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mercoledì 29 gennaio 2025

Cause di morte, parte seconda

Buongiorno, fenomeni cui non la si fa perché sono trader/developer/influencer/[minchiata a piacere]er!

Come state? Tutto bene? Nonno Alberto vi fa vedere quello che cercava:


Questo!

Ovviamente dalla rete domestica (in italiano, non in italese) ci sono riuscito subito (quindi ho fatto bene a non stropicciare l'ISTAT su questo tema: loro i dati li danno!), mentre dalla rete istituzionale no, ma sarà stata sfortuna (cui io da statistico non credo).

Volevo questi dati per verificare la storiella secondo cui nei morti da COVID-19 sarebbero confluiti anche i morti da influenza. Non pare che sia andata proprio così: i morti da influenza sono rimasti nella media, e i morti da COVID-19 (sulla cui rilevazione ieri in Commissione abbiamo appreso tante cose:

in un'audizione iniziata con un'ora di ritardo a causa del terremoto politico che sapete - a futura memoria: l'iscrizione del premier nel registro degli indagati) si sono semplicemente aggiunti, non sostituiti, nemmeno in parte, all'annuale death toll. Chissà da dove venivano e come erano fatti i tanti grafici così convincenti che Farfallina4582 postava su Twitter a mo' di buccia di banana per far scivolare i tanti volenteroni...

E vabbè, abbiamo capito che per lavorare bene bisogna svegliarsi presto e pagarsi la rete. Nulla di diverso da quanto mi succedeva quando ero ricercatore universitario!

E ora, visto che ieri eravate tanto bravi, oggi, per esercizio, provate a fare anche voi questa tabella. Poi vi interrogo, ma ora vado in aula a parlare di Piano Draghi ed economia circolare...

A dopo!

(...p.s.: ultima chiamata per eventuali italici d'Abruzzo che volessero partecipare alla nostra convention privata del 15 febbraio: scrivete a bagnai_a@camera.it. Lo ripeto perché ho capito che chi crede di seguirmi e in ogni caso mi aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaama di un ammmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmore totalizzante e paralizzante, tale da togliergli la voce quando mi incontra, che nemmeno in Saffo o in Catullo, però non mi segue sui social - il che mi porta a dubitare del fondamento e della consistenza di questo ammmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmore dal quale quindi, fatalmente, tendo a essere più infastidito di quanto non sia grato. Voi non dovete amarmi: dovete leggermi. Io non devo esservi simpatico: io devo indicarvi una strada faticosa. Noi non siamo qui per farci i complimenti [diciamo così] a vicenda: siamo qui per combattere. Quindi nervi saldi e alzare il culo dal divano. Il resto è grillismo, cioè è del demonio...)

sabato 2 settembre 2017

QED 83: ingengngnieria portami via!

Preso dall'organizzazione di un seminario, mi ero perso un messaggio rivelatore da parte di un nostro nuovo amico:

Michele Corvo ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "U6: i dati": 

Dal mio punto di vista, sono un ingegnere e quindi ragiono sui numeri e non sulle impressioni, l'articolo non ha sufficienti basi scientifiche, perchè fa riferimento a "scoraggiati" per una percentuale del 12-13%,i sottoccupati (gente scontenta che vorrebbe lavorare a tempo pieno?, mah) all'8% e i disoccupati classici (chiamiamoli da oggi in poi ottimisti sul futuro) al 10% o meno. Intanto sulla base di cosa e di quale analisi sono calcolati gli appartenenti alle prime due fasce? Su base statistica, di un questionario, o cos'altro? Tale indagine è stata condotta in modo corretto e omogeneo in tutta Europa? Le domande di tipo personale hanno una vera validità scientifica? Ad esempio chiedere ad un milanese se i servizi vanno bene, sapendo che sono tra i migliori d'Italia, produrrà una risposta al massimo sufficiente, chiedere lo stesso ad abitanti di una città del sud rischia di avere una risposta più alta in termini di voti di valutazione, per l'approccio stesso diverso nelle diverse aree. Quindi una tabella per me non dice nulla se non vedo l'algoritmo che ha prodotto i grafici. La situazione in Italia è molto variegata, ma occorre smetterla di lamentarsi sempre, anche se molti ne hanno diritto, e contribuire a migliorare la situazione. Come al solito tutti evidenziano i problemi, ma quando poi si tratta di mettere in pratica strategie per migliorare la situazione tutti scompaiono. Una sfida a chi ha scritto l'articolo: si proponga come amministratore di un'azienda in crisi, a rischio di chiusura e con un grande debito verso le banche, i fornitori e lo stato, e vediamo cosa adotta per salvarla ed aumentare in 2-3 anni del 30% gli impiegati, e del 50% il loro stipendio. Michele 

Postato da Michele Corvo in Goofynomics alle 31 agosto 2017 22:15


(emphasis added)

Cari amici ingengngnieri: #statece.

Detto questo, non sono ancora del tutto convinto che questo sia il QED antropologico del quale personalmente non andavo in cerca (non avendone bisogno). Forse è semplicemente una definizione di ingegneria: una scienza (o forse solo una tecnica) che non si basa sulle impressioni, ma sui "punti di vista"!

Quello del nostro nuovo amico doveva essere particolarmente sfavorevole, o dal punto di vista ottico, o da quello intellettuale. Non ha visto, infatti, che nel post in calce al quale ci ha elargito cotanta peeerla c'erano dei link che rinviavano a tutte le fonti originali dei dati, oppure ha seguito i link e non ci ha capito nulla (il che è scusabile, ma allora, invece di fare queste sparate sbruffone e inconcludenti bisogna chiedere: io cosa c'è da fare, peraltro, l'ho detto in lungo e in largo, per cui chi viene qui a negare apoditticamente che io lo abbia fatto è ovviamente un troll - e questa mi sembra la spiegazione più probabile [nel qual caso l'ingengngnieria, che pure è una categoria dello spirito di patate, c'entrebbe poco]! Difficile esporsi così al ridicolo senza avere incentivi per farlo, ma voi dovete vedere il lato positivo: siete una comunità inclusiva, come questa. Approfittatene per ripassare col nostro nuovo amico le definizioni scientifiche che vi ho fornito e che le fonti che io riporto - lui no - sistematicamente richiamano!).

domenica 13 agosto 2017

La disoccupazione in teoria e in pratica: analisi

(...ci deve essere qualcosa all'Olimpico: sento le urla da qua. Per il resto pace santa. La vera vacanza, quella con tutti fuori dalle palle - tutti tranne uno, er Palla, che purtroppo insiste sull'abitazione causa debbbito in matematica... Comunque, ho passato la giornata a referare un paper: quattro pagine di report, con mezza pagina di bibliografia, una giornata per scriverlo, altre tre per leggere il paper e capirlo... Questa cosa non va scritta in nessun libretto, non viene documentata in nessun modo, non viene valutata per la carriera, ecc. Ma noi - dicono i gazzettieri - siamo dei privilegiati: abbiamo il privilegio di lavorare gratis. Presto lo avrete anche voi. Sempre meglio dell'alternativa, comunque. Ecco, parliamone...)


Nel post precedente sono partito da questo grafico segnalato da Luigi:

 

e ho cercato di verificare i dati riportati. Mi aveva spinto a farlo, fra l'altro, l'osservazione un po' facilona del solito espertone (probabilmente un bot): "Mi fido più dell'ISTAT!". Osservazione non molto intelligente, perché anche se la fonte dei dati nel grafico non veniva specificata, presumibilmente era l'Eurostat (e quindi, per la parte italiana, l'ISTAT). I risultati ottenuti partendo da dati Eurostat, infatti, pur partendo da informazioni molto scarse circa la metodologia adottata dagli autori, erano sostanzialmente congruenti con l'evidenza riportata nel grafico, come vi ho mostrato:


Fallisce quindi il tentativo del bot di screditare la fonte (che peraltro era il Financial Times), e il fatto che ci abbia provato ci lascia intuire che quel dente, ai poteri cosiddetti forti, duole parecchio. I risultati di dicembre hanno dimostrato che la disoccupazione influisce sul voto. Se almeno si potesse evitare di parlarne, penseranno compatte le prime tre cariche dello Stato...

Passo ora da spiegarvi come ho ottenuto il mio, di grafico. Resta poi da vedere come il fenomeno descritto si è evoluto nel tempo, e resta da capire che significato attribuire ad analisi simili. Lo spunto alla base di esse è chiaro: l'insofferenza sempre più diffusa verso le metodologie ufficiali di calcolo del tasso di disoccupazione, ritenute inattendibili, insofferenza che si riflette in molti vostri commenti (in particolare questo e questo).

Vorrei chiarirvi che la mia analisi si basa su dati ufficiali e quindi non è assolutamente da leggere in chiave polemica verso l'ISTAT o l'Eurostat. Sì, sappiamo che la definizione di occupato adottata dall'ISTAT non è particolarmente stringente, in particolare perché si considera occupato chi abbia lavorato anche una sola ora nella settimana di riferimento:


(come specifica il glossario).

La rivelazione di questo criterio statistico (che peraltro nessuno aveva nascosto!) ha sollevato un certo clamore lo scorso anno, ma trovo che l'ISTAT abbia ragione: loro possono solo applicare i criteri uniformi a livello europeo (e sostanzialmente omogenei fra paesi OCSE) che l'Eurostat definisce e impone. Io, per dire, trovo più disturbing la definizione di disoccupato, che non è, come forse potreste immaginare, una persona in età attiva (16-65) non occupata, ma:

Quindi per essere disoccupati non essere occupati occorre (è necessario) ma non basta (non è sufficiente). Questo significa che un occupato che perde il lavoro potrebbe non diventare disoccupato: potrebbe anche scomparire dalle forze di lavoro, come vi chiarii a suo tempo. Ma il punto è che, se da una parte è ovvio che lavorare un'ora a settimana non assicura il soddisfacimento del diritto costituzionalmente garantito a un'esistenza "libera e dignitosa" (a meno che tu non sia una rockstar), d'altra parte qualsiasi criterio è arbitrario: la cosa importante è che i criteri siano stabili nel tempo e nello spazio, per poter analizzare la dinamica dei fenomeni e per poter fare confronti internazionali sensati.

Quindi lascerei da parte l'ISTAT, e chiamerei eventualmente in causa i media che non spiegano certi concetti, e i politici che profittano degli inevitabili paradossi delle statistiche per fare campagna elettorale.

Comunque, tornando al grafico: da quello che si poteva capire, gli autori avevano espresso tre categorie di persone (disoccupati, lavoratori inattivi desiderosi di lavorare, e lavoratori in part time contro la propria volontà) in percentuale della popolazione in età attiva (working age population).

Qui penso che ci sia un primo errore, perché in tutta evidenza le tre categorie sono state espresse in percentuale delle forze di lavoro o popolazione attiva. Se così non fosse, il dato sarebbe più basso. Considerando ad esempo l'Italia, secondo l'Eurostat nel 2016 la popolazione attiva era 25243.2 migliaia di persone, date dalla somma di 22241.1 occupati e 3002.1 disoccupati. Il rapporto fra disoccupati e popolazione attiva (forza di lavoro) ci restituisce un tasso di disoccupazione di 3002/25243=11.9%, che coincide con quello di cui abbiamo parlato e, a grandi linee, anche con quello che si vede nel grafico. Se invece rapportassimo i disoccupati alla popolazione in età lavorativa, che era, sempre nel 2016, di 38870 migliaia, otterremmo una percentuale di disoccupazione pari a 3002/38870=7.7%, lontana sia dalla disoccupazione ufficiale, che dal dato visibile nel primo grafico (dove la sbarra violetta della disoccupazione supera 10).

Appurato quindi che gli autori del grafico dicevano una cosa per l'altra, mi sono procurato intanto la serie al denominatore, le forze di lavoro o popolazione attiva, scaricandola qui. Nella stessa tavola ho trovato anche i disoccupati, e rapportandoli alla popolazione attiva ho ricalcolato i tassi di disoccupazione (unemployment nel grafico originale).

Poi c'erano da misurare gli "scoraggiati", ovvero la popolazione inattiva che non appartiene alle forze di lavoro perché:

1) non ha lavorato almeno un'ora nella settimana di riferimento (e quindi non è occupata);
2) non ha effettuato almeno un'azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane precedenti ecc. (e quindi non è occupata).

MA

desidererebbe lavorare (uno può essere inattivo anche perché è ricco di famiglia)! Questa è una cosa relativamente poco problematica, perché l'Eurostat fornisce i dati sulla popolazione inattiva classificata per età, sesso, e disponibilità a lavorare.

Poi c'erano da misurare i sottoccupati, cioè quelli gli involuntary part-time (quelli che lavorano meno ore di quanto desidererebbero). Qui la cosa è un po' più tricky, perché l'Eurostat fornisce i lavoratori in part-time "involontario" come percentuale del totale dei lavoratori part-time. Per ottenere il dato in migliaia ho quindi dovuto scaricare (o anche: "sò dovuto scaricà") i lavoratori part-time totali. Moltiplicando la percentuale di involontari per il totale dei part-time ho ottenuto le migliaia di lavoratori in part-time involontario (sottoccupati).

Cosa siano esattamente i seeking employment-not ILO unemploymed non lo so e non ho cercato di capirlo: verosimilmente un'altra categoria di scoraggiati, ma visto che erano pochi non ci ho perso tempo.

Questo è come ho costruito i dati. E ora andiamo a vederli un po' in dettaglio, anche se, considerando la mole di numeri scaricati (per tutti i paesi europei e circonvicini e per tutti gli anni dal 1999 al 2016) do per scontato che non riusciremo a vederli tutti ora.

Intanto, vi faccio vedere l'evoluzione nel tempo del tasso di disoccupazione corretto per scoraggiati e sottoccupati nei quattro grandi dell'Eurozona:


Noi siamo quelli gialli (come i nostri sindacati).

Nel 2004 c'è un forte balzo verso l'alto dovuto a una revisione nei criteri di calcolo degli scoraggiati. Con i nuovi criteri (cioè dal 2004), la nostra situazione sembrava fortemente compromessa già allora. Certo però che è seccante non poter fare confronti sensati con i dati antecedenti al 2004 (ricordate cosa dicevo sopra? Non importa quale sia il criterio, purché sia uniforme. Ma gli statistici "migliorano" sempre i loro criteri, che poi è un ottimo modo per intorbidare le acque...).

Faccio notare un altro dettaglio. La Francia sta meglio di noi, ma peggio della Germania, la cui situazione migliora stabilmente dal 2005 in poi, con l'entrata a regime del dumping salariale Hartz. Tuttavia, il peggioramento della disoccupazione "corretta" in Francia è molto persistente, più del nostro. Dopo la crisi, non solo la Spagna (dal 2013) ma perfino l'Italia (dal 2014) vedono una correzione (più lieve da noi). La Francia no.

Poi vi faccio vedere in che modo il tasso "corretto" è andato muovendosi da noi per effetto delle sue componenti:


Qui è evidente la rottura statistica nella serie degli scoraggiati (in arancione), ma c'è un altro fenomeno che è meno evidente: mentre disoccupati e scoraggiati (al netto dell'anomalia statistica) alla fine del campione sono più o meno gli stessi che all'inizio, i sottoccupati aumentano costantemente e alla fine sono quasi 8 punti percentuali di forza lavoro in più rispetto che all'inizio. Vi faccio vedere la situazione degli altri quattro "big" dell'Eurozona:




e in questa tabella vi fornisco la variazione della percentuale di disoccupati, scoraggiati e sottoccupati sulla forza lavoro, in tutto il periodo dell'euro, e nei due sottocampioni prima e dopo la crisi.


I due numeri più grandi sono l'aumento dei disoccupati in Spagna dopo la crisi (11.5) e quello dei sottoccupati in Italia su tutto il campione (7.9, di cui 5.5 dall'inizio della crisi: un aumento sostanzialmente identico a quello della disoccupazione, pari a 5.7).

Entrando un po' in dettaglio, va notato che prima della crisi la Germania aveva "fatto peggio" di tutti gli altri: la sua disoccupazione era scesa di solo -0.2, passando da 8.9 a 8.7, mentre la sua sottoccupazione era aumentata più che in tutti gli altri, passando da 2.3 a 5.2. La dinamica della sottoccupazione era sostanzialmente analoga a quella italiana, ma in Italia la disoccupazione era diminuita di -5.7 punti prima della crisi. In Spagna la disoccupazione era diminuita addirittura di -7.3 punti, e la sottoccupazione aumentata solo di 1.7.

La dinamica più sostenuta dei sottoccupati in Germania penso sia legata alle famose "riforme".

Dopo la crisi le cose cambiano: la disoccupazione "ufficiale" e la sottoccupazione diminuiscono solo in Germania: il tumore tedesco prospera solo in un'Europa malata (fino a quando questa morendo non si porta anche lui nella tomba). Gli scoraggiati aumentano più in Francia (+1.7) che in Italia (+0.2), dove però colpisce l'aumento piuttosto rilevante (+5.5) dei sottoccupati che abbiamo già evidenziato. Sono i contratti atipici, la flessibilità, come notava uno di voi commentando il post precedente: tutta roba che alla natalità non fa bene...

Se le statistiche non mentono, molti sottoccupati saranno qui.

Vi lascio discutere questi numeri con calma, visto che politici e giornalisti non pare siano intenzionati a farlo, o almeno non fino a quando saranno raggiunti dalla durezza del vivere.




(...a proposito: per evitare che questa raggiunga noi, vi ricordo di votare questo sito come miglior sito politico-d'opinione a MIA2017. Notate che dovete esprimere un voto in almeno altre nove categorie, per un totale di almeno dieci, affinché la vostra scheda sia considerata valida! Non è facile, ma si può fare...)

venerdì 8 aprile 2016

Popper e il jobs act

(...da Charlie Brown, che non sono io, perché io sono Alberto Bagnai e quando ho qualcosa da dire la firmo perché posso farlo - mentre Charlie Brown usa uno pseudonimo per giustificati motivi - ricevo questo breve pezzo che riassume una situazione a noi nota e da noi prevista. Non si fanno riforme dal lato dell'offerta durante una crisi di domanda, se non nella misura in cui la crisi di domanda viene artatamente provocata per rendere politicamente accettabili - proponendole come necessari snodi tecnici - le riforme dell'offerta, che invece tecniche non sono: sono politiche, perché servono ad innalzare la disoccupazione e quindi a comprimere la quota salari, come qui ci siamo detti millantamila volte. Naturalmente, dal fatto che questo post sia di Charlie Brown, cioè sia un guest post, discende il fatto che esso non sia mio. Scommettiamo che qualche amico qua sotto dirà: "Bravo, professore!" Che frustrazione! Lo scopo del gioco, per me, non è sentirmi dire bravo: quello lo faccio da me, e so perché lo faccio più di quanto non lo sappiate voi quando lo fate. Lo scopo è che leggiate i dati. Ma la triste realtà è che spesso - sarà la fretta? - dimostrate di non voler ammettere nemmeno che se una cosa l'ha scritta un altro, non l'ho scritta io. Un uso un po' estemporaneo del principio di realtà, per il quale però non mi sento di censurarvi più di tanto: se posso riassumere il senso del post di Charlie Brown - che, indovinate un po'? Sono io?... No, è lui! - se posso riassumerlo, direi che è proprio quello di denunciare il pensiero magico eurista. Tirati su a botte di pensiero magico, non posso aspettarmi che dall'oggi al domani tutti ammettano che Alberto non è Charlie, e ne tengano conto. So che è un esempio banale, so che è antipatico metterlo in evidenza, soprattutto nel modo in cui l'ho fatto, ma trovo sia anche un esempio rivelatore del modo in cui siamo stati educati ad avvicinarci alla pagina scritta.


Ed ora godetevi il mio post.

Ah, non è mio: è di Charlie Brown, che non sono io, perché ego sum quis sum, e casualmente mi trovo ad essere Alberto Bagnai...)






La verità sul Jobs Act è subito venuta a galla.


"Dopo la crescita di gennaio 2016 (+0,3%, pari a +73 mila), a febbraio la stima degli occupati diminuisce dello 0,4% (-97 mila persone occupate). La diminuzione di occupati coinvolge uomini e donne e si concentra tra i 25-49enni. Il tasso di occupazione, pari al 56,4%, cala di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente.
Il calo occupazionale è determinato dai dipendenti (-92 mila i permanenti e -22 mila quelli a termine), mentre registrano un lieve recupero gli indipendenti (+17 mila). Per i dipendenti a tempo indeterminato si tratta del primo calo dall'inizio del 2015. Dopo la forte crescita registrata a gennaio 2016 (+0,7%, pari a +98 mila), presumibilmente associata al meccanismo di incentivi introdotto dalla legge di stabilità 2015, il calo registrato nell'ultimo mese riporta la stima dei dipendenti permanenti ai livelli di dicembre 2015. Per i dipendenti a termine prosegue la tendenza negativa già osservata dal mese di agosto 2015."
A settembre dell'anno scorso Renzi disse:

"Cresce il Pil, crescono gli occupati, meno disoccupazione. Le riforme servono."

Il punto è molto semplice: il Jobs Act, e cioè la riforma strutturale "showpiece" della dirigenza eurista italiana, non ha aumentato l'occupazione, che continua a calare.

Pensiamo che ciò sia sufficiente a sbugiardare la retorica sulle "riforme strutturali nell'Euro e per l'Euro"? Niente affatto. Gli euristi stanno già dicendo che se il Jobs Act non è bastato, vuol dire che occorrono riforme più aggressive lato offerta (lavoro). Naturalmente danno la colpa all'"inaspettato" (da loro) raffreddamento della "ripresa" da essi annunciata l'anno scorso (ma noi sappiamo che era l'effetto doping della "divergence" già bella che rimangiata dalla genio alla Fed - minuto 3:18).

Essendo tali argomentazioni basate su assunzioni ipotetiche non verificabili e su petizioni di principio, esse sono a priori dogmaticamente corrette. E le ricette che vengono propinate funzionano sempre e comunque per il semplice fatto che nessuno può logicamente contraddire quelle argomentazioni, le quali sono e restano vere "a prescindere" in quanto "giuste".

Qui però sta il nucleo del problema per gli euristi: se la verità dei fatti non rileva nel dibattito, allora la teoria della bontà salvifica dell'Euro, secondo la quale detto Euro impone salutari riforme strutturali a paesi europei debosciati come il nostro, è una teoria a priori non falsificabile dall'osservazione dell'evidenza.

È dunque una teoria priva di ogni dignità scientifica. Un puro esercizio di propaganda, buono fintanto che la magia del Pifferaio di Hamelin funziona.

Resta da vedere se ad andare alla rovina saranno solo i topi di fogna od anche i nostri figli.





(... bene. E ora si scatenino gli epistemologi, mentre io aspetto con la doppietta quello che dirà: "professore, complimenti per il suo post"... Non ci credete? Abbiate fede: la statistica non è una scienza, ma la sfiga sì...)

(...notate che il post non è sessista: la Yellen viene definita una genio, non un genio. Del resto, si sa: quando un'economista del lavoro incontra una banca centrale, il disoccupato è un uomo morto...)

sabato 5 marzo 2016

La crescita del 2015: alla guerra dei decimali perdono tutti.

Oh! È sabato pomeriggio, mancano un paio d'ore alla cena, e pare che finalmente l'ISTAT, dopo qualche vicenda burrascosa della quale ci ha riferito il Fatto Quotidiano, ci abbia fornito i dati definitivi della crescita 2015. Non entro nel merito del battibecco, i popcorn li ho avuti al cinema con Uga.

Piuttosto, procedo a inaugurare un mio souvenir della Cina:


e contestualmente commento con voi i dati, che trovate qui.

Intanto, una prima constatazione: nel 2015 l'Italia (rectius: il PIL italiano, ovvero la somma dei redditi percepiti da tutti gli operatori economici che hanno agito sul territorio del paese, ovvero la somma dei valori aggiunti dei diversi settori dell'economia italiana, ovvero la somma delle diverse voci di spesa di famiglie, imprese, settore pubblico e settore estero) è cresciuta dello 0.6%, anziché dello 0.8% come sembrava fosse appena qualche giorno fa.

In altre parole, è successo questo:



invece di questo:


No, non vi sto prendendo in giro! Non mi permetterei mai! Sapete bene che se lo faccio i bocconians accorrono a difendervi (come fece, dimostrando un senso dell'umorismo non esattamente all'altezza delle sue competenze settoriali, il caritatevole Panunzi col povero Previti, quando bloccai quest'ultimo...), quindi me ne ben guardo.

(...in realtà sto aspettando che dalla valle dei castori qualcuno intervenga in soccorso del Giovine Baroni, ma non se lo caca nessuno nemmeno lì, e il progetto Giovinia langue per mancanza di leader carismatico...)

I due grafici in effetti non sono identici.

Lo si vede se si accostano le due serie, quella effettiva e quella auspicata dal nostro illuminato governo:


Le speranze del governo le ho messe in verde fava, colore appropriato a cotanto consesso, lasciando in verde Ulivo (concedo ai congeneri una grattatina) i dati effettivi, fulgida testimonianza di cosa produca un aggiustamento macroeconomico al tempo dell'euro (e anche qui la simbologia mi sembra evidente).

La differenza fra la realtà e gli auspici è impercettibile, ma non potrebbe essere altrimenti, atteso che essa è appunto lo 0.8%-0.6%=0.2% del PIL del 2014 (visto che dal 2014 siamo cresciuti dello 0.6% e non dello 0.8%), cioè all'incirca 2.4 miliardi di euro (su circa 1536 del PIL 2014). Insomma, nel 2015 abbiamo fatto 1546 anziché 1548 miliardi di euro. Questo è stato l'oggetto del contendere fra Daveri e l'ISTAT, e forse, a questo punto, sarebbe meglio che per carità di patria il post si chiudesse qui, perché il grafico fa ben capire che di questo passo ci vorranno anni anche solo per tornare ai valori del 2011 (e su quanto ci vorrebbe per tornare a una vita normale non vi intrattengo, avendolo fatto tanto tempo fa, e non volendo guastarvi la giornata... anzi: ci ho ripensato: guastatevela!).

Una disputa su cifre che sono all'interno di un ragionevole margine di errore statistico non dovrebbe appassionarci. Il governo è riuscito, se ci è riuscito, ad arrestare una caduta libera che nel 2016 è probabile riprenda (chi è su Twitter ha già riso sui bins di Nannhchnh, gli altri, mi credano, non hanno perso nulla).

Quindi ci avevamo preso!

Permettetemi di smorzare gli entusiasmi del vostro seguacesimo. Sì, è vero: in questo post avevamo parlato di crescita dello 0.6%. Ma, attenzione: quella non era la mia previsione, e ve lo avevo detto:


Quella era la previsione del modello, condizionata agli scenari IMF, che secondo me erano troppo rosei. Io ritenevo che saremmo stati di poco al disopra dello 0%, diciamo in un range fra 0% e 0.4%. Invece abbiamo sforato la soglia dello 0.5%, portandoci addirittura a 0.64% (che arrotondato dà 0.6%). Quindi il nostro modello è più bravo di me, e ovviamente ne sono contento per lui. La mia onestà mi impone però di moderare gli entusiasmi, per almeno un paio di motivi: intanto, perché io in effetti, a rigore, mi sono sbagliato (ero più pessimista del nostro modello), e poi perché la gazzarra intorno allo 0.2% in più o in meno mi riempie di tristezza (ma ve ne parlerò se avanza tempo).

Prima di ragionare sugli errori di previsione, ragioniamo un po' sul valore effettivo. Con i dati resi disponibili dall'ISTAT possiamo farlo in almeno due modi diversi: lato spesa (domanda), e lato produzione (offerta).

Lato spesa, constatiamo questo:


Come da copione (ce lo siamo detto tante volte, ad esempio qui e qui), una ripresa della crescita, in assenza di un riaggiustamento del cambio rispetto ai nostri partner dell'Eurozona, comporta un deterioramento dei conti con l'estero. Quest'anno il fenomeno è impercettibile: si passa da 46 a 41 miliardi di esportazioni nette. Ma è stata impercettibile anche la crescita. Non lo è stata la svalutazione dell'euro, pari a oltre il 30% dalla metà del 2014, e gli effetti sulle esportazioni si sono visti: +2.9% nel 2015 e +4.1% quest'anno. Ma le importazioni sono sempre cresciute di più. I keynesiani di buona volontà non lo ammetteranno mai (è roba sporca, roba da neoclassici...) ma i prezzi contano, come ogni casalinga non ideologizzata sa, me compreso.

Altro dato che denota una certa fragilità strutturale è la dinamica degli investimenti. Dal 2012 sono diminuiti del 19% cumulato (contro circa un 5% cumulato di diminuzione del PIL). La loro quota sul PIL è scesa dal 19.5% nel 2011 al 16.7% nel 2014 e lì è rimasta. Potremo parlare di ripresa quando almeno per gli investimenti avremo crescite di un ordine superiore ai punti decimali.

Altro dettaglio, i consumi collettivi (G), cioè la spesa della pubblica amministrazione per stipendi e acquisti di beni. L'unica voce ancora in caduta libera nel 2015, a indicare che l'austerità prosegue (anche se tutti dicono che è sbagliata, ma nel dubbio...).

Se invece vogliamo dare un'occhiata lato produzione, le cose si presentano così, senza particolari sorprese:


Nel 2015 l'agricoltura ha fatto un bell'exploit, con un tasso di crescita quasi al 4%. Peccato che conti per il 2% del valore aggiunto totale, e quindi non abbia potuto contribuire un gran che alla ripresa (ma son contento per gli agricoltori). Contano di più le costruzioni, anche se il loro peso sul totale sta inesorabilmente slittando (dal 5.3% del 2011 al 4.6% del 2015), e questo perché il tasso di crescita del settore è costantemente negativo. Lo è anche quest'anno, per l'1% tondo. L'industria in senso stretto (totale meno costruzioni) quest'anno si riprende, dopo tre anni di tassi di crescita negativi. Prosegue la terziarizzazione dell'economia: il peso del servizi quest'anno resta stabile a 74.7% del totale, era 73.8% nel 2011.

Per capirci, dei 6.5 miliardi di valore aggiunto totale in più realizzati quest'anno, 4.1 vengono dai servizi, cui si sommano 2 che vengono dall'industria in senso stretto, e 1.1 che viene dall'agricoltura, e si sottraggono -0.7 dalle costruzioni.

Se volete il dettaglio dei servizi (visto che contano per tre quarti del totale, può valerne la pena, e del resto, se è così, significa che la maggior parte di voi lavora in quel settore), eccolo:


C'è un solo settore che sta meglio oggi di quanto non stesse nel 2011, ed è quello delle attività immobiliari. La bastonata più forte l'hanno avuta i servizi di informazione e comunicazione, e le attività professionali e di supporto. Temo che avrete diversi aneddoti da raccontarmi. Notate la dinamica delle attività finanziarie e assicurative, che nel 2012, in piena crisi finanziaria, erano le uniche a conoscere un tasso di crescita vicino al 2%. Controintuitivo, ma questo dicono i dati.

Ci sarebbe da discutere per ore, ma vorrei tornare un momento al famoso 0.2% di differenza. La semplice analisi che abbiamo fatto dovrebbe dirvi una cosa: che il PIL, da qualsiasi lato lo si consideri, è la somma di componenti che vengono esse stesse stimate, ognuna con un suo errore.

Capite quindi perché è poco appassionante, anche dal punto di vista tecnico, un dibattito sullo 0.2% in più o in meno nella somma? Chi sa quali e quanti errori compiuti nella stima delle parti si compensano in questo dato aggregato, errori fisiologici, non certo maliziosi, e che con il tempo vengono recuperati, modificando il dato definitivo, così come accade, del resto, per il continuo adeguamento dei criteri di misurazione delle quantità e dei prezzi.

Alla battaglia dello 0.2% perdono quindi tutti.

Perde chi è stato puntiglioso, perché alla fine se l'Italia non riparte è proprio perché il governo ha pedissequamente applicato quelle riforme dal lato dell'offerta che tanto piacciono al professor Daveri (il collega che ha sollevato il problema con l'ISTAT). Il professore, lo sappiamo e per quello gli vogliamo bene, è un offertista convinto, fino al punto, come ricorderete, di trovare strano un dato che invece è del tutto fisiologico: il boom dell'import, che lui attribuisce a una carenza di offerta (e che noi avevamo ampiamente discusso e previsto come conseguenza delle elasticità alla domanda e ai prezzi delle equazioni del commercio estero; notate che all'epoca dell'intervento del prof. Daveri tutti andavano in sollucchero per lo 0.9% annunciato, e noi pazienti aspettavamo il cadavere dello 0.6% sulla riva del fiume... consapevoli del fatto che purtroppo era il nostro!). Ma da quelle parti, si sa, vige la legge dell'offerta e dell'offerta, come l'ha battezzata Giuseppe Rubino (su Twitter).

Perde l'ISTAT che, forse per un problema di comunicazione, si aggiunge alla lista delle istituzioni che nell'ultimo semestre hanno perso credibilità (magari ingiustamente, chi può dirlo? Ma che un vulnus ci sia è indubbio e non fa bene alla democrazia).

E perdiamo, naturalmente, noi, come ho appena ricordato, visto che per risolvere i nostri problemi ci vorrebbe almeno cinque volte tanto di crescita, e per almeno un decennio.

Ma questo, lo sapete, dentro l'euro è impossibile, e fuori difficile.

Si apra la discussione (se pensate che ne valga la pena).




(...se non discutete voi, magari più tardi discuto io guidandovi nell'analisi delle fonti di errore di previsione. Per esempio, potremmo andare a vedere se il modello ha detto la cosa giusta per il motivo sbagliato. C'è sempre da imparare. Certo, quando per ragionare su queste fonti occorre il microscopio, il tema, me ne rendo conto, resta puramente accademico. Ma siamo qui anche per passare il tempo, e quindi...)