente quale sia il turno: quello della tragedia, o quello della farsa? Come nel 2014 c'era stato un sequel, così nel 2015 c'era stato un prequel, in cui argomentavo di non essere un "politico" ponendo una questione politica che è e resta sempre attuale, questa:
[che se volete è legata al tema della "punturina" come non-strumento di risveglio delle coscienze, ma anche abbastanza legata al tema sollevato ieri da Claudio nella sua diretta, quella sui babà...].
Nel 2016, quando ragionammo di terza globalizzazione, tirando le fila dei primi cinque anni di percorso fatto insieme, e descrivemmo quella spirale di avvitamento verso il basso:
oggettivamente difficile da arginare, nella generale inconsapevolezza, di cui presto rischiamo di percorrere un altro anello.Nel 2017, per celebrare la bellezza del creato.
Nel 2018 arrivai in ritardo.
Nel 2019 fui tecnico.
Molto di quanto c'era da dire, del resto, era stato detto, e non tutto poteva essere né detto né ripetuto [e quindi spiaceva tantissimo per chi non fosse stato qui da subito]. Sì, perché naturalmente sbaglio anch'io, se pure meno della media, e fra i miei errori di prospettiva ce n'era stato uno cruciale: il non aver capito che il mio ruolo politico, se pure avrebbe tutelato formalmente la mia libertà di espressione del pensiero, libertà di cui vi avevo ampiamente annunciato le inevitabili restrizioni, d'altra parte l'avrebbe limitata sostanzialmente, perché condizione necessaria per l'efficacia di ogni azione politica, in generale di ogni gioco strategico, è che le proprie mosse non siano disvelate all'avversario, e anche perché la credibilità e la fiducia reciproca nei rapporti politici si costruisce, come in tanti rapporti di lavoro, sulla reciproca riservatezza [vi fidereste di un avvocato che vi racconta le vicende degli altri clienti? Io capirei solo che agli altri racconta le mie...]. Quindi, dato che il periodo era difficile, con Conte che si teneva le deleghe agli affari europei per negoziare la sua pace separata sul MES, ecc., ovviamente preferivo stare zitto, pensando che chi avesse potuto capire, avrebbe capito.
Poi il mondo cambiò, ovviamente restando quello di prima.
Ma nel 2020 e nel 2021, preso da mille beghe, non ebbi tempo da dedicare a voi.
Dobbiamo però tornare a celebrarlo insieme, il primo maggio, e a farlo, come qui abbiamo sempre fatto, con la piena legittimità che ci deriva dall'aver iniziato questo progetto in difesa della democrazia, cioè degli umili (perché i superbi si difendono da sé in qualsiasi regime), in difesa della loro common decency orwelliana, e in risposta a una loro domanda: perché stiamo sempre peggio?
La risposta a questa, come ad altre domande, era già scritta, ma nessuno leggeva per voi le pagine cui era stata consegnata.
Questo è quello che mi sono limitato a fare, e tanto è vero che l'economia è una scienza, che il mero affermarne le leggi inesorabili - ancorché non deterministiche - mi ha permesso, ci ha permesso di anticipare tante volte gli eventi. Se non ad altro, questo ci è servito ad apprendere che essere preveggenti non è condizione sufficiente per un'efficace azione politica: la saetta previsa vien più lenta, ma arriva, e nella vita l'importante è arrivare al momento giusto - come ognuno di voi riscontrerà ricordandosi di come ha conosciuto l'uomo o donna della sua vita. Semplicemente, per quanto il tempo sia una risorsa preziosa, spesso prima è semplicemente il momento sbagliato, tanto quanto dopo. Abbiamo dovuto imparare a convivere anche con questa dolorosa consapevolezza e ce ne siamo fatti una ragione, per il semplice motivo che, giusto o sbagliato, il tempo è comunque dalla nostra parte, come credo di avervi spiegato tante volte, e non ho alcuna difficoltà a ripetere...).
Oggi i nostri futuri fieri e fedeli alleati di centrodestra, attualmente (a Roma) fieri e leali oppositori di destra (ma da altre parti sono altre cose, perché i livelli di governo sono tanti, e ognuno ha la sua geografia politica), hanno concluso - o iniziato, non so - una conferenza programmatica. Come avrete capito dall'introduzione, se già da scienziato avevo fatto del dubbio un metodo, da politico sono stato costretto a farne qualcosa di più: uno strumento di sopravvivenza! Quindi, certezze non ne ho, ma di una cosa sono sicuro: in quella, come in altre conferenze programmatiche, di tutto si sarà parlato tranne che della strada che abbiamo di fronte a noi. Il motivo è semplice: quella strada è difficile da intravvedere senza le necessarie categorie culturali, e quando anche la si intraveda, si tende a distogliere lo sguardo, perché essa conduce in un luogo che fuori da qui non si hanno gli strumenti per gestire, né in termini di sostanza, né in termini di comunicazione.
A voi, che siete qui da tanto, basterà riassumerla in un tweet, questo:
...e potremmo anche chiuderla qui, visto che sono cose di cui abbiamo parlato mille e una volta.
Vale però la pena di farla, qualche sottolineatura, a beneficio dei latecomers.
La questione salariale ovviamente preesisteva allo scoppio dell'inflazione da offerta (che a sua volta preesisteva alla guerra). Qui vedete alcuni dati recenti:
e qui
uno dei primi post sull'argomento.
Ripercorrendo al contrario questa catena di eventi, la guerra consente al PD di parlare di inflazione senza ammettere le responsabilità della disfunzionale costruzione europea nell'alimentarla (mi riferisco, in particolare, alle scelte improvvide in tema di approvvigionamento energetico che vi ho illustrato qui). A sua volta, l'inflazione consente al PD di toccare il tema dei salari senza ammettere le proprie responsabilità: in particolare, quella di aver propugnato un sistema in cui l'equilibrio esterno (quello dei conti con l'estero) può essere conseguito solo attraverso la deflazione (salariale), cioè solo attraverso la svalutazione del salario (non essendo più disponibile l'aggiustamento del cambio nominale), come vi ho illustrato tante volte, l'ultima delle quali qui (ma se volete approfondire il tema, e dovreste volerlo, perché vi riguarda, trovate tanto da leggere o rileggere qui).
Detta semplice: la guerra permette al PD di atteggiarsi con una certa credibilità a difensore dei lavoratori, nella misura in cui permette al PD di dire ai lavoratori che se stanno male la colpa è della guerra, non del PD! (Rectius: del sistema politico rappresentato e difeso dal PD).
E così, sospinti dall'inesorabile logica delle cose, e aiutati da una sfortunata (per gli altri) catene di circostanze, nonostante che a febbraio il loro organo di indirizzo politico li avesse ammoniti ad "evitare la futile rincorsa fra prezzi e salari" (lo avevamo commentato qui), i politici del PD scoprono, tutt'a un tratto, che occorre aumentare salari fermi da ormai trent'anni in termini di potere d'acquisto (come vi mostra il grafico qua sopra)! E perché lo scoprono proprio ora, non venti (come in Dumas), ma addirittura trent'anni dopo? Non è strano? No che non lo è: è del tutto semplice e naturale! Perché prima dell'immensa cortina fumogena sollevata dalla guerra, si sarebbero risi in faccia da soli, loro, che sono quelli del jobs act, quelli che si erano fatti scrivere il programma di austerità dalla Bce, a fare un discorso simile! Ora, sotto l'usbergo di un risolutivo e inoppugnabile #hastatoPutin, non c'è piroetta che non riesca a sembrare credibile all'occhio di un lettore distratto, fra cui, devo dire, molti lettori o ex lettori di questo blog.
E quindi arriva Misiani, arriva Orlando, arriva Sala...
In nome del "tutto è cambiato" (frase passepartout di particolare efficacia, perché dispensa dal dire che cosa è cambiato: "ma come cosa è cambiato: tutto, non lo vedi?"), ricostituitisi in difensori della vedova e dell'orfano i nostri amici "de sinistra" ci forniscono la loro soluzione, adeguare i salari, che sarebbe anche giusta (se non altro perché possiamo dare per scontato che le indicazioni che vengono da Bankit siano invece sbagliate!), ma per essere convincente dovrebbe essere assortita dalla risposta a due altre domande: il problema della difesa del potere d'acquisto non era stato risolto adottando l'euro? E se adeguiamo i salari, come risolviamo il problema della competitività?
Sul primo punto non mi dilungo. Archeologia del Dibattito. Solo persone del tutto digiune di economia hanno potuto raccontare da un lato, e credere dall'altro, che ci si potesse difendere rivalutando il cambio dagli incrementi del prezzo delle materie prime, che spesso e volentieri viaggiano sulle due o tre cifre! Oggi, per dire, con un incremento dell'indice dei prezzi delle fonti di energia pari a oltre il 350% rispetto a due anni fa
rivalutare del 300% l'euro significherebbe certo compensare in larga parte questi incrementi, ma significherebbe anche quadruplicare il cartellino del prezzo delle nostre merci per gli acquirenti extra-eurozona. Siamo sicuri che sarebbe una buona idea? Direi che è abbastanza facile capire che non lo sarebbe.
Poi c'è l'altro problema, quello della competitività. Il trade-off (alternativa, dilemma) è questo: se non adegui i livelli dei salari, scarichi tutto il costo dell'inflazione importata sulle spalle dei lavoratori (la soluzione preferita dal dottor Visco), ma riesci a contenere almeno il costo del lavoro (visto che quello delle materie prime non dipende da te). Questo significa che da un lato uccidi la tua domanda interna (perché i lavoratori, con l'aumentare dei prezzi, devono ridurre i loro acquisti), ma dall'altro mantieni quote di mercato all'estero. Se invece adegui il livello dei salari, il costo dell'inflazione importata si distribuisce fra salari e profitti, la domanda interna tiene, ma naturalmente rischi di perdere quote di mercato all'estero e di ridurre il tuo surplus, o aumentare il tuo deficit, di bilancia dei pagamenti.
Un economista direbbe che ci troviamo di fronte alla scelta fra un modello di crescita export-led (non adeguo i salari perché rinuncio alla domanda interna e perseguo un modello mercantilista di crescita guidata dalle esportazioni, cioè dalla domanda altrui, alla tedesca), e un modello di crescita wage-led (sostengo la domanda interna per non far dipendere la mia crescita da quella estera).
Nel modello Bagnai-Rieber (questo qui) abbiamo dato una veste formale sufficientemente complicata da soddisfare i palati fini a un paio di verità sufficientemente semplici da poter essere apprezzate da chiunque. In una unione monetaria, se il Paese meno competitivo adotta politiche di moderazione salariale si ritrova in un equilibrio in cui il tasso di crescita è minore e la disoccupazione maggiore di prima. Il disegnino, se interessa, è questo:
(ma ovviamente senza paper non ci fate niente: lo metto qui in memoria di quando queste cose mi sembravano difficili: ora affronto altri livelli di difficoltà), mentre lo spiegone è relativamente ovvio. La moderazione salariale aumenta la quota di profitti e incentiva gli investimenti, ma d'altra parte deprime la domanda di beni di consumo, e il secondo effetto generalmente prevale sul primo.
Quindi, come dire: una strategia di questo tipo è ottima per i nostri concorrenti, ma non particolarmente eccelsa per noi (che verremmo a dipendere ancora di più da loro).
Ovviamente, per vedere le cose così bisogna essere disposti ad ammettere quello che per Adam Smith era ovvio, ovvero che la produttività dipende anche e soprattutto dalle condizioni della domanda (che stimola l'offerta). Se invece sei nel mondo fatato in cui l'offerta crea la domanda, allora auguri!... In questo senso, quindi, Visco non ha ragione e Sala non ha torto: i salari vanno adeguati.
Resta però un problema, anzi, ne restano almeno tre: a livello microeconomico, l'aumento del costo del lavoro non rischia di mettere fuori dal mercato le aziende? E a livello macroeconomico non rischia di deteriorare la competitività? E la maggiore domanda interna (i soldi in tasca alle famiglie) non rischiano di rivolgersi a beni prodotti all'estero (aumentando le importazioni e contribuendo a un ulteriore deterioramento dei conti esteri)?
Chi vuole proporre una politica di crescita wage-led deve essere in grado di rispondere a queste tre domande, e per questo credo che sia inutile rivolgersi a chi non può capirle. Se invece restate un attimo qui, vi do qualche elemento per costruire insieme una risposta.
Partendo dalla fine: in questo momento l'Italia è un paese in forte surplus estero. Vi ricordate certamente che sottolineai questo punto in un momento particolarmente difficile. Siccome siamo in forte surplus, e abbiamo riequilibrato la posizione finanziaria sull'estero:
margine per politiche espansive ne abbiamo. Vogliamo lasciare che sia il PD ad approfittarne tatticamente, presentandosi come salvatore di quella Patria che con tanta alacrità ha contribuito ad affossare, e costringendo gli altri partiti nel ruolo dei difensori dei padroni o padroncini? Non credo che sarebbe una buona idea far privatizzare al PD il profitto politico dell'immenso costo sostenuto dal Paese, da tutti voi, a causa delle politiche deflazionistiche (austerità) degli ultimi dieci anni.
Resta il livello microeconomico.
Indubbiamente, un aggravio dei costi salariali piacere non lo fa, a nessuno. Ma d'altra parte l'equilibrio di un'azienda è fatto di tante cose. Ad esempio, se crediamo ai testi di economia, gli imprenditori che in giro per l'Italia abbiamo visto concedere integrazioni dei salari ai lavoratori (da Siro Della Flora a Andrea Beri, ma il fenomeno è stato piuttosto esteso) non hanno compiuto un gesto irrazionale, non sono stati travolti da un empito romantico di filantropia, ma hanno agito, magari senza esserne consapevoli, in modo perfettamente razionale, applicando la teoria dei salari di efficienza, secondo cui la produttività di un lavoratore è correlata positivamente al livello della sua remunerazione. Eh già: perché nell'equilibrio economico di un'impresa rientra anche la produttività, rientra anche il non perdere un lavoratore sul quale si è investito in termini di capitale umano, rientrano molte cose, non riconducibili al mero discorso (che pure ha una sua logica) secondo cui "se dopo le materie prime aumentano anche gli stipendi qui tiriamo giù la clèr". Questo è senz'altro un aspetto del problema, ma solo uno dei tanti, come dimostra il fatto che se tante imprese hanno premiato i loro lavoratori in anni difficili come questi, e lo hanno fatto senza fallire, è stato non solo perché sentivano di doverlo fare, ma anche perché potevano farlo.
Questo non significa che gli imprenditori non chiedano aiuto, né che si debbano scaricare sulle loro spalle le conseguenze di quanto sta accadendo! Questo nessuno lo pensa (per primi credo che non lo pensino i loro dipendenti) e nessuno lo vuole.
Quello che molti di loro chiedono è che si intervenga con maggiore decisione, con un intervento all'altezza delle circostanze, sui costi dell'energia. Da molti mi sono sentito dire che se si potesse intervenire calmierando come in Francia l'incremento dei costi dell'energia, allora un adeguamento dei salari all'inflazione sarebbe sostenibile. E se si vuole un intervento fiscalmente progressivo, allora resta sempre ferma la proposta di far recuperare potere d'acquisto alle classi meno agiate abolendo l'IVA sui beni di prima necessità (un'altra cosa che quando la chiedevamo noi veniva accolta a pernacchie, ma che poi incontrò generale approvazione quando la fece la Germania due anni fa).
Certo, non si può fare un discorso generalizzato: ma proprio per questo non si può e non si deve nemmeno reagire alle provocazioni (intellettuali e politiche) dei nostri alleati pro tempore con argomenti frontalmente opposti. Si può fare di più. Sarebbe un grave errore lasciare la razionalità economica in mano a quella sinistra che per tanti anni si è accanita contro di essa. Sarebbe un grave errore lasciare che chi ha creato in Italia una questione salariale sia libero di atteggiarsi a suo risolutore, e lo sarebbe soprattutto perché noi qui sappiamo che all'interno di un certo schieramento, quello "progressista", non si è ancora, e non si sarà mai, disposti a fare i conti con i vincoli oggettivi che ci impediscono di progredire da un modello di crescita export-led verso un modello wage-led.
Eppure, di questo c'è bisogno, e non solo per motivi di equità sociale, ma anche, banalmente, per motivi di sicurezza nazionale.
Tutti vedono, oggi, che è un problema dipendere dalle altrui esportazioni: importare il gas dalla Russia può essere oggettivamente imbarazzante se questa, per qualsiasi motivo, non vuole più esportarcelo (e andare in giro per il mondo a cercare fornitori di risorse che rispettino i canoni ESG è impresa impervia, atteso che in giro per il mondo quasi tutti i Paesi ricchi di risorse sono stati o sono oggetto di attenzioni coloniali o neocoloniali, che generalmente si estrinsecano nell'imposizione esogena di Governi non esattamente ai massimi standard di democrazia...). Pochi vedono (anche se è un po' che lo andiamo dicendo), che è un problema dipendere anche dalle altrui importazioni: perché quando vivi esportando prodotti in un Paese (torno a prendere ad esempio la Russia), può accadere per i più svariati motivi (instabilità politica altrui, sanzioni, ecc.) che a un certo punto quel flusso di domanda si interrompa.
Qui il tema è di ordine più generale: il PD non è attrezzato culturalmente per evitare che le vittime della globalizzazione (da lui gestita qui in Italia) non siano ulteriormente schiacciate dalla deglobalizzazione. La sicurezza strategica di un Paese richiede, per dirne una, che oggetti come l'umile (e da voi odiata) mascherina chirurgica non siano più prodotti in un unico Paese (quello da cui partono i virus, per capirci), ma siano prodotti anche in Patria. Ma questo però comporta che costino di più, e l'equilibro economico richiederà quindi che sia possibile pagarle di più, da parte di lavoratori che sono pagati meglio. La corsa verso il basso della globalizzazione deve essere invertita, per motivi di sicurezza nazionale prima di tutto, ma può esserlo veramente solo se tutti noi ci chiariamo su un punto: perché questa inversione sia sostenibile occorrerà che ci attrezziamo tutti a ragionare in termini di corsa verso l'alto, a esigere la qualità (anche della nostra vita), a sostenerne il costo, e a pretenderne la remunerazione.
Non credo che possiamo chiedere questo sforzo ai profeti del mondo senza frontiere, né, per altri versi, a quelli della decrescita.
(...avrei da aggiungere due paroline a beneficio di quei nostri amici, bucce d'uomini che Goofynomics ha sputato, cui ieri Claudio si è rivolto con liberatoria franchezza. Ma devo occuparmi di altro. Non mancherà occasione e non perderete niente nell'attesa...)