domenica 30 marzo 2025

QED 107: il Giavazzo bifronte

 


Ho fatto male questa mattina a maramaldeggiare sulla sorprendente papera del Prof. Ing. Giavazzi. Ho fatto male perché, nell'accesso di ilarità causatomi dallo strafalcione del supercilioso oracolo, ho tralasciato di leggere il suo pezzo. C'è un motivo per cui il Prof. Ing. Giavazzi non mi invita particolarmente alla lettura: perché trovo decotte e tendenziose le sue analisi. Faccio a meno di andare dove so che mi si vuole portare, soprattutto se so che la direzione che mi si indica è quella sbagliata (e di questo vi darò qualche esempio). Leggere i pezzi del Prof. Ing. Giavazzi insomma non è molto più appagante che leggere l'ennesima COM europea, anzi, forse un filo meno. Però, purtroppo, in entrambi i casi questo sacrificio va fatto. Nel caso del Prof. Ing. Giavazzi, in particolare, sorbirsi le sue articolesse è utile per comprendere dove a Bruxelles vogliano andare a parare. E se avessi letto anche di corsa il resto del pezzo di oggi avrei trovato una parola che, come sapete, è un marker infallibile dell'ipocrisia mielosa e classista con cui chi ci ha avviato sulla strada del declino ha voluto esentarsi dalle proprie responsabilità: deprezzamento!

Ricordate?


Ne abbiamo parlato qui.

Ma procediamo con ordine e ripercorriamo rapidamente la storia delle piroette del Giavazzo bifronte. Sarà utile e istruttiva...

In principio era il debito pubblico!

La prima piroetta del Giavazzo bifronte, quella in cui il supercilioso oracolo sdoganò l'idea che il debito pubblico si poteva fare (ma solo se comune, e preferibilmente per armarsi) ha colpito molto l'immaginazione dei turisti del dibattito:


Molto meno la nostra, non solo perché il "momento Hamilton" (cioè la spinta a costruire, sull'onda emotiva di uno stato di eccezione, un debito comune) e il keynesismo bellico li stiamo vedendo arrivare da tempo, ma anche perché questa piroetta non era la prima, in effetti, ma la seconda!

Chiarisco.

Tutti ci ricordiamo i bei tempi in cui Giavazzi (che oggi lo nega) vedeva nel debito pubblico (che era più basso di quello attuale, ancorché fatto crescere dalle politiche attuate da Monti e sponsorizzate dalla Bocconi unanime), la causa di tutti i mali. Può essere utile ripercorrere qualche quotidiano dell'epoca. Pesco a caso dalla rassegna stampa questo articolo del febbraio 2014:


animato dai soliti toni parenetici, in cui il magico duo Alesina e Giavazzi, con una certa aristocratica condiscendenza, si attardava a ricordarci che:


Il primo problema del nostro Paese era insomma "erdebbitopubblico". E come ti sbagli!

Il protrettico duo ribadiva il concetto ad ogni piè sospinto! Così, a settembre:


nell'ansia di inculcare il timore per il debito, capitava loro (sbadati!) di regalarci una pericolosa ammissione:


ovvero che i tedeschi avevano violato le regole per finanziare a deficit la loro "riscossa". Certo, racconto lacunoso e disonesto il loro: intanto, i tedeschi non avevano chiesto alcun permesso, tant'è che la procedura di infrazione era partita:


(cosa che ovviamente non sarebbe successa se avessero negoziato una escape clause di qualche tipo, come Alesina e Giavazzi insinuavano) e la sua storia la trovate qui; ma soprattutto, Alesina e Giavazzi dimenticavano di dirvi quello che voi sapevate, cioè i motivi di questo sforamento: il finanziamento a deficit di una gigantesca svalutazione salariale (taglio del cuneo e spesa assistenziale per i nuovi poveri delle riforme Hartz). Noi ne avevamo parlato in dettaglio due anni prima del loro pezzo affrettato e menzognero.

Ovviamente, se il problema era "erdebbitopubblico", la soluzione non poteva essere la spesa pubblica: non solo la spesapubblicaimproduttiva cara a un altro grande economista, quello che non aveva avuto il Nobel ma l'Oscar, e non negli Stati Uniti ma al fonte battesimale! Secondo i nostri ineffabili mentori neanche gli investimenti andavano aumentati! Infatti a novembre, nell'ammonirci esortandoci a sottrarci alla tentazione irresistibile:

i nostri, categorici, affermavano che:


Eh, no! Non si poteva uscire dalla recessione con gli investimenti pubblici. Strano, perché i dati ci dicevano che in recessione ci eravamo entrati tagliandoli, come vi ho fatto vedere qui:


Ora, per completa onestà intellettuale (materia sconosciuta al magico duo, ma di cui qui abbiamo sufficiente abbondanza da poterla esportare anche senza svalutare troppo i nostri avversari, o almeno da non svalutarli più di quanto si svalutino da sé con le loro piroette): posso anche ammettere che gli investimenti pubblici siano soggetti ad una strana asimmetria per cui si fa prima a tagliarli che a espanderli, ma questa asimmetria andrebbe esplicitata! Invece nel resoconto del formidabile duo i dodici trimestri di recessione sembrano venuti fuori dal nulla, come la famigerata "grande moria delle vacche". Alesina e Giavazzi come Totò e Peppino, insomma, incapaci di individuare le cause della recessione, e per questo incapaci di proporre soluzioni con un minimo di tenuta logica.

Il massimo che proponevano, i due, era una applicazione del moltiplicatore di Haavelmo:


Un taglio di tasse con taglio di spesa (per non far esplodere il debito pubblico, ça va sans dire), quando al primo anno di economia si studia che una simile manovra è recessiva, e quindi fa esplodere il rapporto debito/Pil! Il tutto con gran rinforzo di argomenti grillini: le lobby (perché, la Bocconi che cos'è?), la corruzione (non esiste solo quella materiale, esiste anche quella intellettuale)...

Non voglio infierire ulteriormente sulla povertà deontologica e intellettuale di certi argomenti. Chi arriva qui da poco, come l'amico che si firma "il forestiero", potrebbe vedere in questo resoconto un esercizio del senno di poi. Mi fermo quindi, e passo a dimostrare che in realtà era il magico duo a essere perennemente in ritardo.

Contrordine compagni: il problema non è il debito pubblico!

Beh, questa la sapete. Un annetto dopo le stronzate banalità scritte qua sopra, il supercilioso censore della politica italiana dovette ammettere che:

il debito pubblico, con la crisi, non c'entrava nulla!

Esattamente il punto da cui eravamo partiti noi a novembre 2011 ne I salvataggi che non ci salveranno, traendo però da questa analisi giusta e tempestiva la prescrizione giusta, cioè che i tagli alla spesa pubblica che Giavazzi ancora chiedeva nel 2014, essendo fatti per curare un sintomo (il debito pubblico) che non era la causa della malattia, avrebbero aggravato la malattia (e quindi il sintomo), come poi fu. Il fact checking su Monti vi dà evidenza plastica delle conseguenze di questo errore (oltre a ricordare tutte le fonti più o meno coeve che un po' in ritardo, ma molto più autorevolmente di me, affermavano prima del Giavazzo bifronte quella che era un'evidenza palmare: se a saltare per aria erano stati tanti Paesi a debito pubblico trascurabile, come si poteva affermare che il debito pubblico fosse la causa del problema?).

Va detto che né il Giavazzo bifronte né i suoi sodali, scrivendo sullo house organ del capitalismo renano (Voxeu), potevano dare il giusto risalto al perché si fossero creati quegli squilibri che poi avevano necessariamente condotto al sudden stop, all'arresto improvviso del rifinanziamento delle posizioni debitorie della periferia (Grecia, Spagna, Portogallo, ecc.) da parte del centro (Germania, Francia). Sull'aggressiva svalutazione dei salari tedeschi, di cui, come vi ho provato per tabulas, era consapevole, l'ineffabile, oracolare accademico sorvolava con eleganza.

Ma quello, e non il successivo, era un voltafaccia vero, autentico, profondo, una rivoluzione copernicana che all'epoca nessuno notò, tranne uno, l'uomo seduto sulla sponda del fiume:


Contrordine compagni: il debito pubblico fa bene!

Perché il secondo voltafaccia, quello da cui siamo partiti, quello con cui il Giavazzo bifronte, deposti i panni dell'ingegnere e indossati quelli dell'economista, si ricordava che in recessione si possono fare investimenti pubblici a debito, era assolutamente prevedibile, come pure era prevedibile che dopo aver demonizzato la spesa pubblica per decenni, una volta costretti dai fatti a ricorrere ad essa avrebbero dovuto giustificare questa necessità sulla base di uno stato d'eccezione, del più convincente degli stati di eccezione: la guerra. Un esito scontato, che avevamo anticipato diverse volte, ad esempio qui:


(scritto otto anni fa, ma direi che c'è tutto quello che stiamo vedendo accadere).

Questo (cioè il fatto che questo voltafaccia fosse banale e ampiamente anticipato) e la mancanza di tempo mi hanno impedito di esercitarmici a suo tempo, ma altri hanno fatto per me: Goofynomics è una bottega rinascimentale...

In principio la svalutazione era brutta e cattiva!

Dopo esserci fatti un'idea dell'uomo, della sua poliedricità, della sua political economy, veniamo quindi all'oggi, che però deve essere inquadrato alla luce di una premessa che risale a un passato ormai parecchio distante: quello in cui il Giavazzo bifronte sosteneva che sarebbe stato opportuno per l'Italia legare le proprie mani allo SME:

(il famoso SME credibile che sarebbe poi saltato come un tappo di prosecco tiepido, con grande scorno dei due Paperoga Frankel e Phillips). Qui avete altre versioni del lavoro, nel caso non vi riesca di scaricarlo da ScienceDirect, la versione pubblicata dall'NBER contiene anche una interessante discussione.

L'argomento dell'incomparabile, che va sempre in duo, come solitamente fanno altre entità che non nomino per rispetto, e che all'epoca, per l'occasione, si accompagnava a Pagano, era sostanzialmente che:


il vantaggio di partecipare al Sistema Monetario Europeo (e quindi, a maggior ragione, all'euro) sarebbe stato quello di impedire riallineamenti nominali che compensassero i differenziali di inflazione. In questo modo i governi non si sarebbero abbandonati alla tentazione di inflazionare l'economia (sempre sacerdotale, il nostro supercilioso mentore - o mentitore?), perché se ogni aumento del differenziale di inflazione rispetto ai Paesi partner si fosse tradotto in un apprezzamento del cambio reale senza possibilità di compensazione la crescita sarebbe stata danneggiata, inducendo così i governi a scegliere spontaneamente un sentiero di crescita meno inflazionistico.

Sempre questo partito preso, sempre questo moralismo, sempre questo individualismo metodologico che ignora la complessità del reale, sempre questo ciarpame...

Vabbè, mi rendo conto che a quasi quarant'anni di distanza questo pezzo di modernariato scientifico può risultare sostanzialmente incomprensibile. Andrebbe contestualizzato (come tutte le produzioni intellettuali scarse, dal Manifesto di Ventotene in giù: i classici di contestualizzazioni non ne hanno gran bisogno...), con riferimento al dibattito sulla superiorità delle regole rispetto alle politiche discrezionali e sugli altri grandi temi che appassionavano all'epoca la scienza economica "normale" nel senso di Kuhn. Ma il main takeaway, incontestabile, è che all'epoca il nostro ieratico, supercilioso commentatore, che temprando lo scettro ai regnatori la spesa ne sfronda, era radicalmente contrario alla possibilità per un Paese come l'Italia di manovrare il cambio nominale, e anzi sosteneva che un cambio "credibile" (e quindi stabile) avrebbe portato benefici in termini di minore inflazione (e quindi a tendere di maggiore competitività, cioè di minore apprezzamento del tasso di cambio reale).

Che quelle che lui vedeva come svalutazioni della lira fossero in realtà rivalutazioni del marco non gli passava nemmeno per l'anticamera del cervello, perché tutto intento ad agghindare con festoni di integrali puramente esornativi le sue articolesse tecnico-ingegneristiche:

figurati se l'oracolo di via Stra Sarfatti poteva perder tempo a dare un'occhiata ai dati come abbiamo fatto noi:


o magari si ponesse una cazzo di domanda, una sola, sul perché la Germania, la potenza industriale, la locomotiva, ecc., strutturalmente crescesse meno dell'Italia:


tranne nei periodi in cui riusciva o a far rivalutare noi (nello SME credibile, dopo il 1988) o a svalutare lei (con la svalutazione salariale del 2003), o a imporci politiche recessive (con l'austerità dal 2011).

Avranno mica avuto ragione i comunisti come Napolitano quando (13 dicembre 1978) dicevano che:


la compressione della crescita da parte della Germania federale faceva parte di una deliberata politica di aggressione volta a spingere alla deflazione un paese come l'Italia?

Eh, i comunisti... averne, averne, io ve lo dico sempre!

Nei 14 anni precedenti l'articolessa del duo Giavazzi-Pagano la Germania era cresciuta al 2% e l'Italia al 3%. Sarà mica che i tedeschi comprimevano la loro crescita per mantenere un posizione di surplus nei riguardi del resto del mondo (via compressione delle importazioni)? Un dubbio, una ipotesi, un passaggio, qualcosa, lo vogliamo fare? Erano ipotesi agli atti parlamentari! Erano entrate nel dibattito pubblico! Che quella tedesca fosse una politica aggressiva di deflazione competitiva lo si vedeva bene anche allora, lo vedeva perfino Napolitano, persona garbata e intelligente, ma non economista.

Non ho sufficientemente approfondito l'opus magnum di cotanto economista, ma dubito che di questa roba si troverebbe traccia: il suo astio verso il Paese che gli ha dato i natali gli precludeva, gli preclude, e gli precluderà, la possibilità di qualsiasi analisi che non sia pregiudizialmente ostile verso l'Italia e gli italiani.

Contrordine compagni: la svalutazione va bene, ma solo se la chiamiamo deprezzamento e se siamo in surplus!

La cosa turpe, abietta, vile dell'odierna esternazione del sommo e supercilioso ierofante può ora essere messa in evidenza, e non è certo la ridicola papera in cui è inciampato (ben gli sta, ma può capitare a tutti). No: è il fatto che dopo aver detto, come da sempre diciamo io e Claudio, che mettere dazi da parte dell'UE non avrebbe senso:


il supercilioso apostolo della religione misterica bocconiana ci dice lellero lellero che:


la chiave della soluzione sta nel deprezzamento dell'euro!

Affermazione sorprendente e sciocca.

Sciocca, perché, come vi ho mostrato, è proprio il deprezzamento dell'euro, che essendosi manifestato in presenza di una fortissima eccedenza delle partite correnti non può che essere qualificato che come svalutazione competitiva, ad aver causato la risposta ampiamente annunciata degli Stati Uniti. Dire che bisogna reagire ai dazi proseguendo con la pratica scorretta che li ha motivati è come dire che se andassimo a trattare negli Usa insieme ai tedeschi saremmo accolti meglio! Significa aver perso il lume della ragione, significa non avere una lettura un minimo equilibrata della realtà in cui ci dobbiamo muovere. Tralasciamo la scorrettezza di intestarsi, come al solito, idee espresse in precedenza da altri: l'uomo è così, lo avevamo capito nel 2015.

Sorprendente, perché non si capisce come mai i deprezzamenti che negli anni '80, che erano chiaramente rivalutazioni del marco conseguenti alla politica tedesca di compressione della domanda interna, dovessero essere demonizzati dall'ineffabile, supercilioso bramino come svalutazioni competitive, mentre oggi una manovra al ribasso della valuta di una zona che esprime 500 miliardi di dollari di surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti viene pudicamente invocata come benefico deprezzamento, essendo, lei sì, una svalutazione competitiva!

Insomma: l'articolessa di oggi è il QED del post di venerdì, quello in cui notavo come fosse strano che chi trovava turpe che si deprezzasse il cambio di un Paese in deficit trova virtuoso che si deprezzi il cambio di un'area in surplus! Questa è economia di base, non è sufficientemente controintuitiva, non è sufficientemente matematizzabile, e quindi i veri economisti la snobbano, e gli ingegneri non la capiscono. Si deprezza la valuta di un Paese in deficit, perché si rivaluta quella del Paese in surplus (essendo richiesta per comprarne i beni). Neanche la legge della domanda e dell'offerta sanno questi pomposi, superciliosi, presuntuosi tromboni!

Ma loro scrivono sul Corsera. E noi scriviamo, fieramente e ostinatamente, qui, aspettando l'inevitabile.

Perché che quella che Giavazzi oggi chiede a beneficio dell'industria tedesca sia una svalutazione competitiva i lettori del Corriere non possono saperlo.

Ma i governanti degli altri Paesi sì, soprattutto di quelli più grossi di noi e della Germania!

Si rafforza quindi la principale conclusione politica: dissociarsi rapidamente e recisamente dai responsabili degli squilibri macroeconomici globali, andare a trattare bilateralmente con gli Stati Uniti, e soprattutto: non leggere il Corsera!

Tanto vi dovevo sulla terza piroetta del derviscio rotante dell'economia comme il faut.

Gli insulti metteteli voi, ma non nei commenti, per cortesia.

Buonanotte!

(...ah, naturalmente la chiave della soluzione sta nel componimento degli squilibri interni all'Eurozona, e questo, volendo escludere l'opzione per il momento improponibile di una uscita dall'euro, si può realizzare solo come dicevamo noi nel 2014 e come sicuramente dirà lui nel 2026: gli auguro di arrivarci non fosse che per leggerlo! Ma ve ne parlerò commentando la mozione congressuale che ho contribuito a scrivere con Riccardo Molinari...)

La svalutazione penalizza l’export

(…è in qualche modo un QED di questo post)

La lunga sequenza di piroette (la colpa è del debito pubblico, no di quello privato; bisogna fare austerità, no bisogna fare debito…) deve aver fatto girare la testa all’ingegner Giavazzi, che oggi, su un quotidiano che noi associamo spontaneamente al concetto di lieve imprecisione, ci regala una perla da mettere al verbale di questo blog, perché occorre che una volta di più si attesti la qualità (infima) dei personaggi che, dettando la linea dei quotidiani cosiddetti autorevoli, hanno distrutto la credibilità della professione accademica e, dato non banale, delle associazioni di categoria.


Non c’è male, eh? Per forza poi personaggi come Fubini potevano dire impunemente dalle stesse colonne che la rivalutazione aveva fatto crescere il Pil del Regno Unito. Mi sembra evidente che se una svalutazione dell’euro deprime le esportazioni europee, allora una rivalutazione della sterlina promuove quelle del Regno Unito, no? La loro economia non è priva di una coerenza interna intellettualmente appagante. C’è solo il piccolo problema che non quadra con quanto accade nel mondo reale.

A queste persone qui, prive di strumenti analitici ma molto munite di petizioni di principio, non interessa argomentare. Qualcuno si ricorda lo scambio che ebbi con l’ingegnere sulle colonne del Fatto Quotidiano? L’argomento era molto simile, e comprovava che l’uomo l’economia internazionale monetaria non la sa.

Oggi il princeps bocconianorum ci spiega che per i consumatori statunitensi i beni europei costerebbero di più se l’euro costasse di meno (in dollari, cioè appunto per i consumatori statunitensi stessi). Magari qualcuno di voi ci dovrà pensare su un po’, ma credo che nessuno di voi possa sposare una tesi così bislacca!

Ma come?

Dopo anni passati ad insultare i nostri imprenditori sulla base del presupposto che essi avrebbero cercato di promuovere slealmente l’export con svalutazioni competitive della lira (che in realtà alla luce dei fondamentali macroeconomici erano delle fisiologiche rivalutazioni del marco), adesso scopriamo che una svalutazione competitiva dell’euro danneggerebbe l’export!? 

Allora, gentile ingegnere, gliela spiego così: una volta la valuta italiana si chiamava lira. Oggi si chiama euro. Ci siamo fino a qui? Spero di sì. Questo significa che una svalutazione dell’euro oggi per noi ha gli stessi effetti che aveva una svalutazione della lira ieri.

Mi segue?

Quante dita sono queste?

La aiuto: uno (e non è il pollice).

Adesso mi permetta di spiegarle un altro concetto di economia, quello di curva di domanda. Nello spazio prezzi/quantità questa curva ha pendenza negativa (diciamo derivata prima negativa, così lei, che è un ingegnere, capisce meglio). C’è qualcosa che mi ha tenuto nascosto o che non le è chiaro circa questa derivata prima? Abbiamo forse scoperto in Bocconi nell’ultima settimana che le curve di domanda hanno pendenza positiva!? Aspetti, le dico una cosa da economista che magari le serve per non aggravare la sua posizione: noi economisti sappiamo che esistono anche dei beni la cui curva di domanda ha un’inclinazione positiva, cioè che vengono acquistati in maggiori quantità se il loro prezzo cresce. Sono i beni di Giffen e costituiscono un’eccezione nel vasto panorama degli scambi economici. La regola è che se una cosa costa di più se ne acquista di meno. Di converso, se una cosa costa di meno, se ne acquista di più.

Il prezzo della valuta europea in dollari è una componente del prezzo totale in dollari dei beni europei per un consumatore americano. Se il primo prezzo (quello della valuta europea in dollari, il tasso di cambio euro/dollaro) scende, anche il secondo prezzo (il prezzo totale in dollari dei beni europei) scenderà, e quindi il consumatore americano acquisterà di più, e quindi l’Europa esporterà di più. 

Non c’è altro da aggiungere se non una cosa: si faccia un favore e lo faccia a quelli che la ricordano in modo diverso da così (perché io la ricordo così)! Si ritiri, non si esponga più per fare da megafono al tizio che in Senato balbettava. Lei una reputazione, a mio avviso immeritata, ce l’ha. Se la tenga stretta tenendo cucita la bocca nel momento in cui il mondo che lei ha contribuito a costruire con le sue analisi tendenziose sta crollando. Lei è quello che nei tardi anni ‘80 ci spiegava l’opportunità fornita dal legarsi le mani con le regole europee, dall’agganciarci alle politiche della BCE. Come si sente oggi che perfino il PD ammette le gravi conseguenze deflazionistiche di quella decisione, il suo impatto devastante sui salari degli italiani, oggi che quel futuro “giapponese” che Krugman prevedeva per noi è diventato il nostro presente, oggi che le regole europee vengono tranquillamente violate da chi ce l’aveva imposte, cioè da quelli in nome e per conto dei quali lei produceva questi meravigliosi “pezzi di ricerca“?

Non c’è praticamente nulla di quello che le ha assicurato la sua reputazione che abbia retto alla prova del tempo, e quindi, ripeto, si faccia un favore, ne prenda atto.Lo dico contro il mio interesse, perché è naturalmente mio interesse far vedere la qualità pessima delle analisi che nel corso degli anni ci sono state opposte. Ma io, che non ho sulla coscienza il sangue delle tante vittime dell’austerità, so restare umano. Il rispetto per le persone anziane è uno dei pilastri della civiltà, di quella civiltà che una certa economia tanto ha fatto per estirpare, per fortuna senza riuscirci.

E quindi con rispetto le dico: la storia l’ha sconfitta.

Sappia perdere con dignità!


Post scriptum delle 13:07

Sommersi da pernacchie, e consapevoli della necessità di preservare un minimo di credibilità, al Corsera nella versione on online hanno rettificato l’errore, specificando anche l’orario in cui lo hanno fatto, seguendo in questo la prassi delle testate internazionali:



Mi limito ad osservare che la consapevolezza analitica del fatto che il dazio è uno dei tanti strumenti a disposizione per rettificare uno squilibrio commerciale noi l’avevamo già a gennaio, e che per il resto l’ingegnere non si interroga minimamente sulla causa degli squilibri (cui ha contribuito anche lui con le sue deliranti incursioni nel territorio dell’economia) e fornisce un quadro a mio avviso radicalmente contrario al vero nella valutazione relativa dell’impatto di dazi e svalutazione. Una svalutazione del dollaro sarebbe molto più penalizzante per noi, perché la corrispondente rivalutazione dell’euro ci toglierebbe anche il turismo degli Stati Uniti, compromettendo quindi non solo la nostra esportazione di beni ma anche quella di servizi.

Ah, aggiungo un dettaglio: la correzione mi pare sia avvenuta dopo questo simpatico siparietto. Ai Soloni dell’economia può capitare di finire sotto a un giornalista che ha partecipato ai convegni giusti…

sabato 29 marzo 2025

La coalizione dei volenterosi

Quello europeo è innanzitutto un progetto di propaganda ben strutturato, sorretto da un lessico peculiare, che spicca per essenzialità: poche parole a sostegno di poche idee che grazie all’incisività del lessico non appaiono molto confuse, come poi si rivelano essere alla prova dei fatti. Questa economia di concetti è ovviamente funzionale alla loro rapida e sincronica diffusione. Ogni tanto saltano fuori dal nulla parole desuete, o comunque in qualche modo decontestualizzate, e si impongono rapidamente, diventando onnipresenti: un buon esempio è la parola “resilienza”, ma ne abbiamo viste tante altre (pensiamo ad esempio all’aggettivo “giusta”, utilizzato prima per la transizione e poi per la pace).

L’ultimo arrivato in questa nidiata di stronzate luoghi comuni è il concetto di “coalizione dei volenterosi”. Va innanzitutto, detto che la traduzione non aiuta. Il fatto che le regole (e, aggiungo io, non solo quelle) siano scritte in inglese, ma pensate in tedesco, prima di essere tradotte in italiano, determina degli infelici slittamenti del campo semantico. In inglese è willing chi è intenzionato, disposto, a fare qualcosa chi cioè vuole farla, nel senso di fare quella precisa cosa. Provate a tradurre “I’m willing to cook dinner tonight” con “sono volenteroso di cucinare la cena stasera”! Chiaro il concetto, no? In italiano, viceversa, a testimonianza forse di una saggezza più antica, il concetto di “volenteroso” rinvia naturalmente a quel particolare tipo di fallimento che arriva spedito su una strada lastricata di buone intenzioni. Non a caso il nostro megafono piddino preferito, la Three dogs, come esempio dell’uso di questo aggettivo ci propone: “un allievo non molto intelligente, ma volenteroso“. Che è esattamente come sembrano gli attuali commissari influencer europei. “Volenteroso”, insomma, in italiano, che lo si voglia o no, è comunque, un cugino non troppo distante di “velleitario”, nel senso che anche quando non prelude a un fallimento, non esprime una volontà, un impegno, una disposizione precisa, ma una generica predisposizione al fare. Qualcuno direbbe: un “do something”! Sempre dalla Three dogs: “La nuova impiegata è solerte e volenterosa”. Bene! Ci fa piacere! Ma i risultati?…

Tenete a mente questo esempio, perché non è banale, tutt’altro! Il vero motivo per il quale non sarà mai possibile attivare un reale processo democratico nell’Unione Europea e che questa è un progetto pensato negli Stati Uniti e scritto in inglese, e dei suoi potenziali cittadini solo una stretta minoranza pensa in inglese. La democrazia “europea” cadrebbe rapidamente vittima dei false friends, di cui la coalizione dei “volenterosi” (che sarebbero in realtà gli “intenzionati”, cioè i  malintenzionati), è un preclaro esempio.

Comunque, al netto di queste non sottigliezze ma fondamentali questioni semantiche, tutti si rendono conto del fatto che l’esistenza stessa di una coalizione dei volenterosi decreta la fine dell’Unione Europea, ma credo che pochi sappiano, anche fra voi, e nonostante io ve lo abbia già detto, che questo simpatico termine è stato inserito nel circuito della propaganda europea dall’organo principe della propaganda europea in un lavoro che teorizza la fine dell’Unione Europea!

Vale quindi la pena di ribadirlo.

A quanto mi consta, ma potrei sbagliare, una delle prime occorrenze del termine “coalition of willings” si rinviene in “Europe’s challenge and opportunity: building coalitions of the willing” pubblicato il 14 febbraio scorso su Vox da due vecchi amici del blog: Olivier e Jean (e il giorno prima su Bruegel e PIIE).

La nostra valutazione di simili coalizioni è piuttosto semplice: se in una unione a 27 per risolvere i problemi bisogna ritrovarsi in cinque, vuol dire che l’unione a 27 è inutile (me lo avete sentito dire fin dall’inizio). Questo però è un ragionamento di tipo induttivo: parte dall’esperienza concreta e ne trae una inferenza. La cosa interessante del lavoro dell’autorevole coppia invece il suo procedimento deduttivo: anziché desumere il fallimento del progetto dall’evidenza concreta, chiarisce per quali motivi il progetto non può non fallire, e questi motivi sono tanto incontestabili quanto sorprendenti se confrontati con la retorica dei cosiddetti Stati Uniti d’Europa (sui quali pesa il verdetto del compagno Lenin, che non necessita di essere contestualizzato, essendo tuttora attualissimo, a differenza dei deliri di alcune persone probabilmente sottoposte ad una dieta povera di calorie).

Partendo, come usa fare di questi tempi per rafforzare argomenti farlocchi, dal presupposto che vi sia una minaccia esterna (che per l’autorevole coppia è costituita da Trump, non da Putin), i nostri cari amici ci dicono che l’Unione Europea non può però contrastarla per due motivi: è troppo piccola ed è troppo divisa. Al problema delle dimensioni si può ovviare, paradossalmente, creando delle alleanze a geometria variabile che però coinvolgano anche Stati non membri: gli ipotetici allargamenti previsti, che si tradurrebbero nel caricarsi a bordo una manica di derelitti, non risolverebbero il problema, così come non lo risolverebbe l’unione politica, perché il tutto sarebbe pur sempre la somma delle parti. Naturalmente con la stessa metodologia si risolve anche il problema delle divisioni: basta partire da un nucleo di Stati che abbiano idee sufficientemente omogenee su un determinato problema. Questo ragionamento, che vi invito a leggere sulla fonte originale, sancisce al tempo stesso il fallimento di un processo di integrazione totalitario, tutto incentrato sul feticcio del cosiddetto acquis communautaire, un dato a noi sufficientemente chiaro da tempo grazie alle analisi di Giandomenico Maione:


e, paradossalmente, la lungimiranza e il potenziale successo (nonostante gli attuali fallimenti, derivanti dal carattere estemporaneo delle iniziative e dalla loro volontà di convivere con un quadro istituzionale profondamente sbagliato, come quello unione) di quella ristrutturazione dell’integrazione europea in un sistema di giurisdizioni funzionali sovrapposte di cui parlava Bruno Frey e che qui conoscete da tempo.

Questo giusto per sottolineare una cosa: quello che gli abbietti operatori informativi hanno da sempre banalizzato come un lavoro puramente “ventrale“ di contestazione velleitaria, pregiudiziale, demagogica dell’ordine naturale delle cose, in realtà è stato qualcosa di totalmente diverso: un lavoro di analisi e di proposta su cui, alla fine, anche chi ha strenuamente difeso l’indifendibile è costretto a convergere.

DVCVNT VOLENTES FATA NOLENTES TRAHVNT.

Questo non ve lo dice LVI, ma io, quindi succede e, appunto, la “coalizione dei volenterosi” è uno dei tanti casi in cui è successo! Rilassatevi quindi: la fine dell’incubo è ormai apertamente teorizzata. Questo naturalmente prelude a incubi peggiori, se non si intercetta correttamente e non si gestisce il momento “rivoluzionario”. Per questo contiamo sulla vostra attenzione e sul vostro sostegno.

venerdì 28 marzo 2025

Il paradosso del dazio

Mentre affrontavo le consuete polemiche quotidiane sui "dazi di Trump" col mellifluo Richetti e col decisivo Giarrusso mi è venuta una sorta di illuminazione: strano che quella svalutazione della valuta nazionale che tutti deprecavano quando era in realtà rivalutazione di una valuta estera si sia tramutata in una pratica tollerata, o addirittura apprezzata, quando è diventata effettivamente una svalutazione della valuta nazionale!

Credo che abbiate capito, ma esplicito.

Quelli che accusavano con palese disprezzo la nostra classe imprenditoriale di vivacchiare a suon di "svalutazioni competitive" in un periodo in cui era il marco tedesco a rivalutarsi a causa del forte surplus della Germania, sono poi stati zitti o hanno addirittura plaudito al deprezzamento della valuta italiana, l'euro, in un contesto che era chiaramente quello di una svalutazione competitiva perché, guarda caso, l'Eurozona era in surplus (e quindi l'euro si sarebbe dovuto apprezzare).

Insomma: quando le cose andavano come dovevano, ci si lamentava. Quando hanno cominciato ad andare al contrario, ci siamo detti che stava andando tutto bene, ma qualcuno aveva avvertito che questa bonanza non poteva durare per sempre:


(era il 20 gennaio 2015: ora a Piazza Lurida per non avermi in trasmissione raccontano che non sono efficace: giudicate un po' voi: "gli Stati Uniti si adonteranno!", e si sono adontati e come!).

La solita storia: quando non entra in testa...

Agli imprenditori dico di stare molto attenti alla narrazione di chi, disprezzandoli dal profondo, li ha messi in cattive acque lusingandoli prima con la narrazione dell'euro che li avrebbe protetti, poi con quella delle virtù salvifiche dell'austerità, e poi con quella dei benefici di politiche commerciali scorrette e provocatorie nei riguardi degli Usa (l'esempio di questo video). Suggerirei invece il metodo di farsi dire delle verità, ancorché amare, da chi le sa (noi), e di tenerne il debito conto. Chi lo ha fatto, finora, non si è trovato male.

Quale sia la strada da seguire i più illuminati lo sanno, ed è ovviamente quella di sciogliersi dall'asse Roma-Berlino-Turku e andare a trattare bilateralmente con gli Usa, partendo dal presupposto che il metodo secondo cui per fare il bene del tutto bisogna fare il male delle parti non ha funzionato (e quindi ora basta: facciamo il bene nostro, sarà un bene anche per l'Europa, e se non lo fosse per l'Unione Europea: meglio)!

(...a proposito: ma Passera che fine ha fatto? Non lo incontro mai! Sta bene?...)

(...fisicamente, intendo: quando c'è la salute c'è tutto!...)

giovedì 27 marzo 2025

La Croazia due anni dopo

Ce l'avete Instagram?

E allora guardatevi questo reel


Oibò! Che starà mai succedendo? Quale inaudita e inattesa vicissitudine porta i croati, un tempo fornitori di servizi di turismo a buon mercato, ad accaparrarsi merci a buon mercato nel capoluogo italiano?

Ripartiamo da quello che ci eravamo detti due anni fa: la variabile da tenere d'occhio era il tasso di inflazione:


Il motivo credo lo sappiate: un tasso di inflazione superiore alla media dei partner commerciali determina un incremento del tasso di cambio reale (cioè del prezzo dei beni nazionali rispetto a quelli esteri, cioè una diminuzione di competitività), e quindi un aumento delle importazioni di merci, e conseguentemente (non spiaccia a Barisoni) di quelle di capitali. Si vive così al disopra dei propri mezzi, cosa che accade non quando si fa debito pubblico, ma debito privato, e ci si avvita nel ciclo di Frenkel (che descrivemmo qui in modo scherzoso come Romanzo di centro e di periferia, e qui in modo un po' più tecnico), fino all'inevitabile botto finale.

La moneta unica che cosa c'entra in questo deterioramento della competitività? C'entra attraverso i noti canali: se è troppo forte per l'economia che la adotta, incentiva i consumi (in particolare quelli di prodotti esteri) e quindi gli afflussi di capitale estero che alimentano la bolla del credito al consumo e quella immobiliare, favorite anche dal fatto che moneta forte implica che il tasso di interesse sia più basso del suo ipotetico valore di equilibrio, il che costituisce un ulteriore incentivo all'indebitamento di imprese e soprattutto famiglie. Che cosa potrà mai andare storto alla fine di questa storia risaputa?

Lo sapete (anzi: lo risapete)!

In effetti, non si può dire che le autorità croate siano riuscite a tenere l'inflazione sotto controllo. Se ricostruiamo i tassi di inflazione tendenziale mensile (mese su stesso mese dell'anno precedente) usando l'HICP (Harmonised Index of Consumer Prices) fornito da Eurostat, otteniamo questo:


e indubbiamente mentre l'Italia è riuscita a contenere il proprio picco inflattivo, tornando abbastanza rapidamente sotto la media europea, lo stesso non può dirsi della Croazia. Se usiamo i dati annuali del WEO (il solito database) vediamo questa situazione:


Nel biennio 2023-2024 (cioè nei suoi due anni di permanenza nell'euro, cioè da quando ne abbiamo parlato l'ultima volta) la Croazia ha cumulato 5,2 punti di differenziale di inflazione nei riguardi dell'Italia (cioè: in media oggi i beni croati costano un po' più del 5% in più rispetto a quelli italiani...), che con i dati Eurostat (più aggiornati) diventano 5,4 punti.

Dato che buona parte del commercio della Croazia avviene verso l'Italia (siamo il secondo partner commerciale a poca distanza dalla Germania, lo potete verificare qui), possiamo supporre che questo differenziale si sia tradotto in un apprezzamento del tasso di cambio della Croazia intorno a quell'ordine di grandezza. In effetti, guardando i dati Eurostat sul monitoraggio degli squilibri macroeconomici


vediamo che per quanto riguarda il tasso di cambio reale l'apprezzamento sugli ultimi tre anni è stato pari al 5,4% (6% nell'ultimo biennio). Siamo lì. In Italia i numeri sono rispettivamente 0,7% (nel triennio) e 2,2% (nel triennio), a indicare una perdita di competitività di prezzo molto più lieve.

Un pezzo di questa persistenza dell'inflazione è senz'altro attribuibile a una caratteristica strutturale della Croazia, quella di avere una bilancia dei pagamenti vicina all'equilibrio come risultante di due forze (vi ripropongo il grafico di due anni fa):


forti esportazioni di servizi (turismo), controbilanciate da forti importazioni di merci. Le forti importazioni di merci determinano una forte importazione di inflazione in un contesto di shock internazionale di offerta, ma naturalmente oltre a questo c'è dell'altro, ed è quello che ci aspettiamo ci sia. Ma prima di dirvelo, vi rimetto qui la teoria del ciclo di Frenkel, altrimenti quando in Croazia i giornali intitoleranno "požuri se!" il forestiero verrà qui a dire che ho solo avuto fortuna e che l'economia non è una scienza. La teoria, esposta qui, ci dice questo:


I primi due punti sono assorbiti dalla appartenenza all'Unione Economica e Monetaria. Circa il terzo punto, la diminuzione dei tassi di interesse c'è stata (in effetti, dal 2018 la Croazia ha tassi di interesse più bassi dell'Italia), l'aumento dei prezzi l'abbiamo visto nel grafico, l'aumento del tasso di crescita c'è stato:

(dati qui), anche se, naturalmente, trattandosi di un Paese che parte da un livello di reddito pro-capite inferiore al nostro questo scarto è veramente difficile da distinguere da quello determinato dal fisiologico processo di catch-up (di cui abbiamo parlato qui), e l'aumento dell'occupazione pure (la disoccupazione è scesa dal 6,8% del 2022 al 5% del 2024, un minimo storico, dati qui).

Tutto questo però non dà sufficienti segnali di allarme, a mio avviso. I dati più significativi sono quelli riferiti alla fase 4, e lì in effetti qualche problema si riscontra. Ad esempio questo:


cioè il tasso di crescita del credito erogato alle famiglie, che sta crescendo molto rapidamente verso la soglia di attenzione del 14% (qui ho considerato i cinque Paesi più vicini alla soglia nel 2023: solo la Bulgaria è oltre la soglia, ma solo la Croazia è in crescita così rapida), ma anche un indicatore che possiamo immaginare collegato al credito, e indicativo di potenziali bolle, cioè questo:


il tasso di crescita dei prezzi degli immobili. La Croazia sta messa bene anche sul flusso di credito alle imprese, ma va detto che il rapporto debito delle imprese/Pil è basso e in lieve calo, come pure che il saldo delle partite correnti sta tenendo, nonostante l'apprezzamento del cambio reale:


C'è la solita fragilità strutturale (il turismo che compensa un saldo merci in sprofondo rosso), ma il saldo complessivo (barre) resta in equilibrio.

Resta da capire come andrà avanti questa cosa:

perché se la spezzata grigia dovesse cominciare a scendere, si tirerebbe giù le barre blu, e allora si arriverebbe al punto 4.b dello schema qua sopra.

Non ci siamo ancora, naturalmente, e non è detto che ci si arrivi. Il primo ciclo di Frenkel dei Paesi periferici dell'Eurozona si avviò quando la sorveglianza macroeconomica praticamente guardava solo il rapporto deficit pubblico/Pil. Ora tutti possono guardare gli indicatori che nel 2010-2011 guardavamo solo noi, e a nessuno va di fare la fine della Grecia. Quindi può benissimo darsi che una saggia classe politica croata decida di anticipare un po' di medicina amara, tirando i remi in barca prima di andare a sbattere, aiutata in questo dalla prudente supervisione europea. Può benissimo darsi, giusto?

Ci rivediamo fra un paio d'anni...

To defend or not to defend?

Dubbio amletico che mi viene mentre mi accingo a muovermi dall'eremo di San Maclovio (per gli amici, Macuto) in direzione di Montecitorio, dove audiremo Piotr Serafin (tanto nomini nullum par elogium).

Inzomma, parrebbe che l'UE (da pronunciare rigorosamente alla napoletana: ué!) ci consenta di fare debito, non si è capito ancora se comune o individuale (la seconda che hai detto) per riarmarci perché ce sta 'na minaccia teribbile signora mia e anche perché va rianimata l'industria manifatturiera. Peccato però che la stessa UE ci abbia impedito di indebitarci per scuole, ospedali, strade, ricerca, ecc.

Ora, il problema è che le cose stanno così:


(secondo Local fiscal multipliers of different government spending categories; una rassegna più ampia della letteratura è qui).

La domanda quindi sorge spontanea: come mai non ci avete fatto fare spesa ad alto moltiplicatore, cioè produttiva di reddito e gettito fiscale, e ci fate fare spesa a basso moltiplicatore?

Posto però che il tale capisca la domanda, suppongo che io non capirò la risposta.


...Così, tra questa

inanità s'annega il pensier mio...


martedì 25 marzo 2025

I manipolatori: venticinque anni di storia del salario reale

Partiamo dalla fonte dei dati, così potete rifarvi voi i conti se non credete ai vostri occhi.

Ho utilizzato una fonte particolarmente autorevole: l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, che è l'unica a fornire un database omogeneo sui salari reali. Lo trovate in appendice al Global Wage Report 2024, è un foglio Excel accessibile cliccando qui:

che riporta i tassi di crescita dei salari nominali e reali.

Ricostruire dai tassi di crescita i numeri indice, onde ottenere un grafico come quello ammannitoci oggi dalla fabbrica seriale di lievi imprecisioni:


è presto fatto: semplicemente si pone pari a 100 un certo anno, e da lì in avanti si ricostruisce la serie usando appunto il tasso di crescita, semplicemente così:

(qui vedete come in K18 ho costruito il dato coreano per il 2009).

Applicando questa semplice formula, in effetti, otteniamo esattamente il grafico riportato sopra:


Quindi i dati sono quelli, quella è la fonte, quello è il metodo di calcolo, e quello è il risultato.

Un risultato travisato, però, anche se del travisamento, mi occorre dirlo, non è responsabile il Corriere della Sera (che pure spesso ha volutamente travisato, come sapete: ma scordiamoci il passato). Il travisamento, più o meno volontario, è nella fonte secondaria, correttamente citata dal Corriere: la nota di diffusione relativa all'Italia tratta dal rapporto globale dell'ILO. In che cosa consiste questo travisamento? Come spesso accade, nella scelta dell'anno di riferimento. Non si capisce infatti che particolare senso abbia considerare "lungo periodo" quello che comincia dal 2008, o, se volete, quale strana cabala costringa a considerare un lasso di tempo di 17 anni, quando la fonte primaria ne riporta 25 (i venticinque anni dal 2000 al 2024). Certo, nessuno nega le virtù del 17, il terzo numero primo di Fermat (e anche il tre ha un suo perché), un numero omirp, che nella Smorfia rappresenta 'a disgrazzia, e infatti andando indietro di 17 anni da oggi troviamo il 2008, anno di una discreta disgrazia finanziaria globale.

Qualcuno potrebbe dire: beh, proprio perché è l'anno della crisi, ha senso prendere il 2008 come punto di partenza dell'analisi, che così ci informa su che cosa è successo nel "dopo crisi". Ora, a parte che per noi il post-crisi "ancora arriva" (come dicono a Pescara per dire: "non è ancora arrivato"), si capisce bene che se per esaminare un fenomeno parti da un riferimento perturbato l'analisi non sarà tanto chiara! Non credo che per misurare la profondità di un fondale si scelga una giornata di mare forza sette, non per altro, ma perché per capire quale questa profondità effettivamente sia dovresti fare parecchie misurazioni e prendere la media!

Ma qui la questione, come sapete (dispero, ma mi illudo), è più sottile e più grave!

Partendo dal 2008 in effetti non si vede qual è stata la causa della crisi salariale europea, e si fornisce anche una visuale un po' distorta dei risultati complessivi dell'ingresso nell'Unione Monetaria.

Perché?

Per farvelo capire, rifaccio lo stesso grafico partendo dal 2003:


Stessa fonte, stesso metodo, ma aspetto un po' diverso, non trovate? Dal 2003 al 2009 infatti questo grafico mostra un fenomeno molto evidente: la decrescita del salario reale tedesco in totale controtendenza rispetto a quelli di tutti gli altri Paesi (membri o meno dell'Eurozona). Non dovrebbe essere una assoluta novità! Nonostante qualche povero scemo individuo diversamente perspicace all'epoca me la contestasse, quella che le aziende tedesche avessero ridotto i salari era una verità declamata anche dai titoli del Corsera. Guardate ad esempio che cosa scriveva il 4 dicembre del 2011:


Una sintesi giornalistica per una volta assolutamente corretta, dato che il testo dell'intervista recita:


La ricetta tedesca era questo: praticare una politica beggar-thy-neighbour di svalutazione interna, mantenendo la crescita del salari al di sotto di quella della produttività per far diminuire il costo del lavoro per unità di prodotto (la spiegazione dettagliata ve la diedi nel post su Lampredotto), di fatto facendo diminuire i salari reali, allo scopo di sfruttare la domanda degli altri Paesi membri, esportando loro automobili, sommergibili, ecc.

Nel 2011 per l'Italia quella di "fare come i tedeschi nel 2003", come chiedeva Berger, era diventata una necessità.

Perché?

Perché i tedeschi, facendo come i tedeschi (cioè fottendo i vicini) dal 2003 in poi avevano provocato un massiccio squilibrio dei saldi di bilancia dei pagamenti, come vi ho mostrato a Roma:


Nel periodo fra le due linee verticali la Germania aveva accumulato crediti verso il resto dell'Eurozona, esportando verso gli altri Paesi membri i capitali che questi usavano per finanziare l'acquisto di beni tedeschi. All'arrivo della crisi, questo simpatico carosello dovette bruscamente arrestarsi: le banche tedesche dovettero smettere di rifinanziare le posizioni debitorie del Sud e rientrarono bruscamente, imponendo ai Paesi periferici la cura da cavallo. Lì si comincia a vedere il tracollo del salari italiani, et pour cause: stavamo facendo come la Germania, perché eravamo costretti a farlo, in risposta all'aggressione tedesca!

Ora, se la storia la racconti tutta, non solo capisci che l'ampiezza della crisi ha un responsabile, il tumore tedesco che si nutre a spese dei tessuti sani circostanti, ma capisci anche che il destino del tumore è quello di morire col corpo che uccide. Insomma: il famoso concetto del "segare il ramo su cui si è seduti", qui ripetuto ad nauseam. In effetti, mentre facendo base 2008 pare che la Germania abbia ottenuto il secondo miglior risultato in termini di crescita dei salari, facendo base 2003, cioè partendo a bocce ferme, prima dell'aggressione tedesca, prima della svalutazione competitiva dei salari tedeschi, si vede che nel 2024 la Germania non è in seconda, ma in quinta posizione, ampiamente giù dal podio, mentre i primi quattro Paesi per crescita dei salari sono, guarda un po', tutti esterni all'Eurozona: Corea (del Sud), Canada, Australia e Stati Uniti. Paesi che non hanno avuto bisogno di reprimere i propri salari per rispondere allo shock della crisi, perché dotati della propria valuta. 

Non sto a spiegarvi perché al Corriere (ma anche all'ILO, ma anche al Quirinale) preferiscono che non vediate le cose sotto questo profilo...

Voi a questo punto mi direte: "D'accordo, ma anche tu, scegliendo il 2003, fai una scelta arbitraria e che sai che giocherà a tuo vantaggio, perché non ti sei dimenticato di che cosa scriveva il Corriere nel 2011, quando confessava che il successo tedesco era dovuto al taglio dei salari dal 2003!"

Va bene! Accetto la critica. Allora facciamo così: utilizziamo tutti i dati disponibili, partiamo dal 2000. Il risultato è questo:


e, come vedete, non cambia. Si vede sempre la brutale aggressione tedesca dal 2003 (prima non c'è nulla di simile) e la Germania arriva sempre quinta (e non seconda) a fine periodo. Il suo reculer pour mieux inculer sauter viene comunque scontato dai dati.

Notate bene: anticipando dal 2008 al 2003 il quadro cambia completamente, mentre anticipando dal 2003 al 2000 resta lo stesso. Questo testimonia il fatto che  prendere come base un anno di grande turbolenza non ha molto senso, non fornisce un quadro attendibile e stabile. Le conclusioni che si ottengono con una simile analisi non sono robuste rispetto a una variazione del punto di riferimento.

Dovrebbe quindi essere chiaro che quando coso, come se chiama, quello, LVI, dice "credevamo, non sapevamo, pensavamo di dover competere...", dice fregnacce! Quella di competere sui salari non era un'idea estemporanea, un vezzo, una moda, un'ipotesi, un esperimento, ma una necessità i cui motivi erano stati spiattellati dal Corriere ed erano noti a tutti: perché la Germania ci aveva aggredito con una svalutazione competitiva del salario, attuando una svalutazione competitiva interna cui non potevamo che rispondere con una pari svalutazione interna, essenro precluso l'ammortizzatore del tasso di cambio (se ci fosse stato il marco, si sarebbe rivalutato già nel 2004). Lui questo lo sapeva allora come lo sa ora, anche se per ora non lo dice. La crisi salariale ha due presupposti: uno tecnico, l'integrazione monetaria, come ben sapevano i comunisti; uno politico, il PD, cioè il macellaio dal grembiule rosso chiamato a fare macelleria sociale fra il plauso delle vittime, tutte contente di essersi liberate di un uomo che invidiavano: Berlusconi.

That's it! Non c'è altro da aggiungere. Eppure molti di voi questa storia non l'hanno capita nella sua limpida efferatezza e nel suo inevitabile epilogo, che è ancora di là da venire, ma che è chiaramente iscritto nella traiettoria che vi ho descritto.

Come dice lui: "Don't look at me, look at the road! That's how accidents happen!"

Io la road meglio di così non so mostrarvela.

Credo sia inevitabile che qualche accident possa happen.

Salutateme a Fukuyama!...

domenica 23 marzo 2025

I dazi di Draghi

C'è una cosa che mi fa sinceramente impazzire, che mi "manda ai matti", come si dice qui da dove vi scrivo, nella storia dei "dazi di Trump" che tante querimonie suscita a sinistra. Una cosa di così solare evidenza che molti, evidentemente, non la vedono. Vi aiuto a metterla a fuoco con un semplice disegnino che in linea di principio non dovrebbe aggiungere molto alle vostre conoscenze:


Qui avete il saldo della bilancia dei pagamenti dell'Unione Europea a 27 verso il resto del mondo (barre, scala di sinistra, dati annuali) e il cambio euro/dollaro (spezzata, scala di destra, dati medi annuali).

Dal 2008 al 2024 il saldo della bilancia del pagamenti aumenta di 649.8 miliardi di euro. Di converso, il tasso di cambio scende da 1,47 a 1,08 (svalutazione del 26,4%, che vista dagli Stati Uniti è una rivalutazione del 35,8% - se non vi è chiaro chiedete e vi spiego).

Che cosa non funziona in questo grafico?

Semplicemente il fatto che, per come avvengono gli scambi internazionali, acquisti (netti) di beni europei implicano acquisti (netti) di valuta europea. Un forte surplus estero implica cioè una forte domanda di euro per comprare beni prodotti nell'Eurozona. Logica vorrebbe quindi che, per la legge della domanda e dell'offerta, il cambio dell'euro si rivalutasse, cioè che un euro comprasse più, non meno dollari (e di converso un dollaro comprasse meno, non più euro). Insomma: in un mondo normale le due variabili si dovrebbero muovere insieme (vai in surplus, il cambio sale, vai in deficit, il cambio scende).

Il grafico mostra invece che mentre nel 2008 con un euro compravi quasi un dollaro e mezzo, oggi compri poco più di un dollaro, cioè che l'euro si è svalutato. Il contrario di quello che dovrebbe accadere: una correlazione negativa e piuttosto forte: - 0,7. Ne consegue aritmeticamente che mentre nel 2008 con un dollaro compravi 0,67 euro, oggi compri 0,92 euro, cioè che il dollaro si è rivalutato.

Questo significa, ad esempio, che oggi noi  a noi l'energia costa il 26,4% di euro in più di quanto ci costerebbe se non avessimo svalutato. Certo, sappiamo bene che il problema sono le oscillazioni selvagge del prezzo in dollari sui mercati internazionali, da cui l'euro non può proteggerci: resta il fatto che poi alla fine a noi per comprare l'energia occorre prima comprare dollari, e quindi se oggi l'euro fosse forte come nel 2008 pagheremmo l'energia molto di meno.

Di converso, la stessa cosa significa che agli Usa oggi i nostri beni costano molto meno, perché mentre nel 2008 con un dollaro si compravano solo 67 centesimi, oggi si compra quasi un euro (0,92 centesimi), e quindi a parità di prezzo in euro il prezzo in dollari dei beni europei è sceso (per comprare lo stesso euro ci vogliono meno dollari).

Visto dall'altra parte, naturalmente, questo significa che, a parità di prezzo in dollari, il prezzo in euro dei beni americani è salito, cioè che la svalutazione dell'euro ha nei fatti messo un dazio a tutti i beni prezzati in dollari: non solo le fonti di energia, come abbiamo detto, ma anche tutti i beni e servizi esportati dagli Stati Uniti.

Qual è il punto? Il punto è che l'euro si è svalutato, invece di rivalutarsi, proprio mentre esplodeva il surplus estero dell'Eurozona. Questa cosa ha due sole spiegazioni possibili, tra l'altro compatibili:

  1. o l'esplosione del surplus estero europeo è dovuta alla svalutazione dell'euro (che quindi si qualificherebbe come una svalutazione competitiva piuttosto aggressiva)
  2. oppure la non rivalutazione dell'euro in presenza di una esplosione del surplus dovuta ad altre cause (ad esempio, alla svalutazione del salari europei, candidamente confessata da Draghi al Senato) evidenzia una manipolazione della valuta da parte della Bce.

Insomma, i casi sono due:

  1. o la Bce ha manovrato il cambio per dare alle aziende europee un ingiustificato vantaggio competitivo;
  2. o la Bce ha manipolato il cambio per impedirgli di riflettere le forze di mercato (mantenendo alle aziende europee un vantaggio competitivo raggiunto in altro modo).

Non c'è nulla di scandaloso quindi nelle parole pronunciate da Trump il 27 febbraio scorso:

che, come vedete, non solo riflettono la logica economica (l'Unione Europea è una manipolatrice del mercato valutario), ma sono perfettamente compatibili con gli ordini di grandezza riflessi dai dati (tu mi fotti svalutando del 26% quando invece dovresti rivalutare? E io ti metto un dazio del 25%: uno pari e palla al centro!).

Scandalizzarsi di una misura simile, insomma, significa non sapere nulla di economia o non conoscere i dati (o entrambe le cose, cioè essere un operatore informativo).

Peraltro, e concludo, che la Bce fosse una manipolatrice del mercato valutario, o meglio che gli Stati Uniti la considerassero tale, per noi non è una assoluta novità. La schiuma di Twitter non consente di tenerne memoria, ma il blog, che è più notarile, ha messo più volte questa verità agli atti: tutta la storia ve l'avevo fatta qui nel 2019, e se andiamo a controllare che cosa è cambiato nel frattempo, anche l'ultima edizione del rapporto sulle politiche macroeconomiche e valutarie dei principali partner commerciali degli Stati Uniti accende un faro sulla nostra zona (pur non accusandoci più esplicitamente, come era fino a pochi anni fa, di manipolazione di valuta):


Il deficit degli Usa verso l'Eurozona è comunque il terzo per ordine di grandezza, e se per parlare in senso stretto di manipolazione occorre che nel periodo di riferimento siano state fatte politiche di intervento sul mercato dei cambi, che nell'ultimo anno non risultano, che questo deficit abbia risentito dell'aiutino che il Migliore ha dato alla Germania (e onestamente anche a noi) svalutando non credo sia contestabile. L'euro è decisamente e artificialmente sottovalutato. Quindi, in questo come in altri campi, prima di sbraitare contro il "cattivo" Trump, per giustificare reazioni isteriche e antieconomiche come i controdazi sul bourbon (!), sarebbe utile riflettere sulla causa degli squilibri. Io ve l'ho illustrata qui:


e "the best one" ve l'ha confermata qui:


Occorre altro?

Il problema non sono i dazi di Trump: questi sono al più una risposta ai dazi implicitamente messi da Draghi pilotando al ribasso l'euro per tenere insieme i cocci di un'Eurozona distrutta dalle sue politiche, quelle che oggi rinnega.

Questo a voi è chiaro perché lo sapete da quando abbiamo aperto il blog, ed è chiaro anche a una forza politica. Sta a tutti noi creare una più larga condivisione di questa consapevolezza, che si basa su un principio che tutti conoscono: la legge della domanda e dell'offerta!

Buona domenica!

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