domenica 9 luglio 2023

QED 103: la pioggia di miliardi non è gratis!

Lo avevamo detto qui, ricordato qui, preannunciato qui, ed eccolo qui:


Mentre i coglioni commentatori superficiali continuano a parlare di #ingentirisorsedelPNRR gratuite (anzi: graduide, come capita di sentire), i fatti dimostrano che avevamo ragione noi. Se debito doveva essere, come ora quasi tutti capiscono:


lo si sarebbe dovuto fare quando costava zero, cioè subito, cioè nel 2020, cioè senza aspettare che l’elefantiaca burocrazia europea partorisse il PNRR (o meglio, che camuffasse da PNRR il vetusto e sgradito BICC). Non è stato necessario che, come temevo, scoppiasse una crisi finanziaria per mettere in difficoltà la raccolta di risorse sul mercato da parte della Commissione; è stato sufficiente che, come prevedevo, arrivasse un “Volcker moment” (impennata dei tassi per contrastare l’inflazione).

E quindi ora siamo al bivio, anzi: al trivio. Per pagare gli interessi sui suoi debiti (quelli che trasforma in nostri debiti trasferendoceli come PNRR) ora la Commissione potrebbe indebitarsi, o utilizzare risorse destinate ad altro (cioè tagliare altre spese), o mettere nuove tasse europee sui cittadini degli Stati membri. E siccome le prime due cose non si possono fare, la soluzione del trivio è trivial, cioè banale (non triviale, come traducono gli ignoranti economisti): tasse. Chi parla dei vantaggi finanziari del PNRR d’ora in avanti dovrebbe tenere conto di questo svantaggio, ma ovviamente non lo farà.

Solo per ricordare che la Veritah e la sua cugginetta (sic), la Raggioneh, non servono a nulla se non sono assistite dalla forza, e quella dovreste darcela voi, se non fosse che siete troppo furbi per fidarvi di uno che vi dice sempre prima quello che succederà dopo e che vi ha spiegato che cosa vuole fare e perché vuole farlo.

Ci deve essere un gran gusto nell’affidarsi a chi sai che vuole fotterti, o comunque a chi sai che non può impedirglielo, perché si è troppo furbi per rafforzare la squadra di chi ti spiega da dodici anni come ti stanno fottendo! Io non riuscirò mai a capirlo, ma è ovvio che quello limitato sono, appunto, io.

giovedì 6 luglio 2023

La scioccante storia dell'inflazione

Questa sera ero a cena con un funzionario importante. Si parlava del più e del meno, della cronaca e della storia, della tattica e della strategia. L'intonazione generale era: "dobbiamo mitigare i danni, perché tanto da questa storia non ne verremo fuori". Io annuivo compunto: "certo, è così". E intanto pensavo che, tornato a casa, vi avrei fatto vedere due o tre grafici che avevo disegnato per me, questa mattina, mentre mi annoiavo ad ascoltare le tonitruanti concioni dei nostri fieri oppositori.

La premessa di questi grafici è che, come credo sappiate, e come qualsiasi economista vi dirà, la tenuta di un'unione monetaria è direttamente connessa alla sua capacità di armonizzare i comportamenti degli Stati membri (la cosiddetta teoria  dell'OCA endogena con cui vi intrattenni fin dall'inizio). Il motivo è semplice: solo se tutti gli Stati membri sono simultaneamente in recessione, o simultaneamente in espansione, e hanno tassi di inflazione perfettamente allineati e convergenti, allora un'unica politica monetaria sarà efficace e non danneggerà almeno alcuni fra gli Stati membri. Altrimenti possono sorgere problemi: la politica monetaria rischierà di essere prociclica in alcuni Paesi, assecondandone magari le tendenze inflazionistiche, o di essere anticiclica al momento sbagliato, interrompendo una ripresa economica (che è quello che sta succedendo adesso).

Lo si può dire anche in negativo: il male che ci si autoinfligge nel tener su un'unione monetaria fra Paesi diversi è direttamente proporzionale al grado di divergenza fra questi Paesi. Non è politica, è economia, non è un'opinione, è un fatto, non è fantasia, è realtà: negare questa realtà significa fatalmente non essere all'altezza delle sfide che necessariamente un progetto così ambizioso porta con sé.

Non è un caso quindi che la letteratura scientifica sulle aree monetarie si sia esercitata principalmente sul tema della convergenza, variamente intesa:

  1. convergenza del ciclo economico, ovvero: esiste una tendenza spontanea dei Paesi membri a sincronizzare il proprio ciclo in modo da trovarsi tutti nella stessa fase espansiva o recessiva? Su questo tema si è esercitata anche la nostra amica Brigitte, in un articolo dal titolo Eurozone cycles: An analysis of phase synchronization e la sua risposta è: no, anzi l'unione monetaria amplifica lo sfalsamento fra i cicli nazionali. Naturalmente questa è solo una delle possibili risposte, e ce ne sono anche di più ottimistiche.
  2. convergenza dei prezzi, intesa come convergenza dei livelli dei prezzi o convergenza dei tassi di inflazione. Un tema affrontato da Busetti, Fabiani e Harvey, la cui opera sulle provincie italiane vi segnalai fin dall'inizio, e che giungono nel caso dell'Eurozona a una risposta sostanzialmente negativa: non si percepisce una tendenza delle inflazioni nazionali a convergere verso un unico tasso, ma emergono tre distinti "club". Anche questa è solo una delle possibili risposte, e ce ne sono di meno pessimistiche.
  3. convergenza dei livelli di reddito, altro tema di cui ci siamo lungamente occupati.

I nostri articoli sul tema della convergenza sono qui, e oggi voglio parlarvi della convergenza dei prezzi, con qualche statistica descrittiva, cercando di spiegarvi bene che cosa queste statistiche ci dicano e che cosa non possono dirci.

Gli indici dei prezzi al consumo dell'Eurozona dal 1996 a oggi li vedete qui:


Precisazione: la base di un numero indice è arbitraria. In altre parole, il fatto che nel 1996 questi indici siano tutti uguali a 100 non significa che in quell'anno ogni singolo bene avesse lo stesso prezzo in euro nei diversi Paesi considerati. Gli indici ci informano sulla dinamica di un fenomeno. Ad esempio, in questo grafico si vede bene che i prezzi sono cresciuti in Grecia (verde) molto più che in Germania (giallo). Si vede anche quando per la Grecia è arrivato il momento della correzione. Questo, di per sé, non ci informa su una ipotetica "convergenza", nel senso che se, per ipotesi, i prezzi greci fossero stati sotto e quelli tedeschi sopra l'equilibrio, la crescita più rapida dei primi e più lenta dei secondi li avrebbe portati entrambi a "convergere" verso questo ipotetico equilibrio. Per quanto questo ventaglio che si ampia col passare del tempo sia suggestivo, il suo valore informativo non è altissimo, e lo stesso vale anche se zoomiamo sull'ultimo periodo:


La cosa cambia se invece dei livelli (arbitrari) dei prezzi rappresentiamo i tassi di inflazione:


Qui il problema dell'arbitrarietà della base non ce l'abbiamo, e possiamo ragionare su quanto i singoli tassi manifestino una tendenza ad avvicinarsi o discostarsi gli uni dagli altri. Il grafico è un po' confuso: per sintetizzarne le informazioni possono essere utili delle misure di "dispersione" statistica, cioè degli indici che ci dicono quanto le osservazioni di un fenomeno tendano a raggrupparsi o disperdersi.


Qui ne vedete due: il range, cioè la differenza fra il valore più grande e il più piccolo in ogni singolo anno (scala di destra), e lo scarto quadratico medio, una cosa un po' più complicata, spiegata qui (scala di sinistra).

Le storie che raccontano, però, sono identiche: si vede in modo abbastanza netto che quando le economie dei Paesi membri vengono colpite da uno shock (alla fine del 2008 e all'inizio del 2020) la dispersione dei loro tassi di inflazione aumenta, cioè i prezzi divergono, anziché convergere, il che rende particolarmente complesso, come lo è in questo momento, scegliere quale politica monetaria unica adottare per gestire tante inflazioni che se ne vanno beatamente per i fatti loro.

Anche misure di questo tipo vanno valutate con cautela, perché non sono adimensionali. In effetti, esse risentono della dimensione media del fenomeno:


Tendenzialmente, lo s.q.m. sarà superiore quando la media del fenomeno cresce. Questo non è sempre vero: ad esempio, all'inizio del 2009 l'inflazione media scende, ma la sua dispersione aumenta. Alla fine del grafico però, cioè ai nostri giorni, sembrerebbe che le cose vadano così. Un modo per eliminare questo effetto sarebbe dividere lo scarto quadratico medio per la media, ottenendo il coefficiente di variazione, ma in questo caso non possiamo farlo perché l'inflazione storicamente è spesso stata vicino a zero o negativa, portando così il coefficiente di variazione a esplodere:


e con un grafico simile ovviamente si fa poco (la stessa cosa vale per misure più robuste come la differenza interquartile).

Tuttavia, se queste statistiche descrittive di dispersione non ci consentono di formulare un giudizio definitivo su una nozione astratta di convergenza (i metodi usati in letteratura sono più raffinati), ci mettono però di fronte a una regolarità  concreta difficilmente eludibile: in presenza di uno shock, le inflazioni dei singoli Stati membri si differenziano sensibilmente, e questa crescita dei prezzi a velocità divergenti altera il rapporto fra i prezzi nei diversi Paesi. Si apre quindi la questione di quanto queste diverse velocità si incorporino in modo persistente nei livelli dei prezzi, alterando a lungo la competitività dei Paesi coinvolti, e di quanto una singola politica monetaria sia in grado di realizzare una reductio ad unum, o non rischi viceversa di mandare il sistema in risonanza, amplificando ulteriormente le conseguenze degli shock.

Tutte domande che sarebbero astrattamente affascinanti, se non fosse che a questi affascinanti fenomeni ci troviamo concretamente dentro, e che a queste domande che anni addietro erano astratte, e ora sono concrete, pare che nessuno sappia trovare una risposta: può funzionare la stessa politica in un Paese che come la Spagna ha l'inflazione all'1,6% e in uno che come l'Austria ce l'ha al 7,8%? Non si rischia di far portare al giusto la croce del peccatore, mandandolo in recessione?

Oddio, la risposta non mi sembra difficile da dare.

Ma intanto, nel dubbio, "mitighiamo", e dormiamoci sopra. La risposta giusta la sapremo, naturalmente, da quelli bravi...

(...sto aggiornando la mia licenza di EViews, così magari facciamo un ragionamento un po' più tecnico su queste domande aride e oziose...)

Si stava meglio quando si stava meglio

(...qualche giorno fa, affacciandomi all'orlo del cesso azzurro, ho visto qualcuno, non so dirvi se il pubblicista Cadonetti, il giurista Maltagliati, o l'economista Mascone, affermare che stava emergendo una compressione delle libertà di espressione del pensiero legata alla gestione della pandemia. Mi è venuto un po' da ridere. L'annaspare di cotanti epigoni ha un che di comico, in effetti. Ora però vorrei fare con voi una riflessione seria...)

Il presupposto di una serie di attentati alla nostra libertà di espressione, esemplificati dal lavoro della Commissione amore su cui qui ci siamo ampiamente diffusi, è l'idea affermata in modo apodittico che rispetto ad alcuni decenni fa oggi si viva in una società più violenta ma (o meglio: anche perché) più libera rispetto a quella degli anni di piombo, dove ci sarebbe stata meno violenza e meno libertà.

Da questa diagnosi consegue naturaliter una terapia, quella consegnata, con alate e allusive parole, anche al rapporto finale del succitato pregiato organo parlamentare: ridurre oggi la libertà, per ridurre oggi la violenza.

A me sembra, invece, che negli anni '70 ci fosse indubbiamente più violenza (un esempio ex multis che mi colpì, che ci colpì tutti), ma anche tanta più libertà, non fosse altro perché eravamo svincolati da quelle piattaforme che ci sono state vendute come strumento di espressione e diffusione del pensiero, ma ogni giorno di più si qualificano anche come strumenti di controllo e repressione del dissenso.

Forse potrebbe essere utile conferire a queste mie, e forse anche vostre, impressioni una qualche oggettività. Magari la mia è semplicemente nostalgia di un periodo in cui ero più magro, avevo più capelli, e non capivo un cazzo, come mi facevano affettuosamente notare i vecchietti del Dopolavoro Ferroviario. Oppure, chissà, qualche elemento misurabile esiste, e magari qualcuno se ne è occupato: non solo la corte dei miracoli woke che sfilò in Senato nella scorsa legislatura.

Ma farsi illusioni è ridicolo, non è all'altezza delle nostre riflessioni: la Storia la scrivono i vincitori, quindi, più che impegnarci a studiare, e accumulare evidenze che gli operatori informativi coprirebbero di una cappa plumbea di indifferenza o liquiderebbero con un sorrisetto sprezzante, converrà impegnarci a vincere. Non che le due cose si escludano a vicenda: ma la prima non è una condizione sufficiente per la seconda. Potrebbe comunque essere un tema per il #goofy12...

(...basterebbe ascoltare l'indegna gazzarra che l'opposizione sta facendo sulla Commissione d'inchiesta COVID per avere un esempio di cosa intendo...)

mercoledì 5 luglio 2023

#goofy12: la consultazione pubblica

La genesi del prossimo convegno annuale è giunta alle concitate battute conclusive, seguendo il processo di organizzazione aziendale così incisivamente rappresentato dal nostro nuovo guru. Districandosi fra i "momenti Montale" di svariati interlocutori ("codesto solo oggi possiamo dirti,  ciò che non siamo, ciò che non vogliamo"), il Padre Fondatore un'idea su come confondere i popoli se l'è fatta, e lo sciacquino che deve scrivere ha scritto. Tuttavia, siccome siamo in Europa, dobbiamo far finta di essere in democrazia, e quindi, ispirandomi alle "buone pratiche" del governo imperiale, che trovate squadernate in questa pagina, dato che in fondo è il vostro convegno, vi esorterei a dire la vostra nei commenti.

Chi vorreste vedere al nostro convegno? Quali temi vorreste affrontare? Quali protagonisti o antagonisti del dibattito stuzzicano la vostra curiosità?

Voi ditemelo nei commenti.

Poi io per una volta dimenticherò di essere europeo, e mi comporterò da perfetto europeista...


(...intanto però una cosa ve la dico: sarà il quarto fine settimana di novembre. E ora, se non sapete contare fino a quattro, non venite qui a dircelo!...)

martedì 4 luglio 2023

La bilancia dei pagamenti italiana: un approfondimento

Rifaccio rapidamente qui per l'Italia le analisi fatte qui per la Germania.

Questo è il saldo delle partite correnti (milioni di euro a prezzi correnti):


e, attenzione: da questi dati emergerebbe che non siamo più in una posizione di surplus strutturale (ma ci sta, perché crescita del reddito implica crescita delle importazioni).


In effetti le esportazioni risultano decisamente al disopra della loro tendenza storica, e così anche le importazioni, ma questo potrebbe dipendere dall'evoluzione dei prezzi: l'inflazione ha gonfiato tutti i valori. Per evitare questa illusione ottica (in realtà, illusione monetaria) prendiamo esportazioni e importazioni di merci e servizi della contabilità nazionale, perché sono disponibili in termini reali (cioè depurati dall'effetto dell'inflazione). I dati trimestrali (quelli alla massima frequenza disponibile) ci danno questo quadro:


e da questo si vede che le nostre esportazioni di merci e servizi in termini reali sono tornate sul loro trend storico, a differenza di quelle tedesche, il cui andamento, come ricorderete, era questo:


Naturalmente questa analisi ha un mero valore descrittivo, e non va dimenticato che i dati di contabilità nazionale, per costruzione, considerano solo i flussi di merci e servizi (che comunque ci informano sullo stato dell'industria), mentre trascurano i flussi di redditi (ad esempio, la remunerazione di capitali o lavoro estero). Diciamo però che una volta depurati i dati dagli effetti dell'inflazione, che come ricordato li gonfiano un po' ovunque, in Germania si vede qualcosa di simile a un break strutturale, mentre in Italia si vede qualcosa di simile al riassorbimento di uno shock transitorio.

Aspetto vostre considerazioni: astenersi tifosi da stadio, feccia razzista, micugginisti, e tutta la corte dei miracoli che "entrando" in politica abbiamo ahinoi attirato in questa oasi di pace...

lunedì 3 luglio 2023

Facciamocome: la Germania e le auto elettriche

Vorrei illudermi del fatto che qui si sappia qual è il problema della Germania: un gigantesco problema di domanda. Sono qui per illustrarvi uno dei modi in cui lo sta risolvendo: usando in mancette i soldi del PNRR.

Sì, mentre a noi qui operatori informativi e espertologi di ogni risma ce le gonfiano con la storia che le ingentirisorsedelpiennerererere devono servire a aumentare la produttività, che nella testa degli espertologi è un fenomeno di offerta, cioè di capacità produttiva, motivo per cui le ingentirisorsedelpereperepere devono essere spese in investimenti, certo non in consumi o altra spesa corrente, in Germania con le ingentirisorsedelparappappero che ci fanno?

Questo.

Sì, avete letto bene: 3.125 euri (perché tocca dirlo così) di sussidio/mancetta a chi acquista un'auto elettrica: moltiplicati per 800.000 auto sono due mijardi e mezzo di spesa corrente destinata ai ricavi (e quindi ai profitti) dell'industria nazionale.

Ma non è un aiuto di Stato, no: è la decarbonizzazione, bellezza!

Non ci credete? Fate male: è anche nel factsheet:


che in questo caso è decisamente un fact shit.

Si pronuncia in modo diverso, come credo sappiate: le parole sono importanti, e vanno scelte con cura, soprattutto quando c'è da definire l'UE.

Lascio a voi le considerazioni del caso, io devo essere continente e contegnoso.

Buon proseguimento.

(...p.s.: ovviamente questa è una delle tante dimostrazioni della differenza fra europei - noi - e europeisti - i piddini! Ma secondo voi c'è uno di quei tanti pedissequi che in aula ci ammorbano con le ingenti risorse ecc. e con la produttività che si sia dato la pena di leggerlo il piennererererere dei tedeschi? Ma figurati! Tutto quello che a loro interessava era che il PNRR italiano, fatto da loro, mettesse nei guai noi, e schiumano perché non ci sta riuscendo. Ma che il nostro Paese ambisca ad avere pari dignità e parità di trattamento con gli altri, questo, a loro, dà solo fastidio, non possono tollerarlo, e conseguentemente non sono interessati ad avere di quello che fanno gli altri una visione che non sia quella mitologica della supremazia del Nord sui cialtroni del Sud. Le carte raccontano una storia un po' diversa, ma per quelle, loro, non hanno tempo...)

(...Elonio ci sta silenziando in tutti i modi: se quello che viene detto qui vi interessa, seguitemi su Telegram o iscrivetevi al blog, anche se mi dicono che pure blogspot ci mette del suo per non inviare notifiche. Vabbè, che la strada fosse in salita lo sapevamo, e che amici così in alto non possiamo averne pure...)

"E l'America?" Ancora sull'irresponsabilità della Banca centrale.

Il post sull'irresponsabilità della Banca centrale ha suscitato nei social reazioni riconducibili a due categorie.

La più diffusa, ma meno interessante, è di tipo decerebrato analfabeta funzionale grillino, tipizzata dal raglio inquisitorio: "Ma voi siete al governoooh, che cosa state facendoooh!". Qui, dove non c'è il dolo, c'è una povertà culturale che farebbe quasi tenerezza, se non facesse rabbia. Manca, ad esempio, la nozione che la Banca centrale è indipendente dal Governo, e che quindi chi è al Governo (che poi sarebbe una cosa diversa dal Parlamento, ma per capire questo ci vogliono tre neuroni e quindi mi fermo) non può fare nulla se considera sbagliata una politica monetaria, tranne criticarla. Oddio, a dire il vero non è così, è peggio di così: perché una cosa la si potrebbe fare, la potrebbe fare anche il Parlamento, e se la sapete è grazie a me: lasciarsi dietro le spalle il feticcio dell'indipendenza della banca centrale (che poi è connesso a quello dell'esogenità della moneta merce) e tornare a un diverso rapporto fra politica monetaria e politica fiscale. Questo, la prima volta che siamo stati al Governo, abbiamo provato a farlo con gesti concreti. Un pezzo del non esserci riusciti sono i nove voti DECISIVI dei grillini, per cui, sinceramente, che ora dei relitti ortotteri vengano a chiedere a me "che cosa sto facendoooh!" me li fa anche un pochino girare, credo lecitamente (ma si possono avere altre opinioni, e le si possono anche esprimere da un'altra parte), visto che se non riesco a fare tutto quello che vorrei è sostanzialmente per colpa di rimbambiti come loro.

Poi c'è stato un altro tipo di reazioni, più erudite, riconducibili a: "E l'America?".

Beh, parliamone!


(i dati sull'inflazione vengono da qui e quelli sul tasso di interesse da qui).

Qui abbiamo l'andamento di tasso di inflazione e tasso di interesse di policy (il federal funds rate) negli Stati Uniti. A colpo d'occhio è molto simile a quello dell'Eurozona, ma qualche differenza c'è e possiamo provare a intuirla da questo grafico, dove l'Eurozona è "puntinata":


o anche, per una diversa e forse migliore leggibilità, "spacchettando" le due inflazioni:

e i due tassi di interesse:


Partendo dall'inflazione, se osservate il grafico noterete che l'inflazione Usa e quella dell'Eurozona si muovono in modo molto simile, ma la prima sembra anticipare un po' la seconda. In altre parole, l'inflazione dell'Eurozona sembra più correlata con l'inflazione Usa di qualche mese precedente, che con quella contemporanea. In effetti, una rapida verifica dimostra che in media è così:

La correlazione più forte è fra l'inflazione europea corrente e quella Usa di quattro mesi prima (al ritardo -4). Quindi sapere che cosa succede di là ai prezzi mediamente ci informa su che cosa succederà di qua fra pochi mesi. Ovviamente, è una relazione statistica: nulla di scolpito nella pietra (ma qualcosa di abbastanza evidente nel pattern dei dati).

Per quel che riguarda i tassi di interesse, invece, negli anni della prima crisi globale (sostanzialmente dall'inizio del grafico al 2013) notiamo un atteggiamento di politica monetaria più aggressivo (un tasso di interesse più alto) nell'Eurozona rispetto agli Usa, che sono arrivati prima ai tassi zero. Il contrario succede dal 2016 al 2020: gli Usa tirano su i tassi, fino al 2,5%, mentre l'Eurozona li tiene a zero (nonostante un'inflazione prossima al 2%). Ovviamente questo è il periodo della svalutazione competitiva dell'euro, guidata dalla manovra dei tassi. Per capire bene questo punto, ricordiamo che:

  1. il tasso di cambio è il prezzo di una moneta in termini di un'altra (ad esempio, il prezzo dell'euro in dollari) e soggiace come tutti i prezzi alla legge della domanda e dell'offerta, per cui sale se c'è domanda di euro, e scende se la domanda non c'è;
  2. una valuta viene domandata o per comprare beni i cui prezzi sono definiti in quella valuta, o per comprare prodotti finanziari emessi in quella valuta;
  3. i capitali cercano a parità di rischio la remunerazione migliore, per cui si spostano dall'Eurozona verso gli Usa quando il tasso di interesse statunitense è più alto di quello europeo, andando in cerca di titoli statunitensi definiti in dollari, e viceversa quando i tassi sono più alti nell'Eurozona;
  4. di conseguenza, se il tasso di interesse Usa sale rispetto a quello dell'Eurozona, il prezzo dell'euro in dollari scende, e viceversa se il tasso di interesse dell'Eurozona sale rispetto a quello Usa.

Questo fenomeno si vede abbastanza bene se rappresentiamo nello stesso grafico lo scarto fra tasso Usa e tasso dell'eurozona (spezzata arancione) e il tasso di cambio EURUSD (spezzata verde):


Si vede bene che la correlazione è inversa (se sale uno, scende l'altro) ed è abbastanza forte (per i tecnici: -0,72). Dal gennaio 2009 al luglio 2019 il differenziale fra tasso Usa e EZ è andato crescendo di oltre quattro punti, da -2 a +2, prima per la discesa dei tassi europei da circa 2 a zero, e poi per la crescita dei tassi statunitensi da zero a oltre 2. In tutto questo periodo il dollaro si è rafforzato rispetto all'euro, e quindi l'euro ha progressivamente perso terreno rispetto al dollaro, il che, come abbiamo detto tante volte, ha reso i beni tedeschi eccessivamente a buon mercato per gli acquirenti statunitensi, con le note conseguenze (l'accusa di svalutazione competitiva da parte degli Stati Uniti verso l'Eurozona). 

Col Covid ci siamo trovati in sincrono sul tasso zero, fino all'ultima impennata, che converrà zoomare:


Negli Usa l'inflazione è partita prima e ha raggiunto il picco prima. Nell'Eurozona questa storia è sfalsata di quattro-cinque mesi. Quando a giugno 2022 l'inflazione era al 9% in entrambi i Paesi, negli Usa il tasso di interesse era a 1,68%, e da noi ancora a zero. Diciamo che probabilmente la Bce aveva un'idea un po' "rampiniana" dell'inflazione (pensava che sarebbe stata poco persistente).

Ve la metto in un altro modo. Vi ricordate di quando vi dicevo che mi preoccupava il livello particolarmente basso che i tassi di interesse reali avevano raggiunto? Con i dati fino a metà 2022 si vedeva questo:


(sono tassi diversi, ma il succo della questione è il medesimo) e la mia preoccupazione espressa all'epoca (novembre 2022) era che storicamente una situazione di questo tipo comporta una brusca correzione, un "Volcker moment". Ora la brusca correzione c'è stata, si vede, ed è di un ordine di grandezza che in effetti ci riporta all'inizio degli anni '80:


Negli Usa è stata più tempestiva e più incisiva (i tassi di interesse reale sono tornati in territorio positivo). Nell'Eurozona meno tempestiva e tutto sommato, per ora, relativamente meno violenta. Il punto però è che il tessuto produttivo dell'Eurozona è sfibrato da tutto quanto ormai sapete bene. Un "Volcker moment", noi, non possiamo permettercelo, ma anche gli altri non più di tanto: il debito non è solo pubblico e non è solo italiano.

Ma c'è di più.

L'analisi che abbiamo fatto sopra della relazione fra tasso di interesse e tasso di cambio ci fa riflettere sul fatto che per la Bce non seguire la Fed sulla strada dei rialzi significa lasciar scivolare il cambio verso il basso, alimentando ulteriori squilibri globali, e provocando ulteriori ritorsioni da parte degli Stati Uniti. Anche perché, passata la sberla derivante dai costi del gas, l'Eurozona è tornata a dare il suo significativo contributo a questi squilibri, ritornando sulle posizioni di surplus strutturale quo ante:


Detto in un altro modo: siamo di fronte a un ulteriore fallimento dell'assetto one-size-fits-all delle nostre istituzioni monetarie (cioè, per dirla in breve: della moneta unica). Si è molto riflettuto, per lunghi decenni, sul fatto che un tasso di interesse unico (al netto degli spread) avrebbe determinato inefficienze in presenza di quelli che gli economisti chiamano shock asimmetrici (e i normodotati shock simmetrici, come ho spiegato qui), cioè nelle non infrequenti situazioni in cui (come ora) alcuni Paesi (noi) sono in espansione e altri (la Germania) in recessione. La questione veniva messa così: se un Paese cresce e l'altro cala, la Bce che cosa deve fare? Frenare il Paese che cresce tirando su il tasso, o aiutare quello che cala, tirandolo giù? Ma nessuno o quasi, che io sappia, ha insistito sul risvolto internazionale della questione, che poi sarebbe stato quello determinante, dato che, come altri fatti di cronaca dimostrano, nel contesto occidentale l'UE è satellite della potenza imperiale Usa (lo considero un fatto e non mi interessa giudicarlo): se c'è un Paese in surplus di bilancia dei pagamenti, e uno in deficit, la Bce che cosa deve fare? Tirare su il tasso di interesse per far crescere il cambio e attenuare il surplus del primo, o tirare giù il tasso di interesse per far cedere il cambio e attenuare il deficit del secondo? Il problema è che tirare giù (o non tirare su) il tasso di interesse significa mettere un dito in un occhio agli Stati Uniti, per i motivi che vi ho spiegato (il cambio cede, il surplus europeo "schizza", gli Stati Uniti si irritano).

Ancor meno si è riflettuto (da parte degli economisti "bravi", quelli della tabaccaia scalabile, per intenderci) sulle interazioni fra queste due dimensioni (quella interna e quella internazionale) della politica monetaria. Ancora una volta ci aiuta l'attualità, che presenta una situazione piuttosto intricata, perché il Paese più Paese degli altri, nella Fattoria degli animali europea, cioè la Germania, è in recessione, e quindi avrebbe bisogno di tassi di interesse bassi (per favorire l'erogazione di credito interno), ma è anche tornata sul suo surplus siderale:


e quindi, laddove intendesse tornare verso una posizione più equilibrata nei confronti dell'estero, avrebbe bisogno di tassi di interesse alti (per innalzare il livello del tasso di cambio e conseguentemente frenare le esportazioni - anche se il post precedente ci ha mostrato una situazione più articolata). Ma naturalmente un Paese abituato a campare coi soldi degli altri (le esportazioni di un Paese sono spesa - soldi - di altri Paesi) ha difficoltà oggettive nel cambiare traiettoria, nonostante gli appelli dei banchieri centrali a favore di una crescita più wage-led. Se a questo aggiungiamo le considerazioni sui rapporti di forza fra l'efficiente potenza federale Usa e l'inefficiente "potenza" unionale, fiaccata da una somma di divergenze e tensioni interne, prima fra tutte quella fra l’orientamento politico sovranazionale e i processi democratici nazionali, capite bene che invertire la rotta degli aumenti dei tassi non sarà semplicissimo, e che, alla fine, la lotta all'inflazione c'entra il giusto. Più che a quella, bisognerebbe forse guardare al tasso di cambio, e alla situazione debitoria dei diversi Paesi. Perché alla fine la chiave di lettura della situazione in cui ci troviamo va cercata nel trilemma di Reinhart e Sbrancia qui più volte esposto: default, iperinflazione, o crescita?

Ovviamente scegliere non tocca a noi: avremo però modo di tornare sull'argomento, e in questo senso qualche barlume di speranza ci viene dal Fmi. Ne parliamo presto.

domenica 2 luglio 2023

La bilancia dei pagamenti tedesca: un approfondimento

 (...il cap sui tweet messo da Elonio Muschio ha ammazzato le visualizzazioni del blog, che da un giorno all'altro sono scese di una roba fra il 40% e il 50%, nonostante che il post precedente abbia attirato molto dibattito - del che vi ringrazio: mi è servito a capire molte cose. Questo lo segnalo a beneficio di quelli che si appassionano per le battaglie e soprattutto per le "vittorie" simboliche. Muschio è vivo ma, anche se non è tossico come il Barbetta, non lotta insieme, ma contro di noi, decisamente non è un pezzo della soluzione, ma del problema: meglio che ce ne ricordiamo! Troveremo altri modi di diffondere il nostro messaggio e intanto vi ricordo che esiste un canale Telegram, al quale, se volete restare aggiornati su quanto esce qui, vi consiglio di iscrivervi. Riprendo in dettaglio un tema emerso in un post precedente: perché è nuovamente esploso il surplus tedesco? Il tema è importante perché il surplus tedesco, come sappiamo, è in questa fase storica il motore degli squilibri macroeconomici globali, e quindi della reazione ad essi...)

Molto rapidamente: questo è il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti tedesca:


(dati mensili, milioni di euro a prezzi correnti) dove si nota moto bene il tuffo del maggio 2020, e poi quello ancora peggiore dell'agosto 2022. Il saldo è la differenza fra esportazioni (soldi che entrano per merci che escono) e importazioni (soldi che escono per merci che entrano), quindi può essere utile combinare questo grafico con quello delle sue due componenti:


da cui desumiamo che il tuffo di maggio 2020 fu dovuto al collasso del commercio mondiale causa lockdown, e che quello di agosto 2022 fu dovuto a un'esplosione delle importazioni causa aumento dei prezzi dei combustibili. Resta da capire come sono stati riguadagnati i livelli di surplus quo ante. La parte terminale del grafico sembra indicare una relativa stagnazione delle esportazioni, unita a un crollo delle importazioni (determinato dal rientro dei prezzi delle materie prime e fonti di energia, e forse anche dalla recessione).

Se facciamo uno zoom sugli ultimi mesi in effetti vediamo questo:


Se però analizziamo la tendenza delle esportazioni nel lungo periodo, estrapolando fino a oggi la tendenza storica dal gennaio 2012 al dicembre 2019, vediamo questo:


Quindi sì, il surplus ultimamente è esploso (o meglio, prima era imploso) perché il costo delle importazioni era aumentato vertiginosamente, ma anche le esportazioni hanno contribuito con una crescita più veloce di quella del loro trend storico. Va però ricordato che i dati di bilancia dei pagamenti sono in valore, e quindi anche lo scostamento delle esportazioni verso l'altro potrebbe essere dovuto a un aumento dei prezzi dei beni esportati.

Come controprova, possiamo utilizzare le statistiche di contabilità nazionale, che ci forniscono le esportazioni e importazioni di beni e servizi (una componente importante del saldo delle partite correnti) in termini reali (in questo caso, dati trimestrali a prezzi 2010):


Messo così (i dati sono trimestrali, non esiste una contabilità nazionale mensile) il fenomeno prende un'altra dimensione. In termini reali, cioè in termini di volumi, di pezzi effettivamente prodotti, dopo il tuffo del 2020 le esportazioni tedesche hanno scalato un paio di marce, e il recupero del saldo negli ultimi due o tre trimestri non sembra dovuto a una dinamica particolarmente vivace delle esportazioni (che quindi nel grafico precedente possiamo supporre dipendesse dall'inflazione) quanto dal calo delle importazioni. Nota bene: se esaminato a prezzi correnti il tuffo del 2020 appare superiore a quello del 2022, e ci sta: nel 2020 si erano bloccate le catene di produzione mondiale, quindi si erano ridotti i volumi di esportazioni e importazioni (le prime più delle seconde), mentre nel 2022 erano semplicemente aumentati i prezzi delle importazioni. In termini reali il lockdown ha avuto riflesso più evidenti e pesanti sul commercio tedesco (e di tanti altri paesi) della crisi energetica.

Questo spiega perché i miei amici di Bruxelles mi raccontano che i loro colleghi tedeschi sono piuttosto preoccupati (eufemismo) dall'incipiente deindustrializzazione del loro Paese. Magari esagerano (perché gli conviene: così possono chiedere trattamenti di favore), però nei dati qualcosa di simile c'è.

Buona notte!

sabato 1 luglio 2023

La lezione del Fiscal compact per il MES

 (... la settimana era stata impegnativa, e così giovedì scorso, tornato a casa, sono crollato immediatamente a letto. All'alba di venerdì mi sono svegliato e mi sono messo in macchina, pensando a un commento che qualcuno aveva fatto a questo post, e ad altre due o tre richieste/tentativi di esegesi che mi erano giunti in privato, cui non avevo nemmeno risposto, perché se c'è il blog, per discutere, meglio usare quello, visto che ultimamente il tempo per rispondervi riesco a trovarlo. Recupero ora,al crepuscolo, immerso nel verde, nel fresco, e nel silenzio...)

Il post in cui evidenziavo un parallelismo fra Fiscal compact e Trattato istitutivo del MES, consistente nel fatto che entrambi sono trattati internazionali che esulano dal corpus del diritto unionale (non sono cioè né parte dei Trattati istitutivi dell'Unione, né atti giuridici - regolamenti, direttive, ecc. - da essa promulgati), avrebbe dovuto suscitare in tutti noi una riflessione, che nel mio testo era solo larvata, e di cui io stesso ho preso coscienza in seguito, rimuginando questo commento di uno di voi:

massimo_bad ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Un dettaglio sul MES":

Io non ho capito il senso politico di questa ipotesi di spostamento del voto a settembre, sinceramente...

Spero che un senso ce l'abbia e che alla fine il voto sia una volta per tutte DEFINITIVO al fine di sotterrare questa ignominia di MES e destinarlo alla pattumiera della Storia.

Pubblicato da massimo_bad su Goofynomics il giorno 29 giu 2023, 19:11

un commento che in realtà di riflessioni ne promuove più di una.

Parto dalla prima: atteso che nessuno di noi può sapere che cosa realmente passi per la testa al nostro premier, e atteso che secondo chi vi parla non avrebbe nessun senso, come ho specificato appunto nel post in questione, un baratto i cui termini sono così radicalmente disomogenei, prendiamo per buona la tesi che invece il MES (rectius; la ratifica della riforma del MES) possa essere oggetto di negoziato, sia negoziabile. In questo caso, caro massimo, mi sembra evidente quale sia il senso politico dello spostamento. Forse tu non c'eri quando Heiner Flassbeck venne a dirci che se volevamo avere una qualche speranza di successo in un negoziato con i suoi compatrioti dovevamo tenere una pistola carica sul tavolo! Ora, se accettiamo la logica del "negoziato", mi sembra evidente il perché non bocciare subito la ratifica: perché noi di pallottola abbiamo solo questa, e se la spariamo la pistola si scarica! Ecco spiegato il senso (non particolarmente arcano) della sospensiva, che comunque, se permettete, è già un bel progresso rispetto ai tempi in cui il piddume ci gettava immediatamente a capofitto in ogni trappola europea.

"Ma allora fra quattro mesi lo ratificherete?", è il coretto a testa di cappella dei ppdm...

No, non c'è un nesso causale fra il voler utilizzare una certa concessione come merce di scambio, e l'accordarla al termine del negoziato: bisogna anche vedere che cosa si pensa di ottenere e che cosa si è concretamente ottenuto. Alcune ipotesi giornalistiche sono sinceramente ridicole: secondo gli operatori informativi, sarebbe nostra intenzione ratificare la riforma solo se in cambio potessimo mettere persone che ci disprezzano in posizioni prestigiose da cui ci possono nuocere! Spero che il piano non sia questo, perché non sarebbe un piano coronato da successo. La domanda che alcuni colleghi si pongono è: "Ma atteso che né noi né i nostri elettori ne vogliamo sapere, che cosa ci porterà il Governo per provare a convincerci?"

Lo vedremo.

A me interessa poco, direi nulla: quello che mi interessa è, come sempre, aiutarvi a lateralizzare, sradicarvi dal terreno dello scontro che infallantemente lasciate scegliere all'avversario, e, come sempre, imparare dalla Storia. Perché, amici cari, il parallelismo fra "Trattato sulla stabilità bla bla bla" e Trattato istitutivo del MES non è solo formale, non si risolve solo nella comune natura giuridica extra-unionale di questi due documenti, ma va molto oltre: le analogie si estendono al dibattito e al contesto strategico in cui i due Trattati (rectius: le due revisioni, perché in fondo anche il Fiscal compact era, se pure imperfettamente, una "revisione" del Patto di stabilità e di crescita - o meglio: reiterava i contenuti di alcune recenti revisioni di esso...), e si estendono anche, come vi ricordavo pochi giorni fa, al pathos con cui all'epoca affrontammo la vicenda, un pathos che ritroviamo oggi, e di cui ci dovremmo chiedere quanto sia genuino, quanto sia giustificato, e quanto invece non sia indotto, come sempre, dal nostro avversario.

Ma andiamo per ordine, cominciando col farvi vedere le analogie.

Anche all'epoca c'era chi delineava, con maggiore o minore lucidità e attenzione agli interessi del Paese, un uso strategico dell'adesione al Trattato:


con esattissimamente la stessa solfa che oggi sentiamo a proposito del MES (rectius: della ratifica della sua riforma). L'argomento era/è sempre il solito: non firmiamo [il Fiscal compact]/[la ratifica del MES] perché così potremo contrattare un miglioramento delle regole.

E anche all'epoca c'era un genio, il solito, che se ne usciva con proposte creative:


"Il Fiscal compact? Ma è ovvio: firmiamolo ma non applichiamolo agli investimenti!" Che poi, se ci fate caso, è la stessa struttura logica della cazzata du jour: "Il MES? Ma è ovvio: ratifichiamolo ma non utilizziamolo!" (stessa cazzata, stessa testata):


L'eterno ritorno dell'uguale...

E, naturalmente, anche allora, come ora, c'era tanto, tantissimo pathos marziale e bellicista: ne è prova il mio stesso post, in cui utilizzavo lo straziante, allucinato resoconto della catastrofe di Caporetto fatto dal Gaddus, come metafora di quanto era successo in Parlamento.

Partiamo da qui, dal nostro pathos, dal nostro empito retorico, dalla nostra sconfitta, dall'abietta vergogna, dal tradimento esecrando, di aver accettato regole che avrebbero prima soffocato e poi distrutto il Paese, che infatti non c'è più, come non c'è questo blog di cui io non sono l'autore...

Vi porgo una domanda semplice: ma voi, prima di leggere il mio post del 29 giugno, del Fiscal compact ve ne ricordavate?

Ah, no!?

E sapete perché no?

Semplice: perché nei fatti non è mai stato applicato. Vi risulta che ci sia mai stato chiesto di ridurre il debito pubblico di un ventesimo della sua eccedenza dal parametro del 20%?

No.

E sapete perché?

Ci aiuta Bordignon a capirlo, ma per arrivarci dobbiamo prima farci ricordare da lui perché ci fosse stato chiesto di firmare un trattato che in fondo era una minestra riscaldata:

Il Fiscal compact era la prova d'amore che il Nord esigeva in cambio del whatever it takes, and believe me it will be enough di Draghi. Ovvero: ti faccio monetizzare il debito se mi prometti che non ne farai tanto perché altrimenti la moneta causerà l'inflazzione (non è un errore ortografico: è un errore economico. La moneta causa l'inflazzione, l'inflazione ha altre cause, come credo stiate capendo...).

Ricordate?

E nota bene: quello del Nord era un ricatto, va da sé. Quello che oggi il Della Vedova o la Quartapelle Procopio imputano a noi di commettere. Per fare una cosa che tutti reputano giusta e quasi santificano (il uoteverittèics) i nordici chiedevano ai sudici una cosa che oggi tutti reputano sbagliata e demonizzano (a chiacchiere): l'austerità. Un lurido ricatto, o un negoziato: vedete voi quanto eticizzarlo, di quanta melassa sentimentale caricarlo.

A maggior riprova del fatto che i problemi sono sempre gli stessi, vi regalo un altro paragrafo dell'ineffabile Bordignon:


Allora come ora ci si confrontava con l'impossibilità raggiungere una unanimità sulla modifica dei Trattati, allora come ora ci si poneva il tema di come integrare nel diritto dell'Unione, e quindi all'interno di qualcosa latamente assimilabile a un processo democratico, dei Trattati internazionali concepiti in situazioni di emergenza, retti quindi dalla logica dei rapporti di forza e dello stato di eccezione, allora come ora si chiedevano atti che non avevano alcun significato giuridico, perché sostanzialmente irrilevanti, ma solo un significato politico: quello di un atto di sottomissione.

Bene, torno sul punto, che forse ora comincia a esservi più chiaro: perché non è mai stato applicato il Fiscal compact? 

Semplice: perché era assurdo! La sua applicazione letterale avrebbe travolto la nostra economia, certo, ma anche le loro, quella dei prepotenti che chiedevano la prova di amore, l'atto di sottomissione.

Quando c'è stato da monetizzare il debito lo si è fatto (vi dice niente l'APP? Quello che chiamate quantitative easing...), quanto c'è stato da fare deficit lo si è fatto, senza star troppo a guardare a trattati e parametri: alla prima vera emergenza il Patto di stabilità e di crescita è stato sospeso.

E il Fiscal compact?

No.

Ve ne siete accorti?

No.

Quindi è stato applicato?

No.

Perché?

Perché nessuno se ne ricordava più. Il ruolo che doveva svolgere a suo tempo (rassicurare quei grulli dei tedeschi e umiliare quei grulli degli italiani) lo aveva ormai svolto, e c'erano cose più importanti di cui occuparsi!

E quindi?

E quindi tanto pathos, tanta retorica, tante veementi accuse, per nulla?

Viene quasi da parafrasare quell'autore che ogni piddino millanta di aver letto: "Dire que j'ai gâché des années de ma vie, que j'ai voulu mourir, que j'ai écrit mes pages les plus intenses, pour un traité qui ne servait à rien, qui n'était pas mon genre!"

Ma anche, per chi alla prosa delle prose preferisse la poesia:

Quoi! nulle trahison ?

Ce deuil est sans raison.

(...ormai sono rimasti in pochi quelli in grado di orientarsi: a quei pochi va la mia solidarietà...)

La sintesi di quanto detto finora è più o meno questa: le regole europee hanno tanti difetti, ma non sono quasi mai prive di un pregio determinante: la loro assurdità, la loro irrazionalità, diretta conseguenza del loro essere concepite per placare le deliranti fobie dei nostri amici tedeschi, sono, paradossalmente, la migliore clausola di salvaguardia, il nostro schermo più efficace! Regole così assurde che se si applicassero travolgerebbero chi le ha volute ovviamente non si applicano se non nella misura in cui i rapporti di forza consentono a chi le ha volute di applicarle senza rischi eccessivi.

Alla luce di questo dato di fatto, chiediamoci se la nostra attuale enfasi, se il nostro afflato abbia o meno delle raisons. La ciurma social ha cambiato bandiera: undici anni fa era "No Fiscal compact o morte!", oggi è "No MES o morte!" La ciurma va per bandiere, ed è giusto che sia così. La politica deve dare una visione, quindi i simboli sono importanti (altrimenti i piddini non insisterebbero tanto per avere il nostro atto di sottomissione), e deve anche raccogliere consenso, radunare le proprie truppe, e quindi le bandiere sono importanti (altrimenti non staremmo facendo tanto lavoro per spiegarvi bene che cosa comporti la ratifica del MES).

Questo è un fatto.

Come è anche un fatto che lo scenario è cambiato: la battaglia sul Fiscal compact la combattevamo dall'esterno e dall'opposizione, quella sul MES la combattiamo dall'interno e dalla maggioranza. Una maggioranza che deve resistere, perché la sua resistenza è la prima speranza concreta di depiddinizzazione del Paese che ci si sia presentata in lunghi anni (avete presente quanto si stracciano le vesti in Rai? Ecco: quella roba là...).

La principale preoccupazione di Lidia, la prima volta che mi telefonò, nel 2012, per avvertirmi che stavano preparando questo simpatico marchingegno, era che il Paese venisse commissariato, e che noi venissimo espropriati dei nostri risparmi. Ma poi ai nostri risparmi ci ha pensato il bail in, e a commissariarci il PNRR, che sotto questo profilo è semplicemente un MES che ce l'ha fatta, come mi pare abbia detto la stessa Lidia a Roma il 15 aprile.

Siamo ancora qui.

Certo, il fatto che il Paese sia commissariato, che ogni giorno si parli di che cosa dobbiamo fare di assurdo per riottenere i nostri soldi, testimonia che un arretramento c'è stato, e come! D'altra parte, questo stesso fatto ci indica quanto esiziale sarebbe per il Paese cumulare due dibattiti sulle rate: al dibattito sulla rata del PNRR, aggiungere anche, ogni semestre, il dibattito sulla rata del MES. Resta sullo sfondo il tema principale: quello di restituire agli italiani, se veramente li si ritiene adulti (come Della Vedova insistentemente affermava in aula) il diritto di disporre dei propri soldi.

Ma a questo obiettivo come ci si arriverà?

La domanda a questo punto diventa: indipendentemente dal possibile e probabile tradimento dei 5 Stelle (chi ha eletto la von der Leyen ovviamente voterà per la ratifica del MES), che potrebbero tradire se stessi per non spezzare il fronte dell'opposizione, ritenete che la linea rossa del MES giustifichi uno spaccamento della maggioranza, con tutte le conseguenze del caso? Non è che forse stiamo andando dietro a un drappo rosso che qualcuno (i piddini e la loro quinta colonna, i ppdm) ci stanno agitando davanti agli occhi per cercare di spaccarci, di dividerci, e questo per una questione la cui importanza, fra dieci anni, potrebbe essere pari a quella del Fiscal compact oggi (cioè zero)? A differenza degli studenti, io, da ricercatore, pongo domande quando non ho risposte. Non ne ho, in particolare, in questo caso. Quale sia il mio scenario preferito lo sapete. Sapete anche che da mesi cerco di dimostrare a voi (e non solo) che è uno scenario sostenibile: noi non stiamo peggio degli altri, cresciamo economicamente, e potremmo diventare il Governo più influente fra quelli dell'Unione, per il semplice fatto che un po' ovunque gli elettori stanno mandando a stendere democristiani e socialisti "indernescional". A quel punto il tema "MES" potrebbe diventare largamente irrilevante, e lo sarebbe in ogni caso dato che se tirano giù noi non gli va come in Grecia, ma ci vengono dietro.

Ognuno di voi avrà sicuramente chiaro che cosa si dovrebbe fare, e verrà qui a dircelo. Io vi ho dato un elemento di riflessione tratto dalla Storia: una Storia che abbiamo vissuto e sofferto (forse troppo) insieme, e che poi ci siamo dimenticati, nonostante sia la migliore illustrazione e il più rappresentativo precedente delle circostanze che stiamo vivendo oggi. Teneteci un attimo la mente prima di esprimervi. Le Guerre dei trent'anni durano trent'anni, e qui siamo appena al quinto. Lo so che non avete tanto tempo a disposizione: ma non dipende da me se certe matasse si fatica a sbrogliarle.

Pensateci, e cercate di ricordarvi l'estate del 2012...

(...una delle lezioni di quell'estate, peraltro, è che si può votare in dissenso dal gruppo e diventare ministro...)

La semplice macroeconomia kaleckiana di Nanterre: Pil, consumi e Francia

Da qualche tempo sto cercando di farvi capire che la situazione degli altri Paesi europei è meno rosea di quanto i nostri cari operatori informativi cerchino di lasciar trasparire. La facile profezia sul "segare il ramo" si sta materializzando coi suoi tempi, che sono purtroppo quello della Storia, la cui lentezza non deve indurci a dubitare della logica dell'Economia. La mortifera ideologia dell'austerità (cioè la difesa ultra vires della quota distributiva del capitale) non può che condurre a una cronica insufficienza di domanda, cioè a un mondo di poveracci e di scarsa remunerazione del capitale. Un circolo vizioso che non ha nulla di originale e che spiega le cicliche eruzioni di violenza da cui è punteggiata la storia dell'umanità. I periodi di una prosa terminano con un punto, quelli della Storia con una guerra.

Anche se l'attenzione di molti si concentra sulla potenza egemone, quella tedesca, per una serie di motivi, fra cui l'indubbia rilevanza del Paese, la sua penetrazione nel tessuto della nostra economia, il fatto che lo conosco bene e che ho una lunga esperienza diretta e indiretta di esso, da qualche tempo, da ben prima del gigantesco QED di Nanterre, stavo cercando di attirare la vostra attenzione sulla Francia, che, a differenza della Germania, è, come sappiamo da tempo, una vittima diretta delle rigidità determinate dalla moneta unica. Il suo deficit estero cronico le avrebbe (e le ha) imposto, come qui ci dicemmo tanti anni fa, politiche regressive (Hood Robin policies): togliere ai poveri per sostenere la competitività del Paese, dando ai ricchi. Il povero Macron di queste dinamiche oggettive sarebbe stato vittima, come avevamo detto qui e ribadito qui, non necessariamente nel senso che ne sarebbe stato travolto, ma nel senso che la loro gestione sarebbe stata sempre più complessa, a mano a mano che le tensioni sociali (nell'immagine del mio amico del post precedente, la pressione del vapore nella pentola a pressione) si fossero rivelate più esplosive.

La ciurma awanagan-gianniniana, qui degnamente rappresentata dall'amico Marco con la "m" maiuscola, travolta dal proprio livore antiitaliano (quel Paese così ingrato da non attribuire una laurea honoris causa ai millantatori!), ma anche gli intelliggenti (sic) come Valerio, intrisi, questi, di diverso ma coassiale livore verso questo popolo di mandolinisti che si attarda oziosamente su un blog insignificante (e che peraltro non c'è) invece di inchinarsi alla superiorità del loro pensiero forte, ha reagito a questo discorso coerente e dalle lunghe radici abbandonandosi alla tentazione (cit.) del "micugginismo": m'ha detto micuggino che in Francia sta bbene, m'ha detto Numbeo (e che cazzo è? Ma perché non andare sul sito dell'Eurostat?) che il Pil in Francia è più alto, ecc.

Tutte osservazioni assolutamente inconferenti, come vi mostro con un semplice esempio numerico, sintetizzato da questa tabella:


Immaginiamo che in Cracozia ci siano 10.010 (diecimiladieci) abitanti, di cui 10 ricchy e 10.000 poveri. Com'è noto, i ricchy hanno ovunque una bassa propensione al consumo. Se guadagni un milione, difficilmente spenderai 750.000 euro in pane (il rischio del diabete si concretizzerebbe rapidamente), e all'obiezione che però i ricchy possono comprare champagne, si può obiettare che con 750.000 euro di champagne puoi farci il bagno nella Jacuzzi tenendola spenta, ma certo non dissetarti, a meno che tu non voglia fare la fine dell'immortale autore de Il corvo. Come capite, la diversa propensione al consumo di ricchy e povery è un dato fisico, oggettivo. Naturalmente quasi nessun modello economico ne tiene conto, a parte quelli kaleckiani, come questo. Nell'esempio ipotizzo che in Cracozia i ricchy consumino il 20% del loro reddito (risparmino l'80%) e i povery il 90% (risparmino il 10%). Se 10.000 povery guadagnano 1.000 eury il totale dei loro redditi è 10 milioni, esattamente come il totale dei redditi dei 10 ricchi che guadagnano un milione a testa. Il Pil della Cracozia quindi nello scenario di base è 20 milioni (di cui 10 guadagnati dai ricchy e 10 dai poveri), con 11 milioni di consumi.

Passiamo ora allo scenario "M'ha detto mi cuggino che er Pille in Francia è arto" (lo scenario degli awanagan-gianniniani e degli intelliggenti).

Basta immaginare che il reddito dei ricchy raddoppi, passando a due milioni a coccia, e quello dei povery si dimezzi, passando a 500 eury a cranio.

A questo punto, i ricchy da soli fanno 20 milioni di reddito (cioè bastano i ricchy a raggiungere il reddito della baseline, dello scenario precedente), cui si aggiungono i 10.000x500=5.000.000 milioni di reddito dei povery, per un totale di 25 milioni (ovvero: il Pil è aumentato del 25% da 20 a 25 milioni, e analogamente il Pil pro capite - visto che gli abitanti sempre quelli sono: il conto fatelo voi!). I consumi, però, sono diminuiti, passando da 11 milioni a 8 milioni e mezzo: questo perché si sono dimezzati i redditi della popolazione a più alta propensione al consumo.

Questo spiega perché quando un economista vede questo grafico:



(tratto da qui) immediatamente visualizza questo:


mentre quando un ingengngniere awanagan-gianniniano o un intelliggente vedono lo stesso grafico immediatamente vanno su Numbeo per cercare di dimostrare a Bagnai che ha sbagliato (ignari del fatto che Bagnai se ne strabatte), e fanno la figura dei peerla (ma non dobbiamo infierire noi dove Natura si accanì).

Capito, pirlottoni? Vi voglio bene, ma (o anche perché) non ce la potete fare! Andate a parlare di calcio al Bar dello Sport, il vostro giardino di Academo, cercando di scalarne la tabaccaia, ma qui è meglio che lasciate perdere: non siete buoni nemmeno come sparring partners!

Oh, poi io lo so che siete autolesionisti, quindi aspetto con trepidazione, soffocando gli sghignazzi, la vostra relazione di minoranza. Nel frattempo, i normodotati, ove mai non lo avessero già capito, hanno un quadro chiaro della situazione: del fatto che il cuggino di Marco stia bene rigorosamente all'interno della "cerchia dei Navigli" di Parigi ce ne possiamo tranquillamente strabattere. L'ultimo visiting a Paris XIII l'ho fatto nel 2017 e già allora mi dissero di non muovermi da solo dalla metropolitana alla facoltà perché era pericoloso (e in effetti durante un seminario venimmo interrotti dalla notizia che un collega si era fratturato la mascella - nel senso che lo avevano corcato di botte - nel tentativo di difendere lo zainetto del suo computer dalle affettuose attenzioni di un nuà - noir - vi risparmio le contorsioni logiche cui si sottopose il messaggero, dovendo recare tale infausta notizia in un'università de sinistra).

Non sono 10 super ricchy (di cui la Francia abbonda) a rassicurarci:


(qui): ove mai volessero farlo, non saranno Arnault, Bettencourt, Saade, Pinault e Wertheimer ad arginare centinaia di migliaia di diseredati che non hanno nulla, o troppo poco, da perdere, e cui il Governo letteralmente non sa in quale lingua rivolgersi! L'unico modo che avrebbero a disposizione per farlo sarebbe assoldare dei mercenari, ma se lo facessero (e dovranno farlo) li userebbero per difendere se stessi, non Macron! Si ritireranno nell'Ile Saint Louis, trasformeranno coi fondi del PNRR il Ponte Luis Philippe, il Pont Marie et il Pont de Sully in ponti levatoi, e tanti saluti! Per i punti a Sud, come sa chi conosce Parigi, basterà qualche cavallo di frisia e una trentina di ragazzotti dotati di fucili a pompa.

Chiaro il concetto?

Poi va da sé che i moti si sopiranno, fino alla scintilla successiva, in un'alternanza risonante di fasi acute e fasi croniche. Ma anche la Francia è soggetta al peccato originale. Rimuovere gli effetti senza rimuovere le cause è un esercizio tanto nobile quanto disperato. Le riforme, alla Francia, servono:


Lo vedete, poveri ciucci miei!, che in termini di conti esteri è sistematicamente sotto di noi, con tutto che l'energia per lei non è un problema? Quindi agli scalmanati che stanno mettendo a ferro e fuoco le città (non solo les cités) della Francia Macron può dire quello che vuole, ma quello che dovrebbe, e alla fine dovrà dirgli, e che anche se non gli dirà loro capiranno, se non lo hanno già capito, purtroppo è: "Siete già incazzati ora? Pensate quanto lo sarete di più quando, non potendo lasciar cedere il cambio, sarò costretto a tagliarvi ulteriormente i salari per tentare di limitare l'indebitamento estero!"

Tutto qua.

Come vi ho sempre detto, il tempo è dalla nostra, o, per lo meno, non è dalla loro: e questa non è Schadenfreude, è economia, e non è strateggiah: è strategia.