sabato 4 ottobre 2025

55 anni di salari italiani trimestrali

Dal mio letto di dolore proseguo l'operazione di spietramento delle mie calzature.

Oggi torno su un tema che qui abbiamo affrontato più volte, e che quindi voi, ma solo voi, in Italia conoscete bene: quello della dinamica salariale nel nostro Paese. La motivazione principale per tornare su questo argomento risiede nella lista di oscene stupidaggini che trovate in commento a questo mio post su Facebook. Non mi riferisco, sia ben chiaro, alle espressioni di dissenso rispetto alla mia valutazione politica, che dovrebbe esservi anch'essa ben familiare, e che in estrema sintesi potrebbe essere riassunta così: staremmo meglio se i sindacati facessero, e soprattutto avessero fatto, i sindacati (difendendo i salari), invece di fare i partiti politici (difendendo l'Unione Europea). Naturalmente per chi, come voi, capisce che questi due obiettivi (salari e Unione Europea) sono incompatibili (per i motivi ultimamente espressi anche da Draghi, cioè perché l'Unione Europea costringe a farsi concorrenza sui salari), questa mia affermazione è banale e scontata.

Si potrebbe portarla a un livello più sofisticato di approfondimento ragionando sul fatto che con la delegittimazione e lo smantellamento dei partiti politici, corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 49), nei fatti i sindacati sono rimasti l'unico altro corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 39) a mantenere una struttura organizzata e finanziata. Si può quindi sostenere che il fatto che ormai esercitino una funzione di supplenza rispetto ai partiti nel "determinare la politica nazionale" (art. 49) in senso complessivo, invece di concentrarsi sulla gestione del conflitto distributivo, è anche l'esito di dinamiche tanto perverse quanto oggettive, è anche il riempimento di un vuoto lasciato dall'antipolitica, oltre a essere certamente l'espressione delle velleità parlamentari di personaggi dello spessore di Landini (non questo, che di spessore ne aveva, ma questo...). Fatto sta che l'oblio dei diritti dei lavoratori è nelle cose, lo abbiamo visto (e fra breve lo rivedremo) nel tracciato dei salari, ed è sulle motivazioni di questa negligenza, non su quelle del concomitante impegno in politica, che ci si dovrebbe porre una domanda.

Questa però è materia politica e quindi aperta alla discussione: non ce l'ho con le povere pecore che per un motivo o per l'altro non capiscono che è stato il pastore a portarle al macello, non ce l'ho con chi ritiene di doversi occupare di battaglie altrui avendo rinunciato a combattere le proprie, o per giustificarsi del non averle combattute: va tutto bene! Quello che è veramente desolante è la disinvoltura (e la protervia) con cui chiunque si avventura in materia economica non avendo la benché minima idea di quali siano i concetti chiave, le unità di misura, le definizioni delle variabili, per non parlare della loro dinamica e delle interazioni fra esse previste dalla teoria economica, o semplicemente conseguenti dalla loro definizione! Mi sembra evidente che su queste basi una soluzione realmente democratica dei conflitti è preclusa (altro tema che qui ci è dolorosamente familiare). Di fatto, da molti commenti capirete che pochi sanno che cosa si intende per salario reale, e quindi che cosa ci racconti la sua dinamica: c'è chi chiede di depurarlo dall'inflazione (!), c'è chi sostiene che se il potere d'acquisto è rimasto costante dagli anni '80 non dobbiamo lamentarci (!), e via andare...

Lo scopo di questo post è duplice.

Da un lato voglio riprendere la "Breve ma veridica storia dei salari italiani" (che quindi vi consiglio di rileggere), per due motivi:

  • perché da quando l'abbiamo scritta, a maggio 2025, si sono aggiunti due punti dati (corrispondenti ai primi due trimestri del 2025), e voglio vedere se nel primo semestre di quest'anno si è mantenuto il trend di recupero del potere d'acquisto che avevano evidenziato, e se abbiamo recuperato i valori pre-pandemia;
  • perché voglio estenderla all'indietro, fino al 1970, utilizzando i vecchi dati di contabilità nazionale trimestrale (io non butto mai nulla), in modo da vedere se questi dati trimestrali di fonte ISTAT restituiscono lo stesso profilo visto in "La crisi dei salari e la produttività" (che quindi vi consiglio di rileggere), cioè una crescita lungo tutti gli anni '70 che si arresta all'inizio degli anni '80 su livelli sostanzialmente prossimi a quelli attuali.

Dall'altro, siccome sappiamo che la flessione dei salari (e quello che c'è a monte, cioè l'aumento della disoccupazione, e ancora a monte il taglio degli investimenti pubblici, cioè l'austerità) serve a recuperare competitività, cioè a migliorare la propria bilancia dei pagamenti e la propria posizione finanziaria netta sull'estero, voglio aggiornare l'analisi fatta in "La ricchezza esterna delle nazioni" (quando l'abbiamo scritto c'era ancora Draghi!), per vedere se il recupero dei salari si è già riflesso in una perdita di competitività e ha già cominciato a compromettere la nostra posizione debitoria netta nei confronti del resto del mondo.

Procederò quindi estendendo separatamente i due grafici e evidenziandone le principali caratteristiche. Per snellezza di trattazione, la metodologia (che trovate comunque nei post citati qua sopra) sarà descritta in appendice.

Breve ma veridica storia del salari italiani: aggiornamento

Il grafico aggiornato al secondo trimestre 2025 e esteso fino al primo trimestre 1970 è questo:


(dettagli tecnici in appendice). Elenco le caratteristiche più apparenti:

  1. la crescita dei salari reali sta proseguendo, dopo una pausa nel primo trimestre del 2025, il livello raggiunto nel secondo trimestre 2025 è 6822 euro a trimestre ai prezzi 2020 (rispetto ai 6791 dell'ultimo trimestre 2024), ma siamo ancora dell'1,5% al disotto del livello pre-pandemia (quello dell'ultimo trimestre 2019, pari a 6928. Quindi bene, ma naturalmente non benissimo (ci mancherebbe altro!), e il rallentamento dell'economia mondiale non aiuterà (ricordate? Per distribuire valore bisogna produrlo);
  2. il profilo dei dati trimestrali sui 55 anni considerati è quello che emerge dai dati annuali: crescita vigorosa fino all'inizio degli anni '80, poi un primo arresto, poi di nuovo crescita fino al 1992, poi una flessione, poi una stasi fino alla crisi finanziaria globale, poi una flessione, poi una stasi fino alla pandemia, poi un'altra flessione, e poi la ripresa di cui parlavamo. Diciamo però che il fasheesmo, cioè Giorgia, a occhio e croce con la stasi dei salari c'entra poco. Quando questa è iniziata, lei aveva quattro anni, e per quanto possa essere stata pestifera non credo che riuscisse a perturbare le variabili macroeconomiche.

Il massimo storico, pari a 7347, resta nell'ultimo trimestre del 2005.

Più avanti entriamo nel merito di tutte queste caratteristiche, mettendole in relazione con i cambiamenti strutturali dell'economia italiana, con i governi in carica, ecc.

La ricchezza esterna delle nazioni

Estendendo al 2024 il grafico (che qui si fermava al 2020) otteniamo:

In questo caso le cose vanno decisamente meglio. Nonostante la ripresa dei salari, nel 2023 e 2024 prosegue il deprezzamento reale (cioè l'aumento della competitività) del nostro Paese e conseguentemente migliora la sua posizione netta sull'estero, che è diventata creditoria (positiva) nel 2021 e che nel 2024 ha raggiunto il massimo da quando siamo entrati nell'euro (ma in effetti è il massimo storico, almeno dal 1970, come potreste verificare al solito posto). L'andamento a specchio delle due variabili, previsto dalla teoria economica, è assolutamente confermato dai dati. Si vede anzi che quando nel 2022 il deprezzamento reale si arresta per un anno, la posizione netta sull'estero peggiora lievemente.

Nota bene: siccome una diminuzione della disoccupazione, o un aumento dell'occupazione, fa aumentare i salari, quindi i prezzi, e quindi fa apprezzare il tasso di cambio reale (che è il rapporto fra i prezzi nazionali e esteri), e quindi diminuire la competitività, e quindi peggiorare la bilancia dei pagamenti, e quindi aumentare l'indebitamento estero (o diminuire l'accreditamento estero), non è per niente banale avere simultaneamente il massimo storico dell'occupazione e della posizione  (creditoria) netta sull'estero.

Non lo dico per fare i complimenti alla mia maggioranza, che secondo me nemmeno se ne rende conto (sentite mai qualcuno parlare del vero debito, quello estero?). Lo dico perché siamo qui per parlare di economia, e questa configurazione dei fondamentali macroeconomici è piuttosto inedita e merita di essere evidenziata.

Qualche commento

Partirei dai più ovvi.

Intanto, i salari reali sono i salari nominali depurati per l'effetto dei prezzi. A benefici dei piddini che mi commentano su FB, ricordo che "reale" in economia non è il contrario di "immaginario", ma di "nominale o a prezzi correnti". Il salario reale cioè misura il potere d'acquisto, la "quantità di cose" (res) che puoi comprare col tuo salario. 

Quindi:

  1. non ha senso chiedere di depurare dall'inflazione il salario reale, perché per definizione già ne tiene conto;
  2. non ha nemmeno senso dire che se rimane costante va tutto bene.

Il secondo punto merita un approfondimento.

No, non è corretto dire che se il potere d'acquisto dei salari resta costante allora siamo a posto, per il semplice motivo che per il lavoratore non è un gran vantaggio poter comprare la stessa quantità di cose in un mondo in cui ci sono più cose da comprare! In altri termini, non è detto che quando non crescono i salari reali (la parte di prodotto che va ai lavoratori) non cresca l'economia (e quindi il prodotto totale)!

Se calcoliamo il rapporto fra il monte salari e il prodotto interno lordo otteniamo un rozzo indicatore della quota salari (variabile di cui ci siamo occupati in diverse occasioni):


e constatiamo un altro dei "fatti stilizzati" che i lettori di questo blog conoscono bene, ma l'average Joe piddino non vorrà mai ammettere: al tempo dell'inflazione a due cifre negli anni '70 della liretta e della svalutazione (secondo l'immaginario distorto dei piddini), la quota salari si è mantenuta o è andata crescendo, mentre lungo tutti gli anni '80 e fino alla metà degli anni '90 la quota salari è andata diminuendo, questo perché a partire dagli anni '80, mentre la produttività continuava ad aumentare, la remunerazione reale del lavoro restava costante. Quello che vedete nel grafico soprastante, in altre parole, è la conseguenza di quanto vedete in questo grafico:


che forse ricorderete (ve lo avevo mostrato un anno addietro parlando de "La crisi dei salari e la produttività"). In estremissima sintesi, mentre la corsa dei salari reali si è arrestata con il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia (all'inizio degli anni '80), cioè con le politiche di disinflazione, quella della produttività si è arrestata con l'ingresso nell'euro, cioè con le politiche di deflazione, il che comporta che dall'inizio degli anni '80 alla metà degli anni '90 la quota salari sia diminuita, cioè il tenore di vita delle classi salariate non sia rimasto costante, ma sia arretrato in termini distributivi (la relazione fra produttività, salario reale e quota salari voi la conoscete perché ho dovuto spiegarla a un collega che non la conosceva), in concomitanza del resto con l'aumento della disuguaglianza.

Questo dibattito non è meramente teorico, è anzi dannatamente pratico! Quello che ci dice infatti è che se in termini di salario medio in termini reali oggi siamo tornati ai livelli del 2013, che poi erano quelli del 1988, in termini di quota salari siamo tornati ai livelli del 2010, che poi erano quelli del 1970! Questo spiega come nonostante una dinamica dei salari in crescita i lavoratori non percepiscano un effettivo beneficio, e naturalmente fa capire ancora meglio quanto sia lontana la radice del problema.

Ovviamente non mi fiderei troppo di questi calcoli fatti "sulla carta del prosciutto". Se però prendiamo la variabile "adjusted wage share" calcolata dal database AMECO, con riferimento a variabili diverse (AMECO rapporta i redditi da lavoro dipendenti nominali al Pil nominale e aggiusta ulteriormente per il rapporto fra occupati dipendenti e totale degli occupati) otteniamo una dinamica sostanzialmente simile:


con un declino lungo tutti gli anni '80 e '90 che sarà piuttosto difficile recuperare, in un mondo in cui il capitale ha decisamente più del solito il coltello dalla parte del manico.

In ogni caso, credo sia sufficientemente ovvio che né la mitologica "inflazzione a due cifre" né la temibilissima "svalutazzione" hanno un rapporto immediato e diretto con la dinamica della quota salari, o semplicemente dei salari reali. I salari reali, come qui vi ho fatto vedere fin dall'inizio, sono andati crescendo (e la quota salari è cresciuta o si è mantenuta comunque stabile) nel periodo dell'esecranda "inflazzione a due cifre", come mi pregio di farvi nuovamente vedere su dati trimestrali:


ma anche:


talché pare proprio che contrariamente a quanto credono i piddini, nel lungo termine l'inflazione sia piuttosto amica che nemica dei lavoratori, e sui motivi ci siamo dilungati (ma se qualcuno ha dubbi, sono qui per rispondere). Aggiungo che i salari reali sono diminuiti con l'austerità fra 2011 e 2014, ma non con la svalutazione competitiva dell'euro fra 2015 e 2020! Insomma, il meraviglioso mondo di Drindrin resta una fola per bimbi sciorni (ma rigorosamente col pieiccdì).

Conclusioni

In Italia la crisi salariale va avanti da decenni: la colpa non è del fasheesmo (nel senso di Giorgia), ma, come sappiamo, di un esito del conflitto distributivo per tanti motivi sfavorevole ai lavoratori, per via del quadro complessivo della terza globalizzazione, e, nel nostro contesto regionale, della necessità di competere al ribasso sui salari cui prima dell'euro costringeva anche il Sistema Monetario Europeo. Va da sé che poter trasferire sul mercato valutario una parte dell'aggiustamento macroeconomico aiuterebbe, ma, come del resto dimostrano anche i grafici che abbiamo visto (o rivisto) non è detto che sarebbe risolutivo. La discesa della quota salari, o, se volete, la stasi del salari reali, è iniziata infatti quasi venti anni prima della moneta unica, e se da un lato è vero che il vincolo esterno monetario era già in opera (attraverso il meccanismo di cambi fissi ma aggiustabili dello SME), è pur vero che all'epoca una parte dell'aggiustamento poteva ancora essere scaricata sui cambi (come accadde nel 1992). Nell'unione monetaria il sentiero che la politica economica può percorrere è particolarmente stretto, come ricordava il buon Pier Carlo. Credo converrete con me che lui questo sentiero lo ha percorso con minori risultati del Governo attuale, sia in termini di dinamica salariale, che in termini di assetto dei conti con l'estero. Avere al tempo stesso il massimo storico dell'occupazione e della posizione netta sull'estero non è senz'altro merito di questo governo: probabilmente è molto più merito del fiscal overkill messo su dal PD e dalla troika. Fatto sta che le accuse fatte a questo governo di aver causato la crisi salariale "perché non ha approvato il salario minimo" sono piuttosto ridicole, ne converrete. Non è questo che dicono i numeri.

Qualcuno potrebbe obiettare: "Certo, ma i numeri dicono anche che si potrebbe fare di più! In fondo abbiamo recuperato un buon margine di competitività, potremmo anche spingere di più sul meccanismo deficit-investimenti pubblici-crescita-occupazione-aumento dei salari, senza compromettere troppo i nostri conti con l'estero!" Questo argomento ha una sua tenuta logica ed è esattamente quello che farei anch'io da professore. C'è però un pezzo di complessità del reale che temo sfugga anche a voi. Nei modelli econometrici la spesa pubblica è una variabile, G, che si può far aumentare o diminuire con un clic. Nella realtà, ci sono di mezzo non solo la Ragioneria Generale dello Stato e le regole europee, ma anche il codice degli appalti, la Corte dei Conti, i bandi europei, gli uffici dei ministeri, delle regioni, delle province e dei comuni, dove il personale non c'è, o è troppo anziano, o non è abbastanza formato (perché c'è stato il blocco del turn over, ricordate?), o è troppo scojonato, perché solo l'anno scorso sono stati allocati dieci miliardi per un primo rinnovo dei contratti. Vi ricordate quando pareva crollasse il mondo perché avevamo proposto un deficit al 2,4%? Vi ricordate poi come andò a finire? Che si spese l'1,6%. Come mai? Perché la macchina amministrativa di cui disponiamo, logorata da anni di austerità a trazione PD, non è in grado di assorbire il carico di lavoro necessario per seguire la mole di spesa che astrattamente sarebbe necessaria per rimettere in piedi la baracca. Avrebbe senso far ripartire la solfa dello spread, attirare su di noi invece su chi se la merita (Francia e Germagna) l'attenzione dei mercati, per fare promesse di stimolo di bilancio che poi non saremmo in grado di mantenere? Varrebbe la pena di sostenere in anticipo il costo dell'incertezza sui mercati, senza poter incassare a valle il beneficio dello stimolo di bilancio, solo per far contento er sor Perepè, il compagno Rizzovich, e Foffoletta647827 su Twitter?

Può darsi che secondo voi questo sia essere keynesiano. Non credo che funzioni così, ma ove mai fosse, devo dirvi che preferisco, per me e per voi, essere giorgettiano, o semplicemente napoleonico: "Non bisogna mai interrompere un nemico mentre sta facendo un errore!". Ripeto: perché dovremmo schiantarci sui mercati noi, ora che stanno shortando gli OAT?

"Ma er popolo soffrono, laggente ci hanno fame!"

Beh, sì, questo credo di saperlo, ma è pur vero che siamo in democrazia, e quindi se ci troviamo su un sentiero stretto questo in qualche modo è avvenuto per scelta del popolo sovrano, cui a questo punto, nel suo interesse, dobbiamo sconsigliare di buttarsi di sotto (per questo basterebbe un PD qualsiasi, che ovviamente correrebbe in soccorso degli angioini)! Sapete benissimo che cosa penso di questo percorso: non l'ho scelto, lo trovo irrazionale, ve ne ho spiegato i limiti in lungo e in largo. Ma finché i commenti al grafico dei salari reali sono quelli che ho suscitato su Facebook, vi assicuro che non avremo (e infatti non abbiamo) la forza politica di fare una cosa che in questo momento tra l'altro è inutile: forzare delle regole che... stanno logorando i nostri nemici!

Quindi alle lamentationes de "er popolo" (che ha quello che desiderava) si provvederà, come è giusto, ma mantenendo un quadro ordinato e mantenendo margine di competitività. Ognuno di noi, istintivamente, tende a ragionare in modalità BAU (business as usual). Eppure dovreste sapere, perché è un po' che ne parliamo, che sono dietro l'angolo una guerra e una crisi finanziaria (whatever comes first).

Non è il momento migliore per farsi notare.

E se Foffoletta647827 ci toglierà il follow, ce ne faremo una ragione: non sapendo chi è, ignoriamo l'entità del lutto che dovremmo elaborare, ma possiamo precauzionalmente stimarla a zero e tirare dritto.

Dichiaro aperta la discussione generale (già immagino gli iscritti a parlare...).

Appendice

Per estendere fino al 1970 le serie di contabilità nazionale ho usato una vecchia versione della contabilità trimestrale dal 1970q1 al 1996q3 che avevo usato per un aggiornamento di questo modello. Naturalmente le serie erano in miliardi di lire anziché in milioni di euro. Inoltre la base dei prezzi era in quel caso il 1990 anziché il 2020. Ne consegue che rifacendo i calcoli separatamente sui due database veniva fuori una roba simile:


con una evidente soluzione di continuità, determinata dai due fattori sopra ricordati (diversa valuta, diversa base dei prezzi) e da una serie di revisioni minori, ad esempio nei criteri di revisione degli occupati. Per ottenere una serie relativamente uniforme ho convertito tutto in euro usando il noto cambio irrevocabile (666 lire per euro) e ho retropolato indice dei prezzi e occupati dipendenti utilizzando i tassi di crescita delle vecchie serie, applicati al primo valore delle nuove. Naturalmente all'ISTAT storcerebbero il naso, ma qualora desiderassero applicarsi loro al compito di ricostruire le serie di CN trimestrale fino al 1970 non credo che con metodi molto più sofisticati otterrebbero risultati particolarmente diversi, tanto più che qui quella che ci interessa è l'informazione "a frequenza zero", su cui le revisioni di cui vi parlavo non impattano (come non impatta la conversione in euro, che è semplicemente una moltiplicazione per una costante).

Quanto alla ricchezza esterna delle nazioni, i tassi di cambio reale vengono da qui e la posizione netta sull'estero viene da qui. Come ricorderete dal post del 2022, l'indicatore di competitività è dichiaratamente discutibile: si tratta del tasso di cambio bilaterale fra Italia e Germania, che quindi misura la competitività rispetto a un particolare partner commerciale, mentre la posizione netta è riferita all'intero resto del mondo. Fatto sta che per le caratteristiche strutturali della Germania e per il peso che ha nel nostro commercio questo indicatore è molto esplicativo delle vicende del nostro indebitamento estero, con un coefficiente di correlazione attorno a -63%.

Astensione e risultato elettorale

Chiedo scusa! Metto qui a verbale del Dibattito un'osservazione che ho visto fare a pochissimi: me stesso

il prof. Magnani:


e un'altra persona di valore che sicuramente non vuole essere nominata (nel senso: non qui! Magari in un cda sì, e ne avrebbe tutti i presupposti, ma non nel blog...).

Tengo la formulazione di Carlo: fino a qualche anno (ma forse mese) fa, con un'astensione pari a metà degli aventi diritto in una regione tradizionalmente rouge la sinistra avrebbe vinto con 20 punti di distacco (60 a 40). Il fatto che abbia perso con 8 punti (44 a 52) è una assoluta novità, soprattutto se consideriamo l'azione di disturbo dei partituncoli, alcuni dei quali, per quanto di ideologia "comunista", nei fatti assolvono al compito di sottrarre voti a noi (mi riferisco a Rizzo & Co.).

Pare quindi che a scoraggiarsi, o magari addirittura a votare a destra, siano stati gli elettori di sinistra.

Sarà una tendenza locale o nazionale?

Lo scopriremo presto, osservando le prossime due regioni "progressiste": Toscana e Puglia. Sarà interessante poi tirare le fila del discorso, cosa per la quale mi affiderò a Claudio, l'unico analista elettorale di cui mi fidi ex post, avendo avuto plurimi benefici dal fidarmene ex ante! Se dovesse emergere qualcosa di simile a una effettiva presa di coscienza da parte degli italiani dei danni catastrofici che il PD ha inflitto al Paese ne sarei sorpreso (mi rammarica dirlo), ma naturalmente molto lieto. In realtà credo che una consapevolezza a questo livello non ci sia, non ci possa essere (lo vediamo nel prossimo post), e quindi o il fenomeno che si è manifestato nelle Marche è destinato a restare estemporaneo, o, se si consolida, ci sarà da interrogarsi sulle sue ragioni. Probabilmente, il fatto che il "progressismo" si manifesti come l'occuparsi delle sorti di qualsiasi popolo tranne che del proprio potrebbe aver giocato un ruolo, per quanto la presa emotiva di questo messaggio possa essere forte sugli sprovveduti o su coloro cui non incombe il compito di portare la pagnotta a casa (i cosiddetti "ggiovani"). Chiamiamola eterogenesi dei fini! Ci piacerebbe che il voto fosse guidato da un apprezzamento corretto da parte degli elettori delle effettive dinamiche di classe, ma possiamo tranquillamente accontentarci del fatto che esso sia guidato da una ripulsa istintiva, sempre da parte degli elettori, delle dinamiche di classe fasulle che vengono proposte loro dai "progressisti", purché il risultato sia quello che deve essere!

E intanto l'abbiamo messa a verbale, a beneficio delle vostre osservazioni, e di quelle altrui che eventualmente vorrete riportarmi.

venerdì 3 ottobre 2025

I migranti climatici

(...ma putemm vince la guerr nu?...)


Ulisse ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Esiste un diritto umano a immigrare?":


Caro Professore,

ho ascoltato in differita le dirette di ieri.

È sempre un privilegio ascoltarla e leggerla.

È riuscito anche a citare il Marco Papa di 300 e mezzo. Meravigliosa citazione in dialetto pescarese. Mi sono commosso.

Ciò detto.

Mio papà, che alla veneranda età di 86 anni va ancora in azienda la mattina alle 6 (lui si che si meriterebbe l'onorificienza di cavaliere del lavoro), mi raccontava, quando ero bambino, dei suoi 11 anni in Svizzera, a Berna. Avevano 3 mesi per cercare lavoro e se non lo trovavano li rimettevano sul treno senza troppe cerimonie. La manodopera italiana era ricercatissima e pagata dignitosamente (inoltre il cambio marco/lira permetteva di costruire in Italia, nel caso specifico in Abruzzo, le basi per una vita più che dignitosa. Il mio paese è stato costruito con le rimesse degli immigrati). Ma non esisteva che venisse commesso un reato da un immigrato o che qualcuno fosse privo di titolo di soggiorno.

Quei racconti mi danno la misura di quanto siano stupidi i paladini dell'accoglienza nostrani. Non sanno di cosa parlano quando parlano di immigrazione e di emigrazione.

Il nostro paese ha un apparato sanzionatorio che, nei fatti, è molto blando. Gli stranieri, soprattutto quelli che delinquono, lo sanno e ne approfittano. E il paese di ritrova in una situazione sempre peggiore. Dove regna il caos.

Diritto di immigrare? Gli stupidi paladini dell'accoglienza non capiscono il concetto di coesione culturale di un popolo e quindi non capiscono il concetto di invasione e disintegrazione socio-culturale. È questo ciò a cui stiamo andando incontro.

Ma soprattutto, quando affermano il diritto di immigrare, dicono implicitamente che gli stranieri, nei loro paesi, non possono avere una vita dignitosa. E non capiscono che questa è una forma di razzismo molto sottile.

Io, che gli stranieri me li faccio amici, posso assicurare che ce ne sono molti che sono tanto meritevoli. Ma quelli meritevoli, spesso, e quando non c'è guerra o dittatura nel loro paese (gli afghani di etnia azara si guardano bene dal tornare in Afghanistan) non vedono l'ora di tornare a casa loro. Come mio padre.

Possibile che non riusciamo a trovare il modo di selezionare gli immigrati meritevoli?

Pubblicato da Ulisse su Goofynomics il giorno 30 set 2025, 23:22


(...dopo essere sceso infinite volte di corsa dai miei monti - Porrara, Secine, Pizzalto, ecc. - dopo essere sopravvissuto perfino alla Rava del Ferro - dove però ho corso poco! - martedì scorso, poco prima di questa diretta, ho fatto un inglorioso tonfo correndo a Villa Glori. Attila Gualtieri, aka l'incompetente, che sta buttando giù alberi peggio dell'uragano Vaia (anche a Villa Glori), ha lasciato lungo il vialetto della villa una insidiosa radice su cui il mio lubrico piè si è impuntato, condannandomi a una caduta rovinosa. Ho smorzato l'impatto abbozzando una capriola, ma nel girarmi di fianco per distribuire il peso mi devo essere contuso il torace. Lì per lì non ho sentito nulla, mi sono rialzato con una certa elasticità, ho proseguito la corsa, poi ho condiviso con voi qualche considerazione, ma dopo, arrivato in ditta, ho cominciato a sentire un certo dolore al costato. Dopo una notte difficile, mercoledì mi sono fatto vedere: nonostante le malelingue, sono bello dentro! Le costole ci sono tutte, candide e intatte, ma la contusione mi fa un male cane e quindi oggi, invece di assistere a due convegni cui ero particolarmente contento di prendere parte, per poi salire a pestare la prima neve sulla Majella - ma è meteo, amici, non clima! - me ne sto a letto a risolvere nell'immobilità e con l'immobilità una serie di arretrati. Immaginerete quanto mordo il freno, ipercinetico come sono. Ho deciso di sfogare la frustrazione per questa mia forzata inerzia togliendomi alcune benne di sassolini dalle scarpe, e cominciamo da una delle più colossali stronzate lievi imprecisioni che ci vengono propinate da iBuoni(TM): quella dei migranti "climatici"...)


Trovo l'osservazione di Ulisse particolarmente corretta e pregnante: uno dei due argomenti utilizzati per presentare l'immigrazione come un dato di natura, come un fenomeno ineluttabile e prepolitico, a una più attenta considerazione si rivela essere una sottile manifestazione di razzismo e una inconsapevole ammissione della propria incapacità di comprendere, o scarsa volontà di risolvere, il problema. Perché mai infatti gli abitanti di una delle parti più ricche di risorse del globo sarebbero in qualche modo costretti ad abbandonarla per incapacità di trarne sostentamento, tanto più ora che le nostre dissennate politiche, quelle che ci condannano a morire di fame oggi per non morire di caldo domani, hanno fatto lievitare oltre ogni più sfrenata immaginazione il prezzo di materie prime la cui strategicità un tempo sarebbe stato difficile prevedere?


(...il prezzo del petrolio è il Crude Oil (petroleum), simple average of three spot prices; Dated Brent, West Texas Intermediate, and the Dubai Fateh, US$ per barrel, quello del rame è il Copper, grade A cathode, LME spot price, CIF European ports, US$ per metric tonne, entrambi espressi come indici a base 100 nel 1980, provenienti dal solito database. La Repubblica Democratica del Congo - non a caso un posto tranquillo! - è il secondo produttore mondiale di rame...)

Presumere che in mezzo a tanta bonanza gli autoctoni siano incapaci di provvedere al proprio dignitoso sostentamento significa affermarne implicitamente un qualche deficit intellettuale o culturale. Ma siamo sicuri che questa sia una linea di argomentazione fondata e accettabile?

Una volta la sinistra non dico che si proponesse di risolvere, ma almeno "metteva a tema il" (come dicono loro), cioè parlava del (come dicono le persone normali) problema del colonialismo, dello sfruttamento dei popoli africani, del loro diritto all'autodeterminazione, e di cosa fare per accompagnarli lungo un percorso virtuoso. Oggi il massimo di elaborazione che ci perviene da cotanti intellettuali è una sorta di riedizione for dummies del principio dei vasi comunicanti, quella secondo cui è ovvio che loro debbano venire qui, perché lì sono tanti e qui siamo pochi.

Ma perché la sinistra italiana è regredita verso argomentazioni così infantili e controvertibili?

(...a mero titolo di esempio: è certamente vero che in Africa sono tanti, ma hanno molto più spazio a disposizione di noi, tant'è che la densità della loro popolazione per km quadrato è la metà della nostra...)

Per chi segue il lavoro che stiamo facendo qui da anni la risposta è chiara: la sinistra italiana ha smesso di riflettere sull'autodeterminazione dei popoli africani quando ha deciso di rimuovere psicanaliticamente quella dei popoli europei, cioè quando si è venduta al progetto europeo, a quella mascheratura di una politica di deflazione e di recessione antioperaia, onde ottenere dalla sponda de leSocialdemocrazieeuropee(TM) un sostegno per governare in casa propria contro il volere dell'elettorato (ultimo episodio eloquente: i sorrisetti di Sarkozy; letteratura rilevante: i lavori di Kevin Featherstone). Qualcuno, negli anni '10 di questo secolo, si sarebbe potuto chiedere perché mai impietosirsi per il destino dei bantù e non per quello dei greci, e quindi, per non far venire strane idee all'elettorato piddino, si è preferito dimenticare i bantù! Si è insomma lasciato cadere con eleganza il tema nodale, che è quello di cosa si possa fare per accelerare il cammino dei popoli verso una effettiva indipendenza, per evitare che quel discorso potesse applicarsi anche al popolo che la sinistra italiana in cuor suo più disprezza: quello italiano.

Il fatto è che in Africa questa indipendenza passerebbe, ovviamente, da una cosa che nessuno vuole, e in cuor loro men che meno gli ideologi climatisti e a scendere tutti i volenterosi carnefici della filiera climatista: il riappropriarsi delle risorse africane da parte dei popoli africani. Perché sul climatismo c'è chi mangia a quattro palmenti, e una condizione necessaria, ma non sufficiente, per continuare a farlo è proseguire sulla strada dello sfruttamento coloniale dell'Africa, che oggi vede come protagonista indiscussa la Cina (ma con molto maggiore intelligenza di quella dimostrata dagli europei nel XIX secolo). Il piano Mattei, che colpevolmente non ho mai studiato e di cui non saprei effettivamente argomentarvi i contenuti (ma se interessa posso studiare), ha se non altro il pregio di comunicare qualcosa che una volta era una cosa di sinistra: aiutiamo i popoli africani a progredire a casa loro!

Perché, vedete, qui si intersecano vari livelli di sinistre contraddizioni, che vale la pena di enumerare.

1) Risorse o minus habens?

Una è quella evidenziata da Ulisse: dare per scontato che una popolazione che vive in un territorio così ricco sia ineluttabilmente condannata ad abbandonarlo, consegnando ad altri tanta ricchezza, significa presumere che questa popolazione sia fatta di minus habens: è quindi oggettivamente una forma di razzismo, nemmeno tanto implicito. Ma se l'incapacità dei popoli africani di vivere dignitosamente a casa loro fosse veramente dovuta a una qualche forma di deficit intellettuale o culturale (come affermano quelli secondo cui l'immigrazione è un ineluttabile dato prepolitico), allora crollerebbe la retorica de imigrantichecipaganolepensioni, atteso che difficilmente coi contributi di lavoratori a basse competenze, basso valore aggiunto e conseguentemente bassa remunerazione si potrebbe pensare di sostenere l'onere pensionistico di una popolazione relativamente più evoluta. O no? In altri termini, se non riescono ad essere "risorse" a casa loro, perché mai dovrebbero esserlo a casa nostra, dove qualcuno ce li indica come la panacea di tutti i nostri mali (trascurando come sempre l'aritmetica)? Ma anche, di converso: ammesso che possano essere risorse a casa nostra, perché non dovrebbero esserlo anche a casa loro, dove fino a prova contraria c'è più bisogno? Di questo vogliamo parlare? Su questo qualcuno ci informa?

2) Ogni immigrazione a casa nostra è un'emigrazione a casa altrui

Aggiungo che è ovviamente contraddittorio stracciarsi le vesti per la nostra pretesa incapacità o contrarietà ad assicurare un ipotetico diritto all'immigrazione altrui, e al contempo stracciarsi le sottovesti per l'effettivo problema causato dell'emigrazione dei nostri giovani. Quello che per noi è un problema, cioè la nostra esportazione di capitale umano, il fatto di investire somme ingenti nella formazione di giovani cui non diamo opportunità di lavoro (e quindi possibilità di contribuire alla prosperità collettiva) in patria, evidentemente lo sarà anche, e in misura tanto maggiore quanto più essi sono arretrati, per i Paesi africani, o no? Quelli che imigrantichecipaganolepensioni non se lo pongono il problema di chi pagherà le pensioni agli africani? E allora vogliamo porre la questione nei termini corretti, che non sono quelli di assicurare il diritto all'immigrazione, ma di assicurare il diritto di restare a casa propria, come solo Benedetto XVI ha fatto nel dibattito pubblico occidentale (a meno che io non mi sia perso qualche cosa)? Va da sé che in determinate circostanze, riconducibili alla protezione umanitaria, l'accoglienza resterà un dato non negoziabile (e chi lo nega?). Al contempo, l'accoglienza non può essere vista o addirittura imposta come unica valvola di sfogo di evidenti squilibri strutturali cui dobbiamo porre rimedio innanzitutto a casa nostra, per il duplice ottimo motivo che a casa nostra abbiamo maggiori possibilità di incidere che a casa altrui, e che se non risolviamo i nostri problemi, condannandoci a un lento declino, non potremo assicurare nemmeno la protezione umanitaria (che costa).

Resta sullo sfondo la stucchevole retorica colpevolizzante, elemento costitutivo di ogni pensiero magico, sciamanico, o religioso: dobbiamo accoglierli perché è colpa nostra se stanno male (ma non dobbiamo riflettere su come farli stare meglio)! Non stanno male per colpa mia, né credo per colpa di nessuno di voi, e non è abolendo una vera riflessione, razionale, non deamicisian-sentimentale, sui problemi di questi popoli che potremo tacitare le nostre coscienza. Oddio, il piddino a dire il vero è di facile contentatura: gli basta di potersi sentire buono, e per lui il problema è risolto. Per sentirsi buono, poi, gli basta chiedere agli altri di accogliere indiscriminatamente chiunque nei loro quartieri, come sappiamo. Ma proprio chi, a meri fini di autoflagellazione, riconosce l'eredità storica del colonialismo, dovrebbe esercitare maggiore solerzia nell'individuare le forme che lo sfruttamento prende nella contemporaneità (e l'ecologismo è una di queste), e nel proporre strade alternativa.

Invece l'unica riflessione e l'unica proposta è quella thatcheriana: there is no alternative, l'immigrazione non è oggetto di valutazione politica né può essere oggetto di gestione politica, se non "a valle", perché è un indiscutibile dato di natura.

Che cosa può andare storto di fronte a cotanta profondità di ragionamento e di proposta?

Gli argomenti di natura economico-demografica utilizzati per argomentare l'ineluttabilità dei flussi in entrata da noi sono quindi tutti riconducibili a una matrice razzista, perché non saprei come definire altrimenti (ha ragione Ulisse) una simile radicale sfiducia nella possibilità dei popoli africani di ridiventare padroni del proprio destino. Ma credo sfugga, o almeno non ho sentito mai nessuno rilevarlo, che anche gli argomenti di natura ambientale sono ugualmente razzisti.

Mi spiego: avrete sentito parlare pure voi di migranti climatici, no? L'argomento è una diversa declinazione del TINA (there is no alternative) immigrazionista: sopra ci siamo occupati del "devono venire qui perché sono più di noi", ora vorrei spendere due parole sul "devono venire qui perché da loro fa più caldo che da noi". Insomma: l'idea che l'alluvione umana, come quella idrica, dipenda dal clima, e quindi non possa essere gestita se non con la "transizione", cioè con lo sfruttamento coloniale delle risorse africane (che invece, come sto cercando di far capire, è più un pezzo del problema che della soluzione...).

Bene.

Questa dell'immigrazionismo "climatico" è una gigantesca puttanata, una cretinata che può essere affermata solo da persone totalmente digiune di geografia, tanto ignoranti quanto razziste. La premessa (duole doverla fare) è che il clima equatoriale è caratterizzato dall'assenza di stagioni e da temperature stabili su una fascia fra i 25 e i 30 gradi centigradi, quindi, certo, relativamente calde rispetto alle nostre temperature non estive. Ad esempio, in questo momento a Kinshasa ci sono 32 gradi, con un'umidità del 51%, quindi non particolarmente elevata (non tale da qualificare questa come una giornata umida), mentre a Roma abbiamo una giornata decisamente più fresca e secca, con 19 gradi e umidità al 34%. Noterete che siccome qui fa fresco, oggi nessuno ci sta dicendo che "devono immigrare da noi perché da loro fa caldo". Dato che il piddino è in grado di immedesimarsi coi problemi dell'altro solo quando questi sono i suoi problemi, nei Paesi a clima temperato questo tipo di analisi ha una sua stagionalità: si presenta di solito in estate! Fatto sta che è proprio in quelle circostanze che l'immigrazionismo climatico dimostra tutta la sua fallacia. In un'estate calda, infatti, la situazione a metà giornata di solito si configura così:


(ho preso a caso uno dei miei tanti screenshot: questo è del 19 luglio 2023). Non so se notate l'elegante paradosso: quando il piddino, flagellato dal solleone nostrano, viene a dirci che "dobbiamo accoglierli perché cercano rifugio dalla crisi (?) climaticaaah!11!", a Kinshasa fa più fresco che alla Valle del Sole di Pizzoferrato! Questa cosa non succede per caso (e infatti di screenshot simili rigurgita il mio telefonino), ma per due ben precisi elementi che solo chi è ignorante come una zappa può, appunto, ignorare (come li ignorerebbe una zappa)!

Il primo è che il continente africano è sì più esposto al Sole (avendo un'ampia fascia tropicale), ma capita che nostro Signore, nella sua imperscrutabile sapienza, lo abbia innalzato più dell'Europa rispetto al livello delle acque. Il secondo è che gli africani non sono scemi, e ovviamente potendo scegliere vanno a insediarsi in altura, dove fa più fresco. Se prendiamo le prime dieci capitali europee e le prime dieci capitali africane la situazione è questa (vi metto i conti che ho fatto sulla carta del prosciutto, così potete verificarli):


L'elevazione media dei principali insediamenti in Africa è dieci volte quella dei corrispondenti insediamenti europei (Pretoria è più alta di Gamberale, Addis Abeba è all'altezza della Forchetta di Maiella...), e siccome il gradiente termico verticale è di 0,65 gradi centigradi ogni cento metri, vedi bene che qui ci scappano 6,5 gradi centigradi di differenza a vantaggio proprio di quei Paesi da cui, nell'epos piddino, si scapperebbe "a causa del caldo".

Va da sé che a questa statistica non attribuisco un particolare valore dirimente, ma rimango estasiato dall'ignoranza di quelli che mentre amano atteggiarsi a profondi intellettuali, da un lato ignorano i lineamenti più elementari di quella scienza tanto bistrattata che è la geografia (dovrebbe essere noto che l'Africa subsahariana è un gigantesco altopiano, con quel che ne consegue) e dall'altro - in qualche modo prevedibilmente! - vedono nell'africano un "buon selvaggio" incapace di scegliere in modo razionale il luogo in cui insediarsi. Eppure, se il Sahara è un deserto, questo significa, per definizione, che non c'è nessuno! E ci sarà pure un cazzo di motivo se in un continente di oltre un miliardo e mezzo di persone il luogo più caldo è deserto, no? Sarà perché gli africani, non essendo scemi, nella misura del possibile preferiscono insediarsi altrove, giusto? Quindi l'idea che "poverini, dobbiamo accoglierli perché a casa loro fanno 50 gradi" (massima estiva nel deserto del Sahara) andrebbe un po' rivista, magari dando ogni tanto un'occhiata all'app del meteo sul cellulare (che essendo fatto anche di coltan dovrebbe ricordare alle anime belle l'esistenza dell'Africa equatoriale).

Ecco, scusatemi, questa cosa era un po' che volevo dirvela, e non so perché mi è venuto di farlo oggi. Aspetto le vostre valutazioni.

martedì 30 settembre 2025

giovedì 25 settembre 2025

Europeismo ed ecologismo

Chiedo scusa per l’interruzione: io a queste parole di Antonio Gozzi, relatore al prossimo convegno annuale di a/simmetrie, non trovo nulla da obiettare. E voi?

Eventualmente avrei qualcosa da aggiungere: l’ideologia dell’ecologismo ha forti analogie con quella dell’europeismo, e non è quindi un caso che le due vadano a braccetto.

Il concetto di “transizione” ecologica indica un percorso che parte da un luogo noto, la tecnologia presente, per andare verso l’ignoto, verso un luogo che fisicamente non c’è e forse è impossibile (ripetiamolo: non esiste abbastanza rame per cablare un mondo completamente elettrificato…). Se ci fate caso, è esattamente come il percorso “verso l’Europa”, che parte da una cosa nota (gli Stati nazionali) per andare verso una “unione sempre più stretta” (art. 1 del Trattato sull’Unione Europea), senza che sia specificato quando questa unione sarà abbastanza stretta da poter considerare raggiunto l’obiettivo. La transumanza andava dall’Aquila a Foggia: l’Unione Europea, o la transizione ecologica, dove vanno? Non si sa, non si deve sapere, perché così la responsabilità di qualsiasi incidente evitabile o inevitabile lungo il percorso non possa essere attribuita a chi lo ha proposto, ma a voi, che siete e sarete per sempre colpevoli (nel prezzolato resoconto dei media) di non voler abbastanza di una cosa che non funziona!

Ma la stessa identica cosa vale anche per alcune scadenze temporali perentorie, come l’euro nel 1999 o l’auto elettrica nel 2035! Si propone un obiettivo tecnicamente sbagliato (ma si dice “sfidante”) sperando che il mondo si adatti (ma il mondo segue le sue logiche): lo scopo del gioco alla fine è lo stesso, lo svuotamento della classe media per rimpolpare il reddito degli oligarchi tecnocrati. E anche in questo sacrificio umano la responsabilità viene addossata alle vittime, che non hanno saputo raccogliere le sfide della modernità (cioè che hanno seguito l’ovvia razionalità economica anziché il delirio fascista di quattro idiots savants).

Ci vediamo al #goofy14!

venerdì 12 settembre 2025

QED 114: Kirk


Come potete immaginare, farei volentieri a meno di avere ragione, ma purtroppo non dipende da me. L'analisi fatta lo scorso anno parlando del "conflitto dei fuoriclasse" si sta rivelando drammaticamente attuale: avendo tradito gli interessi del proprio blocco sociale di riferimento (il lavoro), qui da noi in modo particolarmente virulento con l'adesione a un progetto di deflazione salariale (l'euro), ma un po' ovunque sostenendo l'agenda globalista (che è in primo luogo un'agenda di concorrenza al ribasso fra proletariati, qui da noi favorita dalla deflazione salariale indotta dall'euro), il fronte progressista non è più in grado di sostenere una dialettica sana, intellettualmente onesta. Questa impasse lo ha condotto a deviare il discorso su aspetti "cosmetici" (i vari "diritti", che ormai sono intesi solo come diritti "civili" e non più "sociali"), la cui natura di diversivo comincia a essere chiara anche ai più convinti "tifosi" del progressismo. A mano a mano che il discorso "dirittista" perde presa, di fronte alle esigenze concrete delle classi sociali che si rivolgono alla sinistra per chiedere rappresentanza e difesa dei propri interessi concreti (che sono quelli di farsi una famiglia e crescere dei figli, più che di sposarsi col proprio armadillo), l'armamentario dialettico progressista collassa su due fallacie: l'argomento ab auctoritate ("credere nella scienza", per capirci...), e l'argomento ad hominem, cioè la delegittimazione dell'avversario, dove quasi invariabilmente la prima fallacia è utilizzata per perpetrare la seconda (non a caso Kirk viene dipinto come un "negazionista climatico novax" e via dcendo...).

Era facile prevedere, e avevamo in effetti previsto, che questo gioco sarebbe sfuggito di mano ai progressisti, per il semplice motivo che è ormai la destra ad aver assunto la rappresentanza degli interessi che la sinistra non è più credibilmente in grado di difendere, e anzi ostensibilmente lede ogni giorno (perché anche il bisogno di sicurezza è in primo luogo un bisogno delle classi subalterne, non di chi vive nei quartieri altolocati). Ne consegue che la sinistra deve rincarare la dose, non più delegittimare, ma deumanizzare l'avversario, cioè portare avanti esattamente quel discorso di odio che fino a poco fa rimproverava alla destra nel tentativo (parzialmente riuscito) di censurarne gli esponenti. Ci vuole più odio, come ci vuole più Europa, come ci vuole di più di qualsiasi cosa non funzioni, per chi è intrappolato nella visione rettilinea della storia che comanda di avanzare comunque, nonostante il baratro...

Temo quindi che non sia finita qui.

Come credo di avervi scritto da qualche altra parte (qualcuno con più memoria di me se lo ricorderà) in uno scenario simile non mi stupirei se riaffiorassero teorici e pratici della lotta armata. Dobbiamo mantenere la calma e stringerci intorno ai valori della nostra Costituzione: i valori della vera Costituzione, non di quella che ci viene raccontata dai loro guitti. Essere moralmente superiori ai propri avversari espone a un rischio individuale, come questa ultima tragedia dimostra. Abbassarsi al loro livello però espone a un rischio collettivo. Manteniamo la calma e la memoria.

martedì 9 settembre 2025

Cosa (non) sta succedendo in Francia (ma succederà).

Fedele a uno degli aforismi di Flaiano che mi sono più cari (e che vi ho citato qui), potrei dire: "Io della crisi francese ne parlavo nel 2012, ora ne parlano anche gli operatori informativi!", e tirare dritto. Questo atteggiamento blasé e autoreferenziale non sarebbe però compatibile con il mio codice deontologico di insegnante. Per quanto io sia consapevole dell'inutilità dei misi sforzi, mi permetto di insistere con voi su un punto, che non è inedito, perché lo avevo esplicitato già preparando l'intervento del 5 marzo al convegno del Dipartimento Economia della Lega (in questo post). Per evidenziarvi quello che (non) sta succedendo in Francia (ma dovrà succedere), prendo questo grafico di quel post:


e lo modifico leggermente, togliendo la Spagna (di cui ci interessa il giusto), e prendendo come base dell'indice il 1999 (l'inizio dell'età dell'euro):


Ecco, così si capisce molto bene, purché si ricordi che stiamo lavorando con indici, e che quindi prendere come base il 1999 non significa che nel 1999 i salari di Germania, Francia e Italia fossero uguali, ma che vogliamo vedere sinteticamente in che modo sono variati da allora.

Nel 2004 inizia la svalutazione interna (deflazione salariale) tedesca, che nel 2008 porta l'indice un po' sotto 94 (quindi con il famoso calo dei salari reali del 6% di cui il governo menava vanto, come ricorderete). È il crollo della spezzata azzurra.

Nel 2011 (e quindi sì, lo so bene, già con il Governo Berlusconi) l'Italia comincia a seguire, ma solo nel 2012 si vede un deciso e protratto crollo dei salari reali italiani, sostanzialmente analogo. È il crollo della spezzata grigia, reso necessario per recuperare competitività rispetto alla Germania.

E i salari reali francesi, cioè la spezzata arancione?

Non sono ancora crollati. Stanno sì flettendo, ma lentamente, molto lentamente, troppo lentamente, e quindi la Francia non recupera competitività, e continua ad accumulare debito estero, come abbiamo detto parlando dello sprofondo rosso:


Arriverà prima il sudden stop, o se volete il current account reversal, o arriverà prima la Fornère?

Rispondere a questa domanda è piuttosto difficile ma anche piuttosto futile: che siano i mercati a smettere di rifinanziare il debito estero francese (con conseguente necessità del Governo francese di tirare i remi in barca tagliando salari e pensioni), o che sia il Governo francese a tirare i remi in barca tagliando pensioni e salari (con conseguente recupero di competitività e rimborso dei debiti esteri), in ogni caso quello che si osserverà sarà il ritorno del saldo delle partite correnti in territorio positivo, e una massiccia esplosione di disordine sociale.

Quello che non è ancora successo, ma succederà, quindi, è il crollo della spezzata arancione. Ma la spezzata arancione potrebbe anche "slittare" (verbo che di questi tempi si applica in contesti nautici). Come detto mille e una volta: se i salari "slitteranno" (come stanno in parte facendo), l'accumulazione di debito estero e di debito pubblico rallenterà, ma il problema non si risolverà, resterà lì. Se crolleranno, il problema del debito estero si risolverà e quello del debito pubblico si accentuerà.

Chi è qui da un po' sa già perché, chi è qui da poco può chiedere, e gli sarà dato. A me interessava fissare una volta di più questo punto, nella mia umile qualità di persona che ha capito nel 2012 che cosa (non) sarebbe successo nel 2025, e che quindi ha interesse a restare ahead of the curve dicendovi quello che potrebbe succedere nel 2026. Va da sé che se fa il botto la Francia noi potremmo trovarci di fronte a scenari inediti, e che quindi, naturalmente, si farà di tutto per non farglielo fare, questo botto, cercando magari di tenere lo spread in caldo per una eventuale ascesa di un governo lepenista.

Fosse così, non sarebbe il 2026 ma il 2027 (o il 2028).

In ogni caso, auguri!

#tuttoqua

domenica 7 settembre 2025

Il reale spread

Lo spread per antonomasia è lo scarto fra il rendimento dei titoli di stato decennali italiani (BTP) e quello dei corrispondenti decennali tedeschi (Bund). Lo trovate in tanti posti, ad esempio qui, e oggi si presenta così (i mercati sono chiusi, quindi i dati arrivano a l'altrieri): 

Senza negare l'importanza di questo indicatore, vorrei però segnalarvi un altro scarto, cioè spread: quello fra la crescita della Germania e la nostra. Qui metto prima la Germania, e sottraggo l'Italia, per avere omogeneità di lettura: così come è negativo che il rendimento del titoli italiani sia di molto superiore a quello dei corrispettivi titoli tedeschi (perché questo significa che i mercati finanziari percepiscono il debito italiano come più rischioso), altrettanto sarebbe negativo se la Germania crescesse molto più rapidamente dell'Italia, quindi costruendo così lo spread "reale" (quello fra i due tassi di crescita) possiamo leggerlo come lo spread "finanziario" (quello fra i due tassi di interesse).

Naturalmente il Pil non si misura ogni giorno, quindi lo spread "reale" può essere misurato solo a cadenza annuale o trimestrale.

Quello annuale è qui:


e ci vedete quello che sapete (la Germania è cresciuta più dell'Italia solo quando ha fatto dumping salariale a partire dal 2003 e quando ci ha imposto via sorrisetti la funesta austerità a partire dal 2012), mentre quello trimestrale ve lo fornisco per gli ultimi tre anni ed è qui:

Da quando ci sono i fascisti questo spread è nullo o negativo (insomma: quando le va bene la Germania cresce come noi, altrimenti di meno), e questo per gli antifascisti è un bel problema, perché se osserviamo la serie su un periodo più lungo:

magari isolando il periodo pre-pandemico, per evitare che i picchi della pandemia schiaccino troppo il profilo dei dati:

constatiamo che al glorioso ma ormai tramontato tempo dell'antifascismo lo spread fra tassi di crescita era per lo più positivo, a indicare che mentre la sinistra macellava i lavoratori l'Italia, stranamente, arrancava.

Questo lo dedichiamo a quelli che "ma la produzzzzione industriale sta diminuendo!"

E grazie... tante! Con Germania e Francia in recessione da un paio d'anni (e in calo di produzione industriale da quasi dieci, nel caso tedesco) che cosa volete che succeda al nostro Paese, dopo che voi gli avete legato il macigno europeo al collo?

Fra l'autunno 2022 e oggi abbiamo fatto quasi tre punti di crescita cumulata in più rispetto alla Germania: se per i tassi di interesse si usa la Germania come benchmark, usiamolo anche per la crescita reale, altrimenti il discorso è falsato! Dire che nel 2024 siamo cresciuti poco perché abbiamo fatto solo 0.7 sarebbe come dire che oggi i tassi di interesse sono bassi perché sono al 3% o negli anni '80 alti perché erano al 15%. Alti o bassi rispetto a cosa?

Il fatto è che nel 2024 la Germania ha fatto -0.2, quindi noi eravamo sopra di 0.9 (aiutatevi con la calcolatrice). Questa è la valutazione da fare, la variabile da controllare, e quella su cui riflettere. La affido quindi alla vostra riflessione.

sabato 30 agosto 2025

Premiata armeria Hellas: tredici anni dopo

Antonomasia ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Premiata armeria Hellas: saldi di fine stagione (1° parte)":


Chiarissimo Professore,

Sto preparando una proposta di progetto di ricerca in Diritto del'Unione Europea finalizzata a problematizzare alcuni passaggi della transizione verso la moneta unica a partire dall'Atto Unico Europeo.

Tuttavia, ritengo sia piuttosto velleitario rapportarsi in modo critico a questi temi senza aver maturato una coscienza critica delle storture economiche connaturate alla moneta unica.

Pertanto, ho deciso di ripercorrere dall'inizio i passaggi della Sua preziosa attività, che, del resto, fu la ragione per la quale, ormai quattro anni or sono, ho cominciato ad interessarmi di euro.

L'intento di questa premessa non è certo un goffo tentativo di captatio benevolentiae, quanto piuttosto una giustificazione che spero sia suscettibile di rendere un po' meno inappropriata la tardività del mio intervento sotto questo post, che ho trovato illuminante a tal punto che ho deciso di rivolgermi al database del WEO dell'aprile 2025 per costruire un grafico, sulla base dei dati riportati nella Figura 1 e 2, che constasse anche dei numeri relativi agli ultimi dodici anni, in modo da prendere coscienza degli sviluppi più recenti.

Ebbene, ho selezionato le voci "Total Investment", "Gross National Savings" e "Current Account Balance", tutte espresse in punti di PIL ma mi sono trovato innanzi a risultati diversi da quelli che Lei riporta nel post:


- Per quanto riguarda il primo balzo dell'indebitamento estero (biennio 1998-2000), mi risulta che le partite correnti in punti di PIL aumentano dal 2,7% al 6,1% (3,4 punti di PIL anziché 5).

- Per quanto attiene al secondo scalino (biennio 2005-2007) mi risulta che effettivamente l'indebitamento estero raddoppia (o quasi, dal 7,5% al 14,1%), ma che sia l'aumento degli investimenti (di circa 4,5 punti di PIL) a fungere da traino, anziché il calo del risparmio nazionale (circa 2,2 punti di PIL).


Ovviamente, parto dal presupposto che l'errore è mio - presumo sia legato alla scelta delle voci del database - ma le sarei grato se me lo potesse indicare.

Con immensa stima,

Valerio

Pubblicato da Antonomasia su Goofynomics il giorno 14 ago 2025, 15:20



Per chi si fosse messo in ascolto solo ora, nel post "Premiata armeria Hellas" ho mostrato in dettaglio la relazione fra risparmio nazionale, investimento nazionale, e saldo della bilancia dei pagamenti, cioè l'identità di contabilità nazionale:

CA = S - I

secondo cui se in un Paese il risparmio nazionale S supera gli investimenti nazionali I l'eccedenza viene prestata all'estero determinando un saldo positivo delle partite correnti (CA>0), cioè un accreditamento netto verso l'estero, mentre di converso se S è minore di I il saldo CA è negativo, cioè indica un indebitamento estero, conseguenza del fatto che gli investimenti nazionali vengono in parte finanziati con risparmio estero.

Questa relazione non è negoziabile: è così e basta, per definizione. Non ci possono essere errori: i soldi che vengono spesi da qualche parte devono arrivare, la partita doppia sconti non ne fa.

Con questa premessa, osservo che a me troppi complimenti e troppa modestia urtano subito i nervi, quindi ho aspettato un attimo a rispondere (anche perché qui il campo è poco e quindi prezioso). Il punto di metodo che a me sembra ovvio (ma io coi dati ci lavoro da sempre) è che prima di pronunciare la parola "errore" ci si dovrebbe accertare di usare il medesimo set di dati, altrimenti la parola da usare è un'altra. Errore mio o tuo (o suo, o nostro, o vostro, o loro) ci sarebbe se usando il dataset che usavo nel post del 2012 si ottenesse un risultato diverso da quello che mostravo nel post, cioè da questo:


Per scrupolo, ho rifatto il grafico con la stessa fonte (questa) e ho ottenuto gli stessi risultati:


Se però uso la fonte citata dal cerimonioso amico, senza sorpresa alcuna ottengo i risultati che dice lui:


come potrà esservi più chiaro se rappresento questi dati in forma tabellare, concentrandomi in particolare sulle variazioni fra 1998 e 2000 e fra 2005 e 2007:


Quindi, ossequioso Tommaso, errori non ce ne sono: coi miei dati la formula (che non può sbagliare) dà i risultati che dico io, e con i tuoi dà quelli che dici tu. Non si tratta pertanto di errore, ma di revisione. Ci deve essere stata una revisione delle statistiche, e per vederlo basta raffrontare i dati del 2011 con quelli più recenti (che rappresento con tratteggio):


La cosa che salta all'occhio è che la revisione ha avuto un impatto pressoché impercettibile sul saldo (grigio), perché i flussi sono entrambi traslati verso l'alto di qualcosa fra uno e quattro punti di Pil, a seconda delle circostanze. Il messaggio complessivo non è cambiato molto (ci torno dopo), ma intanto segnalo che questa revisione è relativamente recente ed è stata analizzata in dettaglio da un nostro amico:


le cui conclusioni sono che il lodevole tentativo di armonizzare le statistiche nazionali greche con quelle degli altri Paesi europei abbia portato ELSTAT a produrre dati di qualità, diciamo, migliorabile (chi mi segue sa che cosa significa: "ci sono ampi margini di miglioramento").

Non entro nei dettagli tecnici del ragionamento (chi vuole approfondirli potrà farlo sul paper di Gennaro), ma uno dei problemi riscontrati è col deflatore degli investimenti e questo ovviamente impatta sulla relazione CA = S-I.

Fatta questa precisazione, che serve anche a ricordarci come i dati macroeconomici non siano incisi nel marmo (nessun dato lo è, nemmeno nelle scienze sperimentali), ma siano il risultato di stime, per cui riscritture più o meno involontarie della storia sono sempre dietro l'angolo, possiamo porci la domanda di come questa particolare riscrittura impatti sulla nostra lettura della crisi greca, basata sul modello "centro-periferia" (ciclo di Frenkel). Direi non moltissimo: l'indebitamento estero resta tutto lì (la riscrittura non altera l'andamento del saldo estero), e il fatto che dopo questa revisione dei dati esso sembri attribuibile un po' di meno alle famiglie e un po' di più alle imprese non cambia la sostanza delle cose, che è che se l'ingresso nell'euro non avesse distorto pesantemente il mercato dei capitali in Grecia, portando il costo del denaro molto lontano (verso il basso) dal suo valore di equilibrio, nessuno, né le famiglie, né le imprese, avrebbe avuto un incentivo così forte a indebitarsi (con banche estere).

Direi quindi che nel dubbio se la revisione effettuata da ELSTAT sia effettivamente valida, possiamo continuare a prendere per buona la nostra analisi del 2012. Certo, ora le cose sono andate avanti, e quindi possiamo toglierci la curiosità di vedere questa sfaccettatura del miracolo greco:


che così miracoloso non è: la correzione del 2011-2012 è evidente ed è in parte determinata da un aumento del risparmio e in parte da una diminuzione degli investimenti, che poi procedono pari passu fin quanto la pandemia non sconvolge il quadro, determinando prima una diminuzione del risparmio, e poi un aumento degli investimenti, che entrambi riportano il saldo estero verso le due cifre. Come di consueto, il Fmi ci rassicura: le previsioni (a destra della retta verticale rossa) ci dicono che il saldo estero migliorerà perché aumenterà il risparmio nazionale. Fra altri tredici anni sapremo che cosa pensare di queste previsioni (o meglio: avremo la certezza che quanto ne pensiamo ora - tutto il male possibile! - era corretto).

Spero che questo ripasso sia servito, e che se qualcuno, arrivato dopo, si era perso quel post, si sia incuriosito e sia andato a recuperarlo, perché è in effetti uno dei post "fondanti" del blog.

E con questa esortazione, vi auguro buona notte!

La triplice e i trilemmi

Ieri sono sceso a Roma per un incontro con i sindacati metalmeccanici. La richiesta veniva dalle tre sigle FIM-CISL, FIOM-CGIL e UILM ed era rivolta ai capigruppo parlamentari. Il capogruppo Molinari ha delegato me in quanto vicecapogruppo più vicino ai temi economici (gli altri sono Iezzi, in Commissione Affari Costituzionali, Bruzzone, in Commissione Agricoltura, Coin, in Commissione Affari Esteri, e Furgiuele, in Commissione Trasporti). L'incontro è stato molto costruttivo e le preoccupazioni espresse dai sindacati sostanzialmente condivisibili. Il punto tecnico, che credo conosciate, è che la "decarbonizzazione", cioè il passaggio a forni alimentati con energia elettrica prodotta emettendo CO2 (perché alternative per il momento non ce ne sono!), comporta la necessità di produrre "preridotto" (il cosiddetto DRI, che in qualche modo possiamo immaginare come l'alternativa alla ghisa prodotta nel ciclo tradizionale in altoforno), gli impianti per il preridotto richiedono altra energia, da produrre usando altro gas e quindi producendo altra CO2, e quindi per farla breve il piano dei commissari di governo prevedeva lo stazionamento a Taranto di un rigassificatore che però il sindaco di Taranto, interpretando l'opinione dei suoi elettori, non vuole assolutamente. L'alternativa sarebbe fare il preridotto da un'altra parte (Gioia Tauro?), il che comporterebbe, oltre alla perdita di posti di lavoro a Taranto, il simpatico paradosso che per decarbonizzare si dovrebbe trasportare il preridotto da Gioia Tauro a Taranto, ovviamente via nave, e quindi, altrettanto ovviamente, producendo altra CO2. Il dato positivo è che i sindacati trovano congruo il piano del Governo, il dato spinoso è che il problema ce l'hanno a sinistra, non a destra, perché che io sappia il sindaco di Taranto leghista non è. Va da sé che le elezioni imminenti non aiutano un ragionamento razionale, e vedremo quindi come andrà a finire.

Avrete comunque capito, da questo breve resoconto, che la CO2 è esattamente come l'altro idolo polemico dei piddini, erdebbitopubblico: tutte le strategie proposte per combatterla la fanno aumentare, o almeno non diminuire quanto si dice, il che pone la questione del perché mai un Paese che conta per lo 0,83% delle emissioni globali:


dovrebbe innescare bombe sociali come quella di Taranto e condannarsi all'irrilevanza, considerando che i rimedi proposti se non peggiori, non sono molto migliori del male. Ma su questo so che siete d'accordo con me (tranne il Comico, che però ci ha prematuramente abbandonato lasciando un vuoto colmabile dal buonsenso).

Ovviamente io ho ascoltato con rispetto e non ho polemizzato su nulla, anche perché non ne vedevo sinceramente il motivo, evitando qualsiasi tipo di sottolineatura politica tranne una, necessaria, al fatto che il partito in cui mi onoro di militare era stato il primo e l'unico fra quelli italiani a opporsi a tutte le follie del Green Deal per esattamente gli stessi motivi per i quali chi ce le ha proposte ora ci sta ripensando (fra cui, appunto, l'impatto sociale).

Resta il fatto però che mentre svolgevo rispettosamente il mio ruolo con la triplice, non potevo togliermi dalla testa il trilemma.

Quale?

Non quello di Mundell e Fleming, che gli economisti conoscono:

secondo cui non puoi avere contemporaneamente libertà dei movimenti di capitale, tassi di cambio fissi e controllo della tua politica monetaria, ma devi rinunciare a una di queste tre cose:

a) se hai tassi di cambio fissi e libertà dei movimenti di capitale, non puoi controllare il tuo tasso di interesse, perché se lo fissi a un livello inferiore a quello prevalente sui mercati finanziari internazionali subirai una fuga di capitali che renderà insostenibile il cambio fisso, forzandone il deprezzamento (questo è in qualche modo il mondo dell'euro, e prima quello del gold standard);

b) simmetricamente, se hai libertà dei movimenti di capitale ma manovri il tuo tasso di interesse, ovviamente devi lasciare che fluttui il tuo tasso di cambio (questo era in qualche modo il mondo dello SME, con la sua fluttuazione controllata);

c) quindi, per controllare il tuo tasso di cambio e il tuo tasso di interesse, devi controllare i movimenti di capitale (questo era in qualche modo il mondo di Bretton Woods).

Non pensavo nemmeno al trilemma "aumentato" di Rodrik, che trovate qui e che conoscono (spero) anche i politologi:



nella parte inferiore della figura (quella superiore riporta il trilemma standard di Mundell-Fleming), secondo cui non puoi avere simultaneamente completa integrazione economica (vista come sviluppo dell'integrazione dei mercati finanziari, cioè della mobilità dei capitali), stati nazionali, e democrazia, ma puoi solo avere due di queste cose (una spiegazione esauriente la fornisce Orizzonte48):

a) se vuoi integrazione economica mantenendo gli Stati nazionali devi accettare che questi siano ingabbiati da una camicia di forza che circoscriva l'ambito delle loro politiche (e questo è lo stato attuale dell'UE), rinunciando quindi alla democrazia in favore delle "regole";

b) puoi avere integrazione economica e democrazia se rinunci allo Stato nazionale e ti sposti verso una prospettiva federale come quella statunitense (qui da noi impraticabile per ovvi motivi storici e culturali): a tendere si avrebbe un mercato mondiale governato dagli Stati Uniti del Mondo (ma resta da chiedersi quale sia il significato che Rodrik dia alla democrazia in assenza di demos: questo non mi è affatto chiaro...);

c) poi, naturalmente, puoi avere (come in qualche modo, imperfettamente, avevamo) democrazia e Stati nazionali se rinunci alla piena integrazione economica, e questo è ovviamente il compromesso di Bretton Woods, in cui i vincoli ai movimenti di capitali (e quindi la libertà dal ricatto dei mercati) dava qualche grado di libertà in più ai governi nazionali.

No, io pensavo a un trilemma analogo, ma di tipo diverso, un trilemma di Bagnai che sostanzialmente dice che non puoi avere insieme Europa, decarbonizzazione, e posti di lavoro (posto che queste tre cose prese singolarmente abbiano un senso, e secondo me lo ha solo l'ultima), ma puoi avere solo due di queste cose:


Come potrete constatare qui, questo trilemma non ha tantissimo a che vedere con il "nuovo trilemma" proposto da Rodrik nel 2024, che si riferisce alle prospettive di sviluppo dell'economia mondiale, ma ha un significato molto più circoscritto, facilmente sintetizzabile:

a) la "decarbonizzazione" proposta dall'"Europa" col green deal distrugge posti di lavoro (e produce CO2), quindi se vuoi "Europa" e "decarbonizzazione" devi rinunciare al lavoro (prova ne sia che la Germania sta pensando di creare posti di lavoro nell'esercito!);

2) l'"Europa" potrebbe tornare a produrre occupazione solo se adottasse un approccio pragmatico, che comporterebbe il rinunciare all'obiettivo ideologico della "decarbonizzazione" (lanciato per favorire la riconversione dell'automotive tedesco, ma sostanzialmente fallito);

3) un vero balzo in avanti tecnologico (chiamiamolo "decarbonizzazione", per capirci) compatibile con la creazione di posti di lavoro richiederebbe livelli di investimenti pubblici incompatibili con le regole europee (fiscali e monetarie) e quindi con l'"Europa".

Per me è abbastanza chiaro da che parte dovremmo stare in questo grafico: da quella del "Bretton Woods (compromise)" e quindi della rinuncia alla cosiddetta "Europa", che in un modo o nell'altro ci condanna a un progressivo e inarrestabile slittamento verso l'irrilevanza economica, tecnologica, politica. La mia sensazione, che ovviamente mi sono tenuto per me, è però che qui in Italia i sindacati vogliano tutto, e tutto non si può avere, né secondo Mundell-Fleming, né secondo Rodrik, né secondo quanto abbiamo sotto gli occhi, di cui vi ho offerto una personale e discutibile sintesi.

Voi a che cosa rinuncereste?