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martedì 20 maggio 2025

Il crepuscolo degli sghei


A commento del post precedente, visto che il tempo è poco e le domande sono tante, vi fornisco un breve contributo cotto e mangiato da Eurostat perché riflettiate sul senso e il nonsenso di certe valutazioni del tipo: "Ma se la Germania cresce poco perché i tedeschi sono ricchy!", e via argomentando (o meglio: provandoci):

Nel periodo fra 2018 e 2022, che a qualcuno, non so perché, sembrava particolarmente rilevante (io la penso diversamente perché è un periodo "disturbato" da eventi eccezionali, ma tant'è), il Pil tedesco è aumentato di 522 miliardi di euro, le esportazioni di 348 miliardi di euro, e il monte salari di 211 miliardi di euro, il che significa, ripercorrendo a ritroso, che non tutti i soldi che entrano a fronte di esportazioni vanno in salari, e che il Pil non aumenta solo per le esportazioni. Fatto sta che mentre la quota di esportazioni sul Pil è cresciuta dal 43% al 46%, la quota salari è scesa dal 44% al 43% e questo non è per nulla strano, come non è strano che si accumuli ricchezza in un Paese in cui gli investimenti (e quindi la crescita reale) sono repressi, dal momento che come dovreste sapere bene almeno fin da quando parlammo della Premiata armeria Hellas contabilità vuole che:

X - M = S - I

Quindi ovviamente a esportazioni nette positive corrisponde un'esportazione di risparmio (e un'accumulazione di ricchezza: è il mercantilismo, bellezza!). Il problema è sempre quanto sia sostenibile questo modello, il modello che forza gli altri a fallire sotto il peso del debito accumulato. Mi sembra che sia ormai una evidenza conclamata quella che nel 2011 era solo un educated guess: non è sostenibile, e infatti non si sta sostenendo.

La Germania è in recessione da due anni, se non ve ne siete accorti.

Tutto qua.

(...sono a disposizione dopo il primo turno delle amministrative per valutare se quello che micuggino o la tal banca d'affari ha detto della ricchezza dei tedeschi sia compatibile con quello che la contabilità nazionale ci racconta. Il semplice schema che vi ho proposto ci dice che qualche tedesco si è sicuramente arricchito, e che molto verosimilmente costui rientra nella classe di persone a bassa propensione marginale al consumo, cioè rientra fra i ricchi...)

domenica 27 aprile 2025

Produzione di squilibri a mezzo di squilibri

Parafraso il titolo di un libro che mi venne imposto dal docente di storia delle dottrine economiche quando ero iscritto a filosofia. Potete immaginare quanto riuscissi a capire di un testo così tecnico, ma all’epoca funzionava così, non si era ancora affermata l’ideologia del facilismo, con le sue carte patinate e i suoi box riassuntivi dai colori tenui: i docenti universitari buttavano tutti in piscina e poi si interessavano a quelli che sapevano nuotare. Suona un po’ darwinista, e forse lo è (mi perdonerà Enzo che ho rivisto con piacere ieri sera), ma il fatto è che nella sua apparente scorrettezza quel sistema funzionava.

Oggi però non voglio parlarvi della conversione dei valori in prezzi (quindi non voglio neanche spiegare che cosa sia a chi ha la fortuna di non saperlo), ma di una conversione molto più semplice: quella degli euro in dollari, ponendo qui a voi in modo più articolato e disteso, una domanda che ieri ho posto a un amico in una conversazione privata, e poi, in serata, a una platea ristretta di studenti in un seminario altresì privato, dove ci siamo molto divertiti (nel senso eletto ed etimologico del termine):



La domanda parte dalle osservazioni di Paolo Torp al post su Unione Europea e squilibri globali, e in particolare dalla sua constatazione di quanto lucida fosse la visione che Geithner aveva del tema degli squilibri globali. Come penso di avervi ricordato più volte, e senza nulla togliere alla capacità analitica e alla chiarezza di esposizione di Geithner (o dei suoi stagisti), in tanta consapevolezza non v’era nulla di miracoloso. I global macroeconomic imbalances erano un tema di ricerca assestato e consolidato da anni negli Stati Uniti, arrivato poi qui con il consueto ritardo di fase della nostra produzione accademica, tant’è che due anni prima anch’io mi ci ero buttato per scrivere un lavoro sul ruolo svolto dalla Cina nella loro formazione.

Ora, nel post in questione ironizzavo sul fatto che all’epoca Geithner diceva al G20 quello che oggi Draghi balbetta in audizione.

A parte il ritardo di Draghi, in fondo non è così strano che eventually (che non significa "eventualmente", ma "alla fine", nonostante quello che pensano i colleghi che chiamano il pi greco “Pai” come le patatine e i decenni “decadi”) i due si ritrovino su una diagnosi condivisa. Diagnosi che poi è quella della migliore economia ortodossa ed eterodossa da sempre, e, con maggiore consapevolezza, in particolare dai tempi degli accordi di Bretton Woods, dove, come sapete, il contrasto fra le posizioni americana e inglese verteva essenzialmente su come strutturare il sistema monetario internazionale perché arginasse l’emersione di squilibri globali, ovvero sul tema, oggi di particolare attualità grazie alle posizioni espresse dagli esperti di Trump, della condivisione dei costi di quella struttura cruciale per lo sviluppo economico che è l'architettura finanziaria internazionale (ne parlammo occupandoci di Keynes, Draghi, Gollum e i tassi negativi).

Questa unità di visione attraverso il tempo è tanto meno strana in quanto Geithner e Draghi sono cuccioli più o meno riusciti della stessa nidiata globalista. Eventualmente (nel senso di eventualmente!) può apparire strano che posizioni simili siano espresse dal segretario al Tesoro di Obama e dagli esperti di Trump! Che cosa potrà mai avere in comune il presidente statunitense che Berlusconi definiva “abbronzato“, fulgida icona della globalizzazione, con l’attuale presidente statunitense? La risposta superficiale credo sia “niente!". Penso che ci possano anche essere risposte meno superficiali e più articolate (che però nessuno mi sta dando), ma intanto andiamo avanti con la domanda che ieri ho posto due volte: se per gli Stati Uniti, indipendentemente dall’orientamento politico di chi li conduce, gli squilibri globali sono un problema, è mai possibile che non si siano posti e non si stiano ponendo il tema del ruolo dell’euro?

Mi spiego.

Anche gli squilibri globali sono, a modo loro, un “bene” (cioè un male, un’esternalità negativa), e vale quindi per loro quello che vale per gli altri beni. Esattamente come una Volkswagen, così anche uno squilibrio globale, per poterlo esportare, devi prima produrlo. La fabbrica delle Volkswagen (o almeno la sua principale sede legale) è a Wolfsburg, quella degli squilibri è a Francoforte: è la BCE. Come vi ho documentato nel post sugli squilibri globali, un paio di giorni fa, e nei post cui esso rinvia, la “materia prima“ del colossale squilibrio commerciale esportato dall’eurozona a partire dagli anni '10 è costituita dai tanti squilibri regionali fra Germania e paesi appartenenti al mercato unico. Questi squilibri regionali, costruitisi grazie all’euro, si sono poi riversati sui mercati globali a causa dell'austerità, che aveva prosciugato la capacità del mercato unico di assorbirli. Il punto è che se in primis questi squilibri non ci fossero stati, nessuna austerità avrebbe potuto contribuire a esportarli! Ai neofiti e ai passanti ricordo in sintesi che l'euro ha permesso alla Germania di vendere le proprie auto (e le proprie lavatrici, e i propri sommergibili...) all'Europa periferica a un prezzo relativamente contenuto perché non influenzato dal marco forte, e ai paesi periferici di indebitarsi a tassi molto convenienti per comprare le auto tedesche perché distorti al ribasso dalla "credibilità" dell'Unione economica e monetaria: gli squilibri nascono così, per una duplice inibizione del meccanismo di formazione di un prezzo di equilibrio in due mercati importanti, quello valutario (che avrebbe naturalmente condotto a un cambio tedesco più alto) e quello finanziario (che avrebbe naturalmente condotto a tassi di interessi greci, portoghesi, spagnoli ecc. più alti). Può sembrare strano ai profani che quello che è stato descritto come un bene assoluto (i bassi tassi di interesse) si riveli un male (un incentivo all'indebitamento), ma per i professionisti due principi dovrebbero essere assodati: che non ci sono pasti gratis e che non esistono distorsioni benefiche del mercato...

Ora, qui bisogna rovesciare una frase a me tanto cara di Keynes ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo!”. Dobbiamo cioè chiederci se, perché e fino a quando gli Stati Uniti potrebbero volere il mezzo (cioè l’euro) visto il fine che realizza (cioè gli squilibri globali), fine al quale loro si sono sempre detti contrari in un’ottica assolutamente trasversale dal punto di vista degli orientamenti politici.

Ecco: mentre nella conversazione privata con uno di voi sono riuscito ad andare al punto in modo abbastanza rapido, ho seri dubbi che intervenendo al seminario io sia riuscito a farmi capire.  Come vi dicevo in un commento al post precedente, il costo di una accresciuta consapevolezza rischia di essere l'autoreferenzialità. Un costo che forse paghiamo anche qui: per farmi capire da chi è appena arrivato sono costretto a citare altri post di questo blog, il che, mi rendo conto, trasmette un senso di autoreferenzialità (ma ogni post in realtà cita letteratura e dati "esterni"), anche se è semplicemente un modo per tenere insieme il filo del discorso.

Faccio un esempio delle mie difficoltà nel dibattito di ieri sera, partendo da un argomento che ho sentito formulare, quello secondo cui “dobbiamo stare con Trump perché scardina il sistema”, cioè, in sintesi, “il nemico del mio nemico è necessariamente un mio amico”. Ora, non è che io non lo condivida, questo approccio, come sapete! Per me che sono entrato in politica con un unico obiettivo, quello di espellere gli occupanti abusivi del concetto di “sinistra”, qualsiasi cosa li faccia impazzire è naturalmente benvenuta! Tuttavia, mi fa un po’ sorridere che le persone che ragionano così siano le stesse che poi con fare pensoso e riflessivo affermano un’altra banalità, cioè che “di tattica si muore”. Il dibattito fra tattica e strategia ha una lunghissima dignità anche nelle scienze economiche e si riconduce al dibattito se il lungo periodo possa essere o meno considerato come la somma di tanti brevi periodi. Non è di questo che voglio parlare, dovrei studiare molto per aiutarmi e aiutarvi a capire questo dibattito, peraltro irrisolto, ma voglio solo stabilire il punto che “il nemico del mio nemico è mio amico” è un ragionamento intrinsecamente tattico: mi suggerisce come posso fare un danno al mio avversario, ma non mi definisce l’obiettivo che voglio raggiungere, sia esso la vetta del Monte Porrara o una più equa distribuzione del reddito.

Il dibattito di ieri sera era anche arricchito, e in qualche modo confuso, dall’apporto di diversi geopolitici, categoria che qui abbiamo trattato un po’ come gli ingegneri, liquidandoli affettuosamente e forse un po’ affrettatamente, e di cui mi piace evidenziare un paradosso: a quel che capisco, secondo loro la geografia dominerebbe in quanto determina l’accesso a risorse strategiche per lo sviluppo economico, ma l’economia sarebbe però una categoria trascurabile. Insomma: la geografia ci interessa perché determina l’economia che però non ci interessa. Sul primo pezzo della proposizione non posso che essere d’accordo, da persona che con la geografia lotta ogni settimana sulle creste delle montagne, e che quindi è in grado di capire perché Passo Lanciano o Forca di Penne si chiamino così - anche se oggi pochi li percorrerebbero per raggiungere le rispettive località eponime (sì, perché ci sarebbe anche quell’altro dettaglio: sulla geografia regna la geologia, ma il percorso che porta dai lenti movimenti delle placche tettoniche all’estrema volatilità del tasso di cambio è un pochino troppo lungo e oggi ce lo risparmiamo)! Sul secondo ho qualche dubbio. In effetti, quello che attribuisce a un particolare elemento della tavola periodica lo status di risorsa è la sua capacità di soddisfare bisogni che in alcuni casi sono determinati dalla biologia, ma in molti altri dall'economia. Pensate alle famose terre rare (che rare non sono): quello che le ha fatte diventare così cruciali è stata la risposta statunitense al surplus della Germania, il Dieselgate con il conseguente reindirizzamento dell'automotive tedesco verso il green (e connessa sceneggiata gretina). Come la definiremmo questa dinamica se non economica? E quindi viene prima l'uovo geografico o la gallina economica?

È un po’ come l’altro paradosso, quello secondo cui la volontà di potenza della politica è indirizzata a espandere la propria sfera di influenza economica, ma l’economia non conta perché c’è il primato della politica! Fatto sta che senza sghei non si armano eserciti, e il primato della politica va così a farsi benedire di fronte al primato della contabilità (che ha a più che vedere con l'economia che con la politica).

Non voglio però commettere l’errore dal quale vi metto sempre in guardia, quello per cui se sei un martello ogni problema ti sembra un chiodo. Non mi viene in mente nessun modo consentito dalla legge per vincere una partita a scacchi con un martello (mentre quello non consentito dalla legge è ovvio: suonarlo in fronte all’avversario, che poi è quanto regolarmente avviene sullo scacchiere internazionale)! Non voglio quindi sminuire assolutamente il ruolo di altri approcci analitici, considerando che le categorie economiche in 15 anni di riflessione non mi hanno consentito di trovare una risposta a questa semplice ma fondamentale domanda: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell’euro (e quindi dell’Europa)? È chiaro che a questa domanda non si può trovare risposta nell’ambito della mera ottimizzazione, soprattutto perché la funzione obiettivo ci è ignota, e il contesto è di informazione estremamente asimmetrica. Cercherò di promuovere un dibattito su questo tema coinvolgendo più competenze, ma intanto “mi verrebbe da” (cit.) dirvi in che cosa penso che la dimensione economica possa aiutarci, e per farlo vi ricorderò alcuni "fatti stilizzati" economici che secondo me dovrebbero essere integrati (e non so se lo siano) nel ragionamento "geopolitico" per dargli una piena rotondità. Perché sì, va bene la KernEuropa, vanno bene le "grandi potenze talassocratiche", va bene tutto, ma poi la sera, o almeno a mezzogiorno, qualcosa in tavola ci deve essere, e la categoria rilevante in questo caso è indubbiamente quella di distribuzione del reddito...

Parto da una delle cose in qualche modo “dissonanti“ con le categorie della mia professione che ho sentito ieri: l'idea che la globalizzazione sarebbe stata provocata dal crollo del muro di Berlino, e sarebbe il tentativo di dare una risposta al mutamento degli assetti geopolitici determinato da questo crollo. Ora, gli economisti sono abbastanza d’accordo sul fatto che la terza ondata di globalizzazione sia in realtà iniziata quasi un decennio prima, cioè all’inizio, non alla fine, degli anni ‘80, e si sia manifestata in termini istituzionali sotto forma di una liberalizzazione progressivamente indiscriminata dei movimenti di capitale (le "riforme strutturali", come oggi si direbbe, all'epoca furono quelle). La liberalizzazione era lo strumento che serviva al capitale per sconfiggere definitivamente il lavoro mettendo in concorrenza il penultimo con l’ultimo proletariato (fuori di metafora, portando i capitali a costruire fabbriche dove il lavoro costava di meno). Volendola buttare in politica, questo significa che la tromba della globalizzazione ha squillato non quando il blocco occidentale ha sconfitto i comunisti a casa loro, ma quando il capitale ha sconfitto il lavoro in casa propria. Volendola dire in un altro modo, in questa lettura la terza globalizzazione comincia quando il capitale ha vinto la lotta di classe, non è la battaglia che ha consentito al capitale di vincerla (ricordo agli interessati anche il post in cui abbiamo affrontato specificamente il tema delle caratteristiche strutturali di questa globalizzazione).

Ora, un geopolitico secondo me è assente giustificatissimo dai presupposti di questa interpretazione della realtà. Gli mancano almeno due elementi che noi invece qui possediamo. Il primo è la constatazione di un fatto: la crescita dei salari reali da noi termina alla fine degli anni ‘70 (quando i salari si fermano e la produttività prosegue per un po’ il suo cammino); il secondo è la nozione di che cosa sia la “repressione finanziaria” e di cosa comporti la sua affermazione o il suo smantellamento. Il primo fenomeno ve l’ho messo in evidenza fin dall’inizio e l’ultima volta nel post sull’Italietta della liretta, sul secondo ci siamo soffermati più volte, a partire dal post su produttività, salari, crisi, logaritmi, marxiani, onestà, che è comunque un post fondante di questo blog e che vi consiglio di rileggere anche per capire che il fenomeno dell’arresto dei salari reali non è circoscritto al nostro paese:


ma è un fatto stilizzato, anzi: il fatto stilizzato più significativo per caratterizzare le dinamiche del blocco occidentale, un fatto che non può essere eluso da spiegazioni che ambiscano a fornire basi solide a ragionamenti predittivi.

Mi viene qui in mente un altro paradosso: in tutte le conversazioni “geopolitiche” prima o poi salta fuori il concetto, assolutamente dignitoso e condivisibile, secondo cui l’ordine mondiale proposto, esposto, imposto, dalle cosiddette democrazie liberali non sia assolutamente l’unico modello di democrazia. Il paradosso consiste nel fatto che quelli che affermano questa indiscutibile verità nella stragrande maggioranza dei casi mettono in disparte, o proprio non considerano, il fatto che anche all'interno del perimetro delle democrazie liberali esistono diversi possibili atteggiamenti verso l’egemonia del mercato. Anche qui: non vorrei che l’essere un "martello" docente di politica economica mi facesse vedere ogni problema come il "chiodo" del rapporto fra Stato e mercato. Tuttavia, non porre al centro questo tema quando si ragiona dei rapporti politici in uno Stato o fra gli Stati mi sembra un errore. Ve la dico in un altro modo: magari nell’affermare che un altro mondo è possibile si dovrebbe partire dal chiedersi se un’altra Banca centrale sia possibile, il che presuppone la conoscenza del percorso storico che ha portato a questa indipendenza, e la capacità di trarre un bilancio sull'esperienza dell'indipendenza…

Ora, torno al punto cui volevo condurvi: la lettura secondo cui la terza globalizzazione inizia alla fine degli anni  ‘80 può naturalmente convivere con la datazione che del fenomeno danno economisti, se si aggiunge un passaggio, ipotizzando che l’Unione Sovietica fosse già tecnicamente morta all’inizio degli anni ‘80. In questo caso, però, il crollo del muro da elemento "fondativo" della terza globalizzazione andrebbe letto come evento di enorme portata simbolica (quella è innegabile), ma che i capitalismi occidentali non hanno avuto bisogno di aspettare per regolare i conti con i loro proletariati, o almeno per porre le basi istituzionali che consentissero loro di regolare questi conti in modo più spiccio (l’indipendenza della Banca centrale si afferma infatti all’inizio degli anni ‘80). Tuttavia, e qui vado al punto, per capire se sulla relazione con Trump si debba costruire una tattica o si possa articolare una strategia, cioè, in altri termini, per capire se Trump sta veramente scardinando l’ordine mondiale instauratosi alla fine degli anni ‘70 con la sconfitta del lavoro, cioè della classe media, e la vittoria del capitale, cioè del capitalismo dei fondi, credo sia fondamentale avere un’idea condivisa e argomentata di quando è iniziato questo ordine mondiale e in che modo. In altre parole, ho qualche difficoltà con chi mi dice che la terza globalizzazione è finita grazie a Trump, o comunque che Trump vuole porre fine ai suoi giorni (per quanto io possa trovare auspicabile questa prospettiva), ma non mi fornisce una datazione del suo inizio collimante con l’evidenza che vi ho mostrato, cioè con i principali fatti stilizzati riferiti alla distribuzione del reddito nel "primo" mondo!

L’argomento che pure ieri ho sentito, cioè che Trump vorrebbe scardinare tutto in quanto ha preso sul personale il fatto che gli abbiano sparato addosso, non mi sembra molto convincente, non ne fa di per sé “uno di noi”. Questo non tanto perché a quasi nessuno di noi (spero) qualcuno ha sparato addosso, quanto perché, come ampiamente dibattuto al tempo dei "punturini" parlando di quanto la storia insegna, la minaccia esistenziale diretta è comunque un fondamento molto labile per la costruzione di una solidarietà di classe. Sparare addosso a un miliardario non ne fa necessariamente un paladino della classe media, indipendentemente dal fatto che il colpo vada a segno o meno...

Insomma, non sono riuscito a capire bene, ma è un limite mio, in base a quale ragionamento datino ad oggi la fine della globalizzazione quelli che ne datano l’inizio dalla caduta del muro (e che quindi non riescono a spiegarci come mai la quota salari nei paesi occidentali sia scesa in picchiata dieci anni prima che il "comunismo" venisse sconfitto). Quello che so, però, e che qui credo sappiamo tutti, è che il dato veramente segnaletico non è tanto quello su cui, tanto per cambiare, i media vogliono che voi concentriate la vostra attenzione (“dazi sì, dazi no”), quanto il tema più complessivo del rapporto di questa amministrazione con le istituzioni della globalizzazione, e in particolare con l’indipendenza della Banca centrale.

Quella è la battaglia da seguire.

Qui abbiamo ampiamente discusso sul ruolo che l'indipendenza della Banca centrale gioca nell'orientare la distribuzione del reddito a vantaggio della rendita finanziaria (ad esempio, alle pagg. 267 e seguenti de Il tramonto dell'euro). Basti pensare che da noi l’indipendenza ha condotto alla lunga stagione degli avanzi primari, che sono stati altrettanti trasferimenti di risorse dei contribuenti ai percettori degli interessi sul debito (categorie che in alcuni casi possono coincidere, ma che proprio nel meraviglioso mondo dell'indipendenza si sono progressivamente disaccoppiate). Oggi il fronte di questa eterna lotta è destinato a scaldarsi ancora di più, per il semplice motivo che sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea gli orientamenti politici necessariamente conducono a tensioni inflazionistiche: non credo di dovervi spiegare nulla circa le tensioni inflazionistiche intrinseche nella strategia Green in cui l’Europa ha cercato salvezza e che rilutta ancora ad abbandonare in modo chiaro e definitivamente segnaletico, e penso di non dovervi spiegare che voler rimpatriare le fabbriche negli Stati Uniti, in cui il tasso di disoccupazione è vicino ai minimi:


significa accettare il rischio che ci siano tensioni inflattive, per l'operare della curva di Phillips, di cui parlammo spiegando lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro, e su cui siamo tornati recentemente per spiegare come si fa a far scendere i salari.

La domanda quindi diventa: questa promozione, consapevole o meno che sia, di un ambiente di crescita (nel caso degli Stati Uniti) o decrescita (nel caso dell'Unione Europea) moderatamente inflazionistica verso quale scenario ci porta? Per usare le categorie di Reinhart e Sbrancia, stiamo aprendo a una "liquidazione del debito pubblico" (e non solo pubblico), realizzata tramite la promozione di una crescita moderatamente inflazionistica e della regolamentazione dei mercati dei capitali, cioè della "repressione finanziaria", con il conseguente abbandono del dogma dell'indipendenza della banca centrale e la riappropriazione dello strumento monetario da parte dei governi, o ci trincereremo dietro il dogma dell'indipendenza (per quanto la sua applicazione non abbia praticamente mantenuto alcuna delle tante promesse fatte), innalzando i tassi di interesse e conducendo il sistema economico a un progressivo soffocamento (cioè giapponesizzandoci, per usare l'espressione di Krugman che vi ho ricordato parlando dei negazionisti del declino)?

La battaglia è questa, come ben sapete: nei miei testi e in questo blog il tema dell'indipendenza della Banca centrale (ma più in generale dell'esistenza di istituzioni indipendenti dall'espressione della sovranità popolare) e la sua declinazione locale, cioè il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia, è sempre stato centrale, perché indissolubilmente legato a una domanda che non è parente così distante di quella da cui siamo partiti: chi deve decidere sulla distribuzione del reddito? Questa decisione è tecnica o politica? Spetta a burocrati non eletti e privi di responsabilità politica o a rappresentanti dei cittadini, soggetti alla volontà popolare attraverso il processo elettorale (cioè quella cosa da cui Monti voleva proteggere le decisioni importanti, che per lui andavano appunto riposte "al riparo dal processo elettorale")?

Non sono mai riuscito a capire (per mia superficialità, s'intende) quanto i geopolitici "mettano a tema" (come credo direbbero) questa domanda, che però è la domanda fondativa del vivere comune. Fatto salvo Robinson Crusoe, che non aveva motivi di porsela (e che non a caso è diventato paradigma economico del modello neoclassico - quello che nel becero e disinformato dibattito nostrano viene chiamato "neoliberista"...), chiunque non se la ponga non è un cittadino particolarmente consapevole né uno studioso particolarmente illuminante dei processi sociali.

A questa domanda è legata la domanda da cui siamo partiti: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell'Europa? Immagino che i geopolitici (o i politologi, o gli ingegneri, o gli editorialisti dei grandi giornali in caduta libera) abbiano lettura diverse e tutte interessanti del significato del Trattato di Maastricht, ma dal punto di vista tecnico è piuttosto evidente che "la ciccia" è nell'articolo 104, quello che ha istituzionalizzato e formalizzato il "divorzio", cioè l'indipendenza della Banca centrale dal potere esecutivo. Quanto reggerebbe l'Occidente (immaginando che esso si componga di America settentrionale ed Europa) nel caso in cui gli Stati Uniti rinunciassero all'indipendenza della Banca centrale, per assicurare un regime di crescita moderatamente inflazionistica, e l'Europa reprimesse la propria crescita sotto la sferza di alti tassi di interesse? La repressione della crescita significa, come sapete, repressione delle importazioni, quindi promozione di surplus di bilancia dei pagamenti, quindi, ancora una volta, per finire da dove abbiamo cominciato, produzione di squilibri (commerciali) a mezzi di squilibri (istituzionali).

La posta in gioco è questa. Trump ha bisogno di una Banca centrale accomodante per realizzare il suo progetto di reindustrializzazione degli Stati Uniti, i cui sistemi d'arma, mi dicono gli esperti, dipendono ormai in modo preoccupante dalle tecnologie cinesi. Se il rimpatrio delle catene del valore strategiche, con le conseguenti tensioni inflazionistiche, venisse stroncato da politiche di alti tassi di interesse, l'intento strategico sarebbe frustrato. Lo sarebbe però anche se qui da noi si continuasse a esportare squilibri, magari sotto forma di carri armati VW!

Ecco: io alla domanda che da anni mi pongo (e che ieri ho posto due volte con scarso successo) ancora non so rispondere, ma qualcosa mi dice che vivrò abbastanza da vedere quale sarà la risposta della Storia. Come vedete, i temi posti tredici anni fa nel Tramonto dell'euro e più in generale nel corso della nostra lunga conversazione mantengono la loro centralità anche oggi che la crisi non si presenta sotto le categorie dell'economico (non è fallita nessuna grande banca, non si parla di spread, ecc.) ma del politico (la richiesta esplicita di Trump all'Unione Europea di scegliere in quale campo stare). Almeno in questo senso il tanto lavoro fatto e il tanto tempo passato insieme non sono stati inutili.

Buona domenica!

lunedì 20 gennaio 2025

Voltafaccia (s.m.)

(...proseguiamo con la nostra analisi lessicale...)


"Sta venendo giù tutto! Si riposizionano! Abbiamo vinto!..."


Calma!


Da qualche giorno sto cercando di condividere con voi un paio di concetti, ma tutte le volte che ci provo la diretta salta per la telefonata "a secco" di qualche sconsiderato. Questo weekend mi sono ritagliato un po' di tempo per metterle qui a verbale, sperando che non scoppi qualche altra grana che mi impedisca anche di scrivere.


(...sarebbe ora che mi imparassi a stare zitto: da quando scrivevo queste parole venerdì scorso è successo l'inverosimile, tant'è che mi ritrovo a chiudere questo post oggi! Devo assolutamente ricordarmi del fatto che le mie parole hanno valore performativo: se dico "a meno che non scoppi qualche grana", poi la grana scoppia...)


Forse converrebbe partire dalle conclusioni, ma prendo il rischio, invece, di partire da un episodio storico che ignoravo e che ben esemplifica quanto vorrei condividere.

Tutti qui sappiamo (rectius: crediamo di sapere) che dopo la crisi valutaria del 1992 Mario Monti ammise che svalutare ci aveva fatto bene:

Questo articolo del 13 settembre 1993, che trovate ancora qui, ci era stato segnalato da Alberto, che ogni tanto vedo ancora con piacere affacciarsi, il 25 novembre del 2011 in un commento al secondo post di questo blog, quello in cui spiegavo che Monti avrebbe dato la risposta giusta alla domanda sbagliata.

Veniamo alla cosa che non sapevo.

Un altro lettore, KitKot3 (forse erede di un Kit Kot che è con noi dal 2017), ci ha segnalato tre giorni fa da fonte secondaria (un saggio di Sergio Ricossa), come il 20 giugno 1992 invece Monti fosse fieramente avverso all'ipotesi di svalutazione, e come si fosse espresso in tal senso dalle colonne del Corriere della Sera. KitKot3 non aveva il riferimento diretto, ma io ho la biblioteca del Parlamento e quindi eccoci qua:


Uno dei pochi autentici privilegi della casta è quello di poter alimentare la memoria! La lettura di quel numero del Corriere:


ha suscitato in me emozioni contrastanti. Ero nei miei 30 anni, Tangentopoli era iniziata da 142 giorni, Amato stava facendo le consultazioni, avendo ricevuto due giorni prima da Scalfaro l'incarico di formare il Governo (le Camere erano state sciolte a febbraio da Cossiga, che si sarebbe poi dimesso ad aprile dopo le elezioni politiche), e se ne andava in giro per Roma in motoretta:


come quel matto di "Supergiovane" (cit.), mentre Forlani esibiva ancora per poco il suo smagliante sorriso... 

Où sont-ils les lapins d'antant...

Ma torniamo a noi: se restiamo ai titoli, il voltafaccia è clamoroso!

20 giugno 1992: "Perché oggi non si può svalutare".

13 settembre 1993: "La svalutazione ci ha fatto bene".

Da qui, suppongo, la solita solfa scipita e petulante: "Ma come fa a dire il contrario di quello che ha detto prima? Ma era in buona fede? Ma perché i giornalisti non lo inchiodano alle sue contraddizioni?" e via dicendo...

Decisamente non è in simili circostanze che date il meglio di voi!

Tralasciando la questione che temo ormai irrisolvibile del farvi capire che quando si parla di politica, e non della compravendita di un fondo agricolo, di un'auto usata o di una lavatrice, il concetto di "buona fede" non ha alcuna rilevanza pratica (semplicemente perché ritengo che esplorare la dimensione soggettiva di chi danneggia i nostri interessi non ci aiuti a difenderli: gli voteremmo a favore se sapessimo che era "in buona fede"? Di converso: ci lasceremmo sparare addosso da una persone perché in buona fede pensa che vogliamo aggredirla?), a domande tanto accorate quanto vuote credo che se ne potrebbero opporre due, asciutte: "Ma perché leggete solo i titoli?", anzi: "Ma perché non leggete nemmeno i titoli?"

Partiamo dalla prima domanda: i titoli in effetti non andrebbero proprio letti, perché essi sono il Male assoluto, sono il prodotto della cosiddetta "sintesi giornalistica", una elegante perifrasi con cui si suole indicare la menzogna più abietta e miserabile. Fermarsi ad essi è quindi un errore che si paga nel modo più sanguinoso: facendosi manipolare dai nemici dei nostri interessi!

Monti non ha detto che la svalutazione ci aveva fatto bene

Prendiamo l'articolo del 1993, il cui titolo è un virgolettato: "La svalutazione ci ha fatto bene". Inutile dire che nel testo queste parole non le troverete (provare per credere). Sì, è vero: nell'intervista Monti si addentra in una prolissa palinodia che, con moltissima buona volontà, e (immagino) con una certa irritazione dell'interessato, potrebbe anche riassumersi in quel modo. Ma in effetti Monti non dice da nessuna parte che la svalutazione ci ha fatto bene, anzi: sta bene attento a distanziarsi da chi, dopo il fattaccio, prendeva questa posizione. Testualmente, il Mario minor afferma: "vi è una tendenza in Italia a considerare la svalutazione come uno degli elementi positivi del nuovo panorama, anche da parte di coloro che fino al 13 settembre scorso si erano pronunciati a favore del mantenimento del cambio. Io sono tra questi [intendendo, evidentemente, "coloro che fino al 13 settembre scorso si erano pronunciati a favore del mantenimento del cambio", non certo quelli che "tendono" a considerare la svalutazione un elemento positivo, NdCN] e perciò mi sono chiesto ogni tanto in che cosa fosse giusta e in che sbagliata la posizione [sottinteso: mia e che non rinnego, NdCN] che poi è stata smentita dai fatti".

Insomma, il Mario minor non afferma che il riallineamento ci ha fatto bene ma riferisce che sta cercando di capire perché non ci ha fatto tanto male quanto lui credeva che ci potesse fare. I timori che avrebbe nutrito nel 1992 erano, secondo quanto riferiva nel 1993, che il riallineamento:

  1. avrebbe avuto conseguenze inflazionistiche;
  2. avrebbe interrotto il processo di risanamento della finanza pubblica.

Monti riconosce che questo non è successo, e quindi non riconosce che "la svalutazione ci ha fatto bene", ma, mi ripeto, riconosce che "la svalutazione non ci ha fatto male", e cerca di spiegarsi perché.

Sul primo punto la spiegazione è questa: 

In sintesi, le drammatiche conseguenze inflazionistiche paventate sarebbero state smorzate dalla recessione e dagli accordi di luglio 1992 con cui venne soppressa la scala mobile

Sul secondo punto, la spiegazione invece è questa:

In sintesi, la svalutazione sarebbe stata così catastrofica da impaurire le parti sociali determinando consenso attorno alla manovra restrittiva (da una cinquantina di miliardi...).

Ora, prima ancora di valutare nel merito (scarsissimo) questi argomenti, cosa che mi ripropongo di fare dopo aver analizzato il contenuto dall'articolo precedente, vi faccio notare che già da questo capiamo che il voltafaccia è solo nel titolo: Monti non ha mai detto che la svalutazione ci aveva fatto bene.

Monti ha detto che la svalutazione ci avrebbe potuto fare bene

D'altra parte, se facciamo un passo indietro e torniamo all'articolo del 20 giugno 1992, basta rileggerne bene il titolo: "Perché oggi non si può svalutare". Monti non dice: svalutare ci farebbe male (nel qual caso, se nel 1993 avesse poi detto - ma non l'ha detto - che svalutare ci aveva fatto bene si sarebbe contraddetto)! Monti dice: oggi non possiamo, ma domani ci farà bene!


(...a beneficio di tutti i fuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuurbi che abbiamo incontrato in tanti anni di Dibattito, di quelli che la sanno lunga, di quelli che vengono a spiegarmi che Giorgetti così e che Fedriga colà, e che l'euro non è una buona idea, ecc.: troppi panini dovete mangiare prima di arrivare al livello del Mario minor, figuriamoci di quello maior!...)

Eh già, visto che sorpresa? Mentre non abbiamo evidenza che Monti ci abbia mai detto che la svalutazione ci aveva fatto bene, abbiamo prova provata (scritta) del fatto che Monti ci ha detto che l'inflazione avrebbe potuto farci bene! Esattamente il contrario di quello che pensavate voi, esattamente nell'articolo in cui voi pensavate (fuorviati da Ricossa) che avesse detto il contrario di quello che in effetti ha detto.

Ma anche qui giova entrare nella linea del ragionamento, in particolare per apprezzare la capacità, che molti di voi non hanno, ma il Mario minor sì, di scegliere con estrema cautela il lessico, di celare le proprie intenzioni dietro perifrasi accuratamente ponderate. Eh già! Perché il Mario minor, come il Mario maior, difendono gli interessi di persone intelligenti, che quindi sanno leggere (e leggono) fra le righe: non di analfabeti funzionali sobillati da arruffapopolo da strapazzo, dagli scopiazzatori di Goofynomics, da quelli che pensano che il 2025 sia il 2011, e quindi cercano il like sulla base di modalità di comunicazione tatticamente inappropriate...

Quanta pazienza ci vuole: ma non con Formigli, con voi!

Il ragionamento del Mario minor nel suo articolo del 1992 (tre mesi prima del riallineamento) è piuttosto lineare. Riallineare il cambio nell'estate del 1992 sarebbe stato impossibile perché gli altri Paesi membri non ce lo avrebbero consentito:


(e questa ovviamente è una sciocchezza, tant'è che poi abbiamo riallineato), ma soprattutto (e la ciccia del ragionamento è qui):


Capito? La preoccupazione del Mario minor era che, senza il ricatto di un cambio forte, non ci sarebbe stata una "profonda modifica nei rapporti fra lo Stato e il mercato del lavoro". Frase sibillina: che rapporti ha lo Stato col mercato del lavoro? Lo Stato lo disciplina, lo Stato vi accede (per le assunzioni), che cosa vuol dire Mario minor? Ma lo dice, basta leggerlo! La svalutazione "renderebbe meno cogente la pressione perché quegli interventi, che incontreranno profonde resistenze, siano impostati e realizzati". Insomma: se si fosse riallineato c'era il rischio che saltassero quelli che poi, il mese successivo, sarebbero stati battezzati come accordi di luglio, cioè l'abolizione della scala mobile.

Discussione e conclusioni

Rimetto le cose in ordine, perché magari vi siete persi.

Il 20 giugno del 1992 Monti non dice che la svalutazione ci avrebbe fatto male: dice che ci farà bene se però prima avremo riformato il mercato del lavoro smantellando la scala mobile, cosa che nel caso fosse venuta meno la "pressione" esercitata dal cambio forte si sarebbe rischiato di non fare.

Il 13 settembre del 1993 Monti non dice che la svalutazione ci aveva fatto bene: dice che non ci aveva fatto male come lui credeva perché non aveva impedito le politiche di rigore (e non aveva causato inflazione).

Non c'è alcuna contraddizione: c'è una coerenza assoluta attorno a un'agenda politica (se vogliamo proprio chiamarla così: io parlerei semplicemente di indirizzo politico) orientata a redistribuire il reddito dal lavoro al capitale. E non c'è alcun "complottismo"! Che l'economia funzioni così, cioè che il cambio forte serva a esercitare una pressione su alcune parti sociali (quelle più deboli) è materia da libro di testo! Non ci credete? Ecco qua:



(tratte da La politica economica nell'era della globalizzazione, di Nicola Acocella, che adottavo nei miei corsi): "introdurre un elemento esterno di disciplina al comportamento di alcuni operatori... contrastare politiche salariali ritenute inflazionistiche...".

Tutto chiaro, no?

Ovviamente qualcuno potrebbe dire: "Ma nel pensiero del Mario minor, oltre a non esserci contraddizione - che effettivamente non c'è, perché leggendo il testo degli articoli non ci si trova quello che lettori frettolosi credono di aver letto in un titolo ambiguo e in un altro truffaldino - c'è anche sollecitudine verso il povero lavoratore: il Mario minor vuole salvare da se stesso l'elettore che, non essendo disciplinato, si esporrebbe all'inflazzzzzzzzzzzzzzzione, la più iniqua delle imposte ecc. ecc.".

Ecco.

Questa è la scemenza che va di moda nel Paese dei campanelli, quella secondo cui un riallineamento dello x% si traduce in una variazione dei prezzi interni dello x%. Il Monti del 1993 potrebbe giustificare quello del 1992 dicendo: "Ma io volevo solo evitare che i salari reali venissero falcidiati dall'inflazione! Ed è stata la riforma della scala mobile a evitare che lo fossero! Quindi ho fatto bene a sconsigliare un riallineamento nel 1992, e posso spiegare con le riforme intervenute il fatto che poi nel 1993 a riallineamento effettuato non ci sia stata una fiammata di inflazione!"

Ma noi sappiamo che questo argomento sarebbe specioso: lo sapevamo ex ante e lo sappiamo ex post. Ex ante, le stime del pass-through fra riallineamento e prezzi interni sono piuttosto basse! Lo studio più esaustivo resta ancora quello, che vi ho citato spesso, di Goldfajn e Verlang (2000), da cui traiamo questa tabella:


secondo cui dopo un anno al più un terzo della eventuale svalutazione si traduce in inflazione, e nei casi di crisi valutaria il trasferimento è ancora più lento:


tant'è che gli autori riconoscono che:


Ma anche ex post abbiamo visto che la modifica profonda delle istituzioni del mercato del lavoro non ha minimamente alterato il trasferimento di shock esterni all'inflazione interna! Ricordate questo grafico?


Lo avevamo visto insieme qui, e ci dice sostanzialmente che il trasferimento dei costi delle materie prime sull'inflazione interna è oggi assolutamente proporzionale a quello che era stato negli anni '70. Questo significa, in buona sostanza, che tante riforme del mercato del lavoro non hanno alterato in modo significativo la risposta del sistema.

Ora: si può mandare assolto il Mario minor per il fatto di non aver letto nel 1993 un articolo scientifico uscito nel 2000, come pure per non aver constatato nel 1992 che nel 2023 gli shock esterni avrebbero avuto più o meno lo stesso impatto che nel 1973! Non occorre a questo scopo troppa indulgenza per chi come noi è affezionato ad Aristotele e al calendario! Direi però che è molto, molto grave che nel 2025 ci siano ancora dei cretini che vanno in giro a dire che "una svalutazione produce un beneficio illusorio perché l'inflazione prodotta si mangia i salari reali". Non succede mai, come abbiamo documentato qui, l'unica eccezione essendo il Messico, proprio perché fa eccezione anche nel grafico di Goldfajn e Verlang!

Torno però al punto, che andrà sviluppato ulteriormente:


KitKot3 ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "La svalutazione è una droga!":

«Monti è sempre stato piuttosto rilevante, e se avesse detto che era opportuno svalutare ...»

Comprendo questa sua argomentazione, però qui non si tratta di un'intervista, bensì di un articolo sul Corriere che riporta la sua firma e titolato: Perché, [sic!]] oggi non si può svalutare.

Fonte: «Corriere della sera» del 20 giugno 1992.

Perché scrivere un articolo in merito se intellettualmente non condivideva la difesa della lira e politicamente una sua dichiarazione contraria avrebbe avuto ripercussioni politiche di cui non voleva assumersi le responsabilità? Non sarebbe stato più opportuno tacere?

Pubblicato da KitKot3 su Goofynomics il giorno 15 gen 2025, 18:56


Chiaro cosa c'è che non va in questo approccio? Chiare le motivazioni del collega Monti? Chiaro il loro fondamento politico, e la loro (in)consistenza economica?

Ecco.

Credo che questo case study possa essere utilizzato per mettere in prospettiva anche alcuni voltafaccia più apparenti che reali cui abbiamo assistito negli ultimi tempi (diciamo dal 2015 in poi). A conclusione, riporto due considerazioni che ho espresso nelle mie ultime dirette.

La prima è questa: ognuno di noi si sente unico (perché lo è), ma da qui a ritenere che la sensazione di vivere tempi unici sia fondata ce ne corre.

La seconda è questa: la vera svolta non sarà quando loro verranno a dirci le nostre verità, ma quando noi saremo lì a dire le loro menzogne.

(...immagino i commenti...)

giovedì 24 ottobre 2024

Distribuzione del reddito e teorema di Eulero

Perdonatemi, una rapida integrazione "tennica" che potrebbe esservi utile per apprezzare alcune sfumature del dibattito odierno e senz'altro vi aiuterà con le mie slide di domenica.

Ci è capitato spesso di parlare del modello neoclassico di crescita, basato sulla funzione neoclassica di produzione. Nella sua versione standard, questa funzione esibisce rendimenti di scala costanti. Significa che, come vi ho spiegato parlando di Crescita neoclassica for dummies, gli incrementi di output sono proporzionali a quelli degli input. Immaginando che il livello di produzione Y dipenda dalla quantità di capitale K e da quella di lavoro L, cioè che sia:

Y = f(K, L)

avremo che se moltiplichiamo per un certo numero t gli input, risulta moltiplicato per t anche l'output:

f(tK, tL) = tY

e quindi, ad esempio, ponendo t = 2, se raddoppiamo gli input raddoppia l'output:

f(2K, 2L) = 2Y

(e questo ve lo dissi a suo tempo e quelli bravi se lo ricordano).

Le funzioni di questo tipo sono dette dai matematici "omogenee di primo grado" e vale per loro il teorema di Eulero, secondo cui il valore di Y è dato dalla somma dei valori degli argomenti ognuno moltiplicato per la rispettiva derivata:

E qui vi ho perso quasi tutti per strada, ma va bene così, proseguo imperterrito sulla strada della veritah (che è la nuova onestah), e chi mi ama mi segua!

Che vuol dire questa formula arcana?

Intanto, per i più curiosi, vi rinvio alla sua dimostrazione nel caso generale.

E questa è matematica.

L'economia, e la distribuzione del reddito, entrano nel ragionamento quando ci si ricordi che, come spiegammo a suo tempo a Lampredotto, che impazza nuovamente sui social col suo delirante proposito di abbandonare la nave che galleggia per quella che affonda, nel modello di equilibrio concorrenziale i fattori di produzione vengono remunerati alla rispettiva produttività marginale. La tabella era questa:


e lo spiegone era nel post sul BDSM (cara, non è come pensi tu!).

Da quanto ci siamo detti fin qui (e nei post linkati) conseguono due proprietà del modello neoclassico standard:

  1. in equilibrio, il lavoro verrà remunerato al valore della propria produttività marginale;
  2. in equilibrio, tutto il prodotto verrà distribuito.

La seconda cosa deriva dal fatto che, appunto, la somma dei prodotti delle quantità di fattori impiegate, moltiplicate per la rispettive remunerazioni, coincide, guarda un po', col totale della produzione. Quindi in equilibrio tutta la produzione viene distribuita, e ognuno riceve in proporzione a quanto ha contribuito alla produzione.

C'è un altro pezzettino di tecnica che potrebbe essere utile a qualcuno. In funzioni di questo tipo, la produttività marginale è proporzionale alla produttività media. Se considerate ad esempio la più usata delle funzioni di produzione, la Cobb-Douglas:

potrete verificare facilmente che la produttività marginale del lavoro (la derivata di Y rispetto a L) è data da:

(i passaggi sono su Wikimmmm, che ovviamente li fa per il capitale - è un chiaro messaggio politico - ma se siete sopravvissuti fin qui li sapete fare anche per il lavoro).

Che cosa significa questa bella storia (su cui ci saremmo potuti dilungare, ad esempio sviluppando direttamente qui tutti i passaggi, per i quali invece vi rinvio alle fonti citate)?

Significa che in teoria dovremmo aspettarci che i salari reali evolvano in modo proporzionale alla produttività media del lavoro (average labour productivity, APL). Se questo non succede, i casi sono due:

  1. o la funzione di produzione non ha rendimenti costanti (ad esempio perché li ha crescenti, cioè perché all'aumentare degli input le economie di scala fanno aumentare in modo più che proporzionale l'output);
  2. o il mondo non funziona come nel modello neoclassico (ad esempio perché invece di essere remunerati in base alla loro produttività marginale i fattori di produzione vengono remunerati in base ai rapporti di forza sociali).

Voi direte: sì, tutto bello, tutto forse comprensibile, con difficoltà, ma che c'entra con le cose di cui si parla tanto oggi?

C'entra (o, come dicono quelli che scrivono "non c'è la faccio", centra) moltissimo! Non avete mai sentito dire che la crisi salariale è legata alla crisi della produttività, che il problema di stagnazione dei salari è un problema di stagnazione della produttività?

Bene!

Chi vi dice questo vi sta dicendo che il mondo è neoclassico, che ogni fattore di produzione (incluso tu che stai leggendo) viene remunerato in base alla propria produttività marginale, e quindi che se la remunerazione dei fattori non aumenta ciò dipende dal fatto che la loro produttività non è aumentata (cioè che tu, caro lettore, hai fatto schifo e hai avuto quello che ti meritavi, cioè poco).

Ma se invece osservassimo che mentre la produttività del lavoro è aumentata, la remunerazione del lavoro (salari reali) invece no, che cosa dovremmo concludere?

La conclusione non è difficile, ma la trarremo insieme domenica...

sabato 1 luglio 2023

La semplice macroeconomia kaleckiana di Nanterre: Pil, consumi e Francia

Da qualche tempo sto cercando di farvi capire che la situazione degli altri Paesi europei è meno rosea di quanto i nostri cari operatori informativi cerchino di lasciar trasparire. La facile profezia sul "segare il ramo" si sta materializzando coi suoi tempi, che sono purtroppo quello della Storia, la cui lentezza non deve indurci a dubitare della logica dell'Economia. La mortifera ideologia dell'austerità (cioè la difesa ultra vires della quota distributiva del capitale) non può che condurre a una cronica insufficienza di domanda, cioè a un mondo di poveracci e di scarsa remunerazione del capitale. Un circolo vizioso che non ha nulla di originale e che spiega le cicliche eruzioni di violenza da cui è punteggiata la storia dell'umanità. I periodi di una prosa terminano con un punto, quelli della Storia con una guerra.

Anche se l'attenzione di molti si concentra sulla potenza egemone, quella tedesca, per una serie di motivi, fra cui l'indubbia rilevanza del Paese, la sua penetrazione nel tessuto della nostra economia, il fatto che lo conosco bene e che ho una lunga esperienza diretta e indiretta di esso, da qualche tempo, da ben prima del gigantesco QED di Nanterre, stavo cercando di attirare la vostra attenzione sulla Francia, che, a differenza della Germania, è, come sappiamo da tempo, una vittima diretta delle rigidità determinate dalla moneta unica. Il suo deficit estero cronico le avrebbe (e le ha) imposto, come qui ci dicemmo tanti anni fa, politiche regressive (Hood Robin policies): togliere ai poveri per sostenere la competitività del Paese, dando ai ricchi. Il povero Macron di queste dinamiche oggettive sarebbe stato vittima, come avevamo detto qui e ribadito qui, non necessariamente nel senso che ne sarebbe stato travolto, ma nel senso che la loro gestione sarebbe stata sempre più complessa, a mano a mano che le tensioni sociali (nell'immagine del mio amico del post precedente, la pressione del vapore nella pentola a pressione) si fossero rivelate più esplosive.

La ciurma awanagan-gianniniana, qui degnamente rappresentata dall'amico Marco con la "m" maiuscola, travolta dal proprio livore antiitaliano (quel Paese così ingrato da non attribuire una laurea honoris causa ai millantatori!), ma anche gli intelliggenti (sic) come Valerio, intrisi, questi, di diverso ma coassiale livore verso questo popolo di mandolinisti che si attarda oziosamente su un blog insignificante (e che peraltro non c'è) invece di inchinarsi alla superiorità del loro pensiero forte, ha reagito a questo discorso coerente e dalle lunghe radici abbandonandosi alla tentazione (cit.) del "micugginismo": m'ha detto micuggino che in Francia sta bbene, m'ha detto Numbeo (e che cazzo è? Ma perché non andare sul sito dell'Eurostat?) che il Pil in Francia è più alto, ecc.

Tutte osservazioni assolutamente inconferenti, come vi mostro con un semplice esempio numerico, sintetizzato da questa tabella:


Immaginiamo che in Cracozia ci siano 10.010 (diecimiladieci) abitanti, di cui 10 ricchy e 10.000 poveri. Com'è noto, i ricchy hanno ovunque una bassa propensione al consumo. Se guadagni un milione, difficilmente spenderai 750.000 euro in pane (il rischio del diabete si concretizzerebbe rapidamente), e all'obiezione che però i ricchy possono comprare champagne, si può obiettare che con 750.000 euro di champagne puoi farci il bagno nella Jacuzzi tenendola spenta, ma certo non dissetarti, a meno che tu non voglia fare la fine dell'immortale autore de Il corvo. Come capite, la diversa propensione al consumo di ricchy e povery è un dato fisico, oggettivo. Naturalmente quasi nessun modello economico ne tiene conto, a parte quelli kaleckiani, come questo. Nell'esempio ipotizzo che in Cracozia i ricchy consumino il 20% del loro reddito (risparmino l'80%) e i povery il 90% (risparmino il 10%). Se 10.000 povery guadagnano 1.000 eury il totale dei loro redditi è 10 milioni, esattamente come il totale dei redditi dei 10 ricchi che guadagnano un milione a testa. Il Pil della Cracozia quindi nello scenario di base è 20 milioni (di cui 10 guadagnati dai ricchy e 10 dai poveri), con 11 milioni di consumi.

Passiamo ora allo scenario "M'ha detto mi cuggino che er Pille in Francia è arto" (lo scenario degli awanagan-gianniniani e degli intelliggenti).

Basta immaginare che il reddito dei ricchy raddoppi, passando a due milioni a coccia, e quello dei povery si dimezzi, passando a 500 eury a cranio.

A questo punto, i ricchy da soli fanno 20 milioni di reddito (cioè bastano i ricchy a raggiungere il reddito della baseline, dello scenario precedente), cui si aggiungono i 10.000x500=5.000.000 milioni di reddito dei povery, per un totale di 25 milioni (ovvero: il Pil è aumentato del 25% da 20 a 25 milioni, e analogamente il Pil pro capite - visto che gli abitanti sempre quelli sono: il conto fatelo voi!). I consumi, però, sono diminuiti, passando da 11 milioni a 8 milioni e mezzo: questo perché si sono dimezzati i redditi della popolazione a più alta propensione al consumo.

Questo spiega perché quando un economista vede questo grafico:



(tratto da qui) immediatamente visualizza questo:


mentre quando un ingengngniere awanagan-gianniniano o un intelliggente vedono lo stesso grafico immediatamente vanno su Numbeo per cercare di dimostrare a Bagnai che ha sbagliato (ignari del fatto che Bagnai se ne strabatte), e fanno la figura dei peerla (ma non dobbiamo infierire noi dove Natura si accanì).

Capito, pirlottoni? Vi voglio bene, ma (o anche perché) non ce la potete fare! Andate a parlare di calcio al Bar dello Sport, il vostro giardino di Academo, cercando di scalarne la tabaccaia, ma qui è meglio che lasciate perdere: non siete buoni nemmeno come sparring partners!

Oh, poi io lo so che siete autolesionisti, quindi aspetto con trepidazione, soffocando gli sghignazzi, la vostra relazione di minoranza. Nel frattempo, i normodotati, ove mai non lo avessero già capito, hanno un quadro chiaro della situazione: del fatto che il cuggino di Marco stia bene rigorosamente all'interno della "cerchia dei Navigli" di Parigi ce ne possiamo tranquillamente strabattere. L'ultimo visiting a Paris XIII l'ho fatto nel 2017 e già allora mi dissero di non muovermi da solo dalla metropolitana alla facoltà perché era pericoloso (e in effetti durante un seminario venimmo interrotti dalla notizia che un collega si era fratturato la mascella - nel senso che lo avevano corcato di botte - nel tentativo di difendere lo zainetto del suo computer dalle affettuose attenzioni di un nuà - noir - vi risparmio le contorsioni logiche cui si sottopose il messaggero, dovendo recare tale infausta notizia in un'università de sinistra).

Non sono 10 super ricchy (di cui la Francia abbonda) a rassicurarci:


(qui): ove mai volessero farlo, non saranno Arnault, Bettencourt, Saade, Pinault e Wertheimer ad arginare centinaia di migliaia di diseredati che non hanno nulla, o troppo poco, da perdere, e cui il Governo letteralmente non sa in quale lingua rivolgersi! L'unico modo che avrebbero a disposizione per farlo sarebbe assoldare dei mercenari, ma se lo facessero (e dovranno farlo) li userebbero per difendere se stessi, non Macron! Si ritireranno nell'Ile Saint Louis, trasformeranno coi fondi del PNRR il Ponte Luis Philippe, il Pont Marie et il Pont de Sully in ponti levatoi, e tanti saluti! Per i punti a Sud, come sa chi conosce Parigi, basterà qualche cavallo di frisia e una trentina di ragazzotti dotati di fucili a pompa.

Chiaro il concetto?

Poi va da sé che i moti si sopiranno, fino alla scintilla successiva, in un'alternanza risonante di fasi acute e fasi croniche. Ma anche la Francia è soggetta al peccato originale. Rimuovere gli effetti senza rimuovere le cause è un esercizio tanto nobile quanto disperato. Le riforme, alla Francia, servono:


Lo vedete, poveri ciucci miei!, che in termini di conti esteri è sistematicamente sotto di noi, con tutto che l'energia per lei non è un problema? Quindi agli scalmanati che stanno mettendo a ferro e fuoco le città (non solo les cités) della Francia Macron può dire quello che vuole, ma quello che dovrebbe, e alla fine dovrà dirgli, e che anche se non gli dirà loro capiranno, se non lo hanno già capito, purtroppo è: "Siete già incazzati ora? Pensate quanto lo sarete di più quando, non potendo lasciar cedere il cambio, sarò costretto a tagliarvi ulteriormente i salari per tentare di limitare l'indebitamento estero!"

Tutto qua.

Come vi ho sempre detto, il tempo è dalla nostra, o, per lo meno, non è dalla loro: e questa non è Schadenfreude, è economia, e non è strateggiah: è strategia.

lunedì 25 settembre 2017

QED 84: AfD (quei nazisty dei povery...)

...e poco più di 24 ore dopo (scusatemi, avevo da fare) arriva puntuale come la Morte il QED. I dati sulla distribuzione dei voti per Land sono disponibili qui (ringrazio @Stat_wald) e incrociandoli con i dati sul reddito pro-capite (in logaritmi) si ottiene questa cosa qui:


cioè questa cosa qui:

Il reddito pro capite (misurato in euro per persona e convertito in logaritmi) spiega il 44.8% della variabilità del voto per AfD, con una t di Student di -3.37, significativa all'1% (ovvero: la probabilità che questa relazione sia nulla, sia un artefatto statistico, uno scherzo del caso, è inferiore all'1%).

Eppure, sui giornali, è tutto uno stupirsi, uno stracciarsi le vesti sull'avanzata dei nazisti razzisti xenofobi!

A parte il fatto che il risultato era scontato (almeno, per noi lo era), vorrei evidenziare che perfino Fassina è costretto ad ammettere che la xenofobia (che non è il razzismo: ad esempio, a me fanno paura i tedeschi, e più sono ariani più me ne fanno) con quanto è successo c'entra ben poco, perché AfD ha avuto più voti dove l'immigrazione è stata più bassa.

Sta succedendo semplicemente quanto ho annunciato, in modo secondo me molto limpido, ma senza che nessuno lo capisse veramente (forse c'era bisogno del disegnino) nel 2011, scrivendo sul manifesto: le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra. Come diceva molto saggiamente Celso: avete fatto le politiche di Bruning (in Italia le ha fatte anche Fassina, per un po'), e poi vi stupite se la gente vota a destra?

I nostri gazzettieri dovrebbero fare molta attenzione nel parlare a sproposito di nazismo. Demonizzare l'avversario è una tattica molto stupida, perché espone a un ovvio contraccolpo: c'è il caso che le persone si chiedano se il nazismo (quello vero) è tanto peggiore del PD! Ma soprattutto la demonizzazione chiude spazi politici (la Merkel è costretta a un'alleanza traballante con i Verdi anziché a una più solida con AfD perché ha condotto una simpatica caccia alle streghe contro i suoi esponenti), e chiude percorsi di comprensione.

Ad esempio, il gazzettiere medio, o chi quotidianamente si abbevera al suo sterco, avrà fatto spallucce, dicendo: "Ma questo Bagnai, che scemenze dice! La Merkel ama gli immigrati, non è rasssisstaaah come AfD..." (infatti, s'è visto: vedi alla voce "nuove priorità"...). Sfugge totalmente che l'AfD, come la CDU, è un partito liberal-liberisteggiante. E su questo ci sarebbero tanti discorsi da fare, ma ora devo lasciarvi. Vi ricordo solo che nel Tramonto dell'euro era spiegato molto bene che le meravigliose "riforme" tedesche avrebbero fatto tanti danni, perché avevano causato tanta povertà in Germania (che il governo nascondeva sotto il tappeto).

E anche su questo oggi i gazzettieri ci cadono dal pero...

Ma siamo proprio sicuri di doverli mantenere con le nostre imposte? Tanto, per sapere quello che succede nel 2017, a voi basta leggere p. 228 di un libro pubblicato nel 2012:








domenica 24 settembre 2017

Chi voterà i nazisti?

Intanto, per diversamente europei, un ripassino de #lebbasi. La cartina politica della Germania la trovate qui, e quali fra gli stati federati appartenessero all'ex RDT potete vederlo qui, laddove vi dimenticaste che l'est è a destra (mai come in questo caso, temo). Viste #lebbasi, passiamo ai fondamentali, dove ho evidenziato in rosso per voi gli stati federati dell'est.

Disoccupazione

  


Crescita del PIL
(rectius: del valore aggiunto ai prezzi base in termini reali)



Reddito pro capite



Povertà e rischio di esclusione sociale

Dati regionali non disponibili (!).



Che peccato! Purtroppissimo i dati più preziosi per intuire la distribuzione geografica di un eventuale voto "di protesta" non sono disponibili. Sappiamo che non è un caso: come farebbero, altrimenti, i gazzettieri cialtroni delle colonie ad alimentare il mito di una Germania invincibile? Ma noi sappiamo che così non è, che la Germania è pervasa da pericolose tensioni sociali e razziali, e voi lo sapete quasi tutti da quando lo avete letto ne Il tramonto dell'euro. Capisco che il governo tedesco voglia nasconderlo, ma non fa niente. I dati di cui disponiamo bastano per farci un'idea. Domani potremo vedere se questa idea sia giusta o sbagliata, lavorando come abbiamo fatto qui.

Buon divertimento!