lunedì 8 dicembre 2025

Un altro sguardo sul suicidio europeo: gli investimenti pubblici netti

(...tutto questo blog è dedicato al suicidio europeo, quello da cui gli Usa ci hanno messo in guardia due giorni fa - poi ne parliamo - e uno dei post più recenti sul tema è questo...)


AC ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Tre discorsi: "La political economy della LSP" (discorso numero due)":


C'è una fonte di dati, o un'analisi, affidabile sugli investimenti pubblici netti che includa paesi extra-UE "significativi"? Si fa un gran parlare (non abbastanza) del fatto che la UE sia "rimasta indietro" su più o meno tutto, e mi era venuta la curiosità di guardare a questo parametro per altri paesi, o magari gruppi di paesi, ma non trovo molto a riguardo, al di fuori dei dati (se non mi sbaglio della commissione europea) che mostra da qualche tempo. Grazie.

Pubblicato da AC su Goofynomics il giorno 7 dic 2025, 12:31


Domanda pertinente e costruttiva, a differenza di altre. Mi sono quindi attrezzato per cercare la risposta. 

Ricordo in via preliminare a chi si trovasse qui per caso che per investimenti in macroeconomia si intende la formazione di capitale fisso (non si intende cioè l'allocazione del risparmio, quella di cui parlate col vostro promotore finanziario). Ricordo quindi che gli investimenti pubblici sono la costruzione di infrastrutture pubbliche, e che in generale gli investimenti netti si ottengono da quelli lordi sottraendo il deperimento (consumo) di capitale, per cui gli investimenti lordi possono solo essere positivi, ma quelli netti possono anche essere negativi, nel qual caso ciò significa che lo stock di capitale fisso sottostante (nel caso degli investimenti pubblici, lo stock di infrastrutture) è diminuito (sono crollati dei ponti, sono state chiuse delle strade, ecc.).

Con questa precisazione, descrivo la mia ricerca.

Sono partito innanzitutto dal database Ameco (quello da cui provengono i dati che vi ho mostrato qui) seguendo questo percorso di selezione:


Tuttavia, questo database non consente di selezionare questa variabile in molti Paesi normali (la parola "normale" è più breve di "extraeuropeo" e descrive meglio i Paesi di cui si tratta, quindi in questo post "Paese normale" sta per "Paese extraeuropeo"). Di fatto, l'unico Paese normale di una certa rilevanza per cui la variabile sia disponibile sono gli Stati Uniti:


(quelli ombreggiati in grigio, fra cui, scorrendo, si trovano i principali Paesi OCSE, non sono disponibili).

Comunque, mi sono preso i dati disponibili, per Eurozona e Stati Uniti, e direi che osservandoli:


si intuisce abbastanza bene perché poi le cose sono andate così:

(la produttività Usa ha cominciato a divergere verso l'alto quando gli investimenti pubblici netti Usa hanno cominciato a divergere verso l'alto).

Sono allora andato sul database dell'OCSE, che dovrebbe fornire i conti pubblici di tutti i Paesi membri. Purtroppo inserendo questa stringa:


si ottiene questo non risultato:


Sono allora tornato sul database AMECO. La definizione di investimento pubblico netto è questa:


Formazione lorda di capitale fisso (investimento lordo), meno consumo di capitale fisso (ammortamento). Allora sono tornato dall'OCSE con una diversa domanda:


e questa volta ho ottenuto una risposta:


Ben trentaquattro database, di cui quello interessante ovviamente è questo qui:


da cui ho estratto quello che mi serviva:


cioè gli investimenti "grossi" (come direbbe l'opinion leader), cioè lordi (come dicono le persone normali), e il consumo di capitale fisso: sottraendo il secondo dai primi si ottengono gli investimenti netti.

L'estrazione l'ho fatta per i Paesi del G8, cui noi ancora apparteniamo, e che mi sembra un insieme sufficientemente significativo, perché è costituito da Stati di una certa rilevanza, ma abbastanza disparati sotto il profilo geopolitico. Questo significa che se tutti questi Paesi fanno in un modo, e solo noi in un altro, vuol dire che contromano ci andiamo noi, tanto per capirci.

I dati si presentano così:


e già si capisce come stanno le cose: solo noi europei siamo stati così folli da fare investimenti pubblici negativi. Il grafico consente però di affermare solo questo, cioè se i dati siano positivi o negativi, perché le variabili sono in valuta nazionale, che per i Paesi suicidi è l'euro, ma per i Paesi normali è la propria valuta (quindi il dollaro canadese, il dollaro statunitense, la sterlina britannica e lo yen giapponese), e quindi non sono direttamente confrontabili. Rimediamo a tutto, esprimendoli in percentuale del Pil nazionale (a sua volta misurato in valuta nazionale, che per i Paesi suicidi è l'euro, ma per i Paesi normali è la propria valuta, quindi il dollaro canadese, il dollaro statunitense, la sterlina britannica e lo yen giapponese), ma prima facciamo un confronto al volo fra gli investimenti pubblici netti dei Paesi euro calcolati così e quelli forniti da AMECO, in modo da essere sicuri che stiamo parlando più o meno della stessa cosa.




e direi due cose: la prima, che i dati ricostruiti con le fonti OCSE coincidono con quelli forniti da AMECO, e la seconda che questa coincidenza è assolutamente perfetta nel caso dell'Italia almeno fino al 2019, a indicare che la qualità delle statistiche fornite dall'ISTAT è superiore rispetto a quella delle statistiche fornite dai paraculi di Berlino e dai loro accoliti (ma su questo ci siamo già diffusi in altre sedi).

A questo punto scarichiamo dal WEO i Pil nazionali in valuta nazionale (che per i Paesi suicidi è l'euro, ma per i Paesi normali è la propria valuta, quindi il dollaro canadese, il dollaro statunitense, la sterlina britannica e lo yen giapponese), in modo da avere serie confrontabili anche come ordine di grandezza (non solo come segno), facciamo i rapporti e godiamoci lo spettacolo:


Sintesi: il rapporto fra investimenti pubblici netti e Pil oscilla in una banda fra il +2% e il -1%; nel periodo dal 1995 a oggi (il grafico arriva al 2024) solo l'Italia (e la Russia per un singolo anno) hanno avuto valori negativi di una certa rilevanza (al disotto di -0.5%); l'Italia ha avuto undici anni consecutivi di investimenti pubblici netti negativi (dal 2011 al 2021), mentre l'unico altro Paese con investimenti pubblici negativi è stato la Germania (l'altro Paese a bassa crescita nell'Eurozona), ma il periodo più lungo è stato di quattro anni, dal 2004 al 2007, in corrispondenza delle riforme Hartz del mercato del lavoro che portarono a una diminuzione del 6% dei salari tedeschi. Si conferma così quanto per noi è ovvio:

ovvero che il taglio degli investimenti pubblici è funzionale a creare disoccupazione per forzare una deflazione salariale che renda competitive le esportazioni.

Abbiamo spiegato diffusamente qui perché questa politica ha condotto all'accumulazione di squilibri interni all'Eurozona e alla loro successiva esportazione verso gli Usa (con conseguenti dazi ritorsivi trumpiani), e il video, se interessa, è sempre qui:


Il problema di questa strategia è ormai evidente: il gioco al ribasso determina un contagio. Se un Paese rilevante taglia i salari, poi gli altri devono seguirlo, e quando lo seguono la domanda interna dell'area diminuisce, e il surplus produttivo dell'area si deve scaricare sui Paesi normali, che possono essere più o meno lieti di assorbirlo. Impoverire i lavoratori per arricchire alcuni imprenditori a spese dei lavoratori dei Paesi normali è una strategia che può sembrare normale solo a dei pazzi, o a dei tedeschi. La cultura, l'antropologia, la storia, esistono. Loro sono così, e nessuno potrà cambiarli. Dato che il loro modo di essere li conduce sistematicamente a urtarsi col mondo, è di vitale importanza che fra noi e loro ci siano degli ammortizzatori, e naturalmente l'ammortizzatore più essenziale, se si parla di macroeconomia, è il cambio nominale.

Il suicidio europeo è tutto qui: il passaggio da un sistema in cui in caso di squilibri commerciali si rivalutava la valuta del Paese più forte, quello esportatore, a un sistema in cui nelle stesse circostanze bisogna tagliare i salari nel Paese più debole, quello importatore. Capite bene che soprattutto se gli squilibri si sono prodotti perché il Paese più forte è stato il primo a tagliare i salari (potendoselo permettere, visto che i suoi lavoratori stavano meglio):

il risultato complessivo non può che essere un impoverimento dell'intera area, quello che fa preoccupare Trump:


del fatto che l'Europa si indebolisca a tal punto da non essere più un alleato affidabile (sia per il potenziale rischio politico interno determinato dall'impoverimento della popolazione - il famoso costo politico dell'austerità di cui parlavamo qui, sia per la scarsità di risorse che potrebbe mettere a protezione da eventuali rischi politici esterni, o per riequilibrare la bilancia dei pagamenti cronicamente deficitaria della potenza imperiale - i poveri non sono un allettante mercato di sbocco!).

Che così ci saremmo condannati all'irrilevanza che lo eravamo detti da subito, e questo è il più amaro dei QED.

Comunque: dalle domande intelligenti di chi si accosta per sapere, nasce sempre un approfondimento. Dalle querimonie delle amanti tradite nasce solo uno sbadiglio.

Ora sapete in che condizioni siamo e perché. Possiamo solo sperare in uno shock esterno, ma di questo parliamo con più calma dopo aver ponderato il documento dei nostri alleati (e per nostri, intendo di Goofynomics).

domenica 7 dicembre 2025

Tre discorsi: "Cosa aspettarsi per il 2026?" (discorso numero tre)


Le previsioni sulla crescita nel 2026 sono già state discusse da chi mi ha preceduto: mi limiterò a un breve riassunto, e mi soffermerò poi su tre punti che dopo diciassette anni di stagnazione economica dovremmo ormai poter considerare acquisiti, e sulle cui implicazioni credo sia utile confrontarsi.

Tutte le previsioni emesse dalle principali organizzazioni sovranazionali alla fine del 2025 hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita del nostro Paese per il 2026 emesse nel 2024:

con l'unica eccezione del Fmi, che fra autunno 2024 e autunno 2025 le ha invece riviste al rialzo. La media delle previsioni di crescita per il 2026 era all'1,1% nell'autunno del 2024 ed è scesa a 0,7% in questo autunno, comunque in crescita rispetto al risultato di quest'anno che è atteso attorno allo 0,5%, e resta tale anche dopo la rettifica al ribasso con cui l'OCSE ha allineato le sue previsioni alla crescita "acquisita" calcolata dall'ISTAT:


Siamo (e restiamo) purtroppo ancora sui decimali.

Vorrei partire da una prima riflessione, motivata da un recente comunicato dell'OCSE:


in cui si afferma che nel prossimo anno il nostro Paese farà meno deficit e più debito del previsto. Questa evenienza, qualora si materializzasse, sarebbe perfettamente in linea con quello che oggi sappiamo delle politiche cosiddette di "consolidamento fiscale" (ma visto che qui siamo fra esperti, possiamo risparmiarci gli eufemismi congegnati per impressionare il pubblico generalista, e chiamare queste politiche col loro nome: tagli). Il fatto che i tagli provochino più spesso il dissesto che il risanamento del bilancio pubblico è ormai acquisito: è dall'aprile del 2023 che il Fmi ha pubblicato i risultati di uno studio empirico e teorico che mette questo dato nero su bianco:


Nel grafico di sinistra si vede l'impatto sul debito pubblico di uno "shock da consolidamento", e questo impatto è positivo (le barre sono per lo più sopra lo zero, con l'eccezione di quelle riferite ai Paesi in via di sviluppo nei primi due anni dallo shock). La didascalia lo dice chiaramente: in media, i tagli non fanno diminuire il rapporto debito pubblico/Pil. In effetti, lo fanno aumentare, con un effetto statisticamente significativo al 90% di probabilità dal terzo anno in poi.

Questo risultato non ha nulla di misterioso. La nuvola di formule nel pannello di destra lo spiega chiaramente, e mi sono permesso di evidenziare il punto chiave: se il rapporto debito/Pil è una frazione impropria, come accade sempre più spesso nelle economie avanzate, i tagli hanno effetti perversi sul rapporto debito/Pil, facendolo crescere. Pensate alla frazione 3/2. Se sottraete uno al numeratore e al denominatore ottenete 2/1, che è maggiore di 3/2, nonostante che per ottenerlo abbiate sottratto qualcosa, invece di aggiungerlo! Ovviamente questo esempio presuppone un moltiplicatore fiscale pari esattamente a uno, ma la logica dell'esempio è chiara e non originale. Mi ero permesso, con un divertissement a fini divulgativi, di anticiparla di un po' più di un decennio nel mio blog:


Ora, questo è un punto di grande attualità e di grande polemica nel dibattito attuale, non solo perché le opposizioni, come è naturale che sia, chiedono al Governo di fare di più per la crescita (nonostante che siamo reduci da un decennio e passa di stagnazione in cui la loro performance non è stata stellare...), ma anche perché le stesse organizzazioni sovranazionali che sono consapevoli del fatto che i tagli, compromettendo la crescita, possono portarci al dissesto, ci chiedono però di farli, non consentendoci di venire incontro ai desideri delle opposizioni! Una situazione piuttosto ingarbugliata, nella quale finora il Governo è però riuscito a tenere una rotta compatibile con quanto ci dice la migliore macroeconomia. Lo si vede in questo grafico che confronta due stime della media di deficit e debito sul triennio 2023-2025: quella fatta dal Fmi nell'aprile del 2023 (cioè la prima elaborata dopo l'avvento del Governo Meloni) e l'ultima, quella fatta nell'ottobre 2025:


Nel 2023 il Fmi prevedeva, o prefigurava, per l'Italia un rientro piuttosto rapido dal deficit, che ci avrebbe portato nel triennio a valori attorno al 3%. In realtà nel 2025 constatiamo che il rientro dal deficit è stato più lento, perché il Governo ha opportunamente approfittato della sospensione delle regole di bilancio, disposta fino al 31/12/2023, per spingere il più possibile sulla crescita. Di conseguenza, mentre nel 2023 il Fmi prevedeva un debito che nella media del triennio superava il 139% del Pil, nel 2025 vediamo che il debito si è attestato un po' sotto il 136%. Naturalmente non è un dato rassicurante, ma è un dato che mostra come questo Governo non abbia commesso l'errore del Governo Monti, quello di anticipare oltremisura il rientro verso l'equilibrio di bilancio, come richiesto all'epoca dalla lettera di Draghi-Trichet dell'agosto 2011. I risultati di quella infausta manovra, denominata "Salva Italia", sono retrospettivamente ben visibili:


e credo che possiamo essere tutti grati a questo Governo di aver tratto insegnamenti da questa non distante e non fausta esperienza storica.

Una seconda riflessione riguarda la natura dell'instabilità finanziaria. Sappiamo ormai da dieci anni che la crisi cosiddetta "dei debiti sovrani" in realtà non era una crisi di finanza pubblica, ma di finanza privata, derivante dalle forti esposizioni debitorie degli Stati periferici dell'Unione verso le banche dei Paesi appartenenti al nucleo finanziario dell'Unione (Francia e Germania). Dal 2015 questa è la visione comunemente accettata anche dagli economisti ortodossi:


e il suo supporto era comunque ben visibile nei dati già dal 2011:


quando mi ero permesso di evidenziare nel mio blog un interessante fatto stilizzato: i Paesi che per primi si erano trovati in situazione di sofferenza avevano avuto nel decennio precedente debito pubblico in calo, o non in crescita (come la Grecia), ma tutti (inclusa l'Italia) avevano avuto un incremento sostanziale del debito estero, che, per inciso, non poteva che essere privato (visto che quello pubblico era diminuito). La vera minaccia per la stabilità finanziaria viene quindi dalle esposizioni debitorie private, come del resto appare evidente sulla base di una banale riflessione: negli ultimi vent'anni ha fatto default solo un Governo dell'Eurozona, quello greco, mentre sono fallite, andando incontro a risoluzione o simili procedure, circa una ventina di banche di un certo rilievo, oltre a svariate banche minori (come le quattro cosiddette "popolari" qui in Italia).

Viene allora utile esaminare quale sia la situazione delle esposizioni finanziarie private, almeno a grandi linee, e in questo ci aiuta il rapporto OCSE sul debito globale:


Mettendo insieme gli emittenti pubblici e privati, lo scorso anno sono stati emessi 25 trilioni di dollari di obbligazioni (il triplo che nel 2007), il che ha portato l'ammontare di debito in circolazione a oltre 100 trilioni di dollari (il Pil mondiale, per memoria, sempre nel 2024 era di 111,3 trilioni, quindi lo stock di titoli di debito privati e pubblici a livello globale è pari al 90% del Pil), e infine circa il 40% dei titoli privati e pubblici (quindi 40.000 miliardi di dollari, circa 17 volte il Pil italiano) dovrà essere rimborsato entro il 2027. Una sfida per le finanza pubbliche, ma soprattutto per quelle private, perché:


è sempre l'OCSE a dirci che mentre dopo la crisi del 2008 l'indebitamento privato ha subito una forte espansione, altrettanto non può dirsi degli investimenti produttivi privati, che sono rimasti al disotto del loro trend di sviluppo storico. I debiti sono stati contratti quindi non per "creare" valore, ma per "distribuirlo" agli azionisti, sotto forma di guadagni in conto capitale derivanti da operazioni straordinarie, di acquisto di azioni proprie, ecc. Questo mette in dubbio la capacità del sistema privato nel suo complesso di ripagare i debiti che ha contratto, e ci lascia con le stesse considerazioni che si sarebbero potute fare nel 2010: la vera minaccia alla stabilità finanziaria resta la qualità del debito privato, più che la quantità di quello pubblico.

Concludo su una terza e ultima riflessione. Le politiche di taglio della spesa hanno impattato anche sulla demografia: questo ormai è evidente e contiene una lezione utile su cosa fare per invertire la tendenza:

La crisi demografica ha ormai portato a un'inversione strutturale della piramide, oggetto di studio e di attenzione per molti e in particolare per me nel mio ruolo di Presidente della Commissione di Controllo Enti Gestori. Il problema è tutt'altro che nuovo. Il tasso di fertilità in Italia è stato in caduta libera dal 1966 al 1995, senza che questo destasse una attenzione comparabile a quella che oggi finalmente il fenomeno merita, poi si è lievemente ripreso (lo si vede nel grafico) e ora sta nuovamente precipitando.

Due osservazioni.

La prima è che se dagli anni '90 fino a pochi anni o mesi or sono di demografia si è parlato troppo poco  credo sia anche perché attorno alla riforma Dini del 1995 è stata creata una narrazione volontariamente o involontariamente fuorviante: quella secondo cui col metodo di calcolo contributivo ogni lavoratore si sarebbe finanziato da sé la propria pensione accumulando un tesoretto di contributi versati di cui beneficiare in vecchiaia. Le cose non stanno proprio così, perché un conto è il metodo di calcolo della prestazione, un ben altro conto il sistema di finanziamento della prestazione. Quest'ultimo è e rimane a ripartizione, per tutti gli enti di primo pilastro, il che significa, in buona sostanza, che i contributi di ogni lavoratore vanno a pagare le pensioni dei pensionati attuali, non di quelli futuri (incluso il lavoratore che versa i contributi). Il passaggio al metodo di calcolo contributivo, in altre parole, non ha significato, e non è logicamente connesso in alcun modo, al passaggio a un sistema di finanziamento a capitalizzazione, dove ogni lavoratore ha il proprio "zainetto" o "tesoretto" di contributi investiti da qualche parte, e a fine corsa può decidere se riscuoterli come rendita o come capitale! D'altra parte, lo stesso contributo versato dal lavoratore o va a finanziare, per ripartizione, le pensioni dei pensionati attuali (nel qual caso non può entrare nello "zainetto a capitalizzazione" di chi versa), o viene accumulato nello "zainetto" o "tesoretto" contributivo di chi lo versa, nel qual caso fin dal 1995 i pensionati dell'epoca si sarebbero viste decurtate le pensioni e si sarebbero recati, muniti di forconi, a Palazzo Chigi. Il fatto che questo non sia successo è la migliore dimostrazione del fatto che il sistema è rimasto a ripartizione.

Ne consegue che la demografia continua a essere dannatamente importante anche in un metodo di calcolo integralmente contributivo (e, aggiungo io, lo sarebbe comunque, anche se il sistema di finanziamento fosse a capitalizzazione, perché per ottenere rendimenti sotto forma di interessi e dividendi occorre che qualcuno crei valore, e il valore non può essere né trasferito né creato da lavoratori che non ci sono).

La narrazione del "mi pago la mia pensione coi miei contributi" (affine a "io c'ho il diesel" del noto comico teatino Maccio Capatonda) temo abbia avuto come infausto effetto collaterale quello di distrarci dal fatto che dal 1976 il tasso di fecondità totale (fertility rate) delle donne italiane è sotto il valore di rimpiazzo di 2,1:


Il sistema contributivo, in definitiva, serviva solo ad arginare questa situazione abbassando il tasso di sostituzione, cioè il rapporto fra la prestazione pensionistica e l'ultima retribuzione percepita. Serviva, insomma, a tagliare le pensioni, come si evince del resto dalle preoccupazioni espresse dallo stesso Dini, che nella relazione introduttiva alla sua riforma si premurava di definire come "socialmente irrinunciabile" un tasso di sostituzione del 61,4% (sappiamo che invece in particolare nel primo pilastro privatizzato i tassi di sostituzione sono in alcuni casi inferiori, e da qui deriva il forte impegno a promuovere forme di previdenza complementare).

Tuttavia, e questo è il punto che voglio evidenziare, quando la piramide demografica è completamente rovesciata, la prospettiva di restituire sostenibilità al sistema pensionistico con tagli delle prestazioni potrebbe rilevarsi illusoria, così come quando il rapporto debito/Pil diventa una frazione impropria è illusorio pensare di ridurlo con tagli alla spesa pubblica. Il motivo è molto semplice: quando la piramide demografica si rovescia, per definizione l'incidenza dei redditi dei pensionati sul totale della domanda aggregata aumenta, e quindi un taglio delle pensioni comporta in re ipsa uno shock negativo su quella domanda interna su cui, secondo le più recenti analisi del Presidente Draghi, sarebbe invece opportuno incentrare, alimentandola, un modello di sviluppo equilibrato. Del resto, se le pensioni scendono al di sotto di un livello "socialmente sostenibile", la differenza si scarica comunque sul bilancio pubblico sotto forma di prestazioni assistenziali. Bisogna quindi riflettere serenamente sul fatto che quando una situazione si è spinta troppo oltre, nonostante che da un lato ciò aumenti l'urgenza di porvi mano, dall'altra può darsi che quella che in tempi ordinari sembrerebbe la soluzione più intuitiva (i tagli) si riveli alla prova dei fatti la meno opportuna. Anche in questo occorrerà esercitare la massima prudenza, e il Governo in carica possiamo dire che finora ha dato prova di averne.


(... questo discorso l'ho fatto in due occasioni, qui e qui, di fronte a platee tanto qualificate quanto ortodosse: asset manager di grandi fondi internazionali, presidenti di casse previdenziali e fondi pensione, e così via. Inutile dire che anche solo tre anni fa una slide come quella sui reali effetti del Governo Monti sarebbe stata accolta da un sordo brusio di riprovazione. Mi ha stupito però vederla accolta da un sollevato mormorio di consenso, che poi più di uno mi ha espresso anche di persona. Questo cambiamento nella communis opinio della gente che conta a cosa è dovuto? A due cose che in linea di principio non vi piacciono - almeno, questo traspare dalla cloaca social: alla nostra persistenza al potere, e al posizionamento del Governo. Non credo dipenda invece dal fatto che finalmente viene ora compreso quello che era tanto semplice, e sarebbe stato tanto opportuno, comprendere ex ante! Su questo, illusioni non me ne faccio: del resto, le stesse organizzazioni sovranazionali che esortano il Governo a fare di più per la crescita poi gli chiedono tagli, e in questa schizofrenia muoversi con accortezza diventa veramente complesso. Registro però il fatto che si comincia a poter dire la verità, anche appoggiandosi ai lavori di chi di questa verità è stato nemico: il Fmi, Uva, ecc. Quello che vi ho sempre detto: sfruttare la forza dell'avversario! Ora bisogna insistere, bisogna che il senso comune diventi quello espresso dalla genuina teoria macroeconomica, anziché dalle squinternate teorie degli sciamani che finora hanno avuto tirannico ed esclusivo diritto di tribuna. Per questo, come vedete, continuo ad accettare inviti in giro per il Paese. Ora è il momento di far riflettere sulle nostre ragioni, visto che per imporle possiamo contare non solo sulla nostra forza, ma, appunto, anche su quella dell'avversario. Questo, e un Signor Presidente della Repubblica non organico al PD, potranno fare molto quando il progetto andrà in decomposizione, come mi pare stia già largamente andando, ed esattamente per i motivi che avevamo prefigurato. Ma di questo parleremo in un altro post...)

(...vabbè, io vado a cucinare: per uno strano allineamento degli astri, più difficile da ottenere dell'avere i partiti euroscettici al 30% nei principali Paesi dell'UE, questa sera siamo tutti a casa...)

sabato 6 dicembre 2025

Tre discorsi: "La political economy della LSP" (discorso numero due)

 

La traduzione letterale di political economy è economia politica, ma questa traduzione è fuorviante. La traduzione in inglese di economia politica infatti è economics, mentre economic policy è la politica economica, quella che insegno io. E la political economy? Nell'ambito delle scienze economiche (la cui tassonomia è consultabile qui) si intende per political economy quella disciplina a cavallo fra economia politica e scienze politiche volta allo studio delle interazioni reciproche tra processi economici e istituzioni politiche, cioè ad analizzare come la politica influenzi gli esiti economici e come, a sua volta, le dinamiche economiche plasmino le istituzioni politiche. La differenza principale fra la political economy e l'economia politica (cioè l'economics) è proprio questa: in economia politica le istituzioni politiche vengono considerate esogene, sono un dato, e la loro struttura (se le si vuole far entrare in gioco) è sostanzialmente assimilata a quella di un qualsiasi altro agente economico ottimizzante; nella political economy le istituzioni politiche sono endogene, e l'oggetto dell'indagine consiste spesso nell'analizzare come e perché esse mutano adattandosi alle evoluzioni del contesto economico.

In questa assemblea in cui i giovani della Lega si interrogano sul loro radioso futuro credo sia utile innanzitutto riflettere sul percorso che la Lega Salvini Premier ha fatto fin qui.

Noi non siamo progressisti: essere progressisti, come ci ha insegnato Michéa, significa sostanzialmente negare il passato in nome del "mai più", consegnandosi alla cecità e quindi all'eterno ritorno proprio di quelle sciagure che si è cercato di rimuovere psicanaliticamente dalla coscienza collettiva (affidandone una memoria stilizzata ad alcune liturgiche e vuote celebrazioni identitarie del "mai più"). Questo è il principale limite antropologico del progressismo, e da questo limite noi vogliamo distanziarci. Per capire quali siano i valori del nostro partito, per valutare se realmente ci identifichiamo con essi e vogliamo propugnarli, per riflettere su quali messaggi hanno portato e potrebbero portare consenso, al di là delle banalità sull'elettorato "fluido" dispensate dai media, che cercano di offuscare e di distogliere l'attenzione da quello che gli elettori graniticamente desiderano, dobbiamo quindi in primo luogo conoscere e interpretare la storia del nostro movimento. La political economy ci aiuta a calare questa analisi in un contesto macroeconomico globale in rapido mutamento, essendo (spero) ovvio che, pur nel persistere di una base valoriale che per sua natura, per essere tale, deve essere stabile nel tempo, altro è essere all'opposizione durante una crisi e altro è essere al governo durante una ripresa. Posto che il porto cui si desidera giungere resta il medesimo, altro è avere il vento in poppa a altro averlo in prua.

In questa ottica, è del tutto evidente che non possiamo riflettere sulla storia della LSP, come su quella di qualsiasi altro partito o istituzione politica italiana, prescindendo dal fatto stilizzato macroeconomico più rilevante dell'ultimo mezzo secolo (ma in realtà dell'intera storia unitaria), cioè questo:

che abbiamo ampiamente descritto in tante altre occasioni, ma sul quale bisogna sempre tornare, semplicemente perché la scarsa qualità dei ceti intellettuali italiani impedisce a questo fatto di diventare, come dovrebbe, l'elemento centrale del dibattito pubblico nel nostro Paese.

Ci siamo ampiamente diffusi in altra sede sulle cause di questo disastro, rinvenendo in particolare le cause prossime nel taglio degli investimenti pubblici con oltre un decennio di investimenti pubblici netti in territorio negativo:


(e qui in Abruzzo sappiamo meglio che in tante altre Regioni che cosa abbia significato questa distruzione di infrastrutture pubbliche). Sappiamo che le cause remote derivano dalla necessità di comprimere i salari reali, ma su questo tornerò dopo.

Oggi vorrei soffermarmi su alcune conseguenze di questo fatto macroeconomico.

Una ha a che fare con un problema cui ha accennato un relatore che mi ha preceduto: la crisi demografica. I dati sono piuttosto espliciti su questo punto:


L'austerità coincide con una flessione dei nati vivi che prima erano su un trend leggermente crescente. Dietro questi numeri c'è l'impossibilità di formare una famiglia in un contesto di carriere lavorative precarizzate in nome della flessibilità (al ribasso) dei salari.

Poi ci sono le conseguenze politiche, ed è soprattutto su di esse che vorrei soffermarmi con voi. Ve le riassumo in tre punti, uno rosso, uno verde, e uno blu:


Vediamo a che cosa corrispondono.

Il punto rosso individua il 2011:


cioè l'anno in cui, dopo aver denunciato il 22 agosto sulle colonne del manifesto il fatto che le asimmetrie dell'Eurozona ci avrebbero impedito di risalire la china e avrebbero portato all'avvento di un Governo tecnico che avrebbe fatto macelleria sociale spingendo a destra l'elettorato ("perché le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra"), il 16 novembre aprivo il mio blog per spiegare i motivi per cui i salvataggi di Monti non ci avrebbero salvato. Fu una chiamata cui, contro ogni mia aspettativa, risposero in decine di migliaia: attorno al blog si costituì quel consenso e quella community di cui in altre sedi abbiamo raccontato la storia, che ancora oggi porta a Montesilvano una volta l'anno centinaia di persone, e che diventò un fatto politico importante, forse il più importante di quel periodo. Il libro scritto per riassumere il primo anno di blog, Il tramonto dell'euro, vendette 25.000 copie contro il suo editore e contro tutto il complesso mediatico-giudiziario, che all'epoca era evidentemente più furbo di come si è poi dimostrato con Vannacci, scegliendo nel mio caso la strada dell'indifferenza e in quello di Roberto la strada della pubblicità negativa (più efficace della positiva).

Ma i social non erano abbastanza presidiati, e il messaggio si diffuse con rapidità.

E qui si arriva al punto verde:


Il 23 novembre 2013 Matteo Salvini mi invitò con Borghi e Rinaldi al "No euro day" presso l'Hotel dei Cavalieri di Milano. Prendo questa foto come simbolica di un punto di svolta, di cui io all'epoca non mi rendevo conto, ma alcuni dei presenti sì. Quello che poi sarebbe stato il mio capogruppo in Senato, Massimiliano Romeo, otto anni dopo mi disse: "Erano anni che non vedevamo così tanta gente in una stanza [NdCN: per me abituato ai goofy era un po' meno di business as usual...], capimmo che c'era qualcosa di grande che dovevamo intercettare!"

Che cosa era successo? Che ci faceva un intellettuale di sinistra che scriveva per il manifesto e sbilanciamoci a un raduno di leghisti (variamente dipinti dai media di regime come xenofobi, omofobi, razzisti, ecc.)?

Erano successe diverse cose.

La prima, che all'epoca ignorai (perché non seguivo la politica, ritenendo che il ceto politico italiano non avesse e non volesse avere gli strumenti per interpretare e evitare il disastro cui eravamo avviati) era che a novembre 2011 la Lega (che guardavo con la sufficienza con cui i progressisti guardano chi la pensa un modo diverso da loro) era stata l'unico partito a opporsi al Governo Monti, in nome di un ideale di democrazia l'aveva portata a rifiutare il golpe bianco previsto da me ad agosto e realizzato da Monti a dicembre. Ci ricorda quel momento il senatore Garavaglia in una ricostruzione storica che merita sempre di essere riascoltata:

Questa decisione coraggiosa aveva consegnato la Lega a una lunga traversata nel deserto, condita di scandali giudiziari più o meno fondati (ormai abbiamo tristemente appreso come funziona...), che l'aveva condotta al 4,08% delle politiche del 2013, la metà circa dell'8,3% delle precedenti politiche del 2008 (tutte cose che all'epoca ignoravo, non interessandomi di vita parlamentare, ma che sono facilmente riscontrabili).

La seconda, che nella primavera del 2013 Lorenzo Fontana, allora capodelegazione della Lega Nord al Parlamento Europeo nel gruppo EFD di cui era capogruppo Nigel Farage, aveva prestato al suo collega Matteo Salvini una copia del Tramonto dell'euro.

La terza, che a luglio 2013 Matteo aveva chiamato Claudio Borghi per farsi spiegare cosa fosse "questa storia dell'euro" (ricordo la telefonata entusiastica che poi mi fece Claudio: in effetti il punto di svolta fu quello lì, ed è raccontato a pag. 31 di Vent'anni di sovranismo).

Con intuito e, aggiungo, aderenza ai messaggi storici del movimento (lo chiarirò meglio più avanti), Salvini aveva capito che c'era una battaglia che più di altre valeva la pena di combattere, e lo espresse in occasione del No euro day con la delicatezza che gli è propria e che ce lo fa apprezzare (e naturalmente lo fa detestare ai nostri nemici):


La battaglia per l'indipendenza (sottinteso: della Padania, perché quello era allora il brand del partito), era certo più identitaria, ma era destinata a restare vuota se si fossero dimenticate le parole di Bossi:


a me all'epoca del tutto ignote. Uno Stato centrale sottoposto a un'autorità sovranazionale che per sua intrinseca natura non poteva essere politica non avrebbe avuto alcun potere da devolvere alle autonomie locali né alcuna risorsa da affidare loro, in un contesto in cui la "finanziaria" (oggi "legge di bilancio") sarebbe diventata (come è diventata) "un semplice fax inviato da Bruxelles" e in cui la perdita della sovranità monetaria avrebbe scaricato sulla pressione fiscale le necessità finanziarie degli Stati e delle Regioni. La contraddizione principale, per dirla come Mao, o, se vogliamo, il principale pericolo per le tasche della ipotetica constituency leghista (la partita Iva, il sciur Brambilla con la fabbrichètta...) non era quella fra Milano e Roma, ma quella fra Roma e Bruxelles, come poi avrei cercato di spiegare - scoprendo involontariamente l'acqua calda - in Milano ladrona, Berlino non perdona! Salvini quindi stava semplicemente tornando alle origini, era più bossiano del "leghista Nord mediano", anche se non vi so dire quanto ne fosse all'epoca consapevole, ma questo conta il giusto.

Quello che conta è quanto successe dopo:


Il 15 dicembre 2013 Matteo diventava segretario della Lega Nord, il 16 dicembre andava a Porta a Porta:


esibendo coram populo una copia del libro che secondo lui esponeva i problemi reali del Paese (Il tramonto dell'euro), come avrebbe poi fatto in altre situazioni, con grande intelligenza tattica (perché di fatto mi mise sopra il cappello leghista, impedendomi di portare avanti il mio discorso in modo trasversale, anche se, per dirla tutta, i tentativi fatti a sinistra si erano risolti in nulla, dato che la sinistra era popolata di zeri - con la minuscola!).

Iniziava così un lungo percorso che attraverso il 6,15% alle Europee del 2014, dove scoprimmo di non essere mijoni (perché non riuscimmo ad eleggere Claudio, che se fosse andato a Bruxelles ci avrebbe dato tante soddisfazioni!), ci ha portato all'8,97% delle ultime europee, con le vicissitudini che sapete, ma soprattutto nel 2022 ha consegnato l'Italia a una stabile maggioranza di centrodestra:


(e siamo così arrivati al punto blu).

Ora, qual è la prima riflessione da fare su questo percorso, di cui alcuni snodi probabilmente vi erano ignoti perché non seguite il mio blog o perché non erano mai stati dichiarati in pubblico, e del quale sarebbe interessante sapere quale fosse la vostra percezione prima di questo riassunto?

La prima riflessione è che, in termini di political economy, questi risultati sono assolutamente scontati, questo percorso era prevedibile, e infatti lo avevo previsto, pur non essendo un gran politologo, quando il 22 agosto del 2011 avevo chiarito che "le politiche di destra [cioè l'austerità], nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra".

Le elezioni del settembre 2022 sono quindi state un gigantesco QED (quod erat demonstrandum).

La cosa interessante è che quella che ancora otto anni fa era una riflessione isolata, che sviluppammo nel blog commentando i risultati delle elezioni politiche tedesche:


per far notare che il risultato di AfD non indicava un ritorno del nazismo, come paventavano ironicamente alcuni film "de sinistra" dell'epoca, ma esprimeva il semplice, limpido e prevedibile dato che di fronte a un'aggressione anche economica l'elettore si rivolge ai partiti di destra per soddisfare il proprio bisogno di sicurezza anche economica (noi lo avevamo appreso al convegno di Montesilvano), ecco, questa che in fondo era ed è una banalità, nel frattempo è diventata scienza, o, se volete, Lascienza, in purezza. Quelli bravi ci hanno messo un po', ma nel 2023, figuratevi voi, hanno organizzato un convegno niente meno che in Commissione Europea per discutere i costi politici dell'austerità:


e qui verrebbe da dire, parafrasando il claim del mio blog: strano come un costo visto da sinistra somigli a un'opportunità vista da destra! Perché nonostante gli sforzi profusi per spiegarci che l'austerità porta gli elettori a radicalizzarsi votando per posizioni estreme (?), lasciando sottintendere che essa alimenterebbe opposti estremismi:


la verità, come ci chiariscono i dati forniti dai piddinissimi autori del sito Authoritarian populism index, è che la stagione dell'integrazione monetaria e quindi dell'austerità ha recato consenso ai partiti di destra:


sgretolando il consenso per la sinistra a partire dall'inizio degli anni '80 per motivi che spero di aver chiarito e che possiamo riassumere così: è stata la sinistra a fare propria l'agenda cosmopolita della globalizzazione, con tutte le amenità e le disumanità arcobaleno che essa porta con sé, ed è quindi a destra che si sono rivolti i cittadini violentati nella loro più intima essenza dai sinistri sponsor di un progetto, quello globalista, che li ha messi in diretta concorrenza con una massa di poveracci in via di sviluppo, compromettendone il tenore di vita e degradandone l'antropologia.

Tutto molto ovvio, direi, come pure è ovvio che oltre all'impoverimento diretto, quello che suscita una reazione verso destra è l'impoverimento indiretto causato dai tagli allo stato sociale, come oggi scoprono brillanti ricercatori:


dando origine a una letteratura così fiorente che siamo ormai arrivati alle metanalisi:


cioè a studi che anziché studiare il fenomeno, studiano gli studi che studiano il fenomeno, per estrarne i messaggi principali (evitando così al ricercatore desideroso di raccapezzarsi la pena infinita di leggere le decine di articoli "copia e incolla" che normalmente caratterizzano la produzione scientifica nei campi di ricerca in rapida espansione).

In quest'ultimo abstract c'è una cosa che mi ha colpito perché mi ha rinviato a un ricordo molto nitido (uno dei pochi) di quel periodo turbolento. Nel giugno 2014 ero a Francavilla al mare con mia figlia, fra una sessione di esami e l'altra, piuttosto stanco dopo un anno impegnativo. Il tempo non era un gran che. Mi chiama Salvini per chiedermi di venire su a Milano per partecipare a una riunione strategica post-europee. Io all'epoca non avevo alcun ruolo politico, né volevo averne, non ero della Lega, ero di sinistra, ma tornai a Roma, presi il treno e andai. Notate bene: Matteo si affidava a un potenziale "nemico" per chiedere idee e valutazioni. Una cosa simile a sinistra ovviamente non esisterebbe

MAI.

(ed è questo che li rende così autoreferenziali e scollati dalla realtà). La riunione era ovviamente riservata, quindi non vi dico di che cosa si parlò (e peraltro quello che dissi io probabilmente non impressionò più di tanto i presenti perché mi lasciarono poi stare per un paio d'anni!), ma ricordo nitidamente che un sondaggista attribuiva i voti che la Lega aveva preso per due terzi al tema della sicurezza (in senso proprio) e per un terzo al neuro. Appresi quindi allora che non eravamo mijoni (cosa che sui social qualcuno non imparerà mai). Va anche detto che dal 4% al 17% ci corrono tredici punti e essere un terzo di tredici, cioè una cosa intorno al 4%, qualche soddisfazione la dà. Ma questo è un altro discorso.

Ora: se è ovvio ex post per quelli bravi ed ex ante per noi che l'austerità fa perdere consenso, perché mai la sinistra l'ha implementata? (che non significa "incrementata", come credono tutti i coatti, ma realizzata, cioè, in coattese, "messa a terra"). Come forse ricorderete (ma perché mai un giovane della Lega dovrebbe seguire i parlamentari della Lega?) questa domanda l'ho posta al Migliore:


ovviamente senza averne risposta, e questa domanda credo che dovreste provare a porvela anche voi, perché la risposta non è scontata e serve a delineare il nostro spazio di manovra! Se chiudere gli ospedali fa incazzare la gente, perché il PD ha chiuso gli ospedali? Voleva suicidarsi? E noi con gli ospedali che cosa dobbiamo fare? Aprirli o chiuderli?

Chiara la rilevanza della domanda?

Bene.

La risposta che normalmente si dà è che queste politiche impopolari erano però necessarie per risanare il Paese. Peccato che i dati raccontino che esattamente queste stesse politiche il Paese lo hanno rovinato:

portando a meno crescita, più disoccupazione, più povertà e soprattutto più debito pubblico e sei downgrade! Il Governo attuale, per inciso, sta andando in tutti questi ambiti nella direzione opposta. Tuttavia, se chiedete all'average Joe piddino che cosa ha fatto Monti, lui vi dirà che ha salvato il Paese mettendo sotto controllo il debito pubblico, anche se i dati (che lui non conosce perché non ha fatto una scuola di formazione politica né ha mai letto questo blog) dicono questo:

E allora? Dobbiamo pensare che sia stata solo follia?

No, le cose non stanno così. Monti ha portato a termine la sua missione, che era quella di risanare il debito che realmente preoccupava i mercati, e quindi non quello pubblico, fatto per finanziare infrastrutture, ma quello privato, spesso destinato a impieghi meno produttivi e contratto, appunto, coi "mercati", cioè con le banche e i fondi esteri. Quello che secondo me dovrebbe dare una marcia in più al militante della Lega dovrebbe essere appunto la sua capacità di leggere la dinamica economica alla luce di una percezione non distorta di quale sia il vero problema, la vera fonte di instabilità finanziaria, e quindi la vera motivazione delle politiche di austerità:

Noi qui lo abbiamo detto fin dall'inizio, osservando, con molta semplicità, che i Paesi che erano andati in difficoltà nel 2010-2011 avevano debito pubblico in diminuzione o in ridotto aumento (con l'eccezione del Portogallo), ma avevano tutti uno stock di debito estero in aumento. Il problema era il debito estero, e l'austerità, cioè i tagli di reddito, non serviva a contenere il debito pubblico riducendo la spesa pubblica, ma a contenere le importazioni (distruggendo potere d'acquisto) al fine di riportare in surplus la bilancia dei pagamenti con l'estero e di ripagare quindi il debito estero.

Il meccanismo all'opera cioè era questo:


e il motivo per cui fra il deficit e il surplus ci deve essere necessariamente un abbattimento dei salari è, come credo sappiate, che in una unione monetaria non esiste più un tasso di cambio che possa muoversi per aggiustare i saldi esteri senza macelleria sociale nel Paese debitore. Vista in quest'ottica, l'esperienza Monti è stata un successo:


La deflazione salariale relativa all'altra grande potenza manifatturiera europea (la spezzata arancione che scende) ha risanato la posizione finanziaria netta sull'estero, che da debitoria è tornata creditoria, ed è oggi a un massimo storico.

Questo spiega perché il PD ha dovuto intraprendere politiche che hanno minato il suo consenso. Sostanzialmente perché queste politiche andavano a beneficio del blocco sociale di riferimento delle élite del PD, cioè della grande finanza internazionale, che quindi ha dato e continua a dare copertura politica o di altra natura agli artefici di questo rude ma efficace aggiustamento macroeconomico: cattedre prestigiose, cicli di conferenze profumatamente remunerati, consulenze milionarie, posti di spicco nelle istituzioni nazionali o sovranazionali (o estere), ecc.

E per gli elettori?

Per gli elettori, ovviamente, nozze gay coi fichi secchi. Finché si accontenteranno, pensando che l'alternativa sia il fasheesmo, avremo di fronte uno zoccolo di nostalgici che garantiranno al PD la doppia cifra (che tutte le sue articolazioni europee hanno perso, peraltro).

Questi però sono sostanzialmente fatti loro. Noi dobbiamo invece capire chi siamo e che cosa vogliamo, perché è solo uscendo dalla retorica della militanza che potremo entrare nella realtà della militanza.

Cos'è la retorica della militanza? Ve lo dico: ne ho i coglioni pieni di sentirmi ripetere l'epos convenzionale di quando venti o trent'anni fa Tizio o Caio andavano nelle nebbie della Padania o di altri circondari ad attaccare i manifesti con la colla. Questa cosa della colla ha sinceramente rotto i coglioni, anche se, per motivi per me incomprensibili, ogni volta che sul territorio si cerca di ragionare sui valori della Lega inevitabilmente si finisce a parlare di colla!

Ma la colla non è un valore della Lega!

Ne volete una prova?

Eccola:


Questo signore dallo sguardo profondo è tutto intento a spalmare colla, ma milita per il partito sorosiano e globalista per eccellenza! Ne volete un'altra prova? Questa:


Anche questa gentil donzella spalma colla, ma appartiene al partito del reddito di divananza, a quella che nel 2016 avevo previsto sarebbe diventata la stampella del PD (e nessuno mi credeva)!

Siete ancora convinti che i valori della Lega siano la colla?


Tutti attaccano manifesti, anche noi, naturalmente, ma forse, oltre a creare un racconto epico su chi i manifesti li attacca, bisognerebbe dire qualche parola su chi i manifesti li scrive: il successo del partito è dovuto a entrambi, ma la mia sensazione è che in questa epoca che vuole vedersi come "post-ideologica" l'importanza di quello che prima si pensa, poi si dice, poi si scrive, e poi si attacca al muro passi un po' in secondo piano, magari rispetto alle metriche social, o a una strana rivendicazione di anzianità. Perché mai dovrei considerare più militante uno che trent'anni fa attaccava manifesti del FUAN rispetto a uno che oggi legge e capisce Vent'anni di sovranismo?

E allora forse dovremmo, abbandonando per un attimo la retorica un po' autoreferenziale della militanza a base di colla, cercare una base valoriale e identitaria, da condividere, da mettere in discussione, da elaborare, nelle parole degli ideologi del partito, di quelli che gli hanno dato una fisionomia e lo hanno ingaggiato in battaglie condivise da un ampio elettorato. Un buon punto di partenza, ad esempio, è questo:

dove se non c'è tutto, sicuramente c'è molto. Militanza è ideologia, è capacità di leggere la realtà alla luce di un sistema di valori che consente di dedurre per ogni singolo problema che ci si trovi ad affrontare quale sia l'angolo di attacco da preferire, la decisione da prendere, la comunicazione da adottare, e di proiettare all'esterno, verso gli avversari ma soprattutto verso gli indecisi, un'immagine coerente, non schizofrenica.

Ad esempio, un pezzo di questa ideologia (il rifiuto del globalismo) si traduce nel noto aforisma:

UE = PD = cose che non si nominano a tavola

che ho formulato appunto parlando di ideologia a Beinasco:

Ecco: un militante questo non dovrebbe dimenticarlo mai, e dovrebbe sempre ricordarsi di declinare questo principio in ogni singola articolazione della sua vita personale, politica, amministrativa. Ad esempio, io sostengo che avremo fatto una vera rivoluzione culturale quando i nostri amministratori, i SOM che operano nelle varie amministrazioni, invece di dire "abbiamo preso i fondi europei" diranno "ci siamo ripresi i soldi delle vostre tasse", perché questa è la realtà e questo è quello che dice non Bagnai, ma la Corte dei Conti:


e questa verità andrebbe ricordata sempre, per ricordare sempre a noi stessi e a chi ci ascolta quali sono i danni del centralismo e dell'aver compresso i processi politici nazionali e locali, quelli vicini ai cittadini, a favore di processi distanti e condizionati dalle grandi lobby.

Questo è solo un esempio, se ne potrebbero fare altri, ma devo concludere.

La political economy più dotta e recente ci dice quello che sapevamo da noi, cioè che la gente ci ha votato perché ci opponessimo ai Governi tecnici a al PD. Qualora questo non fosse stato sufficientemente chiaro, l'esperienza del Governo Draghi, un male necessario, ha fornito ampia controprova, determinando un crollo verticale di consenso.

Ne derivano diverse conseguenze e considerazioni che vi affido per una riflessione e come stimolo per ulteriori incontri. Intanto, è assolutamente evidente che quando un partito offre un messaggio rivoluzionario, di cambiamento, il suo consenso cresce proporzionalmente al disagio della popolazione. Quando poi va al Governo, mi sembra piuttosto chiaro che non è facendo star male la popolazione che aumenterà il proprio consenso! D'altra parte, chiedo: secondo voi ora avere lo spread a 500 farebbe stare meglio o peggio i cittadini italiani?

Potrei chiederlo in un altro modo: secondo voi chi ha vilmente assassinato il Paese nel 2012 e fino al 2018, quanto ha a cuore la prosperità dei suoi abitanti? Zero! Quindi le richieste dell'opposizione a "fare di più" in un sistema da loro voluto dove chi fa di più viene punito dai mercati hanno un evidente scopo tattico: quello di mettere questo Governo in difficoltà non con i propri elettori (perché difficoltà simili non si intravedono all'orizzonte, per i motivi che ci siamo detti), ma con i mercati! Non vedrebbero l'ora di far fare a Meloni la fine che fecero fare a Berlusconi, ma trascurano il fatto che noi, non essendo progressisti, la storia la osserviamo e ne traiamo lezioni.

Naturalmente il crinale sul quale ci si deve muovere è stretto e richiede accortezze di comunicazione: la prima cosa da fare, perciò, è studiare per smontare da subito e in ogni sede le tante bufale che vengono messe in giro (a partire dall'aumento di un euro delle pensioni o dell'insufficienza della spesa sanitaria, per dire). Per chi non se ne fosse accorto, i partiti sono stati demonizzati e definanziati, quindi dimenticatevi di poter fare un'operazione simile frequentando la sezione per leggere il giornale del partito! Questa roba non esiste più. Ma la Lega, a differenza di altri partiti, ha due parlamentari che più degli altri ogni giorno si confrontano sui social (mondo da cui provengono) per diffondere i messaggi giusti e confutare quelli sbagliati. Quindi, se è vero che vi piace la politica, se è vero che volete militare nella Lega, se vi interessa impegnarvi nel dibattito, seguite Borghi e Bagnai per altri trucchetti!


(...ho dovuto fare questo discorso a una velocità spropositata e a una platea che avrebbe avuto bisogno di molti più passaggi, quelli che qui ho inserito come collegamenti ipertestuali. Se non siamo mijoni un motivo c'è, e il motivo principale è che certi argomenti che a voi sembrano semplici - anche se poi non li sapete gestire! - tanto semplici non sono... A me poi sembra che ormai si sia persa la nozione di quale sia lo scopo del gioco, che le passioni siano altrove. Questo è uno degli ultimi luoghi dove la passione politica si manifesta e si esercita, ma pur essendo il luogo di uno che ora fa l'uomo di partito, non è mai stato né mai sarà un luogo di partito: è un luogo aperto, cui accede chi desidera - e ogni tanto si vede! La strada per ricostruire una dignità alla passione civile in questo Paese è ancora molto lunga, e se mai arriveremo in fondo ricordiamoci di chi è stato il vero nemico della democrazia...)