Questa domanda me la son sentita fare alla fine dell'ultima lezione tenuta alla Scuola di Formazione Politica della Lega, ma prima ancora me la sono sentita porre dai più disparati interlocutori cui risultava difficile capire, o, nel caso fossero piddini, ammettere, che l'aggiustamento macroeconomico in una unione monetaria avviene a spese dei salari nominali.
L'obiezione cretina dell'average Joe piddino è: "Ma i salari nominali contrattuali non sono scesi! Quindi caro Bagnai stai mentendo: tutt'al più potrai dire che c'è stato un aggiustamento dei salari reali, cioè che i lavoratori non sono riusciti a recuperare tutta la perdita del potere d'acquisto dovuta all'inflazione, ma una diminuzione dei salari nominali è impossibile!"
Strano però che dai dati risulti:
come vi ho mostrato qui. Come si spiega questo apparente paradosso, cioè il fatto che i sindacati non abbiano esplicitamente negoziato degli accordi salariali al ribasso, ma i salari nominali siano ugualmente scesi? Spiegarlo in effetti non è difficile, e lo facemmo a suo tempo qui, cioè in un post di questo blog scritto nel mese evidenziato in questo grafico:
La soluzione dell'arcano è immediata: i salari si fanno scendere con la disoccupazione.
Al piddino, essere autocentrato e quanto mai privo di empatia, questo dettaglio sfugge, ma a voi non sfuggirà. Il taglio dei salari nominali ovviamente non si verifica con il datore di lavoro che entra in azienda e ti dice: "Ho una brutta notizia per te: da domani ti pago di meno!". No. Funziona in un modo diverso: il datore di lavoro entra in azienda e dice: "Ho una brutta notizia per te: da domani te ne vai!"
In pratica non fa nemmeno esattamente così, ma insomma il risultato è comunque che tu te ne vai: e quando sei in mezzo a una strada, quando non guadagni nulla, è sufficientemente ovvio che per rientrare nel mercato del lavoro accetterai anche una mansione o comunque una paga più bassa. Ripeto: non è una grande novità. Gli economisti la chiamano curva di Phillips, qui ce ne siamo occupati svariate volte, soprattutto per contestare la bislacca teoria della Giovanna d'Arco della MMT secondo cui questa relazione non sarebbe esistita (ma le sfuggiva un dettaglio).
Mi è tornata in mente questa storia (e questa domanda) in relazione a uno scambio in calce al post precedente:
Come mai in Spagna la dinamica del costo del lavoro è così sostenuta, nonostante che la disoccupazione sia così alta?
Basta prendere i dati: quelli della disoccupazione sono qui e quelli del costo del lavoro sono qui (nota bene: ho scelto dal database Eurostat le stesse definizioni di disoccupazione e costo del lavoro utilizzate dalla procedura per gli squilibri macroeconomici).
In Spagna le cose stanno così:
La relazione inversa fra variazione del salari e tasso di disoccupazione, W = f(U), è ben evidente, ma è spostata molto a destra, il che significa che occorre un tasso di disoccupazione veramente molto alto, attorno al 20%, perché i salari accennino a flettersi (cioè perché il loro tasso di variazione diventi negativo, scenda sotto l'asse delle ascisse). Ci sta quindi benissimo che con una disoccupazione al 10% il tasso di crescita del costo del lavoro (nominale) sia attorno al 12%.
Vi risparmio (e quindi, nel caso ne siate al corrente, risparmiatemi) le infinite seghe mentali econometriche su come stimare o non stimare questa relazione: la prendiamo qui come mera sintesi descrittiva di dinamiche che certo non sono né lineari né bidimensionali, ma a ogni giorno basta la sua pena, e un R quadro del 61% ci dà sufficienti garanzie del fatto che il modello, pur nella sua semplicità, qualcosa del mondo ce lo sta raccontando.
Ma da noi le cose come stanno?
Stanno così:
La nostra curva di Phillips è spostata molto più a sinistra, il che comporta che già per tassi di disoccupazione attorno al 12% si possono avere tassi di variazione del costo del lavoro nominale negativi.
A cosa sono dovute queste differenze strutturali così marcate? A tanti fattori sociologici e economici, a partire, naturalmente, dalle istituzioni che regolano il mercato del lavoro. A dire il vero, gli indicatori OCSE sulla rigidità delle norme a protezione dei lavoratori sembrerebbero indicare maggiori tutele nel caso dell'Italia:
In teoria questo comporterebbe che i lavoratori italiani sarebbero in condizioni di resistere maggiormente alle pressioni al ribasso sui loro salari, e quindi che occorrerebbe un tasso di disoccupazione più elevato per farli cedere. Tuttavia, abbiamo imparato qui quanto possiamo fidarci dell'OCSE, e quindi non siamo poi così tanto stupiti che i dati indichino l'esatto contrario!
Una dotta disamina dell'effetto delle riforme "strutturali" sul mercato del lavoro spagnolo la trovate qui a cura dei nostri amici del Fmi, ma sinceramente dei casi altrui potevo occuparmene quando ero un docente universitario: ora che sono un parlamentare devo occuparmi dei casi vostri. Se qualcuno ha voglia di leggersela con l'intelligenza artificiale e di raccontarci in che modo "Carlo is correct!" si arrampica sugli specchi ben venga.
Intanto, riassumendo, mi avete chiesto un approfondimento e ve l'ho dato: non è strano che il cruscotto della MIP indichi in Spagna un tasso di disoccupazione e un tasso di crescita dei salari entrambi piuttosto elevati rispetto agli standard italiani: significa semplicemente che la curva di Phillips spagnola è più in alto di quella italiana.
Sul perché lo sia magari torniamo un'altra volta, o lo scopriremo dalla discussione che seguirà...