mercoledì 22 gennaio 2025

La (de)globalizzazione

Scusate, un post rapidissimo, perché fra un po’ sono in onda da Borgonovo, solo per mettere in evidenza un’osservazione forse non molto originale che ho fatto in risposta a Sergio Giraldo in un post precedente. Cresce l’inquietudine per il surplus estero cinese, che comunque solo recentemente è tornato sopra a quello tedesco. A me sembra abbastanza ovvio che se un Paese viene trasformato nella fabbrica del mondo, i beni poi da quel Paese devono in qualche modo uscire! In altre parole, chi ha visto nella globalizzazione l’opportunità di sfruttare una manodopera civilizzata e a basso costo come quella cinese (specifico subito che è un “chi” collettivo, non è un complotto ma lo spirito dei tempi) ha anche voluto regalare alla Cina una posizione di esportatore netto di beni e quindi di capitali. Sotto questo profilo, il ribilanciamento del modello di sviluppo cinese dalla domanda estera a quella interna è più mitologico che logico, perché non puoi pensare che la produzione della fabbrica del mondo sia assorbita dalla domanda di un pezzo, per quanto grande, di mondo. Aggiungo che questo particolare modo di risolvere il conflitto distributivo (delocalizzare dove i lavoratori costano di meno) ha anche posto le basi per regalare a un paese che era eccezionalmente rimasto indietro (eccezionalmente in termini storici, perché, come sapete, negli ultimi due millenni, la Cina ha contato più o meno sempre per circa un terzo del Pil mondiale) l’opportunità di un rapido recupero, regalandole di fatto le nostre tecnologie, nelle quali non ha faticato a  contenderci posizione di leadership. Se è successo ci sarà un perché, probabilmente non poteva andare in modo diverso, ma non dobbiamo stupirci di quella che è una conseguenza logica del modo in cui abbiamo organizzato i nostri rapporti sociali di produzione su scala internazionale. Inutile dire che fra le tante contraddizioni della sinistra c’è quella di aver sostanzialmente avallato questo tipo di processo storico che, fra le varie esternalità negative, ha anche quella di costringere a spostare da una parte all’altra del globo, con tecnologie di trasporto piuttosto inquinanti, una quantità di beni che magari potrebbero essere prodotti in patria, ovviamente se si decidesse di non giocare la corsa al ribasso dei salari. Ma la sinistra, che si è acquistata un salvacondotto vendendo la pelle dei proletari, cioè rinunciando a difenderne il salario (ricordavamo nel post precedente la triste storia degli accordi di luglio), non si è resa conto che, così facendo (cioè avallando la globalizzazione/delocalizzazione in un afflato di cosmopolitismo borghese), poneva le basi per togliere a questi proletari anche il lavoro! L’inquinamento da mezzi di trasporto (e non parlo delle utilitarie diesel Euro 6, ma del grande traffico marittimo) è in effetti uno dei presupposti della delirante rivoluzione green in nome della quale si sta perpetrando la deindustrializzazione dei nostri Paesi. Non stupisce quindi che oggi la sinistra preferisca sorvolare su questa contraddizione fondamentale, dichiarando Musk nemico del popolo ed ergendosi a paladina di pregevoli minoranze arcobaleno (che con Musk sono tutt’altro che in contraddizione)!

La vocazione maggioritaria è solo un ricordo, come lo è la difesa del salario.

RIP.





1 commento:

  1. Buongiorno Onoré.
    La Cina, in fondo, è una Germania che ce l’ha fatta… forse(!)👋🏼

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