domenica 8 giugno 2025

Due trade-off sul debito pubblico

Continuo a ricevere graditi segni di apprezzamento per l’intervento che ho svolto ieri a Rapallo e che trovate nel post precedente. Qualcuno ha anche chiesto che vengano pubblicate le slide e lo farò senz’altro, ma prima vorrei evidenziare rapidamente qui due cose che non sono nelle slide, ma che ho detto e sulle quali secondo me è importante fissare l’attenzione.

Un falso trade-off

La prima cosa sulla quale vorrei farvi riflettere è una evidente limitaziine della teoria economica standard, secondo la quale gli investimenti pubblici sono in qualche modo alternativi rispetto agli investimenti privati, nel senso che, per usare il linguaggio degli economisti, li “spazzerebbero” (il termine inglese utilizzato è: crowding out). Questa visione deriva dall’idea molto stilizzata secondo cui l’unica determinante del volume degli investimenti è il tasso di interesse. Se le cose stessero così, allora avrebbe un senso pensare che qualora lo Stato effettui investimenti finanziandoli in deficit, cioè con emissioni di debito pubblico, e ipotizzando che queste emissioni facciano innalzare il tasso di interesse, allora l’investimento pubblico determinerebbe una contrazione di quello privato attraverso il canale del tasso di interesse. In realtà, come ho cercato di spiegare ieri (ma non solo ieri) fra le determinanti complessive della redditività di un investimento ci sono anche le condizioni complessive della domanda aggregata e lo stato delle infrastrutture. Nessuno investe per portare al mercato con una strada che non c’è un bene che nessuno domanda. Voi (ad eccezione di Corrado) lo fareste? Io no, ma io non faccio testo: il problema è che non lo fa nessuno. Bisognerebbe quindi parlare di crowding in (non out) dell’investimento privato da parte di quello pubblico. Se lo si facesse, si capirebbe anche perché in un periodo in cui i tassi di interesse sono stati tenuti molto bassi, l’investimento privato in effetti non è esploso. Il motivo è semplice: perché in contemporanea sono stati tagliati gli investimenti pubblici, deteriorando lo stato della domanda aggregata complessiva e lasciando andare in malora le infrastrutture. La teoria economica corretta è quella che meglio si adatta ai dati: quello che vi ho detto spiega perché può succedere che l’acqua ci sia, ma il cavallo non beva.

Un vero trade-off

Un’altra cosa che non vorrei passasse inosservata nelle pieghe del discorso è riferita a una effettiva difficoltà alla quale un livello elevato di debito pubblico può esporre. Questo sfugge ancora a molti, ma è importante che noi, che preferiamo anticipare gli eventi (umilmente consapevoli del fatto che comunque non siamo in grado di influire più di tanto su di essi), ci mettiamo la testa. Livelli elevati di debito pubblico determinano un trade-off fra stabilità macroeconomica (intesa come controllo dell’inflazione) e stabilità finanziaria. Il motivo è molto semplice: dato che l’inflazione dipende dalla legge della domanda e dell’offerta, e che, conseguentemente, l’unico strumento che una banca centrale ha per controllarla è abbattere la domanda innalzando i tassi di interesse, quando le posizioni debitorie sono molto elevate c’è il rischio che un innalzamento dei tassi di interesse motivato dal desiderio di contrastare l’inflazione renda troppo oneroso rifinanziare le posizioni debitorie in essere. Detto in un altro modo, e pensando al debito pubblico, quando agli inizi degli anni ‘80 Paul Volcker avviò la sua politica di tassi di interesse elevati per combattere l’inflazione, il livello medio di debito pubblico nei paesi avanzati si situava attorno al 40%, e l’innalzamento dei tassi reali di circa quattro-sei punti avviò in molti paesi una spirale per cui ci si indebitava per pagare gli interessi sul debito. Ora il debito medio è oltre il doppio, cioè oltre l’80%, e quindi anche innalzamenti più contenuti dei tassi di interesse potrebbero farci entrare in una spirale simile, che potrebbe mandare fuori controllo le esposizioni debitorie pubbliche, ma soprattutto private. Per questo motivo sarebbe importante che queste venissero in qualche modo diluite, spingendo sulla crescita nominale, cioè sulla crescita reale e sull’inflazione.

Ecco: queste due cose nelle slide non c’erano, ma erano forse le due cose più importanti che avevo da dire ieri. Spero vi abbiano aperto delle prospettive utili.


sabato 7 giugno 2025

Rapallo (sul green e l’Europa)

Qui c’è il motivo per cui non sono riuscito a rispondervi (e ora sto per imbarcarmi):


Dovevo preparare questo intervento. Sono sempre le stesse cose, ma non negli stessi tempi e non alle stesse persone. Il risultato si è visto, il messaggio è passato (ascoltate i commenti degli altri, nei loro interventi tutti molto interessanti), stiamo portando la nostra voce in altri ambienti e piano piano ci costruiamo spazi di ascolto e di reputazione che ci saranno utili.

Ci vediamo più tardi per i commenti a questo e agli ultimi post, ma intanto volevo condividere un’osservazione che mi è venuta in mente lavorando a questo intervento: è strano come quelli secondo cui lo Stato è come una famiglia (una tribù variopinta che a quanto abbiamo visto annovera anche miliardari “visionari”) chiedano allo Stato di non comportarsi come si comporta una famiglia quando deve acquistare un bene capitale (un’automobile, una casa)! Le famiglie (o le aziende) per acquistare macchinari o edifici si indebitano. Secondi i gianninizzeri, lo Stato, invece, non dovrebbe indebitarsi mai, nonostante che sia ormai chiaro come chi sta alimentando una pericolosa catena di Sant’Antonio sia il settore privato: è quest’ultimo a indebitarsi per pagare dividendi, non il settore pubblico, e lo dice l’OCSE!

Questa è la consistenza dei nostri interlocutori social. Sono decisamente migliori e fortunatamente più rilevanti quelli in carne ed ossa. Spiaze per Serendippo! 😢

venerdì 6 giugno 2025

Chi esporta merci esporta capitale (umano)

Abbiamo ormai perso ogni speranza di far capire al secol superbo e sciocco (LVI incluso) che per mera contabilità la somma dei saldi merci e capitali (rectius: la somma algebrica del saldo delle partite correnti e del conto finanziario della bilancia dei pagamenti) deve (must) essere nulla. Non si tratta di alchimia o di convenzione! Si tratta della rappresentazione nitida e facilmente comprensibile di un dato di fatto. Quando l’esportatore italiano incassa dollari (e in bilancia dei pagamenti si registra quindi un segno più, come sempre quando la valuta entra), la storia non finisce, ne manca un pezzo importante.

Con i suoi dollari l’esportatore può fare tre cose:

1) tenerli in tasca (ma a meno che non sia Eta Beta questa strategia potrebbe dimostrarsi rapidamente insostenibile, oltre a essere finanziariamente poco conveniente);

2) acquistarci attività finanziarie denominate in dollari, per non tenere contante ozioso e infruttifero, nel qual caso in bilancia dei pagamenti si registrerebbe un segno meno (un’uscita di valuta annotata nel conto finanziario);

3) convertirli in euro per comprarsi un gelato (o per fare investimenti produttivi), nel qual caso si registrerebbe ugualmente un segno meno sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti, perché la Banca centrale non è come il deposito di Paperone un gigantesco hangar blindato colmo di dollaroni metallici ballanti e sonanti, ma un ufficio popolato da una burocrazia più o meno amica del Paese ma sicuramente razionale, che quindi con i dollari che le vengono ceduti in cambio di euro acquista attività denominate in dollari (con relativa annotazione in uscita nella bilancia dei pagamenti).

Punto.

È così difficile? Apparentemente sì, se perfino LVI non capisce che non puoi chiedere al contempo più competitività e meno fuga di capitali! La competitività, in quanto venga raggiunta, si manifesta come esportazione di merci e quindi esportazione (o fuga) di capitali.

Ri-punto.

Ma c’è un’altro aspetto su cui non si riflette abbastanza, che nessuno vede (strano…), nonostante sia sotto gli occhi di tutti, nonostante perfino 🍇 lo abbia in qualche modo confessato a denti stretti.

Seguitemi: per esportare devi essere competitivo, giusto? Per essere competitivo devi tagliare i salari (lo ha detto Draghi), giusto? Ma se i salari di ingresso sono troppo bassi, che cosa fanno i giovani migliori? Ma è semplice: emigrano in cerca di migliori opportunità! Quindi in un’unione monetaria chi vuole esportare merci vuole esportare capitale umano, vuole separarsi dai propri figli.

Dite che non vuole?

Eh, no: Keynes dice che vuole, perché ricordate che cosa afferma ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”? Ve lo ricordo: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo”! Quindi quando sentite qualcuno, come 🍇 o chi gli è intellettualmente subalterno, parlare di competitività della nostra economia sappiate che lui vuole separarvi dai vostri figli, di quello sta parlando, perché ora funziona così, perché qualcuno (non noi) ha voluto che funzionasse così. Il presupposto per non esportare capitale umano è un mercato interno florido e dinamico, è un modello di crescita basato sulla domanda interna, e quindi wage led, non export led.

Aspetto argomentate confutazioni di queste ovvietà.

Ma ora… decollo per Genova!

Destroying domestic demand: il disegnino

Credo che qui tutti ricordino le parole di Monti: "We are actually destroying domestic demand..." (per chi se le fosse dimenticate o non le avesse mai sentite sono qui), la spudorata confessione del fatto che le politiche procicliche, il consolidamento fiscale, insomma, l'austerità, era stata una politica deliberata volta a recuperare competitività, come oggi ammette lo stesso Draghi:


(per i diversamente capaci di unire i puntini: in altre parole, il risanamento dei conti pubblici era solo un pretesto per effettuare politiche redistributive accampando uno stato di necessità, e infatti i conti pubblici non li abbiamo risanati e mai avremmo potuto farlo così per i motivi a suo tempo esposti).

Per un qualche motivo mi è venuta voglia di fare il disegnino di questo bel capolavoro, non tanto quello dell'Italia (ormai lo conoscete), quanto quello dell'Unione Europea:


Qui vedete i dati dell'OCSE. Notate che gli Stati Uniti viaggiano su livelli di domanda interna (definita come somma di consumi, compresi quelli pubblici, e investimenti, compresa la variazione delle scorte) superiori al 100% del Pil: è un dato coerente con la loro posizione di importatori netti. Noterete anche che dalla metà degli anni '90 sostanzialmente all'inizio della crisi dei subprime questa percentuale è andata crescendo, fino a quando il botto del 2008 non ha un po' ridimensionato la domanda interna (via crollo del credito).

Il tracciato europeo è molto diverso. Per sedici anni il peso della domanda interna è rimasto sostanzialmente costante. Poi, dopo il 2011, si è ridimensionato bruscamente, scendendo di più di due punti percentuali, per poi rimanere su un sentiero inferiore.

Questa cosa si vede anche coi dati AMECO:


e anche coi dati Eurostat:


Insomma: è nei dati.

Nei dati, naturalmente, c'è anche quella che abbiamo chiamato la "sostituzione etnica" di una platea di consumatori con un'altra:


Si vede bene, no?

Qui gli ultimi tre anni sono previsti, e la previsione è che a breve questo assetto rimanga invariato, nonostante i pressanti e accorati appelli a rinvigorire la domanda interna (ma anche la competitività, cioè la domanda estera) dell'Eurozona. Il grafico si divide esattamente in due: nella prima metà, il mercato interno funziona (i tedeschi vendono e i PIGS comprano), e quindi i conti con l'estero sono in equilibrio. Nella seconda metà il mercato interno non funziona: i tedeschi vogliono vendere ma i PIGS non possono più comprare (essendo stata destroyed their domestic demand, cioè i loro redditi), per cui il surplus produttivo si scarica all'estero generando gli squilibri che sappiamo e cui gli Stati Uniti hanno reagito come sappiamo.

Dice: "E vabbè, ma quanto sò incazzosi gli americani! Che vuoi che siano tre punti di Pil di surplus!? Sta a gguardà er Pil nell'uovo..."

Beh, come vi ho spiegato il 5 marzo a Roma, tre punti di Pil sò 400 mijardi di euro, e la storia ci insegna che gli americani hanno ucciso (figuratamente, e non solo) per molto meno:


Lo so, sono cose che sapete, che sappiamo, soprattutto qui (le sappiamo dal 2011, da prima che ce le spiegasse Monti, cui noi spiegammo in anticipo il suo fallimento: Draghi con tutto il rispetto non è nemmeno in partita!...).

Tuttavia, pensavo che questo disegnino:


potesse interessarvi.

Sperando di aver fatto cosa gradita, mi pregio pertanto di porgervi i miei più cordiali saluti (e vado a fare un altro disegnino).

Il vostro affezionatissimo,

Guru.

Ci vuole più freddezza

Com’era inevitabile, in queste ore i nodi stanno venendo al pettine, in una misura onestamente inattesa anche per chi vi scrive. Che però ci fosse qualcosa di sostanzialmente fallace nell’argomento secondo cui Trump o Elon fossero “uno di noi” qui, visto che nessuno ci legge, ci siamo sempre permessi di dirlo. Si tratta di un problema metodologico generale. Il mondo è troppo complicato per darci la garanzia che il nemico del nostro nemico (in quale battaglia?) sia matematicamente nostro amico, o amico dei nostri amici (cioè di altri nemici dei nostri nemici). Come corollario, quindi, non c’è nulla di così strano nel fatto che due nemici dei nostri nemici scoprano di non essere amici!

Questo dobbiamo sempre tenerlo a mente. Le grida di vittoria per battaglie vinte da altri, in altri paesi, su altri presupposti, in altri contesti, possono avere il significato tattico di rinforzare il morale della truppa, di rinsaldare il consenso. È successo anche a me, anch’io mi sono abbandonato a questa tentazione. Ricordo il mio intervento, che forse pochi di voi ricorderanno, al palazzo delle stelline a Milano nel 2016 quando ironicamente esordii con: “Dio è con noi, e adesso è con noi anche Trump!” Parlo ovviamente dello stesso Trump che poi, in un momento difficile di questo paese, fece il noto endorsement a Giuseppi. Cose che all’epoca era praticamente impossibile immaginare, anche per chi aveva scritto da poco il post in cui prevedeva che Pd e 5 Stelle si sarebbero saldati (ma onestamente la benedizione degli Stati Uniti a questo improbabile coniugio non me l’ero immaginata, non essendo per me chiaro allora, come non lo è ora, l’atteggiamento degli Stati uniti nei confronti del Problema, che è e resta l’euro, il che mi suggeriva di non addentrarmi in pronostici per i quali mi mancava un elemento essenziale).

Naturalmente questo non vuol dire che l’emersione di fatti o persone disruptive non debba essere salutata come un elemento positivo. Certamente lo è! Non vuole nemmeno dire che quanto terrorizza, destabilizza, o anche semplicemente infastidisce il Santo sinedrio piddino non sia di per sé un dato tattico positivo. Visto che non ci piace dove siamo, qualsiasi cosa smuova le acque è ovviamente benvenuta, perché in qualche modo ci aiuta a spostarci. Questa però è tattica, cioè la risposta alla domanda: come mi sposto, o come creo i presupposti per spostarmi? La strategia è una cosa diversa, risponde a un’altra domanda: dove voglio andare? Provando a definire in sintesi questo obiettivo, potremmo dire che vogliamo andare verso un mondo in cui la distorsione del mercato e l’ingerenza estera (entrambe a nostro danno) non siano l’essenza stessa delle istituzioni che ci governano, concorrendo ad aumentare la disuguaglianza e la tensione sociale. Un mondo cioè in cui la classe media e i ceti produttivi possano riappropriarsi di un minimo di voice e migliorare la loro posizione in termini reddituali dopo anni di arretramento relativo.

Vorremmo anche arrivarci vivi.

La questione che si pone quindi è su quali sponde dobbiamo giocare per mandare la palla in quella buca lì. Questo non presuppone necessariamente che i nostri compagni di strada la pensino come noi o abbiano i nostri obiettivi. Presuppone però un’altra cosa: che non ci dimentichiamo mai che il nostro interesse riguarda noi, non gli altri, che non possiamo chiedere ad altri di combattere la nostra battaglia, che se noi non siamo dalla nostra parte, nessun altro ci sarà, e che qualsiasi “vittoria” che non sia agita da noi non ci dà alcuna garanzia di avvicinarci in modo significativo ai nostri obiettivi. Presuppone cioè un minimo di freddezza, quella che consiste nell’essere consapevoli che non esisterà un evento palingenetico, una “vittoria risolutiva“, che nulla ci solleverà dal duro compito della militanza e del conflitto (che è poi il motivo per il quale continuo a tenere vivo questo blog).

Per questo motivo sconsiglierei di parteggiare per l’uno o l’altro dei contendenti. Sì, è abbastanza evidente che Musk ha una visione, come dire, un po’ rudimentale del debito pubblico. Tuttavia, non credo che il problema principale sia esattamente lì, se anche lo fosse non credo che si possa risolvere con un momento didattico (in questo senso quello che è successo con Salvini rappresenta probabilmente un’eccezione nella storia mondiale), non credo che il suo ex amico con cui ora sta baruffando sia un raffinato analista della teoria post-Keynesiana della sostenibilità del debito, e, per spostarci su un altro piano, sono un pochino scettico sul fatto che si possa prescindere dalla tecnologia di cui Musk dispone (e non parlo di auto). Quanto all’altro contendente, è indubbio che abbia scelto come vice un eloquente cantore dell’epopea della classe media, è (o sembra) evidente che nel conflitto fra Wall Street e Main street abbia scelto di schierarsi dalla parte di quest’ultima, tuttavia, se avessi un euro da scommettere, preferirei scommetterlo sui Lupi di Pizzoferrato in finale di Champions League, piuttosto che sull’idea che un miliardario statunitense passi le sue notti leggendo le analisi del capitalismo produttivista di Froud et al. (l’ultima volta ne abbiamo parlato qui, e nel frattempo pare che la Bce si sia accorta anch’essa del problema), ragionando su come sganciarsi dal coupon pool capitalism magari ristabilendo un minimo sindacale di financial repression. Non credo, e non glielo auguro, considerando che gli hanno sparato per molto meno!

Come dicevo qualche sera fa a una tavolata di manager, il fatto che la sinistra non difenda più i lavoratori per noi è un disastro, perché costringe noi a farlo, raddoppiando il nostro lavoro! Era ovviamente una battuta e così è stata intesa (volendo essere seri, dovremmo invece fare un discorso su perché la sinistra abbia rinunciato, bollandolo come interclassismo, al tentativo di tracciare una demarcazione tra interessi di classe rispondente alla realtà odierna, non a quella di due secoli fa), ma ci avvicina a un punto con cui vorrei concludere il mio sermone.

Il problema insito nell’aspettarsi che siano altri a combattere le nostre battaglie non è solo nell’indurci a una postura passiva, nel suggerirci di stare sdraiati sotto al palmizio della storia aspettando che cada la banana (o la noce di cocco?) del risultato da noi auspicato. Il problema è più sottile, e consiste nel rischio di illudersi, in un vuoto ideologico generale, che gli obiettivi del nostro alleato pro tempore, la sua ideologia, debbano necessariamente essere i nostri. Non è così e il rischio di abbagli è presente e concreto. Tanto per fare un esempio, la cosa che più mi preoccupa dell’intera vicenda dei dazi è la controproposta di “dazi zero“, che oltre a essere abbastanza insensata di suo, smentisce tutto quello che qui abbiamo sempre detto (prevalentemente da sinistra) e la Lega ha sempre detto (verosimilmente da destra) sui limiti del liberoscambismo (pensate alla battaglia contro TTIP e CETA, ad esempio).

Mi sembra un problema per noi lievemente più grave, non fosse altro perché ci riguarda direttamente, rispetto al fatto che il noto miliardario abbia idee troppo convenzionali sul debito pubblico.

Ma questo ve lo scrivo qui, dove nessuno lo legge, con la solita clausola: speriamo di avere torto!



giovedì 5 giugno 2025

Inflazione, energia e logaritmi

(...breve momento didattico sulla presentazione dei dati...)

Utilizzando il Pink sheet e i World Development Indicators ho costruito questo grafico che accosta l'indice del prezzo dell'energia (globale) all'indice dei prezzi al consumo italiano:

Si nota che l'indice dei prezzi dell'energia è più volatile dell'indice dei prezzi al consumo e la correlazione fra i due indici è relativamente debole. Dato che le due serie hanno entrambe tendenza crescente, la loro correlazione va filtrata su serie depurate dalla tendenza (prendendo le differenze prime o i tassi di crescita), altrimenti si otterrebbe una correlazione spuria (le due serie sembrerebbero in relazione semplicemente perché sono entrambe crescenti, ma questa correlazione potrebbe essere illusoria, come in questi casi). La correlazione fra i tassi di crescita è 0.33.

C'è tuttavia un problema: l'indice dei prezzi dell'energia è in dollari, ma l'indice dei prezzi al consumo dell'Italia è in valuta nazionale, che non è mai stata il dollaro! Possiamo convertire l'indice dei prezzi dell'energia in valuta nazionale moltiplicandolo per il cambio "valuta italiana/dollaro" (in LCU per US$, local currency units  per dollaro, costo in valuta italiana di un dollaro). Dato che i prezzi sono espressi come indici, possiamo ribasare il tasso di cambio perché valga 1 nell'anno base, in modo che gli indici continuino a valere 100 nell'anno base. Il risultato è:


e la correlazione (calcolata sui tassi di crescita) aumenta a 0.41. Si noti che l'aver espresso i prezzi dell'energia in valuta nazionale, anziché in dollari, non altera poi in modo così drammatico il profilo della serie, contro la narrazione secondo cui quando c'era la liretta occorrevano carriole di banconote per un barile di petrolio (se fosse stato così, in questo grafico il costo dell'energia dovrebbe schizzare verso l'alto negli anni della lira, per poi scendere, ma invece il suo profilo è molto simile al quello del costo espresso in dollari).

In ogni caso, la situazione dei prezzi dell'energia sembra molto più disastrosa verso la fine che verso l'inizio del grafico. Anche questa è un'illusione ottica: dipende dal fatto che 1 è il 10% di 10 ma solo l'1% di 100: all'inizio del grafico, partendo da valori bassi, anche variazioni impercettibili erano in realtà percentualmente rilevanti. A questo si rimedia prendendo la scala logaritmica, che trasforma i dati in modo che la pendenza della curva corrisponda al tasso di crescita percentuale della curva stessa:


Inquadrati (correttamente) così, si vede che gli shock petroliferi degli anni '70 sono stati fenomeni molto più devastanti dell'ultima crisi energetica che tanto ci ha fatto penare.

Del resto, lo si potrebbe vedere anche prendendo i tassi di crescita delle variabili:


Qui si notano due cose: che le variazioni dei prezzi dell'energia negli anni '70 raggiunsero picchi del 250%, mentre l'episodio più recente vede un incremento intorno al 75%: non lamentiamoci troppo! La seconda cosa interessante è che la risposta dell'inflazione allo shock di offerta è sostanzialmente proporzionale nel tempo. Con un picco di crescita dei prezzi dell'energia intorno al 200% si ebbe un picco di inflazione intorno al 20% e con un picco di crescita dei prezzi dell'energia intorno al 70% si è avuto un picco di inflazione attorno al 7%. Il pass-through da prezzi globali dell'energia a prezzi al consumo è rimasto quello, circa il 10%. Quella che è cambiata, evidentemente, è la persistenza della risposta inflattiva allo shock: negli anni '80 la discesa dell'inflazione fu più lenta, prese un decennio, nonostante il controshock petrolifero del 1986. Ai giorni nostri è stata pressoché immediata, come dicono anche le cronache.

La maggior persistenza è attribuita all'operare di meccanismi di indicizzazione dei salari. Quello che mi colpisce (ve ne avevo già parlato), però, è che il pass-through sia rimasto sostanzialmente identico. Insomma: se oggi incorressimo in uno shock da offerta come quelli degli anni '70, cioè se il prezzo dell'energia triplicasse, avremmo nuovamente un'inflazione in doppia cifra al 20%.

Basta saperlo.

(...ci dormo sopra...)

lunedì 2 giugno 2025

Alla ricerca del fondo perduto (il PNRR e i fuuuuurbi)

Corrado Luciani ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Chi ha dato e chi ha avuto: i numeri veri dei fondi UE":

Commento tardivo perché ho letto l'articolo da poco. Tuttavia i contributi a fondo perduto (esclusi quindi i prestiti) vengono restituiti non completamente, ma pro quota in base al PIL e quindi comunque sborsiamo una parte e non tutto quello che abbiamo ricevuto (comunque ben superiore alla pro quota del PIL). Non è così?

Pubblicato da Corrado Luciani su Goofynomics il giorno 2 giu 2025, 08:48


No, non è proprio così. E non lo è, caro Corrado, per motivi in effetti non agevolmente verificabili. Sul PNRR sei stato disinformato anche tu, come tutti, e di questo non sei certo colpevole. Tuttavia, già l'insistere a chiamare "a fondo perduto" una cosa che a fondo perduto non è (io dico sempre: "le sovvenzioni, cioè i contributi cosiddetti a fondo perduto") è parente del perseverare a chiamare Europa l'Unione Europea, e questo in noi suscita un sentimento di sospetto.

Ma ragioniamo spassionatamente.

Noi abbiamo avuto sovvenzioni per quasi 72 miliardi:


(fonte: la solita), su un totale di sovvenzioni pari a 359 miliardi:


per cui, come correttamente evidenzi, la percentuale di "fondo perduto" è stata superiore alla nostra percentuale sul Pil dell'Eurozona (in effetti andrebbe utilizzato il Reddito nazionale lordo, ma stranamente Eurostat non lo dà e quindi ci teniamo il Pil): rispettivamente, il 19.99% (facciamo il 20%) dei grants a fronte del 12.4% (facciamo 12%) del Pil (poi c'è da controllare se anche qui si usi la PPA e quanto sia il saldo dei redditi primari dall'estero, ma non entro in questo, sono comunque decimali). Vale anche la pena di dare l'ordine di grandezza di questo insigne favore ricevuto: la differenza fra il 20% e il 12% è l'8% dei grants (che avremmo ricevuto in eccedenza rispetto alla proporzione del nostro Pil sul totale europeo), cioè 0.08x359/6 = 4.78 miliardi l'anno (cioè un po' più della metà dei titoli collocati con l'ultima asta dei Btp Italia).

Comunque, finché si tratta di prendere, possiamo anche pensare che ci sia andata bene (ovviamente, senza voler considerare i costi di transazione determinati principalmente dal non poter decidere le priorità di spesa e dal dover sostenere i costi di una serie di nuovi adempimenti burocratici, fra cui il ReGiS).

Si dimentica però sempre che il rimborso, invece, andrà fatto pro quota e noi siamo contribuenti netti.

Ora, il punto che a tutti sfugge (perché viene accuratamente tenuto nascosto) è questo: quanto andrà rimborsato? Il fatto è che nessuno lo sa esattamente. Per quanto possa sembrare strano, il primo studio scientifico sugli scenari di rimborso del "fondo perduto", cioè delle sovvenzioni, cioè sulla parte che incombe sul bilancio europeo, è stato fatto nell'ottobre del 2023 per la Commissione bilancio della precedente legislatura europea su richiesta dei cattivissimi sovranisti e lo trovi qui. Soggiungo che richiesto da chi vi parla se esistessero studi precedenti su questo tema non banale nel quadro di una audizione parlamentare svoltasi il 27 marzo scorso:


il Commissario al bilancio, Piotr Serafin, non ha risposto (del resto, ha voluto un incontro informale, senza stenografico né sommario, proprio per evitare che le sue non risposte venissero non messe a verbale)! Quindi, in base al brocardo qui tacet adsentire videtur, fino a prova contraria la Commissione un piano finanziario sufficientemente articolato per scenari e ipotesi verosimili sull'evoluzione dei tassi di interesse non ce l'aveva, e qui lo sappiamo bene, altrimenti a maggio 2023 non sarebbe scoppiato questo gran casino:


ricordato dall'ottima Pacione De Bello (e alla base della richiesta di approfondimento dei parlamentari del gruppo ID). Mi affretto a dire, per fugare equivoci, che gli autori dall'approfondimento sono tre economisti di provatissima fede europeista (in particolare, io ho conosciuto Claeys quando ero vicepresidente di INFER, come qualcuno ricorderà): basta guardare i loro CV e le loro pubblicazioni per rendersene conto (qui quelle dell'ortodossissimo Gregory).

Ora, to make a long story short, il succo dei loro findings è questo qui:


al bilancio europeo il rimborso del "fondo perduto", fra capitale e interessi, costerà una roba fra i 582 e i 715 miliardi (nel grafico che rappresenta il profilo del rimborso in blu c'è la quota capitale, in arancione la parte di interessi). Ora, volendo fare un ragionamento grossolano, il 12% di 582 miliardi (scenario ottimistico) è 69.84 miliardi, mentre il 12% di 715 miliardi è 85.8 miliardi (naturalmente spalmato sul periodo di restituzione, ci mancherebbe).

Ora, il calcolo può essere complicato a piacere. Suggerisco due direzioni: nel periodo del rimborso noi non saremo solo contribuenti, ma anche beneficiari del bilancio comunitario; inoltre, come ogni prestito, anche le sovvenzioni aiutano a risolvere un problema di liquidità.

Giusto!

Tuttavia: noi resteremo per forza di cose contribuenti netti al bilancio comunitario (avendo un Pil pro capite maggiore di quello degli altri e in crescita), e quindi non dovremo ringraziare nessuno, mentre qualcuno dovrebbe ringraziare noi. Inoltre, il problema di liquidità poteva essere risolto da Draghi quando vigeva la clausola di sospensione generale e il debito era a costo virtualmente nullo: perché si è scelto questo modo così opaco e bizantino di gestirlo?

Perché quello che si voleva, quello che Conte, in particolare, voleva, e ci fu chiaro fin dal suo primo discorso in Senato (con quell'incongruo richiamo all'Unione Bancaria, del tutto non concordato e fuori linea), era rendere il Paese schiavo di Bruxelles. Siamo riusciti a impedirgli di realizzare questo suo piano via MES, ma non siamo riusciti a impedirgli di realizzarlo via PNRR, che resta, sotto questo profilo, un MES che ce l'ha fatta.

Ma attenzione: potrebbe andare ancora peggio! Se leggete con attenzione lo studio di Claeys et al. ci troverete la parola del demonio: rollover. Quello sarebbe l'inizio della fine, e uno dei modi per introdurlo potrebbe anche essere la (lodevole) intenzione di gestire in modo meno drastico il piano di rientro da NGEU. Sarebbe però mettere il piede nella porta degli Eurobond, cioè della definitiva fine della nostra autonomia decisionale.

Pensiamoci bene!

sabato 31 maggio 2025

La Bulgaria, l'Eurostat e il grafico della vergogna (preparando Venosa)

Un rapido post "di servizio" per quelli di voi che amano i dati. Ricorderete il "grafico della vergogna", quello che presentai al #goofy4 e che ultimamente Branko Milanovic ha riproposto, in modo indipendente, su Twitter?


Un grafico piuttosto esplicito. L'ultima volta ne abbiamo parlato qui il mese scorso (e mi è venuta voglia di conoscere Milanovic). 

Mentre preparavo le slides per la Scuola di formazione politica della Basilicata, nel cui contesto interverrò a Venosa il prossimo 13 giugno (se siete nei pressi, fatemelo sapere che vi imbuco), mi sono accorto che l'Eurostat fornisce i dati della vergogna. Nel suo database troviamo cioè il Pil pro capite espresso in percentuale della media dell'Unione Europea, e questo sia in euro che a parità dei poteri d'acquisto (sempre a prezzi correnti). Per arrivarci, dovete seguire questa alberatura del database:


Naturalmente Eurostat si guarda bene dal darvi i dati antecedenti al 2000, altrimenti qualcuno potrebbe notare qualcosa. In compenso, però, fornisce il dettaglio regionale e macroregionale:


che qualche informazione interessante la fornisce (ad esempio, è interessante vedere come l'austerità abbia massacrato relativamente di più il Centro del Nord-Est, determinando un gap fra i rispettivi redditi pro capite).

E visto che in questo momento, mentre trasferisco i dati su un nuovo telefono (sul vecchio mi ci sono seduto un po' violentemente un anno fa salendo a Forca Resuni...), l'ANSA batte questa agenzia:

Bulgaria: migliaia in piazza contro l'adozione dell'euro =  AGI0321 3 EST 0 R01 /

 Bulgaria: migliaia in piazza contro l'adozione dell'euro =

 (AGI/AFP) - Sofia, 31 mag. - Migliaia di persone sono scese in

 piazza a Sofia e in oltre 100 altre citta' bulgare per

 manifestare contro l'adozione dell'euro prevista per il 1

 gennaio 2026. La manifestazione principale, organizzata dal

 partito ultranazionalista Resurrezione, terza forza politica del

 Paese, si e' svolta di fronte alla sede della Banca Nazionale

 Bulgara, con lo slogan "Manteniamo il nostro lev (la moneta

 bulgara, ndr), insistiamo sul nostro referendum", uno slogan che

 riassume l'opposizione del partito - che detiene 33 dei 240

 seggi in Parlamento - all'abbandono della moneta nazionale.

 Le proteste, che si sono svolte anche di fronte alle ambasciate

 bulgare nei Paesi dell'Unione Europea (Ue), si sono svolte senza

 incidenti.

 Gli organizzatori criticano la volonta' del governo di

 introdurre l'euro senza consultare i cittadini e considerano la

 moneta unica una minaccia alla sovranita' economica temendo un

 aumento dei prezzi.

 La Bulgaria e' il Paese piu' povero dell'Unione, con il 30%

 della popolazione a rischio di esclusione sociale.

 Anche il presidente bulgaro Rumen Radev si e' schierato a favore

 della protesta e ha chiesto che la voce del pubblico venga

 ascoltata: "perche' si troverebbe ad affrontare prezzi che lo

 Stato non puo' controllare. Solo pochi giorni fa, le autorita'

 di regolamentazione hanno gia' ammesso di non avere il personale

 o la capacita' finanziaria per un'azione su larga scala contro

 gli aumenti incontrollati dei prezzi".

 Il 9 maggio, Radev ha proposto di indire un referendum per

 decidere l'ingresso nell'eurozona. Tuttavia, il presidente del

 Parlamento si e' rifiutato di sottoporre l'iniziativa ai

 deputati, sostenendo che viola il Trattato di adesione della

 Bulgaria all'Ue, in vigore dal 2007.

 La Corte Costituzionale bulgara sta ora esaminando la

 legittimita' di questo referendum, e la sentenza e' attesa nei

 prossimi giorni.

 Il governo bulgaro prevede di ricevere la prossima settimana una

 relazione straordinaria sulla convergenza dalla Commissione

 Europea, che si augura possa dare l'approvazione definitiva

 all'adozione dell'euro. (AGI)Uba

 311532 MAG 25

 NNNN ********

così, tanto per gradire, vi fornisco Italia e Bulgaria insieme:


e, com'era facile prevedere, ci stiamo venendo rapidamente incontro (purtroppo per noi), ancor più se il calcolo viene effettuato a PPA:


dal che dovrebbe scaturire spontanea una domanda: ma quanto può far schifo il "progetto europeo" se perfino quelli che ne hanno tratto un discreto vantaggio fanno così tanta resistenza a un definitivo ingresso in esso? Capirei noi, che in tutta evidenza ci abbiamo scapitato, ma i bulgari, che al suo interno sono tanto cresciuti (coi soldi nostri) di che cosa hanno paura?

Sospetto che temano che l'entrata nell'euro interrompa la fase di catch-up, di recupero di posizioni rispetto alla media. Sarà un timore fondato, o è un'ondata di irrazionalità fomentata dai soliti populisti irresponsabili?

Per rispondere a questa domanda potremmo dare un'occhiata ai Paesi membri la cui valuta è l'euro più vicini, cioè Slovenia e Slovacchia (la Croazia è entrata da troppo poco perché sia ragionevole individuare un trend), dove le cose sono andate così:


il pallino rosso indica la data di ingresso nell'Eurozona, e subito dopo la ripresa verso la media europea si interrompe o rallenta bruscamente. Certo, essendo a ridosso della crisi qualcuno potrebbe obiettare che il deterioramento del quadro macroeconomico sia un discreto fattore confondente. Tuttavia, chi sostenesse questa tesi dovrebbe spiegarci perché attorno agli stessi anni la Bulgaria continui il suo recupero senza essere minimamente perturbata dal disastro finanziario globale! Ma non sarà che c'è qualcosa nell'Uem che impedisce di reagire correttamente a uno shock esterno? E, badate bene, questo "qualcosa" non può essere il cambio fisso, perché, come vi ho spiegato, nell'Europa a sette velocità il lev bulgaro è già agganciato all'euro!

Poveri bulgari! Per lo meno loro hanno protestato, mentre noi eravamo tanto orgoglioni di essere ammessi alla prima classe del Titanic... Ma ormai per protestare è tardi: per non ascoltare i cittadini basta argomentare che sono stati subornati dai social! Quindi che tutto vada come deve andare, e anzi che ci vada il più rapidamente possibile! Non vorrei privarmi dello spettacolo...

Il Portogallo e le materie prime

Oggi nella prima parte dell’allenamento (quest’anno vorrei andare sul Gran Sasso e ho bisogno di alleggerirmi un po’) ho ascoltato questo:


e mi piacerebbe che lo ascoltaste anche voi.

Riflessioni?

venerdì 30 maggio 2025

E allora la Spagna? (Mito e realtà del PNRR)

Ai piddini, porelli, sta crollando il mondo addosso. Un certo smarrimento, quindi, lo si comprende, con il correlato bisogno di attaccarsi, in cotanto naufragio, alla festuca di un qualsiasi argomento consolatorio per loro, cioè denigratorio per il Paese, all'insegna come sempre del #fateskifen!

Purtroppo però i fatti, che hanno la testa dura, di questi tempi prendono sonoramente a sberle i nemici del Paese.

Guardate ad esempio lo spread, che da due giorni, nonostante i lugubri vaticini di tanti uccelli del malaugurio, se ne sta quatto quatto sotto i 100 punti:

a coronamento di una traiettoria discendente iniziata da quando ci siamo liberati di LVI:


Ma guardate anche e soprattutto come si sgretolano una dopo l'altra le fole autorazziste sulla superiorità etnica degli altri popoli europei, cioè sull'inferiorità ontologica degli italiani, quella pretesa inferiorità utilizzata dal PD per dimostrare agli stessi italiani come la loro unica speranza di redenzione consistesse nel votare per i superuomini di sinistra!


C'era una volta la Germania, locomotiva d'Europa (secondo i coglioni), cui avremmo dovuto ispirarci (ibidem), e che ora, porella, arranca un po':


"Fare come la Germania" oggi significherebbe andare in recessione per due anni di fila, cumulando un -0.6% di crescita su base trimestrale nello stesso periodo in cui noi Untermenschen abbiamo portato a casa un +1.4%. Nessuno dei nostri validi avversari è abbastanza intelligente da capire (o abbastanza onesto da ammettere) che questo esito lo avevamo previsto, lo dimostra il loro ossessivo ed ecolalico refrain della "competitività". Quasi tutti però sono abbastanza furbi da intuire che la canzoncina della Germania incanta ormai solo i gonzi.

Il nuovo argomento per denigrare il Paese quindi è: "Guarda come cresce la Spagna, che ha saputo usare bene il PNRR!" Ora, su come cresca la Spagna un'idea che la siamo fatta: coi soldi dei creditori esteri, seguendo una tradizione consolidata:


"Mi scusi, Bagnai, però lei non può negare che la Spagna stia facendo meglio dell'Italia per quanto riguarda il PNRR!" (direbbe con accenti inquisitori l'operatrice radiotelevisiva di turno). No, la cosa non sta così. Non è che io non possa: semplicemente non voglio negarlo, perché è inutile che lo faccia io! Lo fanno loro:


Mentre il motivo della crescita spagnola che vi ho segnalato io (il massiccio afflusso di investimenti esteri) è comprovato dai dati (e come!), quello continuamente citato dall'average Joe piddino (la Spagna cresce perché usa bene er pereperepere!) è, ahimè, disproved dai dati. La burocrazia borbonica resta tale attraverso i secoli (astenersi neoborbonici!), e in effetti la Spagna è indietro. I dati sono (come sempre) qui, nel Cruscotto del piano di ripresa e resilienza, da cui risulta che la Spagna ha raggiunto solo il 30% dei suoi obiettivi e pietre miliari:


e quindi sta messa decisamente peggio di noi che abbiamo realizzato il 43%:


nonostante che abbia avuto una allocazione di fondi del PNRR di entità comparabile alla nostra (loro il 10,9% del Pil, noi il 9,1%). Chi sta messo peggio però è la Polonia:


un altro di quei Paesi per cui si estasia il piddino: "Sò tanto organizzati, signora mia, e nun c'è 'na carta in terra!" (coi soldi nostri, ovviamente, ma questo è un altro discorso). Risultato deludente anche perché, non essendo scemi, loro di pereperepere ne avevano preso relativamente poco: 


Appena (si fa per dire!) il 7.9% del Pil...

Qualche sera fa ero a cena con un po' di manager non banali. Questa idea che il pereperepere fosse stato indirizzato solo verso le cose che "non inkuinano" (quindi, ad esempio, che non ci fossero soldi per rifare le strade) li lasciava sconcertati. Certo, all'epoca fummo lasciati soli a denunciare questa assurdità, ma quando sei in minoranza è difficile che tu possa avere molta compagnia, e onestamente voci anche autorevoli, se intellettualmente oneste, si sarebbero condannate all'irrilevanza. L'importante è che ora abbiano capito e che sappiano che noi avevamo capito prima (e infatti veniamo ascoltati).

Due considerazioni conclusive (su cui potremo articolare, eventualmente, un paio di QED).

La prima è un educated guess: visto che i suoi ascari stanno messi peggio di noi, non so quanto la Germania insisterà nel suo atteggiamento draconiano (o, come sentii dire una volta a un operatore informativo, "dragoniano"). Considerate anche il fatto che il pereperepere andrebbe rendicontato l'anno prossimo (cioè ieri) e la Germania non sta al 97%, sta qui:


C'è quindi una probabilità assolutamente non nulla che venga proposta una extension (una proroga), e che in questo momento si stia facendo una infondata pressione psicologica (infondata perché in materia di pereperepere "er più pulito c'ha la rogna", come si dice a Roma), solo per precostituire una posizione negoziale di questo tipo: "Sì, vabbè, v'accordamo 'extenscion, ma però voi ce dovete accordà er rollover!" (ovvero: in cambio di tempi più razionali per la rendicontazione di questi lavori, si vorrà stabilire il principio che il debito non debba essere necessariamente rimborsato ma possa essere rinnovato). Ovviamente questo negoziato sarebbe nefasto per noi, significherebbe sdoganare una cosa che i tedeschi, quando non erano disperati, non volevano, cioè gli Eurobond. Tutto sta a vedere come reagiranno i tedeschi alla disperazione (normalmente non benissimo, ma pensiamo positivo).

La seconda considerazione conclusiva si aggancia a quanto dicevano i miei amici AD. La favola del piddino è che la munifica Europa ci ha fornito i fondi per farci diventare più produttivi e quindi più competitivi. La realtà di tutti i giorni è diversa: le amministrazioni che mi chiedono aiuto sono subissate da uno tsunami di adempimenti burocratici riferiti a opere che con la produttività non c'entrano una mazza: asili nido, piste ciclabili, una spruzzata di fotovoltaico... L'idea bizzarra che costruendo un asilo nido a Roccacasteldisotto i novantenni che ivi abitano, eccitati dall'odore dell'intonaco fresco e dalla visione delle placche "Finanziato coi fondi de Leuropa", si congiungano carnalmente a qualche loro coetanea partorendo ventenni che immediatamente inizino a produrre beni per "fare Pil" contiene diversi punti che non mi convincono, ma almeno è una narrazione in cui la produttività (e non solo) si innalza! Ma le piste ciclabili (aka "mobilità sostenibile"), in nome di Dio!, mi volete dire che diavolo c'entrano le piste ciclabili con la produttività? E quindi vi preannuncio quale sarà la prossima "sorpresa" (per gli altri) e QED (per noi): il momento in cui si scoprirà che questa fraccata di soldi serviva solo a comprare la nostra sottomissione, ma ovviamente non ad aumentare la nostra produttività, per il semplice e ovvio motivo che non è molto intelligente pensare che i nostri concorrenti ci aiutino a fargli le scarpe, ci aiutino cioè a diventare concorrenti ancor più produttivi e quindi temibili! Si scoprirà così che alla fine quello che Leuropa voleva era semplicemente aumentare la quota di nostra spesa pubblica da lei intermediata a uso e consumo dei suoi fini, e che quei soldi che abbiamo usato male pagandoli molto li avremmo dovuti prendere sui mercati quando costavano poco per utilizzarli meglio. Si scoprirà cioè che qualsiasi cosa ci avessimo fatto, coi nostri soldi, tranne quelle imposte dal PNRR, avrebbe dato un contributo significativo alla nostra produttività.

Come abbiamo sempre detto.

In fiduciosa attesa di questi due QED, vi saluto e vi auguro una buona serata...


P.s.: anche il simpatico utile idiota lettone ha poco da stare allegro. Il suo Paese sta messo così:


cioè peggio del nostro. So che un piddino non ci crederebbe mai, e nemmeno voi, ma almeno voi potete verificare... perché io vi ho messo in condizioni di farlo!

giovedì 29 maggio 2025

Produttività, salario reale e investimenti

Eggnente...


Corrado Luciani ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Contributo al dibattito sulla produttività":

Personalmente l'avevo sempre visto come una carenza di investimenti, quindi logica conseguenza dell'asimmetria dei tassi di interesse reali (molti pseudo economisti tipo Boldrin non sanno o fanno finta di non sapere la distinzione tra reale e nominale) che è cominciata con lo SME e diventata cronica con l'Euro. Già ho detto che prima ancora di pensare all'uscita dall'Euro occorrono soluzioni per sanare l'asimmetria. Comunque anche il concetto del PIL può essere distorto e possiamo vedere crescita dove in sostanza non ve ne è (la ricostruzione del ponte Morandi e il risarcimento delle vittime ha contribuito a far crescere il PIL o no?).

Pubblicato da Corrado Luciani su Goofynomics il giorno 29 mag 2025, 12:02


Non c'è proprio niente da fare! Il nostro Corrado è un irriducibile discepolo di Etarcos, un piddino di stretta osservanza micugginista: ma noi gli vogliamo bene per questo, perché ci permette di entrare in quel mondo misterioso che è la testa degli individui che sanno di sapere. Dunque, secondo lui (second him, semicit.) la produttività in Italia si è arrestata per carenza di investimenti.

Bene.

So che a lui non interessa, ma magari a voi sì: e secondo i dati?

Per farvelo vedere, estendo questo grafico:


tratto da questo post (cui vi rinvio per tutti i riferimenti alle fonti, che comunque sono queste), inserendo anche l'indice degli investimenti.

Come sappiamo (vedi il post citato), i salari reali in Italia smettono di crescere all'inizio della terza globalizzazione (inizio anni '80) e la produttività alla fine del secolo, quindi la crisi dei salari non può essere legata alla stagnazione della produttività. Ma la stagnazione della produttività può essere legata a una stagnazione degli investimenti?


No, anche se "l'ha detto micuggino" (che fa rima con Giannino) o se "second me" (cit.) dipende da quello, semplicemente perché gli investimenti sono andati crescendo fino al 2007, mentre la produttività già stava calando dal 2000.

Ci siamo?

I fatti stilizzati (chi è del mestiere sa che cosa vuol dire) sono questi, e non altri. Quindi le vostre opinioni avete libertà di esprimerle, almeno qui, ma se poi vi vengono forniti dei dati suggerirei cortesemente di spiegarci perché questi ultimi non si conformano ad esse! Fermo restando che ovviamente post hoc ergo propter hoc è una fallacia logica, ante hoc ergo propter hoc è una impossibilità logica. Quindi sicuramente il nesso causale non può essere: stagnazione degli investimenti -> stagnazione della produttività -> stagnazione del salari, perché anche se c'è un modello teorico (evidentemente sbagliato) secondo cui le cose potrebbero stare così, i dati mostrano il pattern esattamente opposto: salari -> produttività -> investimenti, e anche questa successione di eventi può essere vista come catena causale secondo un altro modello teorico (che a questo punto dobbiamo considerare molto probabilmente giusto, visto che i dati ci dicono quello che ci dice lui...).

Quindi?

Quindi il 99% del dibattito sui media e l'80% del dibattito accademico sono sostanzialmente basati su un approccio teorico profondamente errato, e basterebbe una rapida occhiata (a glance) ai dati per rendersene conto.

Consolatevi: ci sono stati periodi della storia umana in cui entrambe queste percentuali erano più alte (do you remember Ptolemy?). 


(...capite perché sono un po' insofferente con i "second me"? Perché "oggi è facile documentarsi"!...)

Contributo al dibattito sulla produttività

Scusate, faccio una breve osservazione incidentale su un dibattito che si trascinerà ancora per decenni, quello sul ruolo della produttività nel declino dell'economia italiana, cui si è aggiunta in tempi recenti una particolare sfumatura, quella del ruolo della produttività nella crisi salariale.

A sentire i dilettanti, i digiuni di economia, la produttività sarebbe una virtù esogena (e quindi logicamente antecedente) rispetto alle condizioni del sistema economico: o ce l'hai o non ce l'hai, e se non ce l'hai le cose vanno male. Siamo nel regno dei value loaded terms, quelli da cui Myrdal ha cercato invano di metterci in guardia. Evidentemente, essere "produttivo" suona meglio di essere "improduttivo": da qui scaturisce un apparato valoriale implicito che pone all'origine del ragionamento il raggiungimento del Sacro Graal della produttività, a valle del quale si presume che le cose necessariamente miglioreranno.

Una bella favoletta morale.

Il problema è che in concreto le cose non stanno così: la produttività è in re ipsa una grandezza misurabile solo ex post, a conti fatti, rapportando il Pil, così come emerge dalle statistiche, all'input di lavoro (tralascio per il momento il tema della cosiddetta "produttività totale dei fattori", per il quale valgono considerazioni sostanzialmente analoghe, aggravate dall'intermediazione di un concetto economicamente e statisticamente fragile come quello di funzione di produzione). A questo punto torna utile sapere che cos'è il Pil, e l'ultima volta abbiamo provato a spiegarlo qui:

Anche qui, il problema dei value loaded terms traspare: se per misurare l'attività economica la concettualizzi dal lato della produzione (e perché non da quello della spesa? O da quello del reddito?) ti metti su una china che un poeta del Settecento avrebbe definito lubrica. Per evitare di scivolare nel gianninismo potrebbe essere utile un po' di sana, vecchia maieutica:


Perché mai si produce?

Per trarne un guadagno.

E come si trae questo guadagno?

Lo si ottiene desumendo dai ricavi i costi.

E i ricavi come si ottengono?

Vendendo i beni.

Ed è astrattamente possibile vendere i beni se nessuno li compra?

No, per Ercole, naturalmente questo non è possibile!

Ed è forse possibile comprare dei beni senza disporre di liquidità, supponendo per il momento di non essere in una economia creditizia?

No, certo: per acquistare beni devi disporre di liquidità.

Ma allora questa liquidità da dove mai dovrebbe provenire?

Naturalmente dai redditi percepiti dal compratore.

Quindi se per produrre occorre vendere, se per vendere occorre che qualcuno compri, se perché qualcuno compri occorre che quel qualcuno guadagni, possiamo dire che è il prodotto a dipendere dal salario, e non il salario dal prodotto?

Per Ercole, sì: ma questo è il contrario di quanto ci dice l'oracolo catodico!


Ecco.

Già ragionando su questo, cioè sulle semplici definizioni dei concetti, capirete da voi che fra chi parla di "produttività" si annida una lurida ciurma di ciarlatani che cerca di costruire una narrazione colpevolizzante per traslare sulle vittime la responsabilità di decisioni ben precise, sulla cui logica ci siamo lungamente esercitati.

Ma anche restando all'interno del paradigma supply-side secondo cui la produttività è un antecedente logico (anziché un conseguente statistico): se il problema fosse la scarsa produttività, il taglio degli investimenti, di preciso, che soluzione sarebbe?

Il discorso non tiene da nessuna parte. Ma chi continua a farlo continua a essere autorevole. 

Ci vuole molta pazienza.

mercoledì 28 maggio 2025

QED 112: "Because it's France!"

Vi ricordate di quando quello con la sciatica (o l'ubriachezza, a seconda delle versioni) ci venne a dire che la Francia poteva violare le regole because it's France?


Io me ne ricordo abbastanza bene: a quei tempi ero in Francia in un vano tentativo di evangelizzare quelle genti per sottrarle al destino cui le condannava la maledizione dei deficit gemelli.

Dello "sprofondo rosso" francese abbiamo parlato diverse volte. La prima affonda nella notte dei tempi (ma se leggete su un PC, il tag "Francia" nel cloud in fondo alla pagina vi guiderà), una delle ultime è qui, circa un annetto fa (è anche un utile ripasso per chi fosse nuovo di queste parti). La novità (molto relativa) è che oggi torna a parlarne la Corte dei Conti francese, dove è finito un altro dei nostri più cari amici, forse memore delle due parolette che gli dissi tempo addietro:


Insomma, Moscovici, nella sua veste di watchdog dei conti francesi, ci dice niente meno che la Francia rischia una crisi di liquidità a causa della spesa sociale fuori controllo. Il ponderoso Rapporto sulla sicurezza sociale 2025 lo trovate qui. Date le dimensioni, non so dirvi come finisca, ma considerato che comincia male:


presumo che finisca peggio. Sui costi e benefici del teloavevodettismo ci siamo intrattenuti lungamente. Terrò un profilo basso dicendo che non sono molto sorpreso. France it's France, è una verità meno tautologica di quanto possa sembrare. Ma alla fine un vincolo di bilancio c'è per tutti, e qui in Europa tutti abbiamo il peccato originale, siamo stati trasformati tutti in Paesi del terzo mondo dalla scelta scellerata di aderire all'Unione Economica e Monetaria, cioè dalla scelta di renderci (monetariamente) stranieri in patria, come ci aveva spiegato illo tempore uno non esattamente "de passaggio":


L'euro è un downgrade (un degrado) per tutti. Meglio di De Grauwe non saprei dirlo!

Prima di cominciare con la solfa che "n'ha detto micuggino che a Parigi guadagna n'zacco!", o "Numbeo dice che la Francia cresce più di noi", o "basta con questa Schadenfreude!", faccio solo due osservazioni. La prima è la solita: io faccio l'economista e gli economisti fanno scenari. Quando le cose tendono a mettersi come prevedevamo evidenziarlo è utile perché serve a capire se il nostro modello interpretativo funziona. La seconda è la solita (pure lei): so bene che dobbiamo volere il nostro bene e non il male altrui, ma in un sistema che è concepito come un gigantesco gioco al ribasso, una frenetica race to the bottom, le due cose, se non sono proprio parenti, si somigliano molto. Se iMercati avranno qualcun altro da importunare per noi non sarà un gran male, e infatti oggi, nel silenzio generale, lo spread se n'è stato tutto il giorno sotto 100...

Ci vuole molta pazienza...

lunedì 26 maggio 2025

Austerità e fertilità

La cloaca, infrastruttura di rete deputata al trasporto di pacchetti di materiale organico (Synchronous Transmission Relay Of Non-Zero Information), pullula di forme di vita infestanti. Ieri le abbiamo viste particolarmente infastidite da questo grafico:

per il quale si sono affrettati a trovare una serie di esilaranti confutazioni (la maggior parte delle quali derivanti dalla loro ignoranza del fatto che il contrario di "reale" in economia non è "immaginario"...), ma c'è un altro grafico che gli ha fatto molto male, questo:


che del precedente è una conseguenza. Anche qui abbiamo sentito appassionate invocazioni alla complessità del reale, dotte disquisizioni sull'analisi delle serie storiche, acute requisitorie sul cherry picking, tutte a base di "legaiolo, insegni a Pescara, non sei un economista..." ecc., pronunciate da una corte dei miracoli lombrosiana di analfabeti funzionali che ci lascia esterrefatti di fronte al miracolo della democrazia: se degli imbecilli simili votano, è un miracolo che non siamo sprofondati nel Mediterraneo (qualcuno potrebbe invece dire che siamo sprofondati perché quegli imbecilli votano, ma spero che non lo faccia perché avrei difficoltà a confutarlo).

Ora, che ci sia un problema è ovvio e se n'è accorto anche lui:


come pure è ovvio che non ci sia una sola causa. Siamo tutti consapevoli del fatto che le famiglie del 1960 non sono quelle superstiti nel 2025, che una serie di fattori sociologici fra cui l'accresciuta  (se pure sempre insufficiente) partecipazione femminile al mercato del lavoro possono aver influito sulle scelte di maternità, ecc. Immagino che ci saranno ponderosi saggi di esperti del settore che ci illuminerebbero su questo punto. Io posso solo farvi vedere i (pochi) dati che sono riuscito a reperire per chiarirvi il mio pensiero. Qui, ad esempio, vi rappresento per il periodo in cui sono disponibili il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro (proveniente da ILOSTAT) e il tasso di fertilità (proveniente dai World Development Indicators):


Si intravedono benissimo tre periodi. Nel primo, che arriva al 1991, le due variabili si muovono per moto contrario, con una correlazione pari a -0.86. Nel secondo, che arriva fino al 2011, si muovono per moto parallelo (e quindi sì, è stato possibile partecipare al mercato del lavoro e procreare...), con una correlazione pari a 0.87. Poi, dal 2012, qualcosa cambia, e le due variabili ricominciano a muoversi per moto contrario, con una correlazione di -0.71.

Che sarà mai successo fra 2011 e 2012?

I dati del WDI arrivano fino agli anni '60 (ma non quelli sulla partecipazione al mercato del lavoro, che sono di fonte ILO), e quindi posso farvi vedere l'evoluzione nel lungo periodo del tasso di fertilità (bambini per donna) in Italia e in Europa:


Mia madre ne ha fatti tre, quindi era sopra la media per i suoi tempi, ma quello che volevo farvi notare è che tutto sommato gli andamenti sono piuttosto simili. L'Italia scende più rapidamente dell'Europa in due periodi, come si vede meglio prendendo il rapporto fra i due tassi:


Fra il 1973 e il 1986, e poi dal 2012 al 2021 (nel 2022 e 2023 c'è un rimbalzo determinato dal crollo della fertilità altrui: chissà perché, visto che la Germania è in recessione e quando si è disoccupati si ha tanto tempo libero...).

Che sarà mai successo fra 2011 e 2012?

Come al solito, i cantori della complessità del reale contraddicono se stessi incorrendo in un simpatico negazionismo selettivo. Qui nessuno nega che anche altri fattori sociologici influenzino e soprattutto abbiano influenzato il tasso di fertilità: ma bisogna essere ben imbecilli per negare che un ben preciso fattore economico lo abbia influenzato a partire dal 2012! Questo fattore (la depressione più prolungata dell'intera storia italiana):


ha delle caratteristiche di persistenza e di eccezionalità tali che possono benissimo aver determinato un cambiamento di struttura nella relazione fra ciclo economico e scelte di procreazione. Un conto è prendere certe decisioni in un'annata cattiva (come ce ne sono state tante fra A e B), un conto quando non hai un futuro davanti (come fra B e D).

Tutto qua...

Poi naturalmente usciranno dalla cloaca i ratti a ruttarci le loro banalità. Ma desidero sappiate che sulla relazione fra austerità e fertilità esiste una discreta letteratura: come al solito, qui non ci inventiamo nulla, e la nostra unica abilità, a volercene proprio riconoscere una, è quella di toccare con precisione i nervi scoperti del nemico.

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