giovedì 11 dicembre 2025

La Cina e le leggi sul grano

Sugli operatori informativi mi sono espresso più volte. Da politico è meglio che non lo faccia, ma continuo (silenziosamente) a ritenerli gli assassini della nostra democrazia. Come si fa però a volergli male? Non passa giorno senza che ci regalino momenti di ilarità che per essere involontaria non è meno genuina. Qualche giorno poi la nota agenzia ha superato se stessa, raggiungendo un picco di analfabetismo funzionale che mai avremmo ritenuto potesse essere attinto.

Vediamo che cosa è successo. Il 7 dicembre scorso il nostro amico Emmanuel aveva minacciato la Cina di imporle dei dazi se questa non si fosse adoperata per ridurre il suo gigantesco surplus nei confronti dell'Eurozona. Lo ha fatto in un'intervista al Sòla francese, che si chiama Les Echos, e che trovate qui:


e il cui contenuto è difficilmente equivocabile:


L'Unione Europea ha un gigantesco deficit commerciale di oltre 300 miliardi l'anno nei riguardi della Cina e quindi Macron auspicava che la cosa si potesse sistemare con le buone maniere, o altrimenti sarebbero dazzi.

Articolo pubblicato alle 9:04, ripreso nel modo seguente alle 12:07 dai nostri agenti all'Avana (svegli!):

dove non vi sfuggiranno due assurdità. La prima, che Macron, per quanto sia uno zombie, è lucido, e quindi non ha parlato del deficit della Cina con l'Unione Europea, perché non c'è, ma dell'esatto contrario: del deficit dell'Unione Europea con la Cina o, se volete, del surplus della Cina verso l'Unione Europea.

"E vabbè, deficit, surprus, ma che tte frega? Basta che sse capimo!"

(immagino così, con quel velo di disincanto cialtrone che il romanesco inesorabilmente conferisce, il nostro aspirante Pulitzer).

Eh, no! Non basta "che sse capimo", caro operatore informativo, direi proprio che non basta, per almeno tre ordini di motivi.

Primo, perché a Montesilvano abbiamo appreso da Thomas Fazi quanti milioni ciucci ogni anno all'Unione Europea (cioè alle nostre tasche) per (dis)informarci, e quindi visto che paghiamo vorremmo un po' di qualità (pago preténdo, dicono nella culla del partito in cui mi onoro ecc.).

Secondo, perché chi si impanca a giudice del tribunale della verità poi deve dire la verità, o subire la sanzione del ridicolo.

Terzo, perché non è tollerabile che chi informa sui fatti economici sia così ignorante non dico di economia, ma di logica elementare! Scusate tanto, eh! Ma facciamo finta per un attimo che le cose stiano come dite voi, fonte autentica e incontestabile della Notizia con la "N" maiuscola, e che veramente Pechino abbia un deficit commerciale verso l'Unione Europea, cioè compri da noi più beni di quelli che noi compriamo dalla Cina. Ma scusate: avrebbe un senso chiedere a “Pechino” (e perché non a Shanghai?) di rimediare a questa situazione per noi favorevole? Ma lo connettete il cervello alle dita quando scrivete? Evidentemente no, ed è grave, ma ancora più gravi sono i motivi ideologici di questa svista, che derivano dall'aver creduto a una favoletta che da tempo vi abbiamo sentito diffondere: quella secondo cui i Paesi "virtuosi" dell'Unione Europea sarebbero in surplus con la Cina (che quindi sarebbe in deficit con loro), a differenza di noi pezzenti del Sud che saremmo in deficit con la Cina perché incapaci di sostenere le sfide della modernità e della globalizzazione. Ne deriverebbe, peraltro, che la crisi del modello tedesco non deriverebbe dalle suicide politiche di austerità che hanno distrutto il mercato interno (e quindi dalla Germania), ma dal fatto che la Cina ha preso il sopravvento: quindi "avrebbe stato" la Cina a mettere in crisi la virtuosa Germania.

Questa solenne puttanata notevole imprecisione fattuale fu oggetto, a suo tempo, di un mio commento salace all'indirizzo della seconda Reichlin (il primo è Alfredo e il terzo è lui), ma ho potuto constatare con qualche raccapriccio che nonostante che i fatti la smentiscano, la suadente favoletta ha fatto breccia anche nelle menti di chi una mente ce l'ha. E allora vediamo un attimo come stanno le cose, cominciando con l'aggiornare il grafico del 2012, cioè questo qui:


che all'epoca commentavamo così:

"Su questa parete vedete il surplus della Germania con la Cina, rappresentato dal tratto verde, che è sotto l’asse delle ascisse e quindi è un deficit, come ogni “surplus” negativo. L’autore – la Germania – ha voluto rappresentare in questo dipinto l’inanità del proprio sforzo di competere con un popolo che vanta un anticipo di tre millenni di civiltà. Questa impotenza è plasticamente rappresentata nella parte destra del dipinto, che sembra mostrare un parziale successo teutonico. La débâcle del saldo, che stava precipitando dal 2003, sembra sperimentare nel 2009 una parziale, tardiva resipiscenza: si torna su! Ma l’autore, lucido, impietoso ed implacabile, ci mostra quanto ingannevole sia questo apparente successo, a suo tempo strombazzato dai Tafazzi di tutto il mondo, e ce lo mostra nella parte superiore del grafico. L’inversione del saldo non è dovuta, oh no!, ad un’accelerazione delle esportazioni tedesche (spezzata blu) nel 2009, magari dovuta a investimenti in ricerca e sviluppo o a riforme del mercato del lavoro (tanto per ricordare i mantra tafazziani che aleggiano in altri blog). No, essa è dovuta a un crollo delle importazioni (spezzata rossa). Il critico Bodoni Tacchi (to the happy very few) ci ricorda che in quell’anno il Pil tedesco crollò del 5%. Non è strano che crollassero le importazioni, conciossiacosaché laddove te ttu meno guadagni, e tte ttu meno hai da spendere e spandere per l’universo mondo. Come non è strano che col ripristino di condizioni quasi normali la Germania abbia ricominciato a scivolare inesorabilmente verso il basso. Un senso di inesorabilità che l’autore riesce a rendere con tre soli tratti di matita, in un’opera geniale quanto profetica, nel suo anticipare lo spettacolo di Angela con la coda fra le gambe alla corte dei mandarini”.

Bene. vediamo che cosa è successo nel frattempo. Pare sia successo questo:


La Germania ha avuto un (esiguo) surplus nei riguardi della Cina in tre occasioni: nel 2014, a causa di un vistoso crollo delle importazioni, nel 2018 e nel 2019. In tutti gli altri anni il suo saldo è stato negativo. Credo quindi che nel parlare della Germania si faccia un po' di confusione fra esportazioni lorde e nette: è vero che quelle lorde (la spezzata blu) hanno cominciato a perdere catastroficamente terreno solo nel 2022; ma non è vero che quelle nette siano mai state significativamente positive. La Germania è sempre stata sostanzialmente in deficit con la Cina, e come lei le altre maggiori economie europee:


e incidentalmente faccio notare che al gioco della Cina i più bravi a giocare siamo noi, visto che tendenzialmente eravamo, e siamo tornati, quelli con il minor deficit (se escludiamo l'exploit tedesco del 2012-2019).

Ricordo che quello che conta in termini di impulso alla crescita sono le esportazioni nette, perché se le esportazioni sono domanda per i beni nazionali, le importazioni sono domanda per i beni esteri, sono cioè una dispersione dal circuito del reddito nazionale che va a creare occupazione e valore (Pil) nel resto del mondo. Diciamo che quando le è andata bene, la Germania con la Cina ha pareggiato. Certo, ridurre il contributo negativo della Cina alla crescita tedesca per la Germania è stato comunque un dato positivo, ma anche una strada che, per essere obbligata (dopo la distruzione del mercato unico a botte di austerità) non si è rivelata meno impervia (altrimenti avremmo visto dei sirplus significativi). Questo pro veritate, e così ci siamo sbarazzati (vorrei sperare definitivamente) di una stucchevole favoletta.

E le leggi sul grano?

Le corn laws sono ben note agli studiosi di economia: si trattava di provvedimenti che nel 1815 misero un dazio sul grano importato in Inghilterra allo scopo di proteggere i redditi dei proprietari terrieri. Sapete anche che David Ricardo si scagliò contro di loro, perché rappresentava gli interessi della classe manifatturiera che, se fosse stato possibile importare grano estero a buon mercato, avrebbe potuto pagare di meno i lavoratori, espandendo la propria quota di profitti. Che ci crediate o meno, agli imprenditori non interessava che il povero operaio trovasse il pane a buon mercato: li interessava maggiormente poter pagare di meno il povero operaio, senza che però questo ci rimettesse le penne!

Si chiama legge bronzea dei salari.

Come sapete, alla fine vinsero gli industriali e nel 1846 i dazi vennero tolti. Non sarete stupiti nell'apprendere che siccome lo scopo del gioco non era pagare di più gli operai, ma eventualmente pagarli di meno, nessuno di questi due shock legislativi lasciò particolari tracce nella serie del salario reale. Ci aspetteremmo in teoria una diminuzione o stagnazione di quest'ultimo all'introduzione dei dazi, per effetto dell'aumento del "carrello della spesa" (costo della siasistenza), e un decollo dopo il 1846, per effetto della diminuzione del prezzo del grano e naturalmente dell'aumento della produttività (ça va sans dire). Mi sono cercato qualche studio (se ne trovate altri sono bene accetti) e pare che le cose non siano andate esattamente così.

Crafts, N. F., & Mills, T. C. (1994). Trends in real wages in Britain, 1750-1913. Explorations in Economic History, 31(2), 176-194, giungono alla conclusione che:


cioè che le cose sono andate più o meno così:


e come vedete né l'imposizione né la rimozione dei dazi sul grano marcano un cambiamento strutturale rilevante nella serie del potere d'acquisto dei lavoratori inglesi dell'epoca (60 significa 1760, 80 significa 1780, e via così). La materia è aperta al dibattito, va da sé, ma, vi chiederete voi: "E a noi che ce ne frega degli operai inglesi del XIX secolo, tanto più che stavamo parlando di Cina?"

Ma benedetti ragazzi, devo spiegarvi proprio tutto? Non stavamo parlando di Cina: stavamo parlando di dazi, dazi su prodotti a buon mercato importati.

Ci siamo? Beh, se ancora non ci siete arrivati, vi aiuta questo nostro nuovo amico Lycan:


e così vedete che non c'è nulla di nuovo sotto il Sole. La paccottiglia cinese sta al proletario terziarizzato odierno come il grano statunitense o ucraino stava al proletario del manifatturiero inglese nel XIX secolo!

Si capisce così l'attrazione fatale del progetto europeo per la Cina! La Cina non serve a esportare di più, ma a importare di più!

Chiarisco.

Un progetto intrinsecamente basato sulla deflazione salariale necessita da un lato di importare manodopera a buon mercato per contenere le pretese degli autoctoni: ve lo dice qui al minuto 24 uno che se ne intende:

ma dall'altro, una volta “disciplinati” i salari con le “risorse” o con la flessibilità, abbisogna di paccottiglia a buon mercato per evitare che la compressione salariale risulti nell'inedia (reale o figurata) dei lavoratori! Il libero scambio viene predicato in nome della sovranità del consumatore, cui si promette sussistenza a buon mercato, ma viene praticato in nome della sovranità del capitale, che aumenta i propri margini inseguendo il lavoro a buon mercato.

Qualcuno potrebbe trovare fuori luogo il riferimento alla legge bronzea dei salari, e in qualche modo potrei anche essere d’accordo. Faccio però notare un dettaglio: certo, ora un tozzo di pane ce l'hanno tutti, la sussistenza di per sé è raramente un problema, ma siccome tutti hanno anche un'istruzione (con la possibile eccezione degli utenti Twitter), controllarli è più difficile, quindi devi imporgli lo smartphone, per dirne una, e molti possono permettersi solo quello de “lu cinesə” (come lo chiama il mio amico Giustino). Con l'auto elettrica, poi, abbiamo incautamente creato un altro bisogno che solo la Cina potrà soddisfare. Il discorso potrebbe essere sviluppato ulteriormente, e mi affido alla vostra fertile fantasia, limitandomi ad un'osservazione: capite perché un Paese che, come la Germania, affida il suo successo di esportatore alla deflazione salariale, non può non essere un importatore netto da un Paese come la Cina, dove la forza lavoro è ancora a buon mercato?

Il reale, a differenza degli operatori informativi, è razionale!

Sarebbe naturalmente meglio adottare un modello di crescita wage-led, affidando al cambio , anziché ai salari, l'ammortizzazione degli shock macroeconomici, ma questa felice evoluzione non è dietro l'angolo, nonostante le belle parole di Trump e di Musk, che forse hanno capito che cosa vogliono dall'Europa, ma sicuramente non hanno ancora espresso chiaramente il motivo per cui non possono averlo.

Ma di questo parleremo in altra sede: intanto, godiamoci l'atmosfera piacevolmente dickensiana di questa nuova rivoluzione industriale. Un eterno ritorno dell’uguale la cui lettura è preclusa ai progressisti, cioè agli sciocchi che ideologicamente negano che nel passato possa esserci qualcosa da imparare.

E invece c’è, oh, se c’è!…

2 commenti:

  1. Illuminante. Dunque le importazioni di merci a (più) basso costo dalla Cina aiutano l'Ue a contenere la possibile reazione delle masse all'austerità. In altre parole, il deficit commerciale con la Cina è uno strumento politico di supporto alla compressione delle dinamiche salariali. È una prospettiva molto raffinata, che credo in pochi fuori da qui potranno comprendere fino in fondo. L'abbraccio Germania-Cina si arricchisce di una motivazione ulteriore, che completa il quadro in maniera oserei dire plastica. Non si tratta solo di utilizzare la Cina come fabbrica e mercato, per conquistare quote di mercato in giro per il mondo, ma anche di perpetuare il modello dell'eurozona bassi salari - economia export led - moneta unica. Limpido.

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    1. E ti rendi conto di quanto possono essere incazzati gli americani con un paese, la Germania, che con la sua domanda di paccottiglia dà ossigeno al loro principale avversario, la Cina, e lo fa esattamente allo scopo di fottere gli Stati Uniti vendendogli auto a costo relativamente basso! Ma come si può pensare che gli Stati Uniti non si incazzino (anche prescindendo dal fatto che lo stanno dicendo da 10 anni a questa parte, come qui abbiamo sempre evidenziato)?

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