(...ieri, dopo aver assistito al conferimento del Premio Sulmona, preceduto dal siparietto televisivo che forse avrete intravisto, sono scappato come un gran cafone, senza nemmeno salutare la collega che mi aveva cortesemente invitato e cui poi mi prosternerò, perché avevo un gran bisogno d'aria e di solitudine. Mi son fermato a mangiare cazzarielli e fagioli al "Quarto del Pozzo" - conservo una preferenza per la versione di "Per i vicoli" a Barrea, ma è oggettivamente un'ardua contesa - poi ho proseguito per località protetta, dove, deposti i miei panni reali e curiali, cravatta trumpiana inclusa, e indossando una veste non cotidiana, e non piena di fango e di loto, o almeno non ancora, ma tecnica, me ne sono uscito verso i Selvoni. "Ma dove vai? Fra un po' è buio, il sentiero passa per il bosco...", diceva l'amico. D'altra parte, Selvoni qualcosa vorrà ben dire. Ma io sapevo che non sarei andato da solo, perché a Minco d'Adamo avrei trovato Rex. Da solo, all'imbrunire, ci sarei andato comunque poco volentieri, e non tanto per paura di perdermi, quanto per paura di essere trovato. Il direttore del Parco mi aveva spiegato che da quelle parti abita qualcuno che meno di me desidera essere seccato da importune presenze, e più a ragione di me ritiene di essere al vertice della catena alimentare. E non parlo del lupo, che, come vi ho fatto vedere in un post precedente, è uno di noi. Non parlo nemmeno della lince, di cui il dottor Nino, gestore di un'importante infrastruttura sociale - il bar del paese - mi aveva detto che era uscita dal bosco pochi giorni prima per mangiarsi un cane. La lince, e il gatto selvatico, chissà quante decine di volte mi avranno visto! Queste creature del buon Dio hanno però bene appreso un'arte utile, quella di non segnalare la propria presenza. Così, io non le ho mai viste. Si diceva però che fosse stato visto un orsacchiotto, e questo poteva effettivamente cambiare il quadro della situazione. Certo, per evitare problemi basta esercitare un'arte altrettanto utile: quella di segnalare la propria presenza! Alla fine, anche per l'orso sei più una rottura di coglioni che una fonte di proteine, quindi basta evitare di sorprenderlo. In alternativa, andare con un cane qualche garanzia la offre: finché lui è tranquillo, puoi stare tranquillo anche tu, ma se si innervosisce, o cerca la tua protezione, allora è meglio retrocedere con eleganza: anche se tu non hai visto nulla, qualcuno sta sicuramente guardandoti. Io però di aria avevo bisogno, e quindi mi sono mosso. In effetti, appena superato l'ultimo casolare, ho trovato il compare del sindaco che rientrava da una passeggiata e mi son fatto "prestare" Rex, che sembrava - bontà sua - molto, molto contento di vedermi, e subito si disponeva a farmi strada:
e lui correva, e io l'inseguivo, fermandomi solo per scattare qualche foto:
ma il fascino di quell'atmosfera non si può trasmettere, o almeno io non ci riesco. Così, alla fine, ci siamo inselvati verso i Selvoni, e siccome era buio, e io non mi raccapezzavo più, ho deciso di tornare indietro, e Rex disciplinatamente ha rinunciato al suo bagno nel Parello - che tra l'altro, per quanto sia pressoché asciutto, non sarebbe stato immediatamente agevole da guadare di notte. Il buio, la nebbia, la solitudine... A un certo punto, tornati sulla carrareccia, mi accorgo che Rex è scomparso. Non mi preoccupo molto: la strada la sa, ha almeno un senso in più per ritrovarla - l'olfatto - ma insomma non vederlo mi dispiaceva. Comunque procedo, fermandomi ogni tanto per chiamarlo - niente! - e stringendo un po' il passo perché non mi cogliesse il buio - naturalmente, da professionista, avevo con me due fonti di luce indipendenti e le pile di scorta: ma meglio tenerle per la volta successiva! Quando arrivo all'ultimo casale, che sulla strada del ritorno, per motivi non incomprensibili ai lettori di questo blog, stranamente era il primo, sulle scale di casa trovo Rex che mi aspettava tutto fiero di mostrarmi che lui sapeva la scorciatoia!
Non che ne dubitassi... Questa mattina, invece, nella Pontida d'Abruzzo si svolgeva una giornata FAI. Una sessantina di persone sparse per l'area faunistica e in processione verso il Monte Secine, con una non profonda consapevolezza del fatto che le montagne di solito sono in salita - che poi, vista dall'alto, sembrerà una discesa. Io, per non sbagliare, ho fatto il giro largo, trovando subito compagnia:
La linea Gustav era immersa nella bruma:
io sentivo il vocio dei turisti, verso il monte Basilio, verso la Polledrara, e intanto pensavo...)
Il discorso di questo blog è sempre stato un discorso intrinsecamente politico, non fosse altro che perché si rivolgeva alla polis. Nel corso di questi anni ho cercato di chiarire a me stesso, e di condividere con voi, quali siano gli aspetti di un discorso che voglia essere politico. Perché ci sia politica deve esserci una alternativa (perché se non c'è alternativa non c'è politica), deve esserci una corretta attribuzione di responsabilità (presupposto irrinunciabile perché il discorso politico porti, laddove necessario, a un'alternanza nell'esercizio del potere), e devono esserci obiettivi almeno astrattamente configurabili come intellettualmente onesti, come non intrinsecamente contraddittori (in assenza dei quali la democrazia sarebbe puro dadaismo).
Per partire dalla fine, il "bene comune", proprio lui, quello che per gli sciocchi è l'alfa e l'omega della prassi politica, non rientra in quest'ultima categoria, quella degli obiettivi intellettualmente onesti. Il concetto di "comune" non è così autoevidente come sembra ai cretini. Lo sa bene chi ha studiato politica economica (scontrandosi con il paradosso di Condorcet, con il teorema di Arrow, e via discorrendo). In effetti, una volta abbandonata una prospettiva utilitaristica ingenua, ci si rende immediatamente conto del fatto che quello che è bene per uno potrebbe essere male per un altro, e che quindi nella stragrande maggioranza dei casi le persone in realtà non vogliono il bene, vogliono semplicemente di più. In altre parole, i benecomunisti, quelli che blaterano di politica come conseguimento del bene comune, hanno in mente una e una sola cosa: il perseguimento del meglio individuale.
Non è una grande scoperta e non è su questo che voglio soffermarmi oggi, ma prima di passare oltre vorrei chiudere il punto trasponendo questo dato psicologico nel dato politico, anche per trasmettere la concretezza di certe affermazioni, che prima facie possono sembrare arbitrarie, apodittiche, astratte ed assiomatiche (potete aggiungere altri aggettivi, non necessariamente con la "a" di "anfame").
La prima considerazione è che anche se i parlamenti nascono per votare le leggi di bilancio (chi ha letto tutto Stendhal sa bene quante volte lui torni su questo punto: a quell'epoca le riforme erano quella roba lì, votare la legge di bilancio...) in realtà le leggi di bilancio non spostano un voto! Sarà forse perché non scaldano i cuori dell'elettorato, il motivo non so dirvelo, ma certo è che per cercare di renderle interessanti l’opposizione particolarmente mentecatta di cui beneficiamo in questo scorcio storico è costretta a mentire sui dati. Altro non le resta per sommuovere i suoi elettori incitandoli alla rivolta contro le misure che lei stessa ha propugnato, una fra tutte l’abolizione dell’articolo 18! E se si deve giungere a tanta bassezza per rendere interessante un tema, si vede che quel tema così interessante non è...
Passando dal grande al piccolo, ieri sera uno dei sindaci con i quali ho maggiore consuetudine mi confessava a cena, con un certo stupore, di aver riscontrato come gli elettori che nel corso dei suoi plurimi mandati gli erano stati più fedeli erano quelli per i quali non era riuscito a fare niente, mentre, in modo apparentemente paradossale, quelli per i quali era riuscito a fare qualcosa, in alcuni casi anche spingendosi al limite del tecnicamente fattibile, erano esattamente gli stessi che poi gli avevano voltato le spalle. Non mi è stato difficile spiegargli il perché: “Caro amico, tu hai fatto il loro bene, ma loro volevano il loro meglio, e quindi a buon bisogno ti hanno dato in tasca! Fine delle trasmissioni.”
Il tema su cui volevo esercitarmi oggi con voi però era un altro, era quello della responsabilità, della corretta attribuzione della responsabilità, che in parte è correlato al tema dell’alternativa. Si è responsabili delle scelte: se non c’è alternativa non c’è scelta, se non c’è scelta non c’è responsabilità. Ora, il fatto è che noi sappiamo che un’alternativa c’è sempre, e che chi ha voluto affermare il mantra che non ci fosse alternativa lo ha fatto per il preciso motivo che voleva che non ci fosse politica o, più esattamente che non ci fosse la politica degli altri, ma solo la propria.
Quello che è successo nell’eurozona negli ultimi anni a noi è sufficientemente chiaro: ne è prova il fatto che lo avevamo descritto prima, e non per nostre particolari virtù, ma perché è materia da manuale universitario. L’adozione della moneta unica, scaricando sui salari, cioè sui lavoratori, il costo dell'aggiustamento macroeconomico a crisi internazionali, avrebbe da un lato comportato il ricorso a politiche di austerità (perché nessuno si fa tagliare lo stipendio a meno che non sia ridotto in disoccupazione), e dall’altro, naturalmente, suscitando un tanto diffuso quanto giustificato malcontento, avrebbe spinto verso una risposta autoritaria, che si sarebbe affermata in modo subdolo, come affermazione di buoni e condivisibili sentimenti, la cui ostentazione altro scopo non aveva se non quello di demonizzare il dissenso, onde rendere digeribile alle anime belle la sua repressione più vile e fascista.
Queste scelte sono state fatte da persone più o meno consapevoli di essere rotelle di un ingranaggio, ma mi preme sottolineare una volta di più che la loro consapevolezza soggettiva non ci interessa, non è un tema politico. Quante volte all’inizio di questo nostro lungo percorso vi ho detto che la buona o cattiva fede di Prodi, cioè il fatto che lui capisse o meno che facendoci entrare nell’euro ci condannava alla povertà, non era poi così importante? Se una persona mi danneggia, a me non interessa che sia in buona o in cattiva fede. Se in una strada poco illuminata un passante, vedendomi giungere, si spaventa ed estrae un’arma perché "in buona fede" pensa che io voglio aggredirlo, il mio ultimo problema è aprire un processo alle mie o alle sue intenzioni. L'urgenza è scappare, o neutralizzarlo, non aprire un dibattito! Ma questo non lo capite, e quindi se fossi coerente con me stesso, e con la mia prima legge della termodidattica (ci sono cose che se potessero essere capite non dovrebbero essere spiegate) dovrei smettere di spiegarvelo: tutto il dibattito sul COVID dimostra che continuate ad impantanare temi politici nella categoria della soggettività, andando drammaticamente fuoristrada, o per meglio dire girando in tondo. Al netto però del fatto che non ci interessa la consapevolezza individuale di essere stati parte di un disegno complessivo il cui esito inevitabile era quella crisi di produttività cui ora assistiamo, resta il fatto che certe singole scelte sono state prese da singole persone che non possono oggi non ammettere di averle prese, o di non averle contestate. Il punto non è la consapevolezza. Il punto è la scelta. Una cosa o è stata fatta, o non è stata fatta, e se è stata fatta qualcuno l'ha fatta (non si è fatta da sola). Di questo qualcuno le intenzioni non ci interessano. Il nome sì (l'indirizzo no).
Il web, come dico sempre, adattando un detto romanesco, nasconde ma non ruba. Siamo riusciti perfino a ritrovare l’articolo del 2011 in cui spiegavo quanto sta accadendo oggi, cioè il fatto che la Germania rovina precipitosamente dopo aver segato il ramo su cui era seduta (ovvero la domanda interna del mercato unico), quindi nulla va perso! In un contesto simile, fa un po’ sorridere il ricorso da parte di tanti a narrazioni impersonali dell’accaduto, che dal punto di vista sintattico si traducono nell’uso di forme riflessive ("si chiudevano gli ospedali") o di plurali spersonalizzanti, nel loro astratto rinvio a una responsabilità collettiva, cioè a nessuna responsabilità ("abbiamo, ci siamo", ecc.). Questo rinvio intrinsecamente disonesto a un "noi" che non può esistere in un Paese dove chi oggi incita alla rivolta sociale ieri ha dichiarato una guerra di sterminio ai lavoratori, promuovendo attivamente politiche di austerità, suscita qualche riflessione. Vorrei svolgerle con voi percorrendo tre esempi, sine ira et studio, riferiti a tre persone molto diverse, una delle quali è certamente sottovalutata, un’altra delle quali è palesemente sopravvalutata, e una terza su cui non so esprimermi, perché non la conosco abbastanza.
Vado in ordine alfabetico e comincio dalla persona a mio avviso sottovalutata, perché è un ottimo economista e soprattutto perché intellettualmente onesto, o almeno così lo abbiamo conosciuto e così ci piace ricordarlo. Aggiungo che è anche un amico, e che auspico che le parole che dirò non sollevino alcuna polemica, perché non mi interessa polemizzare: mi interessa solo mettere in evidenza come, purtroppo, sia difficile per chiunque, anche per i migliori, percorrere nel modo giusto la strada sbagliata. Chi di voi si affaccia, sia pure sempre più sparsamente come faccio io, all’orlo della cloaca nera (che, ricordiamolo, non è gestita da uno di noi), avrà notato che una affermazione di Massimo D'Antoni articolata su un plurale deresponsabilizzante (ci siamo) ha suscitato un moto di comprensibile fastidio in tante persone:
Lo spunto di questa affermazione era un dibattito sulle sorti di tal Raimo (chi?), un tale che conosco solo per la sua insolenza. La mia personale posizione su questo tema, se interessa, oscilla fra due opposte determinazioni: da un lato mi sembra sempre tatticamente errato creare martiri con un materiale scadente. Dall’altro, però, siccome siamo in una guerra civile strisciante, una guerra civile che io non volevo, che io non ho dichiarato, dalla quale mi sono limitato a mettere in guardia i miei concittadini (a partire da voi), una guerra civile che tuttora combattiamo da posizioni di inferiorità, pur essendo maggioranza politica nel Paese, se un intellettuale (?) di sinistra cade vittima di quella psicopolizia che con tanta alacrità, con tanta lucida determinazione, se non lui, senz'altro la sua parte ha promosso, no es que me gusta, pero siento un fresco.
E così abbiamo risolto, e possiamo archiviare, il problema di Raimo (chi?).
(...per inciso: "chi?" è ovviamente l'acronimo di "ma dove cazzo erano questi eroi di cartapesta quando i loro partiti di riferimento massacravano i lavoratori col jobs act ecc."...)
Conservo un caro ricordo di un docente di un qualche diritto alla facoltà di economia di Pescara, quando ancora c’erano le facoltà, che in un dibattito relativamente appassionato sul tema della “Carta dei servizi“ dell'ateneo testualmente affermò: “La carta dei servizi per me è quella che si dovrebbe trovare al bagno“. La proliferazione di strumenti di soft law variamente etichettati come codici etici, come carte di questo o di quello, il diffondersi di queste capziose e infide codificazioni del bon-ton, non è una cosa che tutti abbiamo voluto: è una cosa che una specifica parte politica ha preteso, con il preciso scopo di irreggimentare prima, e di soffocare poi, il dibattito che gli esiti inevitabili di un conflitto di classe giocato in modo particolarmente sporco non poteva che determinare.
E non basta dire: “Io non lo volevo, io mi sono opposto, io non ero d’accordo". Intanto, questo blog ha avuto successo perché non c’è nemmeno un segno di interpunzione che io vi abbia consegnato senza citarvi le sue fonti e motivarne la necessità. Quindi, chi ha parlato, se ha parlato, dovrebbe provarlo. In secondo luogo, purtroppo, una opposizione deamicisiana, fatta in nome dei buoni sentimenti, alla dittatura dei buoni sentimenti, non è poi così convincente. Il minimo sindacale che ci si aspetta da una persona di sinistra è che evidenzi le precise dinamiche di classe che a suo tempo spinsero, e tuttora spingono, il comitato d’affari della borghesia internazionale, cioè il PD, a praticare estesamente politiche di repressione del dissenso. A me fa tanto piacere sapere che qualcuno non era d’accordo, e sono anche disposto a credergli sulla parola, perché voglio conservare buoni rapporti. Il fatto però è che quello che rende poco convincenti certe affermazioni è l’evidente mancanza di una comprensione profonda dei meccanismi che ci hanno spinto fin qui, o quantomeno la mancanza di una loro esplicita spiegazione. Andrebbe sempre ricordato che la risposta repressiva in termini di libertà di espressione è la diretta conseguenza di una risposta repressiva in termini di dinamica salariale. Se non lo si fa, il problema non è che "Bagnai gode solo a metà" .Bagnai è tribunale solo di se stesso, superiorem non recognoscens, ma non pretende giurisdizione sugli altri.
E anche qui, una parola di chiarezza vorrei dirla: quando evidenzio di aver detto molto per tempo certe cose (il famoso "teloavevodettismo"), credetemi, non lo faccio per esercizio di narcisismo, ma per esercizio di umiltà. Il tema non è che io sono stato fregno a vedere certe cose prima degli altri, ma è l'esatto opposto! Se uno passabilmente distratto, ingenuo, e disinteressato dalle dinamiche politiche, se perfino uno come me riusciva a vedere certe cose, allora è pressoché certo che molti altri le vedessero (e questo torna a conferma dell'inutilità di un dibattito sulla buona o cattiva fede). Il problema è che senza una chiara definizione delle dinamiche oggettive sottostanti non si può avanzare in una comprensione diffusa e condivisa dei fenomeni. Non basta dire "come ci siamo ridotti, signora mia!" La mancanza di questa comprensione diffusa e condivisa ovviamente non aiuta aiuta a risolvere i problemi.
Sul “si chiudevano gli ospedali“ di Delrio:
(che, per inciso, e quello di cui non so dirvi se sia sopra o sottovalutato), tanti si sono lungamente esilarati ed esercitati. Non mi sembra il caso di continuare a sparare sulle ambulanze, ma una sottolineatura voglio farla. Ma voi, al tempo in cui gli ospedali si chiudevano (da soli), vi ricordate di aver mai sentito in televisione una comunicazione così emotional, come quella che oggi ci viene propinata perché al Governo ci siamo noi, colpevoli di aver portato il rapporto spesa sanitaria/Pil dal 6,2% al quale voleva portarlo Draghi al 6,4% del Pil? Dov'era, dov'erano questi fini dicitori tutti zeppola e papere, questi attor giovini prestanti e prostituenti, e soprattutto questi autori televisivi tutti pervasi e perfusi di passione civile, quando, per dirne una, il punto nascita di Castel di Sangro veniva chiuso? Ecco, all’epoca mi ricordo che solo uno, a modo suo, stigmatizzò quella infausta decisione. Ed era un safe bet, un rigore a porta vuota, come direbbero gli Untermenschen della metafora calcistica, tant'è che seguì il QED, perché non poteva non succedere quello che poi successe:
nella totale apatia, atarassia, abulia, degli attor giovini e dei loro sagaci autori.
Allora, rovesciamo la prospettiva: il problema non è che quello lì, quello che aveva capito prima che cosa sarebbe successo dopo, era fregno (sì, lo è, lo conosco bene, ma non parliamone ora): il problema è che quelli che si svegliano ora sono feccia, e non per un problema di tempo, di calendario, ma per un problema di motivazione, perché è grottesca e ignobile la motivazione per cui solo ora, dopo aver accettato dalla loro parte politica misure che altro non saprei definire se non fasciste, si svegliano proprio quando si sta cercando di rimediare, in un contesto difficile che, peraltro è il contesto europeo che loro hanno voluto, che loro hanno creato, che loro hanno venerato, ai disastri cui furono del tutto indifferenti mentre venivano perpetrati.
Questo io non glielo perdono, ma naturalmente non vi precludo la possibilità di perdonarglielo, se ritenete di volerlo fare.
E arriviamo al sopravvalutato, ma prima consentitemi un paio di aneddoti.
Un bel giorno di qualche anno fa mi stavo recando per un qualche motivo agli uffici del gruppo Lega in Senato. Nell’androne del palazzo Beni Spagnoli incontro un notissimo manager italiano, di cui ovviamente non faccio il nome (tutti ne avrete immaginato uno: ecco, dimenticatelo: era di più!), e animato da quella cortesia che costituisce il mio primo moto spontaneo, nel senso che la applico a meno che non abbia motivi precisi per non applicarla, mi metto a sua disposizione dicendo: “Lei sta certamente andando dal segretario: se permette la accompagno”, tagliando così anche corto alle varie formalità di ingresso (il documento, il mica documento, il badge e via dicendo). Faccio strada verso gli ascensori, chiamo quello giusto (perché uno dei due non arrivava al piano di Matteo), e nel frattempo mi presento: “Buongiorno, sono Alberto Bagnai, responsabile economia della Lega". La figura eminente a sua volta accenna una presentazione, e io, in segno di deferenza, forse appena screziata da un soupçon di una non malevola ironia, immediatamente mi affretto a dire: “Dottore, lei non ha assolutamente bisogno di presentazioni". E fino a qui tutto bene: la cosa sorprendente (per me) arrivò dopo. Abbozzato un sorriso misuratamente compiaciuto, l’eminenza immediatamente riprese con una domanda: “Lei è quello che ha studiato alla Sapienza?" E io: “Sì, perché me lo chiede?" E lui: “Perché quando vado a trovare il presidente Draghi, lui mi ricorda ogni tanto che Matteo Salvini ha due consiglieri economici. Lui non è d’accordo con nessuno dei due, ma di uno dice che almeno ha studiato in una buona università, quella in cui ha studiato anche lui.” Ora, voi capite la mia sorpresa nel constatare che due persone di tale valore (e non mi riferisco solo a quello aziendale e politico, ma anche banalmente a quello finanziario), consentissero alla mia umile persona di oltrepassare il circolo così prezioso ed esclusivo della loro appercezione. O io ero più importante di quanto ritenessi di essere, o loro lo erano di meno (ma questo non potevo certo crederlo)! Di aneddoto ne avrei anche un altro, quello di quando andando a trovare un altro personaggio ugualmente eminente, se pure per diversi motivi, questi mi disse: "Lo sai? È venuto a chiedermi se io potessi fare qualcosa per farti stare zitto." Mi dissi che evidentemente il problema non è solo quello che si dice ma soprattutto come lo si dice, e che chi non si presta a essere derubricato a personaggio di un’avanguardia folcloristica naturalmente dà più fastidio di chi invece è suscettibile di essere sminuito con attacchi ad personam, perché non è in grado di sostanziare con una base scientifica solida quanto sostiene.
Fine degli aneddoti.
Il discorso di La Hulpe, che grazie a L'anticonformista troviamo qui, è stato un chiaro passo falso, tant'è che ci si è affrettati a rimuoverne in fretta e furia le tracce: nothing to hear here! Non mi pare però che ci siamo interrogati approfonditamente sul perché questo passo falso sia stato commesso. Ammettere che la costruzione europea si fonda sulla deflazione salariale, cioè ammettere quello che è scritto nei buoni manuali compilati da quelli che furono suoi compagni di studi, e miei maestri, in quella buona università, è stato evidentemente un gigantesco errore da parte del sopravvalutato. Ma perché lo ha compiuto? L’idea che mi sono fatto è che si sia fatto buggerare dal narcisismo. Come stiano effettivamente le cose, quali siano le dinamiche che il ragionamento scientifico riconosce come operanti, in fondo, una persona che aspira al ruolo di economista non può non riconoscerlo. E così, capita che si dicano verità, anche scomode, per il semplice piacere, o per la controproducente vanagloria, di far sapere che le si conosce. E in effetti, devo dirvi che la parte più dolorosa dell’esercizio della vita politica pratica è questo esercizio di self restraint che ti induce a non esprimerti quando tatticamente è inopportuno farlo, abdicando alla vanità di far sapere che tu sai. A questa vanità l'amico sopravvalutato non ha voluto rinunciare, ma nell'enunciare la verità (nell'euro non ci può essere difesa dei salari) l’amico ha cercato di mitigarla. E quindi il discorso è tutto un "abbiamo", "ci siamo", e via discorrendo:
Ma non funziona così!
Chi ha messo in campo le politiche di deflazione salariale competitiva?
Chi le ha esplicitamente teorizzate e imposte con i consueti strumenti di soft law (la famosa lettera della BCE)?
Non si tratta certo di un’entità impersonale e astratta! È la stessa persona che ingegnerizzando una svalutazione competitiva dell’euro rispetto al dollaro è riuscito a far girare vorticosamente i coglioni agli americani che hanno risposto come sapete (Dieselgate, gasdotti, eccetera). Insomma, anche qui vedete che siamo nel solito ambito: quello della autoderesponsabilizzazione.
E la cosa che, se fossi ancora di sinistra, mi imbarazzerebbe di più, detto fra noi, è proprio che il tema della corretta attribuzione delle responsabilità politiche di certi gesti o di certe parole è un tema intrinsecamente di sinistra. Guardate come lo poneva qualche anno fa uno dei tanti padri ignobili (perché ha assistito muto al sacro macello dei lavoratori italiani) della sinistra in uno dei suoi pezzi di bravura:
Ecco: a Massimo suggerirei di morettizzarsi un po’. Gli farebbe bene. Del resto, con tutto il male che se ne può pensare e che personalmente ne penso, Moretti, quel Moretti lì, perché quell’altro non ho ancora capito esattamente che terra lo reggesse, è di fatto l’unico ad aver detto le uniche due cose di sinistra dell’ultimo cinquantennio, cioè, in sintesi: che sui temi dovrebbe esprimersi chi li conosce (fatto salvo il diritto degli altri a esprimere le proprie opinioni), e (vedi sopra) che andrebbero evitate chiamate in correità da parte dei perdenti della storia, soprattutto quando è noto ed evidente che all’epoca vi erano state risalenti e documentate posizioni di dissenso, posizioni dileggiate, vilipese, schiacciate, travolte dai lazzi, dalle contumelie, e dall’accusa infamante di contiguità con un mitologico fascismo, la cui invocazione è ormai diventata, è inutile che ve lo dica, il primo e ultimo rifugio delle canaglie.
È appena il caso di sottolineare, per chiudere in epanalessi questo pezzo che ho dettato alla mia protesi tecnologica, aggirandomi per le nebbie degli altopiani maggiori d’Abruzzo, che in tutti questi casi c’era, c’è stata, responsabilità, perché in tutti questi casi c’era un’alternativa. Anzi, aggiungerei che almeno nella materia che più direttamente mi competeva, cioè quella economica, di alternative ce ne erano più di una.
C’era un’alternativa all'austerità, alla deflazione salariale competitiva, alla svalutazione interna?
Certo che c’era! Era ovviamente la svalutazione esterna, cioè lo smantellamento della moneta unica, ma sappiamo tutti che questa era ed è un’alternativa traumatica e ingestibile, che nessun tipo di processo politico potrà riuscire a maneggiare (il che non significa che non possa essere chiamato a subirla). C’erano però alternative meno traumatiche richieste da illustri economisti, come ad esempio mettere in campo un vero coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. Il famoso discorso del convincere la Germania a spendere di più, anziché continuare a esercitare la propria volontà di potenza con una politica di bassi investimenti ed alte esportazioni. Questo Stiglitz, che a mio sommesso avviso resta comunque un altro sopravvalutato, lo aveva almeno chiesto. Il sopravvalutato nostrano non mi sembra che si sia mai espresso se non nel senso di incitare a reprimere la domanda del paese che gli ha dato i natali e che lo ha fatto studiare in una buona università. Suoi appelli, che sarebbero stati autorevoli, a un maggiore coordinamento delle politiche economiche intrazona, non me ne ricordo, ma potrei sbagliarmi e vi dirò che sarei lieto di sbagliarmi in questo, come in tutti i casi in cui non mi sono sbagliato.
E nel caso delle politiche di (sempre meno) strisciante repressione del dissenso l’alternativa c’era?
Sì, certo che c’era! Innanzitutto bisognava denunciarle, e denunciarle funditus, mettendo in guardia la sinistra dal fatto che siccome nel lungo periodo le politiche di destra avvantaggiano solo la destra, alla fine, per forza di cose, sarebbe andata su la destra, e quindi ogni gesto, ogni provvedimento che si prendeva per corrodere le fondamenta dei più elementari baluardi della libertà di espressione, ogni pretermissione di quello spirito critico che avrebbe dovuto suggerire ai media una maggiore correttezza nel riportare i fatti, si sarebbe fatalmente ritorta contro la sinistra. Ma questa operazione ricordo che solo una persona la fece, senza molto successo. Uno dei motivi per i quali non mi impietosisco particolarmente sul caso del novello Giordano Bruno, Raimo (chi?), e che in fondo anche lui è vittima di se stesso. Sì, l’alternativa c’era, ed era, come spesso nella vita, pensarci prima, pensarci prima che toccasse a te. Era cioè una delle tre virtù teologali, la più incompresa e misconosciuta: la carità. Ed è tanto sorprendente quanto desolante il constatare come i cattocomunisti siano così a disagio con categorie che dovrebbero essere fondanti per il loro pensiero.
Ma forse è meglio così: visto che ci hanno dichiarato guerra, e visto che il loro nome è legione, sfruttiamo la loro ignoranza, che è la nostra forza, per sconfiggerli.
E così sia.
(...questo pensavo mentre scendevo dalla Polledrara, e questo ho voluto condividere con voi. Non mi considero particolarmente coraggioso né particolarmente acuto per aver fatto quello che ho fatto. Certo, l'ho fatto solo io, e questo qualcosa significa. Significa, fra l'altro, che non mi sento di giudicare chi non lo ha fatto. Ma non prendiamoci in giro: Massimo, come Graziano, come Mariou, non possono nascondersi dietro un "noi" che non c'è, per il semplice fatto, appunto, che quel noi non c'è, e non c'è perché non l'hanno voluto loro...)
In one of his book René Girard discusses about Satan calling itself as legion to underline the dynamic of mimetic desire: when you are enslaved by imitating the desire of the other, you lost your unity and identity and become torn by multiple voices of multiple desires.
RispondiEliminaMolti non riescono ancora ad elaborare il lutto. Sono fermi alla prima delle 5 fasi.
RispondiEliminaNon trovo una parola fuori posto, grazie. Grazie anche perché con quel "io l'avevo detto" Lei difende anche me, loro hanno scelto, noi abbiamo subito, non è colpa nostra come spesso vogliono fare credere.
RispondiEliminaNon è poi così strano che un noi deresponsabilizzante visto dal (mio) basso sembri un'alta presa per i fondelli. Le scorciatoie le concedo solo a quel bel musino di Rex.
***quelli che si svegliano ora sono feccia, ***
RispondiEliminaQualcuno però potrebbe "svegliarsi ora " per distrazione o ignoranza ma per quanto riguarda gli "intellettuali" e i "competenti" questo " tardivo risveglio" per me esclude la "buonafede" , perché ,in caso contrario , almeno l' onestà di ( continuare a) restarsene zitti.
Una cosa che nessuno dei 3 suddetti intende fare, quindi si , FECCIA,
Ho la netta sensazione che tu non abbia capito a che cosa mi riferivo. Il mio giudizio politico su Draghi dopo l’esperienza del suo governo non è certamente migliorato rispetto a quello che potevo formulare prima. Ma cosa siano Draghi o Delrio chi vuole saperlo lo sa e quindi non si pone un particolare problema. Quello che mi repelle è L’operato dei volenterosi carnefici della propaganda, degli pseudo intellettuali della pseudo sinistra che hanno assistito inerti al massacro dello Stato sociale salvo svegliarsi fuori tempo massimo. Forse che un attore faccia l’attore non è più strano rispetto al fatto che Draghi faccia Draghi. Ma a me il primo fa schifo e il secondo, nonostante sia oggettivamente più temibile, no. È una mia valutazione. Dipenderà forse dal fatto che nonostante tutto mi considero ancora un intellettuale, e in quanto tale valuto i miei cosiddetti pari, mentre non ho particolari aspirazioni né esperienze di governo, e trovo pertanto superfluo e anche un po’ noioso commentare le prevedibilissime mosse di Draghi.
Elimina***volenterosi carnefici della propaganda***
EliminaAh certo, usando costoro come "pietra di paragone" non c'è partita.
Ma in fondo questi opportunisti sono solo "esecutori di ordini". Saranno i loro "generali" a restare nei "libri di storia" e allora per costoro si porrà comunque la questione della " buonafede".
LVI non è nuovo a simili "rivelazioni". Per esempio ha dichiarato che nella sua tesi di dottorato aveva sostenuto che l'euro era insostenibile (dichiarazione reiterata nel suo intervento al MIT di quest'anno, se non sbaglio). Disse, ai parlamentari UE olandesi che si lamentavano del QE, che non era possibile un'unione monetaria tra creditori e debitori permanenti. Infine, a Helsinki, nel 2014, diede un'interessante lectio magistralis dove spiegava molto bene le origini della crisi e a cosa era servita l'austerità. Adesso non ho tempo, ma a chi interessa posso condividere i collegamenti alle fonti (ma molti di voi queste cose già le sanno)
RispondiEliminaAmo alla follia questo intervento (che trovo fantasticamente marxista). Toglierei solo la parola "etica" dal titolo.
RispondiEliminaPosso chiederti perché?
EliminaCerto, pardon per il ritardo nella risposta.
EliminaPerché mi pare che l'articolo parli di responsabilità politiche e non reputo l'etica un sistema di valori con cui valutare la politica (anzi, credo che approcci del genere abbiano devastato la percezione pubblica del valore della politica, che per me dovrebbe essere quello massimo, tra le discipline sociali).
Approfitto per ringraziarla tanto per l'abnorme impegno che spende in politica, offrendo (regalando) il suo tempo e le sue competenze e cercando di far ragionare quante più persone possibile, compreso chi, come me, non ha la testa per farlo da solo.
Tu sei perfido!
RispondiEliminaIn questo articolo è riassunto tutto ciò che ho sperimentato sulla mia pelle con il delirio dell'Euro. Perdita di potere d'acquisto, perdita di lavoro, perdita di tutele.
RispondiEliminaEd è spiegato benissimo, perchè solo le menti acute sanno esprimersi per farsi capire anche dalle persone semplici come me.
Ho sempre confidato nel "noi" , ma questa riflessione mi lascia attonito e senza parole. Se il "noi" viene usato per scappare dalle responsabilità diventa più nocivo dell"io" inteso in senso narcisistico. Voglio provare a pensare che può esserci anche un'accezione di "noi" da cogliere in senso costruttivo, come la "community" riunita virtualmente in questo blog e fisicamente a Montesilvano ogni anno in autunno.
RispondiEliminaMagistrale.
RispondiEliminaQuanto al perdono, citando un famoso film spaghetti western: "Dio perdona, io no!", nel senso che di solito il perdono prevede che ci sia del ravvedimento, qui non se ne vede proprio, tanto è vero che si potrebbe proprio pensare al concetto di tradimento; ora sappiamo benissimo dove Dante mette i traditori :)
"Era cioè una delle tre virtù teologali, la più incompresa e misconosciuta: la carità. Ed è tanto sorprendente quanto desolante il constatare come i cattocomunisti siano così a disagio con categorie che dovrebbero essere fondanti per il loro pensiero."
RispondiEliminaDirei, però, per rimanere in ambito religioso, che Matteo, l'altro, l'aveva ben inquadrati nel riportare le parole del Maestro... Mt, 23... quelli sono, esattamente quelli, nell'era della chiesa cattocomunista. Cambieranno anche le chiese, ma loro c'erano, ci sono, ci saranno, sacerdoti, magistrati, uomini di partito di quelle chiese. Presuntuosi, arroganti, ipocriti, all'occorrenza violenti. Sempre uguali.