Giulia ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Made in Italy":
Ho riflettuto molto sul dibattito Gulli-Brazzale-Ciccola [Pozzi, NdR]. Lavoro nell'alimentare, il tema mi è caro.
Ho l'impressione che Gulli e Brazzale abbiano una concezione diversa di Made in Italy. Mentre per Gulli l'espressione sembra avere un'accezione oserei dire filosofica, in quanto riferita allo stile di vita che noi italiani abbiamo creato e che riusciamo a infondere anche in un bullone, Brazzale mi è sembrato più pragmatico, sicuramente più cinico, meno "simpatico". Ma entrambi amano il nostro Paese e sanno che la moneta unica ci ha danneggiati; solo che, nel tentativo di preservare il nostro patrimonio culturale ed industriale, hanno fatto scelte diverse. Ho letto molte critiche a Brazzale. Ammetto che sentir parlare di Made in Italy come di un intralcio lì per lì mi ha infastidita. Poi ho riflettuto sul fatto che Brazzale, a differenza di altri, ha saputo sfruttare una situazione svantaggiosa per mantenere stabilimenti e lavoro in Italia. Non è una decisione scontata.
Parlo di alimentare perché è il settore che conosco. Ad oggi, apporre la dicitura Made in Italy su un prodotto significa poter dimostrare di produrre e trasformare delle materie prime secondo i dettami de Leuropa. Leuropa ci dice che per poter essere definito Made in Italy, un prodotto deve essere composto o da materie prime interamente ottenute sul territorio nazionale, o sufficientemente trasformate da poter vantare origine italiana. E qui le cose si complicano, perché le regole sembrano scritte apposta per colpire le nostre produzioni. Ne consegue che se per definire Made in Italy un pacco di pasta ho bisogno di una trasformazione sufficiente, e la regola Leuropea stabilisce che tale trasformazione è garantita da un "salto" di codice doganale (che tradotto significa che se il grano che utilizzo come materia prima per la pasta ha una classificazione doganale diversa dalla pasta come prodotto finito, soddisfo il requisito e posso definire Made in Italy il mio prodotto), io produttore, strangolato da cambio fisso ed altri problemi, per tenere aperta la baracca compro il grano che più mi conviene comprare, perché in ogni caso la regola la rispetto e forse riesco a pagare i miei dipendenti. Ovviamente queste stesse regole finiscono, alla lunga, per affossare le produzioni nazionali, favorendo l'infiltrazione di semilavorati esteri e portando tante aziende a chiudere o a vendere. Che pacchia, per i nostri fratelli nordeuropei!
Un secondo problema si pone quando il consumatore scopre che nella pasta che compra a 0,80€ e che ritiene essere italiana c'è il grano canadese trattato col glifosato. S'incazza e dice "ma come!? io compro il marchio X pensando di mangiare italiano, poi scopro che Tizio mi fa pagare 0,80€ usando grano straniero, quando al discount dietro l'angolo con 0,40€ mi compro la pasta di sottomarca fatta comunque con grano straniero. Sai che c'è?". C'è che la pasta prodotta da Tizio, che si barcamena tra regole insensate per lui, ma sensate per i concorrenti, rimane sullo scaffale.
Quindi, quando Brazzale parla di intralci ho la netta impressione che si riferisca alla possibilità che le regole per il conferimento della dicitura Made in Italy divengano più restrittive (come vorrebbero i consumatori); quando in realtà, ad oggi, sono quelle stesse già pessime regole a consentire NEL BREVE TERMINE ad un'azienda trasformatrice di restare a galla. E ha ragione Gulli, quando dice che le stesse regole sono fatte per colpire al cuore i nostri produttori di materie prime minando così la nostra capacità di produzione, che poi vorrebbe appunto dire posti di lavoro in più, parecchie terre incolte in meno e più sicurezza per il cittadino.
Il problema, alla fine, è sempre il solito: chi ci ha traditi.
Da parte mia, cerco di fare scelte che aiutino le nostre aziende e i nostri concittadini. Posso solo rispondere all'appello del sig. Gulli ed invitare chi conosco a fare altrettanto.
(...Giulia ha riflettuto molto e in effetti si vede. Se fosse sempre così, io sarei inutile. Ma purtroppo è andata in un altro modo...)
L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali...
martedì 12 dicembre 2017
Chi ci ha traditi (ancora sul Made in Italy)
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Durante l'incontro, d'istinto, sono stato d'accordo con ciò che (con amara ironia?) ha detto Brazzale: "Riappropriamoci della nostra" catena del valore".
RispondiElimina@noMagnaMagna
EliminaMa sei sicuro che l'ha detto Brazzale?
Ho ascoltato in modo frammentario a causa della connessione pessima, ma di Brazzale ricordo "W la globalizzazione! (senza euro che penalizza le mie esportazioni)".
Appena saranno disponibili i video riascolterò, ma mi sembra una conclusione più in linea con il pensiero di Gulli o Ciccola.
@ Giulia
condivido il nocciolo del tuo ragionamento, ma forse per un produttore di formaggio è abbastanza scontato mantenere qualcosa in Italia, perché il "made in Italy" lo puoi denigrare ma fa comodo che il consumatore riconosca l'Asiago (per dirne uno) e una marca italiana nell'alimentare.
Quindi direi che Brazzale "ha saputo sfruttare una situazione svantaggiosa". Punto.
Con questo non voglio accanirmi perché la sua posizione antieuro lo pone comunque tra i pochi imprenditori con un po' di sale in zucca.
E infatti, il formaggio ceco non lo ha chiamato Skvělá Morava.
EliminaBeh, quando ha fatto l'elenco di quanto (non) c'è di italiano durante la produzione, sottolineando quindi il problema di quanto sia globalizzata la suddetta catena, per me ha contemporaneamente sottolineato anche quale fosse la soluzione. Quindi d'istinto ho annuito. Infatti quello è il momento che più mi è rimasto impresso di quella tavola rotonda. Naturalmente so bene che soprattutto un imprenditore difficilmente (e non a torto, visti i precedenti storici in Europa) potrà accettare soluzioni in cui lo stato si fa garante diretto del lavoro sul suo territorio (e della gestione del conflitto capitale/lavoro), ma, vista qual'è posta in gioco, spero almeno che in confindustria o dintorni se lo pongano il problema. Del resto, non credo che in Giappone o in Corea del sud (Cesaratto dixit), paesi dal tessuto industriale territoriale estremamente articolato, gli imprenditori siano così insensibili al tema della deindustrializzazione.
EliminaChi ci ha traditi? Semplice: chi ha firmato o firmerà trattati come il Ceta, il Ttip e via globalizzando (a vantaggio dei soliti noti). Al #goofy6 Guido Rossi de Vermandois è stato chiarissimo.
RispondiEliminaIo, da consumatore (o meglio, fruitore), non disdegnerei una dicitura alternativa al classico MADE; vedrei meglio un "Fatto" per un prodotto creato interamente in Italia (materia prima compresa) ed un "Trasformato" o, che ne so, "Ideato", quando per esempio la pasta è prodotta con i fanghi di scarto del fracking canadese.
RispondiEliminaGiulia ha sollevato un tema, quello delle regole per il conferimento della dicitura "Made in Italy", molto interessante.
RispondiEliminaNel mio settore, o meglio quel poco che è rimasto, il tessile per arredamento, ci sarebbe da scrivere un libro sulle modalità con cui viene applicato il marchio Made in Italy su tessuti e divani finiti.
Comunque è vero: certe regole, nocive in generale per la nostra produzione nazionale, riescono paradossalmente ad essere favorevoli per il singolo imprenditore, almeno nel breve periodo.
E agli imprenditori italiani del mio settore, per lo meno i pochi rimasti, le cose vanno ormai bene così. Neppure si pongono il problema che certe regole possano nuocere al nostro Paese: "chi non si adatta problemi suoi, mors tua vita mea".
Il ragionamento non è quasi mai di lungo periodo. Figuramoci ragionare a livello sistemico. Fantascienza, purtroppo.
Per il resto ricordo un episodio risalente a pochi anni prima della crisi: il titolare di una grande tessitura del nord Europa mi disse testualmente: "è stato molto fruttuoso studiare i VOSTRI (sottolineo VOSTRI) colori e i VOSTRI disegni. Ora i miei prodotti non li vendo solo più facilmente sul mercato italiano, ma in tutto il mondo".
"E agli imprenditori italiani del mio settore, per lo meno i pochi rimasti, le cose vanno ormai bene così. Neppure si pongono il problema che certe regole possano nuocere al nostro Paese: "chi non si adatta problemi suoi, mors tua vita mea".
EliminaIl ragionamento non è quasi mai di lungo periodo. Figuramoci ragionare a livello sistemico. "
Lapidario. E mica vale per un solo settore.
Infatti il nocciolo del tradimento è stato pensare che affidarsi per guidare un paese a chi ragiona in questo modo portasse o potesse portare altrove di dove ha portato.
Il nodo è quello, il resto è secondario.
Ma quasi nessuno è disposto a riconoscerlo.
Alla fine si sono traditi i "padroni" fra loro, i grossi si son mangiati i piccoli, utilizzando le leve politiche a cui i piccoli non accedono. Il racconto dell'imprenditore eticamente attento al proprio ruolo sociale e' solo un racconto? Aneddoto: il palazzo dove abitavo a Milano era di proprietà della piccola casa editrice annessa. Il padrone sosteneva di aver fatto comprar casa a tutti i suoi dipendenti, ad occhio 10/15 persone. Un mondo perduto?
RispondiEliminaAnche io lavoro nel settore alimentare, ed ho lavorato in grandi aziende e per piccoli produttori. E' ormai da almeno 15 anni che si fanno leggi per far chiudere i piccoli, e favorire i grandi, mentre in TV si dice che "bisogna difendere il made-in-Italy" e simili menzogne. Però vorrei far notare che ovunque l'andazzo è lo stesso: l'Italia soffre di più perché il suo tessuto produttivo è peculiare e fatto di piccole realtà, oltre che per ovvi motivi che su questo blog tutti conoscono.
RispondiEliminaOltre alle regole,direttive e trattati euristi ed europeisti a noi sfaverevoli,mi ricordo che,tempo fa, la tanto allora vituperata(ingiustamente, anche da parte mia, alla luce dello scempio cui assistiamo oggi)D.C. mandava alle riunioni europee sulle questioni agricole gente preparata, volenterosa e grintosa,in grado di difendere con le unghie e con i denti i nostri legittimi interessi nazionali; e non giovanotti di belle speranze, inesperti,ma in compenso perennemente sorridenti,spesso in modo irritante , davanti alle telecamere.
RispondiEliminaMa, si sa, ora noi dobbiamo difendere innanzitutto i nobili interessi leuropei, non quelli grettamente nazionali!
Veramente, ci mandò anche un certo Filipo Maria Pandolfi Mazzanti Viendalmare, l'uomo che avallò in nome dell'Alto Ideale le quote-latte.
EliminaUna delle possibili alternative che rimangono ai nostri figli che sono i più traditi.
RispondiEliminaHo scoperto questo blog poco tempo fa e troppo tardi rispetto ai miei bisogni per usufruire appieno dello Bagnai psicologo.
RispondiEliminaVinco la mia ritrosia ad esprimermi esclusivamente per egoismo,che si traduce nel sentirmi parte di una comunità ed approfittare di tutti voi per capire se ho ancora qualche residua capacità logica e di comprensione.
Il made in italy si è fatto apprezzare nel mondo non solo a seguito di operazioni di marketing ma in quanto espressione delle eccellenze di un sistema. Noi sentiamo tanto più il dovere di difendere il made in italy quanto più viene a mancare l'Italy, cioé il sistema che ha creato il valore stesso del "brand" made in italy.
Ritengo che mancando ormai il sistema ci vediamo costretti a difendere le sue singole componenti di quell'italy che inevitabilmente non potranno mai avere lo stesso valore o forza dell'intero.
Possiamo proteggere una notazione geografica ad esempio,ma se non siamo in grado di impedire che il pezzo di terra venga ceduto in mani straniere ha ancora senso quella protezione?
Presumo che simili ragionamenti si possano fare per qualsiasi componente che tentiamo di proteggere.
Nel breve periodo questa protezione può ancora portare dei frutti, ma se restiamo ingabbiati ne leuropa corriamo il risco di proteggere e curare un albero che abbiamo già venduto, e i cui frutti verranno raccolti da altri.
Sono al lavoro e scrivo sul telefonino, l'unica cosa di cui sono certo è che ho scritto qualcosa di diverso da ciò che avevo pensato.
In passato ho spesso pensato che la piena occupazione permettesse un ottimale allocazione delle menti e delle capacità, e ciò credo abbia contribuito non poco alla creazione delle eccellenze tipiche del made in italy.
In pratica credo che la necessità di difendere il made in Italy sia inversamente proporzionale alla nostra sovranità.
Purtroppo come corollario aggiungerei che se non si ha nessuno sovranità è inutile difendere il made in Italy.
Asfaltatemi pure ora.
Concordo con Vito Gulli riguardo alla "sovranità nazionale.....senza la quale le cose non possono andare al loro posto".
RispondiEliminaNon mi convince la soluzione che propone.
Parafrasando l'avvocato Brazzale, un prodotto italiano al 41% di cui vendo 100 unità dà più lavoro in Italia di un prodotto italiano al 100% di cui vendo una sola unità.
Oltretutto il consumATTore ha la possibilità di scegliere, ma il consumatore, a parità di livello qualitativo, sceglie il prodotto con il prezzo inferiore.
Non è meglio avere una politica monetaria Made in Italy che consenta di sviluppare una politica industriale che favorisca il Made in Italy?
Chi ci ha traditi? Sicuramente il PD e la sinistra.
RispondiEliminaRiguardo alla pasta, cara Giulia io compro sempre la Pasta Jolly e la pasta Zara, che sono prodotti nel trevigiano. Da buon Veneto, cerco di comprare solo prodotto locale. Spererei però - e qui devo informarmi - che tutta la filiera di produzione fosse locale, e non solo un piccolissimo pezzettino.
Lavorando o meglio lavoravo nel settore calzaturiero, anche in quel contesto i più forbi aggirano il problema.
RispondiEliminaIl settore tomaie è stato totalmente delocalizzato o internalizzato da cinesi che producono in loco.
Basti che una buona parte sia fatta in italia o al massimo come fanno alcuni si produce fuori senza marchio e si matte il made in a prodotto finito.
I controlli non esistono e anche volendo sarebbero molto difficoltosi.
Storia lunga, oramai giunta allo stadio finale, quello in cui i proventi vengono investiti in attività meno competitive tipo le ferrovie, autostrade, gestione luce e gas.
Credo che sarò un po' controcorrente, ma voglio ugualmente dire la mia.
RispondiEliminaSono un piccolo imprenditore del settore IT a Palermo. Città dalle mille bellezze e dagli irrisolvibili problemi.
Il nostro parco clienti è (o meglio era) composto dalle piccole e piccolissime imprese cittadine.
Ho visto in questi ultimi anni azzerarsi o quasi l'elenco dei miei clienti, soprattutto a causa di fallimenti e chiusure nel comparto abbigliamento.
Dico che sono controcorrente perché la filosofia del Gulli e il pragmatismo del Brazzale se da una parte sembrano infuocare il dibattito per il successo delle loro aziende che spingono il Made in Italy, dall'altra mi inducono a pensare che non hanno fatto altro che perseguire il profitto, come buon imprenditore dovrebbe sempre fare. L'uno cedendo le aziende (una buona azienda è tale se è vendibile) l'altro spostando parte della produzione e lasciando in Italia quella piccola parte che continua a consentirgli di esporre un marchio Made in Italy.
Potrei sbagliarmi (poco infatti conosco della storia del Gulli) ma quello che vedo sono due imprenditori che hanno dovuto (sottolineo DOVUTO perché non è una critica a loro diretta) mollare la difesa del Made in Italy.
Giusta, sotto questa ipotesi, la domanda della Giulia: "Chi ci ha traditi?"
...ma è possibile che questi discorsi si cominci a farli adesso? (ovviamente, viva questi discorsi!)
RispondiEliminaVoglio dire, io son sempre stato di bocca buona, amante di tutte le cose peculiari dell'Italia, cioé quella relazione inedita tra paesaggio, economia, cultura, tradizione e innovazione.
Qualsiasi discorso che decida di tagliare fuori qualcuno di questi termini è una forma di violenza riduzionista e banalizzatrice.
Eppure è quello che sento SEMPRE ogni santa volta in cui provo a collegare compartimenti altrimenti stagni (nella testa di molte persone).
Viva l'Italia Stato Nazione.
Riflettendo sulla riflessione di Giulia e passando a Gulli, che del made in Italy...
RispondiElimina" sembra avere un'accezione oserei dire filosofica, in quanto riferita allo stile di vita che noi italiani abbiamo creato e che riusciamo a infondere anche in un bullone"...
Credo che le motivazioni di Gulli siano più profonde e vadano oltre.
Sostiene l'italianità (che più di uno "stile di vita", è un modo di essere, di fare e di pensare) dei prodotti perché, sì, in molti settori, tra cui l'agroalimentare, sono migliori ma soprattutto perché LUI è italiano, cioè perché è la "SUA tribù".
Non è una superiorità assoluta l'essere fatto in Italia, la superiorità è contribuire alla dignità e al benessere (non solo materiale) della propria tribù-città-nazione, qualunque essa sia.
Non dice la mia tribù è meglio e contro le altre, ma ogni tribù deve tendere a rendere la vita migliore a ciascuno dei propri membri e nella sua totalità, in equilibrio con le altre tribù.
Non credo che questo vada confusa con autarchia, perché immagino sia favorevole a scambi commerciali tra tribù, purché non dettati dalla logica dello sfruttamento e del profitto di pochi.
Il suo discorso non è solo filosofico o umanistico, ma anche, economico e pragmatico.
Perché se nessun Paese può più essere abbastanza ricco da fungere da mercato di sbocco di produzioni delocalizzate e di materie prime trafugate, se tutti i Paesi diventano terzo mondo nella logica di una competizione la cui unica regola è il ribasso e lo svilimento del lavoro, anche il sistema che a noi qui, in occidente, è sembrato tanto bello salterà.
Più pragmatico (ma per nulla cinico) quindi il discorso di Gulli di quello di Brazzale perché è più sostenibile nel breve ma soprattutto nel lungo periodo.
Tra i due c'è un abisso culturale, umano, intellettuale e spirituale.
Detto ciò, continuo ad essere d'accordo sul fatto che a tradire non è un Brazzale, per quanto lo ritenga un opportunista, ma chi dall'alto permette (e in un certo senso obbliga) agli imprenditori a fare scelte contrarie al benessere delle (propria e altrui) comunità.
Nel mio piccolo ci metto ore a far la spesa per scegliere i prodotti del mia tribù. Vale come messaggio, ma la filiera corta con l'euro e con i vari trattati tipo WTO è sostenibile?
A proposito di tradimenti (applicazione alla lettera, della lettera Trichet-Draghi), oggi anche al Corsera si sono accorti che il sistema pensionistico è in attivo ed un grosso affare per lo stato.
RispondiEliminaA proposito di materie prime.
RispondiEliminaChi è nel settore agricolo conosce sicuramente la sigla PAC (politica agricola comune). Io non sono del settore quindi riporto quanto mio suocero, che è del settore, è riuscito a spiegarmi, e a quanto sono riuscito a capire sulla rete. Se qualcuno è più esperto ben vengano rettifiche o approfondimenti.
La spiego così come mi è stata spiegata: per permettere ai consumatori europei di acquistare prodotti agricoli o prodotti finiti alimentari a prezzi basse, agli agricoltori dei paesi europei, che non potrebbero avere un utile al prezzo di mercato, sono previsti dei finanziamenti (PAC). Ovviamente tali finanziamenti sono soggetti a requisiti ben precisi per giustificarne la funzione (ambiente, sostenibilità, ecc) che però nella pratica si traducono in produrre quello che ti dicono di produrre e di un po' di burocrazia.
L'anno prossimo è previsto un taglio al fondo del 20-30% fino ad esaurirlo nel 2020, in quanto tale fondo sarà destinato agli aiuti ai 'migranti'.
Se così stanno le cose (il mio dubbio è relativo alla mia ignoranza sul tema) qui si configura l'ennesima fregatura europea.
Si antepone il diritto del consumatore al diritto del lavoratore (in cui metto anche l'agricoltore), trascurando il fatto che tutti i lavoratori sono consumatori e che tale finanziamenti sono possibili solo tramite il conferimento di tasse pagate dagli stessi lavoratori che sono anche consumatori.
In pratica: per farmi arrivare alla fine del mese fai in modo che i prezzi siano bassi e per farlo mi fai guadagnare meno e mi tassi anche e una parte di quelle tasse non mi viene neanche data indietro in quanto contributori netti e pertanto finisce nelle tasche di qualche altro agricoltore straniero con un costo della vita più basso che mi potrà fare concorrenza riducendo ulteriormente il mio guadagno.
In ogni caso tali finanziamenti sono ben poca cosa e non determinano un guadagno significativo per il piccolo agricoltore, quindi non impedisce l'emersione di grandi proprietari terrieri, alla facciad della concorrenza.
Ovviamente poi c'è l'assurdità di dover aiutare gli agricoltori locali con sussidi, permettendo poi l'ingresso di prodotti esteri grazie ad accordi bilaterali (olio tunisino) o ad accordi di libero scambio (CETA).
Infine le colture soggette a PAC vengono decise sulla base teorica delle necessità alimentari (per la serie che sarebbe l'offerta a generare la domanda) e decise dove non sia una conoscenza approfondita delle peculiarità regionali, climatiche e ambientali tipiche del nostro paese favorendo quindi la produzione di prodotti standard e rendendo più rare (e più costose) colture tradizionali (che forse sarebbero più sostenibili) perdendo progressivamente la peculiarità agroalimentare del nostro paese e, nel contempo, rendendola inaccessibile a quella categoria di consumatori (disoccupati) che si vorrebbe tutelare.
Infine, se vero la faccenda dei migranti, siamo davanti all'assordo in quanto obbligherebbe gli agricoltori, senza PAC, a dover fare uso di forza lavoro sottopagta e ricattabile.
A corredo riporto questo link:
EliminaI COLTIVATORI SUICIDI. PER LA NOSTRA INGRATUDINE. - Blondet & Friends.
Al di là delle responsabilità etiche e umane, rimane il fatto allarmante di una propensione al suicidio più alta per gli agricoltori.
Chi ci ha tradito? Ci ha tradito il governo italiano che al al consiglio Europeo ha ratificato questo regolamento - http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CONSLEG:1992R2913:20070101:EN:PDF
RispondiEliminaChe fondamentalmente instaura questo concetto "Goods whose production involved more than one country shall be deemed to originate in the country where they underwent their last, substantial, economically justified processing or working in an undertaking equipped for that purpose and resulting in the manufacture of a new product or representing an important stage of manufacture"
Faccio notare che siamo nel 92, un allargamento ad est forse era solo argomento da pour-parler. Tuttavia la fortuna delle industrie tedesche (e dei loro azionisti) nasce proprio dal far produrre il pezzo in EU-12 (il volante) , trasformarlo in Germania ( metterci il logo Audi) e rivenderlo come Made in Germany sui mercati globali assicurandosi un bel profitto dato dalla differenza di costo del lavoro!
Secondo me qui troppi commentatori sono un pò troppo talebani ed integralisti riguardo al made in Italy, dimenticando che siamo essenzialmente un paese di trasformazione non un paese ricco di materie prime. Brazzale riesce a fare un buon prodotto con un ottimo rapporto qualità prezzo ed un prezzo molto accessibile, nei suoi stabilimenti italiani con panna centrifugata dal latte delle sue fattorie in Moravia, e lo chiama Burro Gran Moravia.
RispondiEliminaAl contrario la quasi totalità di chi lavora in Italia usando solo latte italiano fa un prodotto schifoso di bassa qualità, composto in gran parte di affioramento dei grassi residui dal siero, che costa poco, ma comunque troppo per la sua bassa qualità.
Poi Brazzale fa anche un prodotto eccellente con la panna centrifugata di latte alpino italiano, e lo chiama Burro delle Alpi Superiore F.lli Brazzale, ma questo ovviamente costa abbastanza. Insieme al Burro di Panna del concorrente Occelli è l'unico burro veramente buono fatto con latte italiano.
Ma magari lo può comprare solo chi è veramente benestante. Oppure come faccio io, una volta ogni tanto mi concedo il burro alpino, mentre per soffrigere e l'uso quotidiano va bene il gran moravia.
E non mi sento minimante imbrogliato perchè un prodotto si chiama Burro di panna delle Alpi e l'altro Burro Gran Moravia, è ovvio al momento dell' acquisto da dove viene la materia prima. Ed il Gran Moravia che gli permette di rimanere sul mercato, con un prodotto decente a prezzo ragionevole.
Un ragionamento simile vale per la Bresaola della Valtellina. Le vacche valtellinesi sono poche ed inadatte per fare quel salume, carne troppo grassa e non abbastanza saporita.
Per fare una buona bresaola deve andare a comprare gli zebù nei grandi pascoli del sud del Brasile, e lavorarli qui in Italia. Qualcuno ha pure provato ad allevare razze adatte in Lombardia, ma non c'è niente da fare, non abbiamo gli spazi ed i pascoli del Rio Grande del Sur o del Minas Gerais. Ma ha senso escludere certi salumi dal made in Italy solo perchè devi comprare la carne adatta a farli all'estero?
Ricordiamo che il fatturato dell'agro-alimentare lo fa praticamente tutto il prodotto trasformato (salumi/formaggi DOP) mica la materia prima.
Vorrei raccontare una storia a proposito del “Made in Italy”. C’era una volta nel Bellunese un distretto produttivo, quello dell’occhiale. Un giorno un imprenditore di questo distretto, stufo del fatto che i suoi dipendenti avevano vizi che non potevano permettersi (fare una vita decente), accettò la proposta dei nipotini di Mao di fare una fabbrica di occhiali in Cina. Siccome fin dai tempi del Neolitico il Capitale pensa solo alla massimizzazione del saggio di profitto, e nonostante tutte le fregnacce sulla digital economy dallo stesso Neolitico il modo più efficace e sicuro di aumentare il saggio di profitto è tagliare i salari, il tipo accettò. Bene, nel giro di pochi anni in tutta la provincia le fabbriche di occhiali avevano due linee produttive: quelle per il mercato americano, dove per essere targato “Made in Italy” l’occhiale doveva essere tutto prodotto in Italia, e la linea per i paesi (tra cui il nostro) dove per essere “Made in Italy” bastava ricevere in fabbrica lo scatolone dalla Cina, fare un rapidissimo “controllo qualità visivo”, mettere il marchio “Made in Italy” e reimballare. Un giorno, ormai più di dieci anni fa, successe un guaio e in una fabbrica del distretto gli scatoloni della linea madeinitalyvera furono scambiati con gli scatoloni della linea madeinitalyfattaincina.
RispondiEliminaOra, gli americani sono un popolo che lasciamo perdere ma uno dei pochissimi loro pregi è questo: se il tuo prodotto deve avere per contratto determinate caratteristiche, quelle devono essere, altrimenti te lo rispediscono indietro senza tanti complimenti anche se sei la Elicotteri Agusta. Una fabbrica di mobili, sempre del Bellunese, oggi fallita, si è vista ritornare indietro una partita di camere da letto altrimenti perfette perché i cassetti invece di avere le rotelle come da contratto avevano delle semplici guide di legno, come si usava dappertutto ai tempi, non si è mai capito di chi fosse stato l’errore. Non serve dire che quel guaio contribuì in modo piuttosto pesante alla successiva chiusura della ditta.
Tornando agli occhiali, gli americani si videro arrivare gli occhiali madeinitalyfattoincina invece di quelli madeinitalyfattoinitalia e furono, come dice il buon Lino Banfi, volatili per diabetici.
Il giochino del madeinitalyfattoincina andò avanti per un po’ di anni finché i “monager” (la “o” deriva dal nome che nel mio vernacolo ha il tanto amato organo riproduttivo femminile, purtroppo mi scuso moltissimo ma il mio vernacolo è un po’ sessista e con lo stesso termine definisce anche la gente tonta) si accorsero che stavano affrontando un’incontenibile concorrenza da parte dei prodotti cinesi... ma và? E chi gli ha insegnato ai cinesi a fare gli occhiali?
Il fatto è che questi non sono affatto tonti, il “monager” non è il buon vecchio “paròn”, sa bene che starà lì al massimo tre-quattro anni e l’importante per lui è poter produrre davanti ad un CDA formato da banche e fondi vari (cioè gente che produrre schede elettroniche o biscotti è la stessa identica cosa, l’importante è il ritorno dell’investimento) un bel po’ di grafici sul fatturato, che poi questi grafici siano il risultato di espedienti che assomigliano molto alla donna delle pulizie che ficca la polvere sotto il tappeto non gli interessa, tanto sa che saranno volatili per diabetici di chi lo sostituirà, non suoi, perché nel frattempo lui sarà già stato licenziato con lauta buonuscita. Il suo successore vedrà il puttanaio e ripiegherà sul buon vecchio espediente, che ha sempre funzionato fin dal Neolitico: dichiarerà esubero di personale (anche se la gente lavora 14 ore al giorno) e taglierà i salari (cosa è questa cosa antidiluviana di pagare la gente a ore?). E’ il “CEO capitalism”, baby.
RispondiEliminaDel vecchio distretto dell’occhiale sopravviveva Del Vecchio (scusate il calembour), finché a un certo punto anche lui ha ceduto alla gggggllllobbbballizzzzazzzzione ed ha venduto, guarda caso, ai francesi. Ora, se vi sembra che ‘sti francesi da qualche anno in qua siano sempre in mezzo agli zebedei, andate a vedere chi è Christian Harbulot e capirete perché 1) i francesi ci comprano tutto approfittando delle storture date dall’odiato conio 2) perché Leuropa non potrà mai funzionare, anzi non esiste ed è solo un ectoplasma nelle mani a) del mercantilismo d’oltralpe b) dei soliti noti nostrani per indirizzare a loro favore il conflitto redistributivo, come sappiamo. Morale della favola: il capitalismo sarebbe anche un buon sistema economico, se non ci fossero i capitalisti. Soprattutto i capitalisti italiani, concedetemi questa piccola dose di autorazzismo.