Volevo condividere qui una riflessione che ho svolto molto succintamente, e forse imperfettamente, su uno di quei media locali che, come ci siamo spesso detti (sulla base di una esperienza ormai pluriennale), svettano come giganti nel panorama piuttosto degradato del nostro sistema informativo:
Mi riferisco in particolare a questo passaggio, che "sbobino" per la vostra convenienza:
"La politicizzazione della magistratura è un dato di fatto, che l'ordinamento prevede. L'organo di autogoverno della magistratura è composto anche di membri di nomina politica [i dieci membri laici, NdCN], è diviso in correnti politiche, e questo è un fatto di per sé sano, non malsano. Sarebbe un problema però se le opinioni politiche si nascondessero dietro dei fatti. Nel caso della sentenza di Palermo questo è scongiurato perché è stato affermato che 'il fatto non sussiste'...".
Vorrei chiarire meglio che cosa intendo, partendo dal solito principio che ognuno ha diritto alle proprie opinioni e nessuno ha diritto ai propri fatti (quindi, ad esempio, l'opinione che Salvini sia un puzzone non può diventare, e non è diventata, il fatto che abbia sequestrato delle persone, perché questo fatto non sussiste).
Intanto, è chiaro che negazionare la politicizzazione della magistratura, come fanno certi esponenti di sinistra, non ha alcun senso in re ipsa. Intanto, come chiarivo nell'intervista sopra riportata, l'articolo 104 della Costituzione definisce percorsi esplicitamente politici per la nomina di componenti del suo organo di autogoverno (incluso un importante membro di diritto, il Presidente della Repubblica, che è anche lui eletto dal Parlamento in seduta comune). Ricordo a me stesso che un'elezione non è una sorta di Pentecoste laica in cui i parlamentari si raccolgono, attendendo che cali su di loro la fiammella del "voto secondo coscienza". Un'elezione è il punto di arrivo e di suggello di un negoziato politico, condotto per trovare un compromesso e un equilibrio fra esigenze politiche, equilibrio che spesso si raggiunge trovando compensazioni in altri "tavoli".
Va anche considerato che se le elezioni dei membri laici sono in mano ai partiti stricto sensu, come sapete benissimo le elezioni dei togati sono in mano alle "correnti", che sono, di fatto, il riflesso nella comunità dei magistrati di quello che i partiti sono nella società: strutture organizzate per affermare e difendere una linea di indirizzo politico. In trasmissione da Pancani ho fatto un noto esempio, quello del Congresso di Magistratura Democratica nel 2019, intitolato: "Il giudice nell'Europa dei populismi". Il collega Bonelli, la cui ignoranza è assolutamente scusabile (ignorantia legis non excusat, ma qui si parla dell'ignoranza di un fatto storico, e quindi la scusiamo), evidentemente non sapeva che quella che lui considerava una semplice vignetta satirica era la locandina di quel convegno, ancora rinvenibile nel sito dell'associazione:
Ora: che i magistrati, essendo persone colte, siano anche persone spiritose, lo trovo più rassicurante che preoccupante! Vauro può piacere o non piacere, ma è senz'altro un vignettista efficace (sarà per questo che qualche volta ci infastidisce, ma dobbiamo ammettere che anche quella è efficacia: strano come una vignetta efficace vista da sinistra sembri fastidiosa vista da destra)!
Ma il problema di questo convegno non è la locandina e se essa sia o meno spiritosa (non lo è: è semplicemente apologetica), cosa su cui lui si è incaponito nel corso della trasmissione:
(dal minuto 10 in poi).
No, il problema di quel congresso, volendo vederci un problema, è nel suo assunto programmatico secondo cui "nell'età dei populismi il giudice è chiamato a un lavoro difficile, in bilico tra governo della realtà e ideali di giustizia" (ve l'ho evidenziato in giallo anche nello screenshot, perché so che sembra abbastanza incredibile). Ora, a meno di non voler far rientrare queste parole nella categoria cara a Flaiano delle grandi frasi che non significano niente (non sono sicuro che lui dicesse così, ma il senso era questo), e volendole prendere invece nel loro senso letterale, queste parole letteralmente dicono che secondo MD, nel 2019, il giudice poteva anche parzialmente derogare agli ideali di giustizia per assumere il difficile compito di governare la realtà nell'età dei populismi. Nel concetto di "essere in bilico" è implicito il significato di equilibrio instabile fra due elementi inconciliabili (cioè del cadere da una parte o dall'altra), e qui mi pare che si suggerisca in modo non troppo velato che alla fine sbilanciarsi dalla parte del governo della realtà sia considerato un caso ammissibile. Peraltro, il diritto, la legge, non sono la giustizia: e il giudice in teoria è soggetto solo alla legge, non a (quello che lui legittimamente ritiene sia) la giustizia. Sono due cose diverse.
Aggiungo un'altra sottolineatura precisazionista: perché questo "sporco lavoro che qualcuno deve pur fare" (il governo della realtà) MD sente il bisogno di farlo "nell'età dei populismi"? Perché, ad esempio, non nell'età dei liberismi, quella in cui si crea tanta povertà e ingiustizia sociale che da una parte capisco possa interessare poco l'unico ceto realmente protetto dall'aumento del costo della vita, ma che dall'altra costituisce l'antecedente logico dei populismi che tanto preoccupano certi magistrati?
Cioè: ti preoccupano "i populismi" e vuoi reprimerli, ma non ti preoccupi quando l'austerità fa aumentare significativamente il numero delle persone a rischio di povertà ed esclusione sociale:
portando in terreno negativi gli investimenti pubblici al netto degli ammortamenti (cioè riducendo lo stock di capitale pubblico):
(lo vedete il "tempo in cui si chiudevano gli ospedali" senza che qualcuno avvertisse l'esigenza di governare la realtà?), creando i presupposti del fenomeno che tanto ti spaura?
Il fatto che oggi in Italia dei magistrati di sinistra apparentemente considerino "much social injustice and apparent cruelty as an inevitable incident in the scheme of progress" istintivamente porta a collocarli nel blocco sociale che sosteneva il paradigma economico che Keynes chiama "ricardiano" e loro chiamerebbero "neoliberista", nel quale probabilmente abitano, ma "a loro insaputa", per citare un altro esponente politico (di centrodestra, però...), cioè quello dei rentiers.
Quindi: la politicizzazione c'è, è indiscutibile, negarla sarebbe futile, ma... esattamente come vi ho chiarito che le certezze non vanno valorizzate negativamente quando si parla di ricerca, così vorrei esortarvi a non scagliarvi in modo acritico contro la "politicizzazione", che in determinate circostanze e con determinati accorgimenti mantiene un suo valore positivo (altrimenti dovremmo pensare che la Costituzione è stata scritta male, e qui non credo che nessuno lo pensi: riscritta male sì, scritta male no).
Immagino le reazioni: "Ma come!? Il giudice non deve essere imparziale, e quindi privo di giudizi di valore? Non deve attenersi esclusivamente ai fatti, in modo asettico, direi quasi scientifico?" [CSI docet, NdCN]
Ecco, torna in campo la nostra amica scienza... ed è proprio da uno scienziato che vorrei ripartire, da Gunnar Myrdal, premio Nobel per l'economia nel 1974 insieme a Friedrich von Hayek (ma per motivi ben distanti, tant'è che Myrdal propose di abolire il premio quando seppe che lo prendeva anche von Hayek...). L'opera di Myrdal era citata nel testo di politica economica di Federico Caffè, che ne ricordava il contributo dato all'analisi del ruolo dei giudizi di valore nelle scienze sociali. Il punto che solleva Myrdal è molto semplice: le scienze che si occupano della società, di come organizza il lavoro, di come distribuisce la ricchezza, e quindi in particolare l'economia, che è una scienza sociale, non possono prescindere da giudizi di valore, da una valutazione preliminare di cosa sia "meglio" per una società, di cosa sia, per capirci, il fantomatico "bene comune" (quello di cui blaterano i dilettanti dell'economia e della politica - e dell'economia politica e della politica economica). E siccome non possono farne a meno, sarebbe erroneo che avessero la pretesa di farlo: i giudizi di valore non vanno rimossi freudianamente, ma vanno esplicitati, affinché chi si accosta a una ricerca sia in grado di tenerne conto.
Vedo (ma forse lo vedo solo io) un filo rosso che lega la pretesa di neutralità ideologica della "vera" scienza (di cui l'assenza di giudizi di valore nelle scienze sociali è una declinazione), alla pretesa di imparzialità del giudice, come, del resto, alla pretesa di obiettività del giornalista che "separa i fatti dalle opinioni": è il filo rosso dell'ingenuità.
Per sostanziare questi argomenti, sono andato a riprendere il testo di Myrdal, ma non avendo sotto mano la mia edizione italiana (nella Nuova Biblioteca Scientifica Einaudi: forse lo vedete alle mie spalle quando parlo ai telegiornali), mi sono trovato un pdf online, e rileggendolo a distanza di forse trent'anni c'è una cosa che mi ha colpito moltissimo:
Come esempio di termine value-loaded, cioè che porta con se un giudizio di valore (positivo), Myrdal sceglie proprio "integrazione economica", cioè, nel nostro contesto: "più Europa"!
Per capire che cosa si intende con termini value-loaded o con giudizi di valore: siccome la disintegrazione è un processo violento e doloroso, ovviamente l'integrazione è, a contrario, una bella cosa a prescindere, mi seguite? Ecco in che modo i giudizi di valore si insinuano nel ragionamento scientifico (e non solo nelle scienze sociali). Tuttavia Myrdal evidenzia che il fatto che un termine, anche se usato in un'indagine scientifica, abbia una implicita connotazione valoriale, non è di per sé un motivo per rifiutarlo. Aggiunge Myrdal che è stato un errore il tentativo fatto per oltre un secolo di rendere "oggettivi" i principali concetti dandone una definizione "puramente scientifica" ipoteticamente non associabile a valutazioni politiche. Questo esercizio di purificazione si è risolto nell'invenzione di sinonimi dall'aspetto più innocente: un tentativo che era destinato all'insuccesso. I giudizi di valore infatti avevano una loro logica e una loro funzione, e quindi hanno perforato anche la corazza delle definizioni "puramente scientifiche".
In effetti, "una scienza sociale disinteressata non è mai esistita e non può esistere per motivi logici". Le società umane possono essere studiate solo dal punto di vista degli ideali umani, sono questi a provocare il nostro interesse per lo studio, a indirizzarlo, e a rendere significative le nostre conclusioni. Quindi i concetti stessi, le categorie, delle scienze sociali, non possono essere definiti se non in termini di valutazioni politiche, ed è per garantire il rigore scientifico del ragionamento che queste valutazioni dovrebbero essere esplicitate.
Questo è il punto: non è un buono scienziato sociale chi nasconde i propri pregiudizi politici magari dietro la cortina fumogena di qualche formula matematica, ma chi li dichiara e li pone esplicitamente a base del discorso.
Naturalmente i giudizi di valore su cui una ricerca si fonda devono essere rilevanti e significativi per la società in cui viviamo. Tuttavia, non è così immediato orientare la propria ricerca su "quello che gli uomini effettivamente desiderano", per il semplice fatto che "gli uomini" (non nel senso di risorse, nel senso di individui) hanno informazioni molto incomplete. Una premessa di valore rilevante dovrebbe essere corretta nel senso di interpretare che cosa le persone desidererebbero se la loro conoscenza del mondo fosse più completa, ma non c'è metodo econometrico che consenta di fare questo esercizio prescindendo dalle valutazioni individuali delle persone. E quindi, ad esempio, nessuna discussione sull'opportunità di una maggiore integrazione economica internazionale ("più Europa!") è sensata, se prescinde da un insieme di valutazioni politiche che devono essere rese esplicite. Se si attribuisce un significato al termine "integrazione" senza esplicitare alcuna premessa di valore, restano le premesse implicite, che corrispondono alle preferenze politiche dell'autore, o a quelle del suo contesto nazionale. Ma, conclude Myrdal, dato che queste premesse restano nascoste, non solo lo studio è pretenzioso (perché cerca di affermarsi come neutrale e oggettivo), ma effettivamente fraudolento, anche laddove la frode sia inconsapevole.
Per sintetizzare quanto detto fin qui: una buona scienza sociale deve essere politicizzata, perché solo questo le conferisce la necessaria trasparenza, consentendo di verificare il rigore logico degli argomenti usati. Del resto, è questo, non la matematizzazione, ad affratellare le scienze sociali alle cosiddette scienze "naturali" o "dure": il fatto che si configurino come scontro politico fra paradigmi, fra concetti value-loaded, cioè il fatto che siano, entrambe le categorie di scienza, umane (eh, sì, devo darvi una brutta notizia: non esiste la scienza disumana, come non esiste la società incivile...).
Per esemplificare, e rifacendoci alla nostra esperienza di crescita in questo blog: è stata una chiara indicazione delle premesse di valore ad aiutarci a distinguere il pensiero sciamanico del "ci vuole più qualcosa (Europa, dosi, ecc.)" da un corretto ragionamento scientifico, è stata la corretta individuazione ed esplicitazione degli interessi di classe sottostanti, ad esempio, a farci capire perché per ridurre il rapporto debito/Pil sono state fatte politiche che secondo i manuali di economia lo fanno aumentare e che conseguentemente lo hanno fatto aumentare, e così via. Insomma: senza premesse di valore è pretenzioso pensare di poter unire i puntini.
Bene.
Ma con Palermo questo che c'entra?
Un po' forse c'entra.
Sì, sono d'accordo: la moglie di Cesare ecc., la forma è sostanza ecc. Quindi l'apparenza dell'imparzialità, della de-politicizzazione, andrebbe forse mantenuta, e quando non si desideri farlo e si scenda in piazza forse è meglio trarne le conseguenze.
Ma si può anche ragionare in modo diverso. Partiamo dal presupposto che anche i magistrati non possano prescindere, nella loro attività, che è un'attività di ricerca, da giudizi di valore (mi sembra un dato fattuale: basta leggersi gli atti dei loro convegni)! E allora sarebbe ingenuo tentare di imporre loro un atteggiamento "puramente giurisdizionale", come sarebbe ingenuo nelle scienze sociali tentare di imporre un lessico e un'agenda "puramente scientifica".
Quello però che si può fare è garantire equilibrio fra i vari concorrenti nel mercato della politica: non può esserci una concorrenza sana se alcuni partecipanti possono privare gli altri della libertà, ma il reciproco non è consentito. E quindi, le cose stanno così: o si consente ai vostri rappresentanti di inquisire i magistrati (ma sinceramente, con tutto il lavoro che abbiamo da fare, e non avendo una preparazione professionale specifica, ne farei anche a meno), o si ritorna alla Costituzione del 1948, e al suo articolo 68, che assicurava l'immunità ai rappresentanti del popolo sovrano.
Il problema, insomma, non è la politicizzazione! Sarebbe molto peggio l'ipocrisia o la dissimulazione! Il problema è lo squilibrio (non la mancanza di separazione: la mancanza di equilibrio) fra i poteri.
La soluzione a questo problema è piuttosto ovvia, e i Costituenti, che ci avevano pensato, l'avevano anche introdotta in Costituzione: l'articolo 68 nella sua versione originale.
Non è l'unica soluzione, va da sé! Se ne possono immaginare tante altre: ad esempio, riformare l'art. 104 introducendo un criterio di sorteggio per il CSM, o prevedendo un CSM di soli laici o comunque con una maggioranza (o una più forte rappresentanza) di laici, o adottare un modello ibrido come quello francese in cui il procuratore mantiene un rapporto forte con l'esecutivo, o quello che volete (qui gli esperti siete voi, non crediate che me ne sia dimenticato, e certo non io).
Certo è che qualcosa andrà fatto, e probabilmente il miglior modus operandi, per chi, come noi, ha ampiamente studiato i danni fatti dall'antipolitica, è tentare di risalirne la china: finanziamento pubblico ai partiti e immunità parlamentare. Non sarà un compito facile, ma è un compito che voi dovreste ritenere necessario se non altro per esercitare quel diritto il cui esercizio è più dolce e liberatorio e tanto vi molce il cuore da mane a sera nella cloaca nera (rima intenzionale): il diritto al mugugno! Perché, questo possiamo dircelo, lamentarsi di una classe politica cui sono stati tolti strumenti fondamentali per strutturare un ceto politico e per sottrarsi a condizionamenti impropri non è un esercizio particolarmente onesto intellettualmente. Qui credo siano pochi quelli che si sono lasciati convincere che vincendo la sua lotta contro la politica il popolo si sarebbe liberato! Ma altrove sono ancora egemoni, e questo richiede un dispiego di mezzi e di impegno che nelle condizioni attuali è impossibile.
Non ci vuole più Europa: ci vuole più politica.
E chi è qui da un po' sa quanto, e perché, questi due termini, presi nella loro accezione corrente, siano così radicalmente antitetici...
Imprescindibile il ripristino dell'immunità parlamentare e, se possibile, bisognerebbe prevedere qualche tutela anche per gli amministratori locali (Toti docet).
RispondiEliminaQui ci sono due problemi e uno è qui ben evidenziato: i magistrati possono "indagare"l' operato del singolo "politico" e il "viceversa" no, e la soluzione abbastanza ovvia sarebbe tornare alla "vecchia" costituzione in cui i magistrati possono "indagare" un politico per atti " non politici" e solo con l' approvazione del parlamento.
RispondiEliminaIl che se ben guardiamo non è proprio un "viceversa" perché resta il secondo problema insito nella "vecchia" costituzione. Infatti se l' operato del politico risponde al popolo , che non rieleggendolo lo " consegna" alla magistratura o comunque anche se rieletto lo consegna alla " benevolenza" del parlamento l' operato di un magistrato continuerà a rispondere solo alla "benevolenza" della sua " categoria professionale".
Perché , a ben ricordare , anche con la "vecchia" costituzione "la magistratura" processava "la politica" , seppur non con sfrontata facilità di adesso.
Perciò anche tornando alla "vecchia" costituzione non si risolverebbe completamente il problema , soprattutto se ( caso puramente ipotetico 😎 ) la magistratura per " pregressi accidenti" e "opportuni" meccanismi di selezione interni alla "categoria" fosse esclusivamente espressione di un particolare PARTITO o (peggio ancora) di una particolare " parte del paese".
E questo problema si risolve solo ponendo l' operato del singolo magistrato INQUIRENTE ad un giudizio "pubblico" esattamente come allo stesso è sottoposto "il politico".