sabato 20 dicembre 2025

Dobbiamo veramente salvare il popolo da se stesso?

(…modificato per maggior chiarezza dopo cena…)

Ricevo da un conoscente (io non ho amici, non me li merito!) questo commento a esito del convegno di ContiamoCi! (che troverete sul canale dell’associazione o dell’insorto):


Perché sì, l’amaro calice della politica oggi mi ha riservato anche questo: una grillina che veniva a lamentarsi con me in quanto #aaaaabolidigo di come i 5stelle avevano gestito la pandemia insieme con il PD. Ora, è vero che tutto comprendere è tutto perdonare, è verissimo che un uomo politico, e in particolare un rappresentante del popolo, cioè un parlamentare, deve mantenere un comportamento dignitoso e un contegno all’altezza del mandato che ha ricevuto, è indubitabile che quell’elemento di igiene del pensiero e delle relazioni che va sotto il nome di prima legge della termodidattica:

suggerisce in questi casi di lasciar perdere, eppure, ve lo confesso, avrei voluto per un attimo fare eccezione, e dirle: “Ma brutta cogliona, lo capisci che sei tu che devi chiedere scusa a tutti noi, perché è per colpa tua e di altri imbecilli come te se quella tragedia è stata gestita nel peggiore di tutti i modi possibili? E lo sai a chi stai parlando? A uno che dal 2012 vi sta spiegando che gli ortotteri sarebbero diventati la stampella dei piddini! Tu, a me, gentile amica, lungi dal fare lezioncine, dovresti non baciare le scarpe (non basterebbe poi a me un barile di Amuchina), ma baciare le orme che esse lasciano al suolo!”, o qualcosa di altrettanto sobrio e incisivo.

Ma naturalmente ho lasciato perdere.

Si scagliano, poverini, contro il protocollo “Tachipirina e vigile attesa” (quando basta bastava semplicemente non seguirlo, come non l’ho seguito io, curandomi), ma poi l’unica terapia che riescono a concepire per i mali della democrazia, che identificano con il preciso momento in cui la sfera della loro integrità fisica e morale è stata compromessa (e non con il fatto che la loro splendida individualità se ne andava strafottendo di tutto quanto era andato succedendo per anni ai loro simili) è una terapia sintomatica: chi la declina come vendetta, chi la declina come (peggio ancora!) “Veritah”, attribuendo a questo concetto un valore performativo che l’evidenza concreta di ogni singola interazione umana smentisce.

E questo ci lascia con un grosso interrogativo, quello del titolo: dobbiamo veramente salvare il popolo da se stesso?

Alla fine, l’odiosa grillina rea confessa altro non aveva avuto che quello che si meritava! Se lo meritava per aver perpetrato il crimine supremo di attentato alla democrazia, mettendosi al servizio di un progetto antipolitico.

Vedevamo così compiersi di fronte ai nostri occhi l’auspicio che da veri libertari più volte abbiamo espresso: quanto sarebbe bello se ognuno vivesse nel mondo che ha voluto, se chi vuole l’euro si beccasse i tagli dei salari e chi vuole la lira si beccasse la crescita economica, se chi vuole i 5stelle subisse le conseguenze della subalternità alla Cina e chi vuole un partito normale potesse invece decidere per sé. Il problema è ovvio: la vita è una, e a differenza di tante casse previdenziali non ammette “gestioni separate”. Per colpa di personaggi come quella lì tutti noi abbiamo visto compressi i nostri diritti, e se proprio si dovesse ragionare di vendetta, sarebbe abbastanza facile capire da dove cominciare: da lei, che oltretutto è più attingibile di Conte! Che poi è il motivo per cui qui piazzaleloretisti e norimberghisti non sono mai stati bene accetti: non solo perché la vendetta non è una soluzione, ma soprattutto perché non è indizio di estrema accortezza invocare processi in cui si rischia di essere parte soccombente.

D’altra parte, però, credo che vi siate potuti rendere conto tutti, con i vostri occhi, che proprio la strada che questi poveri, piccoli esseri brancolanti nelle tenebre hanno così chiara davanti, quella in cui l’emersione della verità (cha cha cha) porta all’avvento di un mondo giusto, è sostanzialmente impraticabile (per inciso, oltre ad avervi spiegato che gli ortotteri si sarebbero alleati col PD, vi avevo anche preannunciato che la veritah sarebbe stata la nuova onestah).

Questa sera, credo l’abbiate capito tutti. Spero che abbiate apprezzato anche voi quanto quelle persone così convinte che la loro verità abbia un valore politico fossero in realtà assolutamente impermeabili a qualsiasi lettura della realtà che non cominciasse dalla fatidica punturina.

Mi dispiace per la Gismondo e per tanti “sicceroi” presenti: bisogna proprio non sapere un cazzo di quello che è successo in questo paese (cioè in questo blog) ed essere stati complici di tutte le porcate che c’erano state imposte prima dell’unica che interessa a loro per pensare che basti uno sforzo didattico a determinare un esito democratico. Detto in francese: a che cazzo serve ragliare contro i “poteri forti” se non si accetta di riflettere un momento sulle parole di Lucio Magri (per dirne uno) che spiega in che modo ci siamo messi in mano a quei “poteri forti”? I “poteri forti” (a proposito: qualcuno mi sa dire quali sono i poteri deboli?) fanno semplicemente il loro lavoro, che viene reso più agevole da alcuni assetti istituzionali privi di contrappesi. Magri ne citava solo uno, peraltro, quello europeo, ma il grosso del danno era stato fatto senza che lui se ne accorgesse con il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, cioè con l’indipendenza della Banca centrale, che è oggi il principale vulnus democratico. Ma i nostri amici, poverini, su questo non vogliono riflettere. Basta dire #aaaaabolidiga e i “poteri forti”, il discorso si esaurisce lì, e Gramsci si rivolta nella tomba.

E a questo punto sorge un altro problema: vi siete mai chiesti voi, come me lo sto chiedendo io, quand’è che un sano e progressivoanelito didattico stringe nell’odioso paternalismo di un Padoa Schioppa? Perché alla fine il problema è questo, lo ripeto: la simpatica ortottera era vissuta nel mondo che aveva desiderato! E chi siamo noi per imporle un mondo diverso, o semplicemente per chiederle di considerarlo?

Metteteci un attimo la testa, perché immagino che la domanda a qualcuno possa non essere immediatamente chiara. Io vado a cena, e dopo ne parliamo.

venerdì 19 dicembre 2025

Il ritorno del terzo Reichlin

 


Ieri “La voce del Colle” accordava inusitato risalto a un articolo relativamente tecnico di un collega relativamente scialbo:


la cui produzione è dwarfed da quella della più prolifica sorella

con cui però condivide, nonostante la discreta divaricazione degli indicatori bibliometrici, un tratto distintivo (che, come poi argomenterò, non credo gli discenda per linea paterna): quello di parlare di Germania senza capirne un accidenti.

L’idea lanciata attorno al 2012 dall’affascinante (non solo bibliometricamente) Lucrezia, secondo cui la Germania sarebbe stata in surplus con la Cina, l’avevamo commentata illo tempore qui, e nonostante nel frattempo fosse diventata uno dei tanti mantra degli espertoni, il tempo, sì come far suole, ci ha dato ragione sbriciolandola, tant’è che due giorni dopo la pubblicazione di questo nostro post perfino il Wall Street Journal ha preso atto:

e, come recita il brocardo, “Wall Street locuta, causa finita”. Il crollo verticale delle esportazioni lorde tedesche negli ultimi anni non implica in alcun modo che le importazioni nette siano mai state positive, perché sono sempre state negative, come vi avevo prefigurato nel 2012 (“Si intende di Cina, Mr. Bagnai?” “No, mi intendo un po’ di donne…” - semicit.).

Il fratello minore (soprattutto scientificamente) non è che se la cavi molto meglio! Guardate un po’ come esordisce:

Non c’è male, eh!? Qui mancano proprio le basi, non solo della geografia (l’Europa non è un continente), ma anche della statistica economica. Scusate, vi chiedo di dispensarmi, in nome della schiettezza e della franchezza che deve contraddistinguere un genuino e proficuo scambio di idee, dall’obbligo di avvalermi del dizionario da me scritto in tempi migliori, e di pormi con semplicità una domanda: ma ancora con questa stronzata della Germania locomotiva? Ma te li vuoi guardare i cazzo di dati, gentile collega?

Ora, la cosa più sconcertante nella simpatica coppia di cheerleader del Reich(lin) millenario non è il rifiuto del dato di realtà! Evidentemente non occorre che il Reich ti scorra nel sangue: basta che ti scorra nel cognome perché tu sia pervaso da quel fremito idealistico che è a un niente dalla Verleugnung, anticamera della Selbstvernichtung.

Ma il problema non è questo, così deliziosamente freudiano.

Il problema di questi esperti, cui i nostri nemici di classe accordano un incomprensibile diritto di tribuna, non è che siano allucinati (senza bisogno di Pervitin): è che sono scarsi!

Ne volete una prova?

À vous:

Vi rendete conto? Ma come si fa a definire “buoni” i frutti delle riforme Hartz, cioè dell’aggressiva politica di deflazione salariale beggar-thy-neighbour con cui la Germania ha tagliato il ramo su cui era seduta, cioè i redditi, e quindi il potere d’acquisto, del mercato unico europeo (date le inevitabili mosse conseguenti degli altri partecipanti, di cui parlammo nel 2011, e per ultimo qui)?

Buoni per chi? Per noi è sufficientemente ovvio che non lo siano mai stati, questi frutti, ma anche ritenerli buoni per la Germania era da sprovveduti, come i fatti hanno dimostrato, e se è concesso a tutti di essere scarsi ex ante, è più difficile concedere a qualcuno di essere negazionista ex post, soprattutto dopo che 🍇 ha spiegato come funziona! Quella del taglio reciproco dei salari è stata (ed è) una strategia suicida, come è oggi scientificamente suicida negazionare che lo sia stata!

Quando sostituiremo il qualunquismo grillino sulla qualità della nostra classe politica con un ragionamento serio sulla qualità delle nostre élite? Al #goofy14 abbiamo visto che hanno ottimi e abbondanti motivi per essere così scarse o distratte.

Il problema è lì, e la soluzione…

martedì 16 dicembre 2025

240

Questo è il 2746° post del blog, e il 240° post di quest'anno, in cui le nostre occasioni di incontro e scontro sono tornate sopra ai livelli del 2017 (231 post). So bene che questa piattaforma è desueta, e che questo modo di comunicazione mal si coniuga con l'accelerazione dei ritmi che ci viene imposta dalle nuove piattaforme. Però noi qui siamo nati, e qui restiamo, in questo luogo di approfondimento e di riflessione, in questo luogo da cui non c'è un algoritmo che ti espelle se osi citare le fonti dei dati (dato che così facendo induci il pollo di turno a uscire dalla piattaforma), in cui non c'è pubblicità perché si presume che nessuno venga a vederla, in cui i troll possono essere tenuti cortesemente alla porta, come nel buon tempo andato.

Ieri lunghissima seduta del consiglio di a/simmetrie, per decidere le linee di sviluppo dell'associazione, nell'ipotesi che io possa, o non possa, tornare a occuparmene a tempo pieno. Abbiamo parecchie sorprese in serbo per voi: vogliamo crescere e col (o senza il) vostro aiuto ce la faremo. Si può fare politica anche senza fare #aaaaabolidiga, qui facciamo politica da sempre e il tempo sta premiando i nostri sforzi. In un mondo in cui "la posizione del mainstream è in rapida evoluzione", dobbiamo affermare il marchio di chi ha precorso i tempi, e forse dopo un convegno #QED quest'anno, l'anno prossimo potremmo permetterci un convegno #VLAD. Certo è che se quest'anno eravamo più di 500, con tanti nuovi ingressi, l'anno prossimo saremo intorno ai 700, recuperando quello che abbiamo perso a causa dei vari shock politici e pandemici. Ricordo (con fastidio) chi quattro o cinque anni fa considerava chiusa l'esperienza del blog e a ricasco quella di a/simmetrie, prendendone le distanze in modo spectacularly ill-timed, e ricordo invece (con gratitudine) chi, come Daniele Capezzone, mi esortò a tenere duro e mantenere accesa la fiammella pilota della libertà e dell'originalità di pensiero. Se ogni anno ve ne tornate a casa dal #goofy rinfrancati, il merito è anche di amici come Daniele, e forse questa è, per me, una delle lezioni più significative e inattese che porterò con me dalla mia esperienza politica: il fatto che anche da un ipotetico avversario dialettico (sul liberismo e sul libberismo abbiamo posizioni lievemente differenziate...), se ci si pone su un piano di lealtà intellettuale, si possono trarre utili consigli.

Volevo solo dirvi questo.

Io ci sono perché so che voi ci siete, ma ci sarei anche se non ci foste.

E voi ci sarete quando io non ci sarò più?


(...e ora vi lascio, devo ricevere una new entry nel nostro comitato scientifico...)

domenica 14 dicembre 2025

Le ore ritrovate?

Seguendo i consigli dell'ottimo Fabio (quanto sono felice quando la community è di aiuto al suo ecclesiarca...) ho ricostruito questo grafico:


che più o meno si parla con questo altro grafico di fonte ILO:


nel senso che entrambi segnalano un'intensificazione dell'attività nel 2002, ma per renderli in qualche modo omogenei (e quindi usare il primo per "allungare" il secondo, che peraltro ha un buco nel triennio 1996-1998) servirebbe il totale delle ore lavorate, che sicuramente da qualche parte si può far saltar fuori, ma ora non ho tempo per mettermici (sono reduce da un Roma-Dragonara-Majelletta-Corropoli-Colleranesco-Fara San Martino-Taranta Peligna-Roma), come non ne ho per commentare i picchi del primo grafico, che presumo possano avere un certo interesse.

Il problema è che l'ISTAT dà le ore lavorate come indice e non come valore assoluto, e quindi risalire da quell'indice al totale delle ore perse richiede un po' di ingenuity. Fosse per me, prenderei il totale delle ore lavorate di fonte OCSE, lo mensilizzerei, applicherei a quella serie le percentuali del primo grafico e poi aggregherei temporalmente i risultati. Ci vuole un po', purtroppo ho perso manualità e le mie procedure per applicare Chow-Lin credo di averle scritte addirittura in RATS, quindi se ne parla alla fine della legislatura se va male (o bene, dipende dai punti di vista)!

Ma qualcuno un po' più evoluto di un trader e che vuole dare una mano si trova?

Intanto, una cosa è evidente: Monti ha placato il conflitto sociale.

Da qui a dire che quindi "er bobolo" si merita tutto sarebbe un passo lungo e naturalmente chi lo percorresse sarebbe una bruttissima persona.

Come il vostro aff.mo ecclesiarca.

Buona notte e a domani (su RaiNews24).


(...a Colleranesco mi hanno dato una cassetta da 6 con 5 bottìe dentro. Non si fa mai abbastanza attenzione, ma io sono uno che si fida. Si sono fidati anche i lavoratori: dei sindacati, dei tecnici, degli operatori informativi... Decisamente, non è una buona idea!...)

sabato 13 dicembre 2025

Alla ricerca delle ore perdute

(…scendendo da Mamma Rosa, dove i miei sentimenti mi hanno spinto verso lu rentrocele alle quattro carni…)

Quando ero giovane io, i modelli econometrici comme il faut, incluso quello della Banca d’Italia, tenevano marxianamente conto del conflitto sociale, per cui nella curva di Phillips inserivano una variabile che ne esprimeva l’intensità: si chiamava “ore perse per conflitti di lavoro”, e naturalmente aveva coefficiente positivo: più scioperi, più crescita dei salari  

Qualche giorno fa, stomacato dalla demagogia di quelle quattro facce di m… onti che hanno istituito lo scioperdì perché “leggente soffrono per colpa dell’austerità e del fasheesmo”, sono andato sul sito dell’ISTAT per aggiornare i miei dati ma, incredibile dictu, non c’è stato verso di scaricarne la serie: irreperibile! Siccome mi ero messo all’anima i difensori della vedova e dell’orfano, senza demordere sono andato sul sito dell’ILO, ma… i dati sono disponibili solo fino al 2008! Ora io dico: visto che si pubblicano (e sono facilmente reperibili) i dati sulle ore lavorate, evidentemente esisteranno anche quelli sulle ore non lavorate. Perché questi ultimi sono così difficilmente reperibili? Vi do due possibili spiegazioni non mutuamente esclusive: la prima è che io stia invecchiando, nel qual caso voi che siete più svegli (penso in particolare al sempre vigile Fabio), riuscirete senz’altro a darmi il link (vi risparmio il gustoso siparietto originato dalla mia richiesta a Grok di darmi il link, che inserirò nella mia antologia di dialoghi con la bestia). La seconda spiegazione è che questi dati vengano offuscati, affinché nessuno possa, magari in un bel parterre televisivo, dire: “ma scusate, brutte facce di m… onti, come mai quando Monti faceva precipitare il Pil italiano e decollare la disoccupazione le ore perse per conflitto di lavoro erano una quantità irrisoria rispetto a quelle che stiamo constatando oggi?” Perché a mente mia lo erano, ma magari non sarà stato così. Bisognerebbe basarsi sui dati, solo che quando i dati una volta c’erano, ma all’improvviso scompaiono, io, chissà perché, sono tentato di pensar male. Sarà forse perché quella volta che erano scomparsi i dati OCSE sulla flessibilità del mercato del lavoro, poi saltò fuori che dalla lettura di quei dati avremmo capito che l’Italia non aveva bisogno di riforme? Ecco, la mia sensazione è che se saltasse fuori una serie omogenea di ore perse per conflitti di lavoro, non dico che scopriremmo che l’Italia non abbia bisogno oggi di scioperi, ma scopriremo una cosa diversa: che quando ne aveva molto più bisogno di oggi, ne sono stati fatti molti di meno.

Voi che ne dite?

(…e scusate se ho detto Monti a tavola.…)




venerdì 12 dicembre 2025

L’ideologia del male

ZanziBarra ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "La Cina e le leggi sul grano":


La necessità di prodotti a basso costo per alimentare l'illusione di non impoverirsi in un contesto di deflazione salariale è uno degli aspetti che mi si è chiarito per primo frequentando questo blog. A me ha sempre colpito il grado devastante del successo del piddinismo come forma di dominio delle menti dei lavoratori da parte del capitale in questo contesto. Le persone hanno semplicemente smesso di considerare la possibilità di desiderare salari più alti essendo completamente assorbiti dal desiderio di prodotti sempre meno costosi senza mai cogliere l'asimmetria dei due percorsi, uno potenzialmente tendente a infinito l'altro necessariamente tendente a zero per tutti, con conseguente guerra fra poveri. La teoria sottostante è "Robertì ti piacciono i pomodori?" ovvero l'obiettivo di comprare a poco è prevalente su ogni altra considerazione. La ragione vera è che stai sprofondando nella miseria e la necessità ti spinge a remare in direzione della miseria. Ma nel frattempo ti hanno pienamente convinto che ciò è nobile e giusto. Scusate, semplicemente uno sfogo, ma sempre mi addolora mortalmente non il male che ci hanno fatto ma quanto ne abbiamo sposato l'ideologia.


Pubblicato da ZanziBarra su Goofynomics il giorno 12 dic 2025, 17:33


(…non credo di dover aggiungere altro, se non che in termini storici non penso sia una assoluta novità. Ce lo siamo detto più volte che stavamo assistendo alla genesi del nazismo, abbiamo visto con i nostri occhi l’elegante astuzia della ragione in virtù della quale iBuoni™️ sono causa efficiente dell’avvento del totalitarismo, perché il più lurido e insidioso dei totalitarismi è appunto il loro sentirsi aprioristicamente buoni, il loro autoassolversi, peggio ancora, il loro dispensare se stessi da qualsiasi riflessione sui processi in atto che esuli da una rituale dichiarazione di estraneità, il loro sentirsi e dichiararsi assolti, essendo per sempre coinvolti. Tuttavia, non credo in 14 anni di essere mai riuscito a spiegarlo in modo così limpido, e quindi volevo condividere con voi…)

giovedì 11 dicembre 2025

La Cina e le leggi sul grano

Sugli operatori informativi mi sono espresso più volte. Da politico è meglio che non lo faccia, ma continuo (silenziosamente) a ritenerli gli assassini della nostra democrazia. Come si fa però a volergli male? Non passa giorno senza che ci regalino momenti di ilarità che per essere involontaria non è meno genuina. Qualche giorno poi la nota agenzia ha superato se stessa, raggiungendo un picco di analfabetismo funzionale che mai avremmo ritenuto potesse essere attinto.

Vediamo che cosa è successo. Il 7 dicembre scorso il nostro amico Emmanuel aveva minacciato la Cina di imporle dei dazi se questa non si fosse adoperata per ridurre il suo gigantesco surplus nei confronti dell'Eurozona. Lo ha fatto in un'intervista al Sòla francese, che si chiama Les Echos, e che trovate qui:


e il cui contenuto è difficilmente equivocabile:


L'Unione Europea ha un gigantesco deficit commerciale di oltre 300 miliardi l'anno nei riguardi della Cina e quindi Macron auspicava che la cosa si potesse sistemare con le buone maniere, o altrimenti sarebbero dazzi.

Articolo pubblicato alle 9:04, ripreso nel modo seguente alle 12:07 dai nostri agenti all'Avana (svegli!):

dove non vi sfuggiranno due assurdità. La prima, che Macron, per quanto sia uno zombie, è lucido, e quindi non ha parlato del deficit della Cina con l'Unione Europea, perché non c'è, ma dell'esatto contrario: del deficit dell'Unione Europea con la Cina o, se volete, del surplus della Cina verso l'Unione Europea.

"E vabbè, deficit, surprus, ma che tte frega? Basta che sse capimo!"

(immagino così, con quel velo di disincanto cialtrone che il romanesco inesorabilmente conferisce, il nostro aspirante Pulitzer).

Eh, no! Non basta "che sse capimo", caro operatore informativo, direi proprio che non basta, per almeno tre ordini di motivi.

Primo, perché a Montesilvano abbiamo appreso da Thomas Fazi quanti milioni ciucci ogni anno all'Unione Europea (cioè alle nostre tasche) per (dis)informarci, e quindi visto che paghiamo vorremmo un po' di qualità (pago preténdo, dicono nella culla del partito in cui mi onoro ecc.).

Secondo, perché chi si impanca a giudice del tribunale della verità poi deve dire la verità, o subire la sanzione del ridicolo.

Terzo, perché non è tollerabile che chi informa sui fatti economici sia così ignorante non dico di economia, ma di logica elementare! Scusate tanto, eh! Ma facciamo finta per un attimo che le cose stiano come dite voi, fonte autentica e incontestabile della Notizia con la "N" maiuscola, e che veramente Pechino abbia un deficit commerciale verso l'Unione Europea, cioè compri da noi più beni di quelli che noi compriamo dalla Cina. Ma scusate: avrebbe un senso chiedere a “Pechino” (e perché non a Shanghai?) di rimediare a questa situazione per noi favorevole? Ma lo connettete il cervello alle dita quando scrivete? Evidentemente no, ed è grave, ma ancora più gravi sono i motivi ideologici di questa svista, che derivano dall'aver creduto a una favoletta che da tempo vi abbiamo sentito diffondere: quella secondo cui i Paesi "virtuosi" dell'Unione Europea sarebbero in surplus con la Cina (che quindi sarebbe in deficit con loro), a differenza di noi pezzenti del Sud che saremmo in deficit con la Cina perché incapaci di sostenere le sfide della modernità e della globalizzazione. Ne deriverebbe, peraltro, che la crisi del modello tedesco non deriverebbe dalle suicide politiche di austerità che hanno distrutto il mercato interno (e quindi dalla Germania), ma dal fatto che la Cina ha preso il sopravvento: quindi "avrebbe stato" la Cina a mettere in crisi la virtuosa Germania.

Questa solenne puttanata notevole imprecisione fattuale fu oggetto, a suo tempo, di un mio commento salace all'indirizzo della seconda Reichlin (il primo è Alfredo e il terzo è lui), ma ho potuto constatare con qualche raccapriccio che nonostante che i fatti la smentiscano, la suadente favoletta ha fatto breccia anche nelle menti di chi una mente ce l'ha. E allora vediamo un attimo come stanno le cose, cominciando con l'aggiornare il grafico del 2012, cioè questo qui:


che all'epoca commentavamo così:

"Su questa parete vedete il surplus della Germania con la Cina, rappresentato dal tratto verde, che è sotto l’asse delle ascisse e quindi è un deficit, come ogni “surplus” negativo. L’autore – la Germania – ha voluto rappresentare in questo dipinto l’inanità del proprio sforzo di competere con un popolo che vanta un anticipo di tre millenni di civiltà. Questa impotenza è plasticamente rappresentata nella parte destra del dipinto, che sembra mostrare un parziale successo teutonico. La débâcle del saldo, che stava precipitando dal 2003, sembra sperimentare nel 2009 una parziale, tardiva resipiscenza: si torna su! Ma l’autore, lucido, impietoso ed implacabile, ci mostra quanto ingannevole sia questo apparente successo, a suo tempo strombazzato dai Tafazzi di tutto il mondo, e ce lo mostra nella parte superiore del grafico. L’inversione del saldo non è dovuta, oh no!, ad un’accelerazione delle esportazioni tedesche (spezzata blu) nel 2009, magari dovuta a investimenti in ricerca e sviluppo o a riforme del mercato del lavoro (tanto per ricordare i mantra tafazziani che aleggiano in altri blog). No, essa è dovuta a un crollo delle importazioni (spezzata rossa). Il critico Bodoni Tacchi (to the happy very few) ci ricorda che in quell’anno il Pil tedesco crollò del 5%. Non è strano che crollassero le importazioni, conciossiacosaché laddove te ttu meno guadagni, e tte ttu meno hai da spendere e spandere per l’universo mondo. Come non è strano che col ripristino di condizioni quasi normali la Germania abbia ricominciato a scivolare inesorabilmente verso il basso. Un senso di inesorabilità che l’autore riesce a rendere con tre soli tratti di matita, in un’opera geniale quanto profetica, nel suo anticipare lo spettacolo di Angela con la coda fra le gambe alla corte dei mandarini”.

Bene. vediamo che cosa è successo nel frattempo. Pare sia successo questo:


La Germania ha avuto un (esiguo) surplus nei riguardi della Cina in tre occasioni: nel 2014, a causa di un vistoso crollo delle importazioni, nel 2018 e nel 2019. In tutti gli altri anni il suo saldo è stato negativo. Credo quindi che nel parlare della Germania si faccia un po' di confusione fra esportazioni lorde e nette: è vero che quelle lorde (la spezzata blu) hanno cominciato a perdere catastroficamente terreno solo nel 2022; ma non è vero che quelle nette siano mai state significativamente positive. La Germania è sempre stata sostanzialmente in deficit con la Cina, e come lei le altre maggiori economie europee:


e incidentalmente faccio notare che al gioco della Cina i più bravi a giocare siamo noi, visto che tendenzialmente eravamo, e siamo tornati, quelli con il minor deficit (se escludiamo l'exploit tedesco del 2012-2019).

Ricordo che quello che conta in termini di impulso alla crescita sono le esportazioni nette, perché se le esportazioni sono domanda per i beni nazionali, le importazioni sono domanda per i beni esteri, sono cioè una dispersione dal circuito del reddito nazionale che va a creare occupazione e valore (Pil) nel resto del mondo. Diciamo che quando le è andata bene, la Germania con la Cina ha pareggiato. Certo, ridurre il contributo negativo della Cina alla crescita tedesca per la Germania è stato comunque un dato positivo, ma anche una strada che, per essere obbligata (dopo la distruzione del mercato unico a botte di austerità) non si è rivelata meno impervia (altrimenti avremmo visto dei sirplus significativi). Questo pro veritate, e così ci siamo sbarazzati (vorrei sperare definitivamente) di una stucchevole favoletta.

E le leggi sul grano?

Le corn laws sono ben note agli studiosi di economia: si trattava di provvedimenti che nel 1815 misero un dazio sul grano importato in Inghilterra allo scopo di proteggere i redditi dei proprietari terrieri. Sapete anche che David Ricardo si scagliò contro di loro, perché rappresentava gli interessi della classe manifatturiera che, se fosse stato possibile importare grano estero a buon mercato, avrebbe potuto pagare di meno i lavoratori, espandendo la propria quota di profitti. Che ci crediate o meno, agli imprenditori non interessava che il povero operaio trovasse il pane a buon mercato: li interessava maggiormente poter pagare di meno il povero operaio, senza che però questo ci rimettesse le penne!

Si chiama legge bronzea dei salari.

Come sapete, alla fine vinsero gli industriali e nel 1846 i dazi vennero tolti. Non sarete stupiti nell'apprendere che siccome lo scopo del gioco non era pagare di più gli operai, ma eventualmente pagarli di meno, nessuno di questi due shock legislativi lasciò particolari tracce nella serie del salario reale. Ci aspetteremmo in teoria una diminuzione o stagnazione di quest'ultimo all'introduzione dei dazi, per effetto dell'aumento del "carrello della spesa" (costo della siasistenza), e un decollo dopo il 1846, per effetto della diminuzione del prezzo del grano e naturalmente dell'aumento della produttività (ça va sans dire). Mi sono cercato qualche studio (se ne trovate altri sono bene accetti) e pare che le cose non siano andate esattamente così.

Crafts, N. F., & Mills, T. C. (1994). Trends in real wages in Britain, 1750-1913. Explorations in Economic History, 31(2), 176-194, giungono alla conclusione che:


cioè che le cose sono andate più o meno così:


e come vedete né l'imposizione né la rimozione dei dazi sul grano marcano un cambiamento strutturale rilevante nella serie del potere d'acquisto dei lavoratori inglesi dell'epoca (60 significa 1760, 80 significa 1780, e via così). La materia è aperta al dibattito, va da sé, ma, vi chiederete voi: "E a noi che ce ne frega degli operai inglesi del XIX secolo, tanto più che stavamo parlando di Cina?"

Ma benedetti ragazzi, devo spiegarvi proprio tutto? Non stavamo parlando di Cina: stavamo parlando di dazi, dazi su prodotti a buon mercato importati.

Ci siamo? Beh, se ancora non ci siete arrivati, vi aiuta questo nostro nuovo amico Lycan:


e così vedete che non c'è nulla di nuovo sotto il Sole. La paccottiglia cinese sta al proletario terziarizzato odierno come il grano statunitense o ucraino stava al proletario del manifatturiero inglese nel XIX secolo!

Si capisce così l'attrazione fatale del progetto europeo per la Cina! La Cina non serve a esportare di più, ma a importare di più!

Chiarisco.

Un progetto intrinsecamente basato sulla deflazione salariale necessita da un lato di importare manodopera a buon mercato per contenere le pretese degli autoctoni: ve lo dice qui al minuto 24 uno che se ne intende:

ma dall'altro, una volta “disciplinati” i salari con le “risorse” o con la flessibilità, abbisogna di paccottiglia a buon mercato per evitare che la compressione salariale risulti nell'inedia (reale o figurata) dei lavoratori! Il libero scambio viene predicato in nome della sovranità del consumatore, cui si promette sussistenza a buon mercato, ma viene praticato in nome della sovranità del capitale, che aumenta i propri margini inseguendo il lavoro a buon mercato.

Qualcuno potrebbe trovare fuori luogo il riferimento alla legge bronzea dei salari, e in qualche modo potrei anche essere d’accordo. Faccio però notare un dettaglio: certo, ora un tozzo di pane ce l'hanno tutti, la sussistenza di per sé è raramente un problema, ma siccome tutti hanno anche un'istruzione (con la possibile eccezione degli utenti Twitter), controllarli è più difficile, quindi devi imporgli lo smartphone, per dirne una, e molti possono permettersi solo quello de “lu cinesə” (come lo chiama il mio amico Giustino). Con l'auto elettrica, poi, abbiamo incautamente creato un altro bisogno che solo la Cina potrà soddisfare. Il discorso potrebbe essere sviluppato ulteriormente, e mi affido alla vostra fertile fantasia, limitandomi ad un'osservazione: capite perché un Paese che, come la Germania, affida il suo successo di esportatore alla deflazione salariale, non può non essere un importatore netto da un Paese come la Cina, dove la forza lavoro è ancora a buon mercato?

Il reale, a differenza degli operatori informativi, è razionale!

Sarebbe naturalmente meglio adottare un modello di crescita wage-led, affidando al cambio , anziché ai salari, l'ammortizzazione degli shock macroeconomici, ma questa felice evoluzione non è dietro l'angolo, nonostante le belle parole di Trump e di Musk, che forse hanno capito che cosa vogliono dall'Europa, ma sicuramente non hanno ancora espresso chiaramente il motivo per cui non possono averlo.

Ma di questo parleremo in altra sede: intanto, godiamoci l'atmosfera piacevolmente dickensiana di questa nuova rivoluzione industriale. Un eterno ritorno dell’uguale la cui lettura è preclusa ai progressisti, cioè agli sciocchi che ideologicamente negano che nel passato possa esserci qualcosa da imparare.

E invece c’è, oh, se c’è!…

lunedì 8 dicembre 2025

Un altro sguardo sul suicidio europeo: gli investimenti pubblici netti

(...tutto questo blog è dedicato al suicidio europeo, quello da cui gli Usa ci hanno messo in guardia due giorni fa - poi ne parliamo - e uno dei post più recenti sul tema è questo...)


AC ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Tre discorsi: "La political economy della LSP" (discorso numero due)":


C'è una fonte di dati, o un'analisi, affidabile sugli investimenti pubblici netti che includa paesi extra-UE "significativi"? Si fa un gran parlare (non abbastanza) del fatto che la UE sia "rimasta indietro" su più o meno tutto, e mi era venuta la curiosità di guardare a questo parametro per altri paesi, o magari gruppi di paesi, ma non trovo molto a riguardo, al di fuori dei dati (se non mi sbaglio della commissione europea) che mostra da qualche tempo. Grazie.

Pubblicato da AC su Goofynomics il giorno 7 dic 2025, 12:31


Domanda pertinente e costruttiva, a differenza di altre. Mi sono quindi attrezzato per cercare la risposta. 

Ricordo in via preliminare a chi si trovasse qui per caso che per investimenti in macroeconomia si intende la formazione di capitale fisso (non si intende cioè l'allocazione del risparmio, quella di cui parlate col vostro promotore finanziario). Ricordo quindi che gli investimenti pubblici sono la costruzione di infrastrutture pubbliche, e che in generale gli investimenti netti si ottengono da quelli lordi sottraendo il deperimento (consumo) di capitale, per cui gli investimenti lordi possono solo essere positivi, ma quelli netti possono anche essere negativi, nel qual caso ciò significa che lo stock di capitale fisso sottostante (nel caso degli investimenti pubblici, lo stock di infrastrutture) è diminuito (sono crollati dei ponti, sono state chiuse delle strade, ecc.).

Con questa precisazione, descrivo la mia ricerca.

Sono partito innanzitutto dal database Ameco (quello da cui provengono i dati che vi ho mostrato qui) seguendo questo percorso di selezione:


Tuttavia, questo database non consente di selezionare questa variabile in molti Paesi normali (la parola "normale" è più breve di "extraeuropeo" e descrive meglio i Paesi di cui si tratta, quindi in questo post "Paese normale" sta per "Paese extraeuropeo"). Di fatto, l'unico Paese normale di una certa rilevanza per cui la variabile sia disponibile sono gli Stati Uniti:


(quelli ombreggiati in grigio, fra cui, scorrendo, si trovano i principali Paesi OCSE, non sono disponibili).

Comunque, mi sono preso i dati disponibili, per Eurozona e Stati Uniti, e direi che osservandoli:


si intuisce abbastanza bene perché poi le cose sono andate così:

(la produttività Usa ha cominciato a divergere verso l'alto quando gli investimenti pubblici netti Usa hanno cominciato a divergere verso l'alto).

Sono allora andato sul database dell'OCSE, che dovrebbe fornire i conti pubblici di tutti i Paesi membri. Purtroppo inserendo questa stringa:


si ottiene questo non risultato:


Sono allora tornato sul database AMECO. La definizione di investimento pubblico netto è questa:


Formazione lorda di capitale fisso (investimento lordo), meno consumo di capitale fisso (ammortamento). Allora sono tornato dall'OCSE con una diversa domanda:


e questa volta ho ottenuto una risposta:


Ben trentaquattro database, di cui quello interessante ovviamente è questo qui:


da cui ho estratto quello che mi serviva:


cioè gli investimenti "grossi" (come direbbe l'opinion leader), cioè lordi (come dicono le persone normali), e il consumo di capitale fisso: sottraendo il secondo dai primi si ottengono gli investimenti netti.

L'estrazione l'ho fatta per i Paesi del G8, cui noi ancora apparteniamo, e che mi sembra un insieme sufficientemente significativo, perché è costituito da Stati di una certa rilevanza, ma abbastanza disparati sotto il profilo geopolitico. Questo significa che se tutti questi Paesi fanno in un modo, e solo noi in un altro, vuol dire che contromano ci andiamo noi, tanto per capirci.

I dati si presentano così:


e già si capisce come stanno le cose: solo noi europei siamo stati così folli da fare investimenti pubblici negativi. Il grafico consente però di affermare solo questo, cioè se i dati siano positivi o negativi, perché le variabili sono in valuta nazionale, che per i Paesi suicidi è l'euro, ma per i Paesi normali è la propria valuta (quindi il dollaro canadese, il dollaro statunitense, la sterlina britannica e lo yen giapponese), e quindi non sono direttamente confrontabili. Rimediamo a tutto, esprimendoli in percentuale del Pil nazionale (a sua volta misurato in valuta nazionale, che per i Paesi suicidi è l'euro, ma per i Paesi normali è la propria valuta, quindi il dollaro canadese, il dollaro statunitense, la sterlina britannica e lo yen giapponese), ma prima facciamo un confronto al volo fra gli investimenti pubblici netti dei Paesi euro calcolati così e quelli forniti da AMECO, in modo da essere sicuri che stiamo parlando più o meno della stessa cosa.




e direi due cose: la prima, che i dati ricostruiti con le fonti OCSE coincidono con quelli forniti da AMECO, e la seconda che questa coincidenza è assolutamente perfetta nel caso dell'Italia almeno fino al 2019, a indicare che la qualità delle statistiche fornite dall'ISTAT è superiore rispetto a quella delle statistiche fornite dai paraculi di Berlino e dai loro accoliti (ma su questo ci siamo già diffusi in altre sedi).

A questo punto scarichiamo dal WEO i Pil nazionali in valuta nazionale (che per i Paesi suicidi è l'euro, ma per i Paesi normali è la propria valuta, quindi il dollaro canadese, il dollaro statunitense, la sterlina britannica e lo yen giapponese), in modo da avere serie confrontabili anche come ordine di grandezza (non solo come segno), facciamo i rapporti e godiamoci lo spettacolo:


Sintesi: il rapporto fra investimenti pubblici netti e Pil oscilla in una banda fra il +2% e il -1%; nel periodo dal 1995 a oggi (il grafico arriva al 2024) solo l'Italia (e la Russia per un singolo anno) hanno avuto valori negativi di una certa rilevanza (al disotto di -0.5%); l'Italia ha avuto undici anni consecutivi di investimenti pubblici netti negativi (dal 2011 al 2021), mentre l'unico altro Paese con investimenti pubblici negativi è stato la Germania (l'altro Paese a bassa crescita nell'Eurozona), ma il periodo più lungo è stato di quattro anni, dal 2004 al 2007, in corrispondenza delle riforme Hartz del mercato del lavoro che portarono a una diminuzione del 6% dei salari tedeschi. Si conferma così quanto per noi è ovvio:

ovvero che il taglio degli investimenti pubblici è funzionale a creare disoccupazione per forzare una deflazione salariale che renda competitive le esportazioni.

Abbiamo spiegato diffusamente qui perché questa politica ha condotto all'accumulazione di squilibri interni all'Eurozona e alla loro successiva esportazione verso gli Usa (con conseguenti dazi ritorsivi trumpiani), e il video, se interessa, è sempre qui:


Il problema di questa strategia è ormai evidente: il gioco al ribasso determina un contagio. Se un Paese rilevante taglia i salari, poi gli altri devono seguirlo, e quando lo seguono la domanda interna dell'area diminuisce, e il surplus produttivo dell'area si deve scaricare sui Paesi normali, che possono essere più o meno lieti di assorbirlo. Impoverire i lavoratori per arricchire alcuni imprenditori a spese dei lavoratori dei Paesi normali è una strategia che può sembrare normale solo a dei pazzi, o a dei tedeschi. La cultura, l'antropologia, la storia, esistono. Loro sono così, e nessuno potrà cambiarli. Dato che il loro modo di essere li conduce sistematicamente a urtarsi col mondo, è di vitale importanza che fra noi e loro ci siano degli ammortizzatori, e naturalmente l'ammortizzatore più essenziale, se si parla di macroeconomia, è il cambio nominale.

Il suicidio europeo è tutto qui: il passaggio da un sistema in cui in caso di squilibri commerciali si rivalutava la valuta del Paese più forte, quello esportatore, a un sistema in cui nelle stesse circostanze bisogna tagliare i salari nel Paese più debole, quello importatore. Capite bene che soprattutto se gli squilibri si sono prodotti perché il Paese più forte è stato il primo a tagliare i salari (potendoselo permettere, visto che i suoi lavoratori stavano meglio):

il risultato complessivo non può che essere un impoverimento dell'intera area, quello che fa preoccupare Trump:


del fatto che l'Europa si indebolisca a tal punto da non essere più un alleato affidabile (sia per il potenziale rischio politico interno determinato dall'impoverimento della popolazione - il famoso costo politico dell'austerità di cui parlavamo qui, sia per la scarsità di risorse che potrebbe mettere a protezione da eventuali rischi politici esterni, o per riequilibrare la bilancia dei pagamenti cronicamente deficitaria della potenza imperiale - i poveri non sono un allettante mercato di sbocco!).

Che così ci saremmo condannati all'irrilevanza che lo eravamo detti da subito, e questo è il più amaro dei QED.

Comunque: dalle domande intelligenti di chi si accosta per sapere, nasce sempre un approfondimento. Dalle querimonie delle amanti tradite nasce solo uno sbadiglio.

Ora sapete in che condizioni siamo e perché. Possiamo solo sperare in uno shock esterno, ma di questo parliamo con più calma dopo aver ponderato il documento dei nostri alleati (e per nostri, intendo di Goofynomics).

domenica 7 dicembre 2025

Tre discorsi: "Cosa aspettarsi per il 2026?" (discorso numero tre)


Le previsioni sulla crescita nel 2026 sono già state discusse da chi mi ha preceduto: mi limiterò a un breve riassunto, e mi soffermerò poi su tre punti che dopo diciassette anni di stagnazione economica dovremmo ormai poter considerare acquisiti, e sulle cui implicazioni credo sia utile confrontarsi.

Tutte le previsioni emesse dalle principali organizzazioni sovranazionali alla fine del 2025 hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita del nostro Paese per il 2026 emesse nel 2024:

con l'unica eccezione del Fmi, che fra autunno 2024 e autunno 2025 le ha invece riviste al rialzo. La media delle previsioni di crescita per il 2026 era all'1,1% nell'autunno del 2024 ed è scesa a 0,7% in questo autunno, comunque in crescita rispetto al risultato di quest'anno che è atteso attorno allo 0,5%, e resta tale anche dopo la rettifica al ribasso con cui l'OCSE ha allineato le sue previsioni alla crescita "acquisita" calcolata dall'ISTAT:


Siamo (e restiamo) purtroppo ancora sui decimali.

Vorrei partire da una prima riflessione, motivata da un recente comunicato dell'OCSE:


in cui si afferma che nel prossimo anno il nostro Paese farà meno deficit e più debito del previsto. Questa evenienza, qualora si materializzasse, sarebbe perfettamente in linea con quello che oggi sappiamo delle politiche cosiddette di "consolidamento fiscale" (ma visto che qui siamo fra esperti, possiamo risparmiarci gli eufemismi congegnati per impressionare il pubblico generalista, e chiamare queste politiche col loro nome: tagli). Il fatto che i tagli provochino più spesso il dissesto che il risanamento del bilancio pubblico è ormai acquisito: è dall'aprile del 2023 che il Fmi ha pubblicato i risultati di uno studio empirico e teorico che mette questo dato nero su bianco:


Nel grafico di sinistra si vede l'impatto sul debito pubblico di uno "shock da consolidamento", e questo impatto è positivo (le barre sono per lo più sopra lo zero, con l'eccezione di quelle riferite ai Paesi in via di sviluppo nei primi due anni dallo shock). La didascalia lo dice chiaramente: in media, i tagli non fanno diminuire il rapporto debito pubblico/Pil. In effetti, lo fanno aumentare, con un effetto statisticamente significativo al 90% di probabilità dal terzo anno in poi.

Questo risultato non ha nulla di misterioso. La nuvola di formule nel pannello di destra lo spiega chiaramente, e mi sono permesso di evidenziare il punto chiave: se il rapporto debito/Pil è una frazione impropria, come accade sempre più spesso nelle economie avanzate, i tagli hanno effetti perversi sul rapporto debito/Pil, facendolo crescere. Pensate alla frazione 3/2. Se sottraete uno al numeratore e al denominatore ottenete 2/1, che è maggiore di 3/2, nonostante che per ottenerlo abbiate sottratto qualcosa, invece di aggiungerlo! Ovviamente questo esempio presuppone un moltiplicatore fiscale pari esattamente a uno, ma la logica dell'esempio è chiara e non originale. Mi ero permesso, con un divertissement a fini divulgativi, di anticiparla di un po' più di un decennio nel mio blog:


Ora, questo è un punto di grande attualità e di grande polemica nel dibattito attuale, non solo perché le opposizioni, come è naturale che sia, chiedono al Governo di fare di più per la crescita (nonostante che siamo reduci da un decennio e passa di stagnazione in cui la loro performance non è stata stellare...), ma anche perché le stesse organizzazioni sovranazionali che sono consapevoli del fatto che i tagli, compromettendo la crescita, possono portarci al dissesto, ci chiedono però di farli, non consentendoci di venire incontro ai desideri delle opposizioni! Una situazione piuttosto ingarbugliata, nella quale finora il Governo è però riuscito a tenere una rotta compatibile con quanto ci dice la migliore macroeconomia. Lo si vede in questo grafico che confronta due stime della media di deficit e debito sul triennio 2023-2025: quella fatta dal Fmi nell'aprile del 2023 (cioè la prima elaborata dopo l'avvento del Governo Meloni) e l'ultima, quella fatta nell'ottobre 2025:


Nel 2023 il Fmi prevedeva, o prefigurava, per l'Italia un rientro piuttosto rapido dal deficit, che ci avrebbe portato nel triennio a valori attorno al 3%. In realtà nel 2025 constatiamo che il rientro dal deficit è stato più lento, perché il Governo ha opportunamente approfittato della sospensione delle regole di bilancio, disposta fino al 31/12/2023, per spingere il più possibile sulla crescita. Di conseguenza, mentre nel 2023 il Fmi prevedeva un debito che nella media del triennio superava il 139% del Pil, nel 2025 vediamo che il debito si è attestato un po' sotto il 136%. Naturalmente non è un dato rassicurante, ma è un dato che mostra come questo Governo non abbia commesso l'errore del Governo Monti, quello di anticipare oltremisura il rientro verso l'equilibrio di bilancio, come richiesto all'epoca dalla lettera di Draghi-Trichet dell'agosto 2011. I risultati di quella infausta manovra, denominata "Salva Italia", sono retrospettivamente ben visibili:


e credo che possiamo essere tutti grati a questo Governo di aver tratto insegnamenti da questa non distante e non fausta esperienza storica.

Una seconda riflessione riguarda la natura dell'instabilità finanziaria. Sappiamo ormai da dieci anni che la crisi cosiddetta "dei debiti sovrani" in realtà non era una crisi di finanza pubblica, ma di finanza privata, derivante dalle forti esposizioni debitorie degli Stati periferici dell'Unione verso le banche dei Paesi appartenenti al nucleo finanziario dell'Unione (Francia e Germania). Dal 2015 questa è la visione comunemente accettata anche dagli economisti ortodossi:


e il suo supporto era comunque ben visibile nei dati già dal 2011:


quando mi ero permesso di evidenziare nel mio blog un interessante fatto stilizzato: i Paesi che per primi si erano trovati in situazione di sofferenza avevano avuto nel decennio precedente debito pubblico in calo, o non in crescita (come la Grecia), ma tutti (inclusa l'Italia) avevano avuto un incremento sostanziale del debito estero, che, per inciso, non poteva che essere privato (visto che quello pubblico era diminuito). La vera minaccia per la stabilità finanziaria viene quindi dalle esposizioni debitorie private, come del resto appare evidente sulla base di una banale riflessione: negli ultimi vent'anni ha fatto default solo un Governo dell'Eurozona, quello greco, mentre sono fallite, andando incontro a risoluzione o simili procedure, circa una ventina di banche di un certo rilievo, oltre a svariate banche minori (come le quattro cosiddette "popolari" qui in Italia).

Viene allora utile esaminare quale sia la situazione delle esposizioni finanziarie private, almeno a grandi linee, e in questo ci aiuta il rapporto OCSE sul debito globale:


Mettendo insieme gli emittenti pubblici e privati, lo scorso anno sono stati emessi 25 trilioni di dollari di obbligazioni (il triplo che nel 2007), il che ha portato l'ammontare di debito in circolazione a oltre 100 trilioni di dollari (il Pil mondiale, per memoria, sempre nel 2024 era di 111,3 trilioni, quindi lo stock di titoli di debito privati e pubblici a livello globale è pari al 90% del Pil), e infine circa il 40% dei titoli privati e pubblici (quindi 40.000 miliardi di dollari, circa 17 volte il Pil italiano) dovrà essere rimborsato entro il 2027. Una sfida per le finanza pubbliche, ma soprattutto per quelle private, perché:


è sempre l'OCSE a dirci che mentre dopo la crisi del 2008 l'indebitamento privato ha subito una forte espansione, altrettanto non può dirsi degli investimenti produttivi privati, che sono rimasti al disotto del loro trend di sviluppo storico. I debiti sono stati contratti quindi non per "creare" valore, ma per "distribuirlo" agli azionisti, sotto forma di guadagni in conto capitale derivanti da operazioni straordinarie, di acquisto di azioni proprie, ecc. Questo mette in dubbio la capacità del sistema privato nel suo complesso di ripagare i debiti che ha contratto, e ci lascia con le stesse considerazioni che si sarebbero potute fare nel 2010: la vera minaccia alla stabilità finanziaria resta la qualità del debito privato, più che la quantità di quello pubblico.

Concludo su una terza e ultima riflessione. Le politiche di taglio della spesa hanno impattato anche sulla demografia: questo ormai è evidente e contiene una lezione utile su cosa fare per invertire la tendenza:

La crisi demografica ha ormai portato a un'inversione strutturale della piramide, oggetto di studio e di attenzione per molti e in particolare per me nel mio ruolo di Presidente della Commissione di Controllo Enti Gestori. Il problema è tutt'altro che nuovo. Il tasso di fertilità in Italia è stato in caduta libera dal 1966 al 1995, senza che questo destasse una attenzione comparabile a quella che oggi finalmente il fenomeno merita, poi si è lievemente ripreso (lo si vede nel grafico) e ora sta nuovamente precipitando.

Due osservazioni.

La prima è che se dagli anni '90 fino a pochi anni o mesi or sono di demografia si è parlato troppo poco  credo sia anche perché attorno alla riforma Dini del 1995 è stata creata una narrazione volontariamente o involontariamente fuorviante: quella secondo cui col metodo di calcolo contributivo ogni lavoratore si sarebbe finanziato da sé la propria pensione accumulando un tesoretto di contributi versati di cui beneficiare in vecchiaia. Le cose non stanno proprio così, perché un conto è il metodo di calcolo della prestazione, un ben altro conto il sistema di finanziamento della prestazione. Quest'ultimo è e rimane a ripartizione, per tutti gli enti di primo pilastro, il che significa, in buona sostanza, che i contributi di ogni lavoratore vanno a pagare le pensioni dei pensionati attuali, non di quelli futuri (incluso il lavoratore che versa i contributi). Il passaggio al metodo di calcolo contributivo, in altre parole, non ha significato, e non è logicamente connesso in alcun modo, al passaggio a un sistema di finanziamento a capitalizzazione, dove ogni lavoratore ha il proprio "zainetto" o "tesoretto" di contributi investiti da qualche parte, e a fine corsa può decidere se riscuoterli come rendita o come capitale! D'altra parte, lo stesso contributo versato dal lavoratore o va a finanziare, per ripartizione, le pensioni dei pensionati attuali (nel qual caso non può entrare nello "zainetto a capitalizzazione" di chi versa), o viene accumulato nello "zainetto" o "tesoretto" contributivo di chi lo versa, nel qual caso fin dal 1995 i pensionati dell'epoca si sarebbero viste decurtate le pensioni e si sarebbero recati, muniti di forconi, a Palazzo Chigi. Il fatto che questo non sia successo è la migliore dimostrazione del fatto che il sistema è rimasto a ripartizione.

Ne consegue che la demografia continua a essere dannatamente importante anche in un metodo di calcolo integralmente contributivo (e, aggiungo io, lo sarebbe comunque, anche se il sistema di finanziamento fosse a capitalizzazione, perché per ottenere rendimenti sotto forma di interessi e dividendi occorre che qualcuno crei valore, e il valore non può essere né trasferito né creato da lavoratori che non ci sono).

La narrazione del "mi pago la mia pensione coi miei contributi" (affine a "io c'ho il diesel" del noto comico teatino Maccio Capatonda) temo abbia avuto come infausto effetto collaterale quello di distrarci dal fatto che dal 1976 il tasso di fecondità totale (fertility rate) delle donne italiane è sotto il valore di rimpiazzo di 2,1:


Il sistema contributivo, in definitiva, serviva solo ad arginare questa situazione abbassando il tasso di sostituzione, cioè il rapporto fra la prestazione pensionistica e l'ultima retribuzione percepita. Serviva, insomma, a tagliare le pensioni, come si evince del resto dalle preoccupazioni espresse dallo stesso Dini, che nella relazione introduttiva alla sua riforma si premurava di definire come "socialmente irrinunciabile" un tasso di sostituzione del 61,4% (sappiamo che invece in particolare nel primo pilastro privatizzato i tassi di sostituzione sono in alcuni casi inferiori, e da qui deriva il forte impegno a promuovere forme di previdenza complementare).

Tuttavia, e questo è il punto che voglio evidenziare, quando la piramide demografica è completamente rovesciata, la prospettiva di restituire sostenibilità al sistema pensionistico con tagli delle prestazioni potrebbe rilevarsi illusoria, così come quando il rapporto debito/Pil diventa una frazione impropria è illusorio pensare di ridurlo con tagli alla spesa pubblica. Il motivo è molto semplice: quando la piramide demografica si rovescia, per definizione l'incidenza dei redditi dei pensionati sul totale della domanda aggregata aumenta, e quindi un taglio delle pensioni comporta in re ipsa uno shock negativo su quella domanda interna su cui, secondo le più recenti analisi del Presidente Draghi, sarebbe invece opportuno incentrare, alimentandola, un modello di sviluppo equilibrato. Del resto, se le pensioni scendono al di sotto di un livello "socialmente sostenibile", la differenza si scarica comunque sul bilancio pubblico sotto forma di prestazioni assistenziali. Bisogna quindi riflettere serenamente sul fatto che quando una situazione si è spinta troppo oltre, nonostante che da un lato ciò aumenti l'urgenza di porvi mano, dall'altra può darsi che quella che in tempi ordinari sembrerebbe la soluzione più intuitiva (i tagli) si riveli alla prova dei fatti la meno opportuna. Anche in questo occorrerà esercitare la massima prudenza, e il Governo in carica possiamo dire che finora ha dato prova di averne.


(... questo discorso l'ho fatto in due occasioni, qui e qui, di fronte a platee tanto qualificate quanto ortodosse: asset manager di grandi fondi internazionali, presidenti di casse previdenziali e fondi pensione, e così via. Inutile dire che anche solo tre anni fa una slide come quella sui reali effetti del Governo Monti sarebbe stata accolta da un sordo brusio di riprovazione. Mi ha stupito però vederla accolta da un sollevato mormorio di consenso, che poi più di uno mi ha espresso anche di persona. Questo cambiamento nella communis opinio della gente che conta a cosa è dovuto? A due cose che in linea di principio non vi piacciono - almeno, questo traspare dalla cloaca social: alla nostra persistenza al potere, e al posizionamento del Governo. Non credo dipenda invece dal fatto che finalmente viene ora compreso quello che era tanto semplice, e sarebbe stato tanto opportuno, comprendere ex ante! Su questo, illusioni non me ne faccio: del resto, le stesse organizzazioni sovranazionali che esortano il Governo a fare di più per la crescita poi gli chiedono tagli, e in questa schizofrenia muoversi con accortezza diventa veramente complesso. Registro però il fatto che si comincia a poter dire la verità, anche appoggiandosi ai lavori di chi di questa verità è stato nemico: il Fmi, Uva, ecc. Quello che vi ho sempre detto: sfruttare la forza dell'avversario! Ora bisogna insistere, bisogna che il senso comune diventi quello espresso dalla genuina teoria macroeconomica, anziché dalle squinternate teorie degli sciamani che finora hanno avuto tirannico ed esclusivo diritto di tribuna. Per questo, come vedete, continuo ad accettare inviti in giro per il Paese. Ora è il momento di far riflettere sulle nostre ragioni, visto che per imporle possiamo contare non solo sulla nostra forza, ma, appunto, anche su quella dell'avversario. Questo, e un Signor Presidente della Repubblica non organico al PD, potranno fare molto quando il progetto andrà in decomposizione, come mi pare stia già largamente andando, ed esattamente per i motivi che avevamo prefigurato. Ma di questo parleremo in un altro post...)

(...vabbè, io vado a cucinare: per uno strano allineamento degli astri, più difficile da ottenere dell'avere i partiti euroscettici al 30% nei principali Paesi dell'UE, questa sera siamo tutti a casa...)