giovedì 17 aprile 2025

Come si fa a far scendere i salari?

Questa domanda me la son sentita fare alla fine dell'ultima lezione tenuta alla Scuola di Formazione Politica della Lega, ma prima ancora me la sono sentita porre dai più disparati interlocutori cui risultava difficile capire, o, nel caso fossero piddini, ammettere, che l'aggiustamento macroeconomico in una unione monetaria avviene a spese dei salari nominali.

L'obiezione cretina dell'average Joe piddino è: "Ma i salari nominali contrattuali non sono scesi! Quindi caro Bagnai stai mentendo: tutt'al più potrai dire che c'è stato un aggiustamento dei salari reali, cioè che i lavoratori non sono riusciti a recuperare tutta la perdita del potere d'acquisto dovuta all'inflazione, ma una diminuzione dei salari nominali è impossibile!"

Strano però che dai dati risulti:


come vi ho mostrato qui. Come si spiega questo apparente paradosso, cioè il fatto che i sindacati non abbiano esplicitamente negoziato degli accordi salariali al ribasso, ma i salari nominali siano ugualmente scesi? Spiegarlo in effetti non è difficile, e lo facemmo a suo tempo qui, cioè in un post di questo blog scritto nel mese evidenziato in questo grafico:


La soluzione dell'arcano è immediata: i salari si fanno scendere con la disoccupazione.

Al piddino, essere autocentrato e quanto mai privo di empatia, questo dettaglio sfugge, ma a voi non sfuggirà. Il taglio dei salari nominali ovviamente non si verifica con il datore di lavoro che entra in azienda e ti dice: "Ho una brutta notizia per te: da domani ti pago di meno!". No. Funziona in un modo diverso: il datore di lavoro entra in azienda e dice: "Ho una brutta notizia per te: da domani te ne vai!"

In pratica non fa nemmeno esattamente così, ma insomma il risultato è comunque che tu te ne vai: e quando sei in mezzo a una strada, quando non guadagni nulla, è sufficientemente ovvio che per rientrare nel mercato del lavoro accetterai anche una mansione o comunque una paga più bassa. Ripeto: non è una grande novità. Gli economisti la chiamano curva di Phillips, qui ce ne siamo occupati svariate volte, soprattutto per contestare la bislacca teoria della Giovanna d'Arco della MMT secondo cui questa relazione non sarebbe esistita (ma le sfuggiva un dettaglio).

Mi è tornata in mente questa storia (e questa domanda) in relazione a uno scambio in calce al post precedente:


Come mai in Spagna la dinamica del costo del lavoro è così sostenuta, nonostante che la disoccupazione sia così alta?

Basta prendere i dati: quelli della disoccupazione sono qui e quelli del costo del lavoro sono qui (nota bene: ho scelto dal database Eurostat le stesse definizioni di disoccupazione e costo del lavoro utilizzate dalla procedura per gli squilibri macroeconomici).

In Spagna le cose stanno così:


La relazione inversa fra variazione del salari e tasso di disoccupazione, W = f(U), è ben evidente, ma è spostata molto a destra, il che significa che occorre un tasso di disoccupazione veramente molto alto, attorno al 20%, perché i salari accennino a flettersi (cioè perché il loro tasso di variazione diventi negativo, scenda sotto l'asse delle ascisse). Ci sta quindi benissimo che con una disoccupazione al 10% il tasso di crescita del costo del lavoro (nominale) sia attorno al 12%.

Vi risparmio (e quindi, nel caso ne siate al corrente, risparmiatemi) le infinite seghe mentali econometriche su come stimare o non stimare questa relazione: la prendiamo qui come mera sintesi descrittiva di dinamiche che certo non sono né lineari né bidimensionali, ma a ogni giorno basta la sua pena, e un R quadro del 61% ci dà sufficienti garanzie del fatto che il modello, pur nella sua semplicità, qualcosa del mondo ce lo sta raccontando.

Ma da noi le cose come stanno?

Stanno così:


La nostra curva di Phillips è spostata molto più a sinistra, il che comporta che già per tassi di disoccupazione attorno al 12% si possono avere tassi di variazione del costo del lavoro nominale negativi.

A cosa sono dovute queste differenze strutturali così marcate? A tanti fattori sociologici e economici, a partire, naturalmente, dalle istituzioni che regolano il mercato del lavoro. A dire il vero, gli indicatori OCSE sulla rigidità delle norme a protezione dei lavoratori sembrerebbero indicare maggiori tutele nel caso dell'Italia:

In teoria questo comporterebbe che i lavoratori italiani sarebbero in condizioni di resistere maggiormente alle pressioni al ribasso sui loro salari, e quindi che occorrerebbe un tasso di disoccupazione più elevato per farli cedere. Tuttavia, abbiamo imparato qui quanto possiamo fidarci dell'OCSE, e quindi non siamo poi così tanto stupiti che i dati indichino l'esatto contrario!

Una dotta disamina dell'effetto delle riforme "strutturali" sul mercato del lavoro spagnolo la trovate qui a cura dei nostri amici del Fmi, ma sinceramente dei casi altrui potevo occuparmene quando ero un docente universitario: ora che sono un parlamentare devo occuparmi dei casi vostri. Se qualcuno ha voglia di leggersela con l'intelligenza artificiale e di raccontarci in che modo "Carlo is correct!" si arrampica sugli specchi ben venga.

Intanto, riassumendo, mi avete chiesto un approfondimento e ve l'ho dato: non è strano che il cruscotto della MIP indichi in Spagna un tasso di disoccupazione e un tasso di crescita dei salari entrambi piuttosto elevati rispetto agli standard italiani: significa semplicemente che la curva di Phillips spagnola è più in alto di quella italiana.

Sul perché lo sia magari torniamo un'altra volta, o lo scopriremo dalla discussione che seguirà...

mercoledì 16 aprile 2025

Le analisi dell'Europa

Ricorderete l'immortale scena in cui una delle tante di passaggio rimprovera a Woody Allen di aver creduto, nella sua ipocondria, di essersi preso un melanoma, e lui replica: "Ma avevo una macchia nera sulla schiena!", e lei controbatte: "Sì, ma era sulla camicia!"

Ieri anche il vostro ecclesiarca aveva qualcosa di simile a una macchia nera sulla camicia (il colore era un altro, non era la camicia e non era una macchia, ma insomma...), e quindi questa mattina ha colto l'occasione per vincere la pigrizia e fare tutte le analisi in programma (tutte negative, nel senso di positive, perché, sempre per citare il noto attore, passata una certa età le parole che è più bello sentirsi dire non sono "ti amo!", ma: "è benigno").

Con l'occasione, mi è venuto in mente (perché la mia ecclesia è naturalmente sempre in cima ai miei pensieri) che vi avevo promesso, qualche post fa, di farvi vedere le analisi dell'Europa, cioè come si stavano comportando i vari Stati alla luce degli indicatori della MIP (Macroeconomic Imbalances Procedure). L'idea era un po' quella di vedere, laddove arrivasse uno sgrullone (ad esempio una crisi finanziaria, perché la storia non è finita...), quali Stati membri sarebbero più esposti a rischi, almeno secondo le metriche dei nostri illuminati sovragovernanti.

Il quadro di sintesi è questo:


e come vedete noi siamo ultimi (cioè primi) a pari merito con la Polonia, mentre il maggior numero di analisi positive (cioè di segnali di allarme) lo consegue l'Irlanda, l'unica ad avere sei valori fuori scala.

Il quadro di dettaglio è questo:


Mi interessano e incuriosiscono le vostre considerazioni.

Come vedete, in alcuni casi i segnali che provengono da questo cruscotto sono o sembrano contraddittori. Ma questo difficilmente colpirà l'attenzione dei nostri amici piddini. L'unica cosa che avranno difficoltà ad accettare è che secondo la loro amata Leuropa l'odiata Italia (Paese di mandolinisti) sia la prima della classe...

Sul significato da attribuire a questa classifica potremmo esercitarci a lungo.

Chi comincia?

martedì 15 aprile 2025

Reperti

L’algoritmo me lo propone, e immediatamente ve lo rilancio:


Chi c’era?

Fa abbastanza impressione vedere quante cose sono cambiate in dieci anni. Credo di aver imparato qualcosa, io.

E voi?


Sui dazi (a futura memoria)

Domenica scorsa ci siamo divertiti:

Torno sull’episodio per valorizzare un mio educated guess: siccome Trump è già arrivato dove voleva arrivare (mettere sui prodotti europei un dazio pari a quello medio europeo, che è del 10%, contro il 2,5% di dazio medio Usa prima dell’intervento), è molto probabile che allo scadere dei fatidici novanta giorni (il 4 luglio prossimo, se non ricordo male) non succeda un accidenti di nulla.

Quelli bravi mi dicono che Rai3 tira giù da YouTube i nostri video, quindi non vi posso “embeddare” la trasmissione, che trovate (spero) qui (si possono inserire video anche da Rumble ma non mi va di fare tutta la sbatta da cellulare in attesa del decollo da Genova)!

Quindi, ricapitolando: fra meno di tre mesi vi offro la preziosa (perché rara) opportunità di darmi del coglione, cosa che potrete fare se si scatenerà l’apocalisse, oppure torneremo nella tana degli operatori informativi e ricorderemo la differenza fra chi, non per suo merito ma perché è andata così, ha studiato quella materia arida e noiosa che è il commercio internazionale, e chi, a domanda tecnica, altro non sa rispondere che “Trump pazzo fascista cacca pupù!”.

Tre mesi passano in fretta!

Con l’occasione, vi ricordo anche la congettura di medio periodo sul TTIP. La storia dello “zero a zero” a me non piace per nulla e peraltro storicamente non è mai piaciuta al partito in cui mi onoro di militare, da sempre scettico sulle virtù del liberoscambismo. Quella storia mi preoccupa molto di più, ed è una delle tante occasioni in cui spero proprio di essere smentito dai fatti. In alternativa, mi cercherò una casa in montagna con sorgente, orto, e pollaio.

E ora, decolliamo da GOA per FCO: la giornata è ancora lunga!

lunedì 14 aprile 2025

Ancora sul declino

Ricordate il "grafico della vergogna", quello presentato al #goofy4?

Ve lo riporto qui:

Qualche giorno fa Branko Milanovic ha twittato un grafico simile:


dove le differenze sono due: il riferimento è il Pil mondiale, e viene aggiunta la Polonia. Il messaggio però è lo stesso: il punto di arresto del recupero e quello di inizio del declino grosso modo coincidono.

Mi è venuta voglia di ripetere l'esercizio, e l'ho fatto usando i dati dei World Development Indicators:


Qui si vede in effetti una differenza fra il rapporto al Pil pro capite mondiale e a quello dell'Eurozona. Rispetto all'Eurozona l'arresto (il punto di massimo relativo, quello dove si arresta una lunga serie di crescita) è nel 1988, mentre rispetto al Pil mondiale leggermente dopo, nel 1992; di converso, l'inizio del declino, cioè l'altro punto di massimo relativo (quello dove inizia una lunga serie di decrescita) è nel 2001 in entrambi i casi.

A questo punto, visto che qui desideriamo stare ahead of the curve e che eravamo stati autorevolmente raggiunti, mi è venuta voglia di fare un passo avanti, che sicuramente anche altri avranno fatto da qualche parte, calcolando il rapporto fra il Pil dell'Eurozona (EMU sta per Economic and Monetary Union) e quello mondiale. Il risultato è questo:

e si vedono alcuni dati interessanti: ad esempio, per l'Eurozona il periodo dello SME credibile (dal 1987 in poi) è un momento di grande accelerazione, mentre noi in quel periodo ci fermiamo, il che significa, in sostanza, che la Germania all'epoca ci guadagnò più di quanto noi ci perdemmo, o almeno così sembra. Al contempo, anche l'Eurozona è in declino dall'inizio del secolo, con un massimo relativo nel 2001.

Sembrerebbe di poter dire che quello che ha fatto il male delle parti non abbia fatto il bene del tutto.

Prevengo un'obiezione (in realtà, ce ne sono varie: anche se il 2002 è stato il primo anno in cui abbiamo avuto l'euro in tasca, è pur vero che i tassi di cambio fra valute europee erano fissi irrevocabilmente dal 1999 e sostanzialmente dal 1997, ad esempio): nel 2001, più esattamente l'11 dicembre, è successa anche un'altra cosa, l'ingresso della Cina nel WTO:


Indubbiamente un evento che ha segnato un incremento del peso della Cina nelle relazioni commerciali, e di conseguenza nella distribuzione del Pil mondiale:


Un fattore confondente non da poco, ove si vogliano accertare le responsabilità della moneta unica, e della conseguente necessità di una guerra fratricida sui salari fra Paesi dell'Unione Europea, nel declino che abbiamo documentato.

Restano due considerazioni: la prima è che la progressione della Cina era iniziata prima del nostro declino, e che gli Stati Uniti, nonché il resto del mondo, hanno "tenuto botta" molto meglio di noi rispetto a questa progressiva affermazione della Cina, il che significa, in tutta evidenza, che noi ci abbiamo messo del nostro dotandoci di istituzioni che ci hanno reso più fragili, non più forti, nel panorama della globalizzazione.

La seconda è che, per quel che mi riguarda, io non ho particolarmente voluto né l'ingresso dell'Italia nell'euro né l'ingresso della Cina nel WTO, e non mi sentii all'epoca particolarmente coinvolto in un dibattito circa l'opportunità di favorire questi ingressi. Semplicemente, queste cose accaddero, e solo un ristretto numero di esperti si pose qualche domanda (e fra questi non c'ero io, che all'epoca ancora non mi occupavo di Cina e non partecipavo al dibattito pubblico, né tanto meno potevo ambire a crearlo ove non ci fosse, come poi fu dieci anni dopo).

Resta il punto che forse l'ultimo grafico ci spiega meglio di tanti discorsi quello che sta succedendo oggi (si veda ad esempio l'intervista del da voi vituperato Giorgetti su Libero), e che se continuiamo così fra una ventina d'anni il nostro peso sul Pil mondiale sarà ampiamente sotto la doppia cifra.

Ci saremo condannati all'irrilevanza: il "gigante economico, nano politico e verme militare" sarà diventato un nano economico per essere stato un verme politico (ovviamente restando un verme militare).

Sipario!

(...e buona giornata!...)

domenica 13 aprile 2025

Spagna e Irlanda alla luce della MIP

Allora: vediamo rapidamente che cosa ci dice la MIP (Macroeconomic Imbalances Procedure) sulla situazione di due Paesi idolatrati dall'average Joe piddino: la Spagna (vedi al post precedente) e l'Irlanda (suggerisco agli utenti desktop di cliccare sul tag "Irlanda" nel tagcloud in fondo alla pagina, o agli utenti mobile di digitare una roba tipo "Irlanda site:goofynomics.blogspot.com" nel loro motore di ricerca preferito, laddove non amino le sorprese).

Lo scoreboard (pagella, cruscotto) della MIP:


lo trovate qui e vi chiederei la cortesia di dargli un'occhiata non per altro, ma per capire quanto tempo occorre per fare un discorso basato (sui dati). Non è però necessario aprirsi uno per uno i database perché potete accedere direttamente al cruscotto cliccando sull'elemento evidenziato in fondo alla lista:


o aprendo questo link.

Lavorando un po' su "Customise your dataset" e modificando la presentazione dei dati ho organizzato le informazioni così:


mettendo in riga gli indicatori e in colonna i Paesi raggruppati per anno. Ogni indicatore ha una soglia, quindi una volta caricati in Excel i dati per ottenere un cruscotto immediatamente "espressivo" basterà utilizzare la "Formattazione condizionale" per evidenziare i valori fuori scala, e naturalmente lo si può fare anno per anno.

In questa circostanza vorrei dare all'esercizio due significati: quello di fornirci elementi per capire se veramente quello spagnolo (e quello irlandese) siano un miracolo oggi, e quello di aiutarci a capire se, poniamo, nel 2011, quando sono partiti sia il blog che la MIP, le indicazioni fornite dal cruscotto su questi Paesi erano tali da giustificare un allarme. Messa al contrario la potremmo dire così: alla luce della maggiore o minore capacità del cruscotto di segnalare per tempo quei problemi che sappiamo essersi materializzati, potremmo vedere se oggi il cruscotto indica la potenziale emersione di problemi simili. L'esercizio potrebbe poi essere esteso a tutti i Paesi dell'Unione, per vedere quale stia messo meglio e quale peggio. Se è vero, cosa di cui i piddini sono convinti, che siamo in mano a un pazzo che scatenerà una tempesta, può essere utile verificare quale albero abbia radici sufficientemente profonde, e quale no. Ma partirei intanto dai nostri tre Paesi: Irlanda, Italia e Spagna per affinare il metodo.

Usando la rilevazione (Statistical annex) del 2012 nel 2008 il cruscotto (headline indicators) si configurava così:


Diciamo che di segnali di allarme ce n'erano a sufficienza, nei Paesi che poi hanno passato guai più seri del nostro. Il nostro aveva sostanzialmente un unico problema, quello che sappiamo essere dal punto di vista della teoria economica il meno rilevante: un rapporto debito pubblico/Pil superiore al 60%. Gli altri lo avevano molto inferiore ma questo non li ha salvati. Circa gli altri indicatori del nostro Paese che sono fuori scala nella tavella [addendum delle 8:31: Nell’ultimo post c’è un refuso, ma è così bello che lo lascerei. Tavella: “Apparecchio usato nell’industria della seta per riunire un certo numero di bave in un unico filo”.], la variazione del tasso di cambio effettivo reale lo è per tre decimali (soglia 3), il debito privato è comunque intorno alla metà di quello degli altri Paesi, l'unico altro indicatore preoccupante era la perdita di quota di mercato all'esportazione. Non mi soffermo qui sul senso o nonsenso economico di questi indicatori e in particolare quindi sulla fondatezza e asimmetria della loro scelta e delle loro soglie.

Vediamo come si presenta la situazione oggi, considerando gli headline indicators dello Statistical Annex del 2025:

I due quadri non sono direttamente raffrontabili perché ai 10 indicatori riportati per il 2008 se ne sono aggiunti tre: la variazione del CLUP (Costo del Lavoro per Unità di Prodotto, riportato nell'ultima riga come Unit labour cost: se ne parlava questa mattina alla Scuola di Formazione Politica); il tasso di partecipazione alla forza lavoro; lo spacchettamento del debito privato fra famiglie e imprese.

La situazione del nostro Paese è molto migliorata: l'unico indicatore fuori scala è, notoriamente, il debito pubblico, che ora però è un problema anche per la Spagna, che in più è fuori scala con il debito esteri (Net International Investment Position), con la disoccupazione e infine, stranamente, anche con la variazione del costo del lavoro. Dico stranamente perché in un Paese ad alta disoccupazione ci si aspetterebbe una certa moderazione salariale, che invece non c'è e ovviamente mette a rischio l'indicatore di competitività (che invece è, anch'esso stranamente, positivo, segnalando un modesto deprezzamento in termini reali). La situazione irlandese denota la consueta fragilità finanziaria nel settore delle imprese, con un debito estero e privato totalmente fuori scala e un sostanzioso aumento del costo del lavoro. In entrambi i casi (Spagna e Irlanda) siamo a quattro violazioni a una rispetto al nostro Paese, la cui unica violazione però non impensierisce i mercati:


forse perché quanto scrivevamo qui da essere opinione "eretica" col tempo è diventato patrimonio analitico comune (non per merito nostro ma della forza persuasiva dei fatti: il famoso "se non ti entra in testa..." ecc.).

Tornando al tema che tanto vi cruccia, le festività pasquali con la connessa necessità di scontrarsi col paziente piddino (ma non era "Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi"? Ma allora forse il parente piddino ve lo andate cercando voi, in preda a una sorta di sindrome di Stoccolma), direi che la questione del "Eh, ma la Spagna cresce!" si può tranquillamente risolvere con un: "Indubbiamente, ma ci deve essere qualcosa che non va, perché è una crescita che non genera posti di lavoro, visto che il tasso di disoccupazione è a due cifre, quindi fuori scala secondo la Commissione, che in più indica valori preoccupanti di debito estero e un aumento preoccupante del costo del lavoro. Facile crescere coi soldi degli altri, speriamo che non debbano restituirli tutti insieme come quindici anni fa. Posso avere un altro uovo?...", e alla questione del "Eh, ma micuggino in Irlanda lavora per Google e guadagna un sacco di soldi!" si può tranquillamente rispondere con un: "Mi fa piacere per lui! Sì, in effetti in Irlanda il costo del lavoro cresce sopra la soglia di allarme della Commissione, che ovviamente si preoccupa per la connessa perdita di competitività. Forse questa prosperità può essere legata al fatto che l'Irlanda ha un debito estero che è più del doppio superiore alla soglia di allarme: molte grandi aziende internazionali vanno a investirci per avere una base nell'Unione e disporre di personale anglofono. Peccato che poi i profitti fatti in Irlanda vengono rimpatriati all'estero e questo ha già mandato in crisi il Paese una quindicina di anni fa, ma questa volta sicuramente #andràtuttobene. Mi passi la corallina?"

Tanto non capiscono.

Non sono cattivi.

Se voi piantate un chiodo con serenità e dandogli ragione, ma affermando i fatti statistici e la loro probabile evoluzione, magari, se se ne ricordano, fra un paio di anni vi considereranno una specie di Nouriel Roubini (cioè un grande economista, o un grande iettatore, a seconda dei punti di vista). Il segreto è mantenere la calma...

Poi con calma facciamo uno screening completo su tutti i Paesi, così vediamo a chi tocca la prossima volta, perché una crisi finanziaria prima o poi ci dovrà pur essere, indipendentemente dalla follia reale o presunta di Trump!

Intanto, buona serata!

(...domani sono a Genova:


Non ci sarà tempo di dire alcunché di sensato e compiuto, anche se ci si proverà, quindi potete tranquillamente astenervi. Io intervengo per incontrare tanti amici, e naturalmente perché è un onore, un piacere e un dovere presenziare alle attività del Dipartimento, ma quello che dobbiamo dirci di sostanzioso ce lo possiamo tranquillamente dire qui, come abbiamo appena fatto, e considerato che l'intervento inizierà all'ora in cui di solito ceno - e avrò pranzato in aeroporto - sarà difficile incontrarmi di buon umore: se volete conservare di me un buon ricordo, nel caso in cui mi incontriate potete tranquillamente ignorarmi. Io i piddini in trasmissione li sopporto con grande scioltezza: sono le violazioni del bioritmo che mi alterano l'umore! Il fanciullino pascoliano che è in me mal sopporta che gli si alteri l'orario della poppata: ma dobbiamo essere flessibili, ce lo chiede Leuropa
...)

Simmetrie

Il progetto europeo è qualcosa di così distante dalla possibilità di reale esercizio della democrazia (perché è difficile immaginare una democrazia senza demos) da far perdere ai suoi fanatici il senso del perimetro all’interno del quale la democrazia può ragionevolmente essere agita, nel rispetto del fondamentale principio di autodeterminazione dei popoli.

Vi faccio due esempi uguali e contrari tratti dal dibattito recente.

I dazi sono imposte, e sono come tali soggetti al noto principio no taxation without representation, un cardine, anzi, direi di più: un elemento genetico delle democrazie occidentali. Ora, se è vero che i paesi che si uniscono in una unione doganale accettano di avere una tariffa doganale comune, e quindi uguali dazi nei riguardi dei paesi terzi, resta il fatto che questo accordo vincola i paesi che ad esso aderiscono, i quali, a casa propria, hanno il diritto di regolarsi come meglio credono, ma che gli accordi tra loro conclusi non attribuiscono loro alcun diritto di decidere la struttura delle aliquote di alcuna tassa in alcun paese terzo! Ne consegue che un paese terzo può imporre dazi diversificati alle merci di provenienza da diversi paesi membri di una unione doganale, mentre i membri di una unione doganale, per definizione, non possono opporre dazi diversificati alle merci di provenienza da un paese terzo. È una semplice e immediata conseguenza del principio sopra ricordato: no taxation without representation. Il governo degli Stati Uniti rappresenta i cittadini degli Stati Uniti e impone loro quella particolare imposta che sono i dazi nella misura che ritiene conveniente e nelle modalità che ritiene opportune, rispetto alle quali gli eletti e i governi europei non hanno alcun diritto di mettere bocca. La democrazia funziona così, e ignorarlo indica scarsa consuetudine non tanto con la teoria pura del commercio internazionale, quanto con le più banali e consuete prassi della politica democratica.

Simmetricamente, in uno degli ultimi editoriali del nostro amico Piroetta, si rinviene questa perla:


Sì, avete letto bene: secondo il nostro autorevole piroettatore Trump può decidere le politiche di investimento della Germania, e quindi dovrebbe farla investire anziché imporle dei dazi! Sfugge un dettaglio: che le politiche di investimento della Germania le decidono il governo e gli imprenditori tedeschi, su cui Trump non ha alcuna presa, se non quella indiretta, che sta utilizzando, consistente nell’applicare dazi ritorsivi. Assistiamo quindi al doppio paradosso, o se volete, alla doppia piroetta,  di una persona che rimprovera a Trump di non star facendo una cosa nel modo sbagliato, mentre Trump la sta facendo in quello giusto.

Giavazzi che non capisce che in Germania sugli investimenti tedeschi decidono i tedeschi è simmetrico alla legione di sprovveduti che non capiscono che negli Stati Uniti sui dazi degli Stati Uniti decidono gli americani

D’altra parte, si potrebbe pensare che se da un lato è vero che in Germania comandano i tedeschi come negli Stati Uniti gli americani, dall’esterno si possa esercitare un minimo di moral suasion per indurre un governo sovrano in casa propria a “fare la cosa giusta”. Per carità, tutto è possibile, ma risparmiateci un film già visto! Questo tipo di moral suasion è stato esperito invano per anni dal partigiano Joe:

Risultati, credo sia corretto dirlo, non se ne sono visti: il capitalismo tedesco va per la sua strada come ha diritto di fare, e se non deflette quando glielo chiede un premio Nobel come Stiglitz, non defletterà neanche quando glielo chiede Giavazzi, atteso che la materia in cui quest’ultimo eccelle (la danza classica) non prevede un così prestigioso riconoscimento.

In questa incapacità a riconoscere, o forse ad ammettere, che i popoli abbiano il sacrosanto diritto di autodeterminarsi, si riconosce tutto l’orrore di un progetto nato per conculcare i popoli europei con la teoria fallimentare e fascista del vincolo esterno di cui appunto il nostro è stato uno dei primi e più accesi propugnatori. Un progetto che continua imperterrito a perseguire il male delle parti, illudendosi così di fare il bene del tutto, ma condannandoci invece ad una lenta ma inesorabile discesa verso la totale irrilevanza. Per chi ha deciso che gli italiani non possano comandare a casa loro suona assolutamente familiare e anzi desiderabile l’idea che non possano farlo né gli statunitensi né i tedeschi. Peccato che non funzioni così e quindi, prima di venire al pettine, i nodi dovranno ingarbugliarsi ancora un po’.

sabato 12 aprile 2025

Slidificando...

(...domattina sveglia all'alba per Agorà - a proposito, devo mettere il banner sui social! - poi lezione alla scuola di Siri. Sono incapace di dire due volte le stesse cose in pubblico, non ho il discorZetto pronto da riciclare, cioè ce l'ho ma non voglio usarlo, perché a che cosa servirebbe insegnare se non ad apprendere? Ma allora ogni occasione va sfruttata per cercare nuove prospettive...)


 (...ne parliamo domani con chi viene, e sul blog dopodomani con chi non ha voluto o potuto venire...)

Ma abbiamo anche dei difetti!


“Io più chiaro di così non lo so dire” (cit.), ma “mi verrebbe da dire” (cit.) che gli sforzi di chiarezza fatti a beneficio di chi le cose non vuole capirle sono sempre utili a chi li fa ma mai a chi li riceve! 😉

Dichiaro aperta la discussione generale, ma abbiate pazienza perché devo tornare di corsa a Roma e quindi non potrò partecipare per le prossime due o tre ore.

(…grazie a marco per averci segnalato il perspicuo Miran…)




venerdì 11 aprile 2025

La fine della svalutazione competitiva?


Oggi sono tutti contenti perché l'euro si sta rafforzando. Significa che è credibile (?), ma significa anche altre due cose: che prima si stava indebolendo, nonostante l'incredibile affermazione di Barisoni secondo cui non noi avremmo svalutato negli ultimi anni (i dati sono questi e vengono da qui, se gli volete bene mandateglieli), e che quelli secondo cui i dazi avrebbero danneggiato irrimediabilmente il nostro commercio ora potrebbero trovarsi a fronteggiare un altro tipo di sfida, come dicevamo a gennaio. Eh, sì: perché una rivalutazione dell'euro sul dollaro è una svalutazione del dollaro rispetto all'euro.

Ci faranno poi sapere se l'orgoglio di avere una monetona fortona è una ricompensa sufficiente rispetto all'inevitabile contenimento della domanda estera (esportazioni verso gli Usa).


(...intendiamoci, il mondo è più complicato di così e la cosa più onesta da dire è che in questo momento nessuno ci sta capendo nulla. Il fatto che esistano squilibri fondamentali non vuol dire che essi vengano corretti, che vengano corretti ora, che vengano corretti così. Ma ignorarne l'esistenza sicuramente non aiuta di più a capire che cosa sta succedendo...)

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