Dal mio letto di dolore proseguo l'operazione di spietramento delle mie calzature.
Oggi torno su un tema che qui abbiamo affrontato più volte, e che quindi voi, ma solo voi, in Italia conoscete bene: quello della dinamica salariale nel nostro Paese. La motivazione principale per tornare su questo argomento risiede nella lista di oscene stupidaggini che trovate in commento a questo mio post su Facebook. Non mi riferisco, sia ben chiaro, alle espressioni di dissenso rispetto alla mia valutazione politica, che dovrebbe esservi anch'essa ben familiare, e che in estrema sintesi potrebbe essere riassunta così: staremmo meglio se i sindacati facessero, e soprattutto avessero fatto, i sindacati (difendendo i salari), invece di fare i partiti politici (difendendo l'Unione Europea). Naturalmente per chi, come voi, capisce che questi due obiettivi (salari e Unione Europea) sono incompatibili (per i motivi ultimamente espressi anche da Draghi, cioè perché l'Unione Europea costringe a farsi concorrenza sui salari), questa mia affermazione è banale e scontata.
Si potrebbe portarla a un livello più sofisticato di approfondimento ragionando sul fatto che con la delegittimazione e lo smantellamento dei partiti politici, corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 49), nei fatti i sindacati sono rimasti l'unico altro corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 39) a mantenere una struttura organizzata e finanziata. Si può quindi sostenere che il fatto che ormai esercitino una funzione di supplenza rispetto ai partiti nel "determinare la politica nazionale" (art. 49) in senso complessivo, invece di concentrarsi sulla gestione del conflitto distributivo, è anche l'esito di dinamiche tanto perverse quanto oggettive, è anche il riempimento di un vuoto lasciato dall'antipolitica, oltre a essere certamente l'espressione delle velleità parlamentari di personaggi dello spessore di Landini (non questo, che di spessore ne aveva, ma questo...). Fatto sta che l'oblio dei diritti dei lavoratori è nelle cose, lo abbiamo visto (e fra breve lo rivedremo) nel tracciato dei salari, ed è sulle motivazioni di questa negligenza, non su quelle del concomitante impegno in politica, che ci si dovrebbe porre una domanda.
Questa però è materia politica e quindi aperta alla discussione: non ce l'ho con le povere pecore che per un motivo o per l'altro non capiscono che è stato il pastore a portarle al macello, non ce l'ho con chi ritiene di doversi occupare di battaglie altrui avendo rinunciato a combattere le proprie, o per giustificarsi del non averle combattute: va tutto bene! Quello che è veramente desolante è la disinvoltura (e la protervia) con cui chiunque si avventura in materia economica non avendo la benché minima idea di quali siano i concetti chiave, le unità di misura, le definizioni delle variabili, per non parlare della loro dinamica e delle interazioni fra esse previste dalla teoria economica, o semplicemente conseguenti dalla loro definizione! Mi sembra evidente che su queste basi una soluzione realmente democratica dei conflitti è preclusa (altro tema che qui ci è dolorosamente familiare). Di fatto, da molti commenti capirete che pochi sanno che cosa si intende per salario reale, e quindi che cosa ci racconti la sua dinamica: c'è chi chiede di depurarlo dall'inflazione (!), c'è chi sostiene che se il potere d'acquisto è rimasto costante dagli anni '80 non dobbiamo lamentarci (!), e via andare...
Lo scopo di questo post è duplice.
Da un lato voglio riprendere la "Breve ma veridica storia dei salari italiani" (che quindi vi consiglio di rileggere), per due motivi:
- perché da quando l'abbiamo scritta, a maggio 2025, si sono aggiunti due punti dati (corrispondenti ai primi due trimestri del 2025), e voglio vedere se nel primo semestre di quest'anno si è mantenuto il trend di recupero del potere d'acquisto che avevano evidenziato, e se abbiamo recuperato i valori pre-pandemia;
- perché voglio estenderla all'indietro, fino al 1970, utilizzando i vecchi dati di contabilità nazionale trimestrale (io non butto mai nulla), in modo da vedere se questi dati trimestrali di fonte ISTAT restituiscono lo stesso profilo visto in "La crisi dei salari e la produttività" (che quindi vi consiglio di rileggere), cioè una crescita lungo tutti gli anni '70 che si arresta all'inizio degli anni '80 su livelli sostanzialmente prossimi a quelli attuali.
Dall'altro, siccome sappiamo che la flessione dei salari (e quello che c'è a monte, cioè l'aumento della disoccupazione, e ancora a monte il taglio degli investimenti pubblici, cioè l'austerità) serve a recuperare competitività, cioè a migliorare la propria bilancia dei pagamenti e la propria posizione finanziaria netta sull'estero, voglio aggiornare l'analisi fatta in "La ricchezza esterna delle nazioni" (quando l'abbiamo scritto c'era ancora Draghi!), per vedere se il recupero dei salari si è già riflesso in una perdita di competitività e ha già cominciato a compromettere la nostra posizione debitoria netta nei confronti del resto del mondo.
Procederò quindi estendendo separatamente i due grafici e evidenziandone le principali caratteristiche. Per snellezza di trattazione, la metodologia (che trovate comunque nei post citati qua sopra) sarà descritta in appendice.
Breve ma veridica storia del salari italiani: aggiornamento
Il grafico aggiornato al secondo trimestre 2025 e esteso fino al primo trimestre 1970 è questo:
(dettagli tecnici in appendice). Elenco le caratteristiche più apparenti:
- la crescita dei salari reali sta proseguendo, dopo una pausa nel primo trimestre del 2025, il livello raggiunto nel secondo trimestre 2025 è 6822 euro a trimestre ai prezzi 2020 (rispetto ai 6791 dell'ultimo trimestre 2024), ma siamo ancora dell'1,5% al disotto del livello pre-pandemia (quello dell'ultimo trimestre 2019, pari a 6928. Quindi bene, ma naturalmente non benissimo (ci mancherebbe altro!), e il rallentamento dell'economia mondiale non aiuterà (ricordate? Per distribuire valore bisogna produrlo);
- il profilo dei dati trimestrali sui 55 anni considerati è quello che emerge dai dati annuali: crescita vigorosa fino all'inizio degli anni '80, poi un primo arresto, poi di nuovo crescita fino al 1992, poi una flessione, poi una stasi fino alla crisi finanziaria globale, poi una flessione, poi una stasi fino alla pandemia, poi un'altra flessione, e poi la ripresa di cui parlavamo. Diciamo però che il fasheesmo, cioè Giorgia, a occhio e croce con la stasi dei salari c'entra poco. Quando questa è iniziata, lei aveva quattro anni, e per quanto possa essere stata pestifera non credo che riuscisse a perturbare le variabili macroeconomiche.
Il massimo storico, pari a 7347, resta nell'ultimo trimestre del 2005.
Più avanti entriamo nel merito di tutte queste caratteristiche, mettendole in relazione con i cambiamenti strutturali dell'economia italiana, con i governi in carica, ecc.
La ricchezza esterna delle nazioni
Estendendo al 2024 il grafico (che qui si fermava al 2020) otteniamo:
In questo caso le cose vanno decisamente meglio. Nonostante la ripresa dei salari, nel 2023 e 2024 prosegue il deprezzamento reale (cioè l'aumento della competitività) del nostro Paese e conseguentemente migliora la sua posizione netta sull'estero, che è diventata creditoria (positiva) nel 2021 e che nel 2024 ha raggiunto il massimo da quando siamo entrati nell'euro (ma in effetti è il massimo storico, almeno dal 1970, come potreste verificare al solito posto). L'andamento a specchio delle due variabili, previsto dalla teoria economica, è assolutamente confermato dai dati. Si vede anzi che quando nel 2022 il deprezzamento reale si arresta per un anno, la posizione netta sull'estero peggiora lievemente.Nota bene: siccome una diminuzione della disoccupazione, o un aumento dell'occupazione, fa aumentare i salari, quindi i prezzi, e quindi fa apprezzare il tasso di cambio reale (che è il rapporto fra i prezzi nazionali e esteri), e quindi diminuire la competitività, e quindi peggiorare la bilancia dei pagamenti, e quindi aumentare l'indebitamento estero (o diminuire l'accreditamento estero), non è per niente banale avere simultaneamente il massimo storico dell'occupazione e della posizione (creditoria) netta sull'estero.
Non lo dico per fare i complimenti alla mia maggioranza, che secondo me nemmeno se ne rende conto (sentite mai qualcuno parlare del vero debito, quello estero?). Lo dico perché siamo qui per parlare di economia, e questa configurazione dei fondamentali macroeconomici è piuttosto inedita e merita di essere evidenziata.
Qualche commento
Partirei dai più ovvi.
Intanto, i salari reali sono i salari nominali depurati per l'effetto dei prezzi. A benefici dei piddini che mi commentano su FB, ricordo che "reale" in economia non è il contrario di "immaginario", ma di "nominale o a prezzi correnti". Il salario reale cioè misura il potere d'acquisto, la "quantità di cose" (res) che puoi comprare col tuo salario.
Quindi:
- non ha senso chiedere di depurare dall'inflazione il salario reale, perché per definizione già ne tiene conto;
- non ha nemmeno senso dire che se rimane costante va tutto bene.
Il secondo punto merita un approfondimento.
No, non è corretto dire che se il potere d'acquisto dei salari resta costante allora siamo a posto, per il semplice motivo che per il lavoratore non è un gran vantaggio poter comprare la stessa quantità di cose in un mondo in cui ci sono più cose da comprare! In altri termini, non è detto che quando non crescono i salari reali (la parte di prodotto che va ai lavoratori) non cresca l'economia (e quindi il prodotto totale)!
Se calcoliamo il rapporto fra il monte salari e il prodotto interno lordo otteniamo un rozzo indicatore della quota salari (variabile di cui ci siamo occupati in diverse occasioni):
e constatiamo un altro dei "fatti stilizzati" che i lettori di questo blog conoscono bene, ma l'average Joe piddino non vorrà mai ammettere: al tempo dell'inflazione a due cifre negli anni '70 della liretta e della svalutazione (secondo l'immaginario distorto dei piddini), la quota salari si è mantenuta o è andata crescendo, mentre lungo tutti gli anni '80 e fino alla metà degli anni '90 la quota salari è andata diminuendo, questo perché a partire dagli anni '80, mentre la produttività continuava ad aumentare, la remunerazione reale del lavoro restava costante. Quello che vedete nel grafico soprastante, in altre parole, è la conseguenza di quanto vedete in questo grafico:
che forse ricorderete (ve lo avevo mostrato un anno addietro parlando de "La crisi dei salari e la produttività"). In estremissima sintesi, mentre la corsa dei salari reali si è arrestata con il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia (all'inizio degli anni '80), cioè con le politiche di disinflazione, quella della produttività si è arrestata con l'ingresso nell'euro, cioè con le politiche di deflazione, il che comporta che dall'inizio degli anni '80 alla metà degli anni '90 la quota salari sia diminuita, cioè il tenore di vita delle classi salariate non sia rimasto costante, ma sia arretrato in termini distributivi (la relazione fra produttività, salario reale e quota salari voi la conoscete perché ho dovuto spiegarla a un collega che non la conosceva), in concomitanza del resto con l'aumento della disuguaglianza.
Questo dibattito non è meramente teorico, è anzi dannatamente pratico! Quello che ci dice infatti è che se in termini di salario medio in termini reali oggi siamo tornati ai livelli del 2013, che poi erano quelli del 1988, in termini di quota salari siamo tornati ai livelli del 2010, che poi erano quelli del 1970! Questo spiega come nonostante una dinamica dei salari in crescita i lavoratori non percepiscano un effettivo beneficio, e naturalmente fa capire ancora meglio quanto sia lontana la radice del problema.
Ovviamente non mi fiderei troppo di questi calcoli fatti "sulla carta del prosciutto". Se però prendiamo la variabile "adjusted wage share" calcolata dal database AMECO, con riferimento a variabili diverse (AMECO rapporta i redditi da lavoro dipendenti nominali al Pil nominale e aggiusta ulteriormente per il rapporto fra occupati dipendenti e totale degli occupati) otteniamo una dinamica sostanzialmente simile:
con un declino lungo tutti gli anni '80 e '90 che sarà piuttosto difficile recuperare, in un mondo in cui il capitale ha decisamente più del solito il coltello dalla parte del manico.
In ogni caso, credo sia sufficientemente ovvio che né la mitologica "inflazzione a due cifre" né la temibilissima "svalutazzione" hanno un rapporto immediato e diretto con la dinamica della quota salari, o semplicemente dei salari reali. I salari reali, come qui vi ho fatto vedere fin dall'inizio, sono andati crescendo (e la quota salari è cresciuta o si è mantenuta comunque stabile) nel periodo dell'esecranda "inflazzione a due cifre", come mi pregio di farvi nuovamente vedere su dati trimestrali:
ma anche:
talché pare proprio che contrariamente a quanto credono i piddini, nel lungo termine l'inflazione sia piuttosto amica che nemica dei lavoratori, e sui motivi ci siamo dilungati (ma se qualcuno ha dubbi, sono qui per rispondere). Aggiungo che i salari reali sono diminuiti con l'austerità fra 2011 e 2014, ma non con la svalutazione competitiva dell'euro fra 2015 e 2020! Insomma, il meraviglioso mondo di Drindrin resta una fola per bimbi sciorni (ma rigorosamente col pieiccdì).
Conclusioni
In Italia la crisi salariale va avanti da decenni: la colpa non è del fasheesmo (nel senso di Giorgia), ma, come sappiamo, di un esito del conflitto distributivo per tanti motivi sfavorevole ai lavoratori, per via del quadro complessivo della terza globalizzazione, e, nel nostro contesto regionale, della necessità di competere al ribasso sui salari cui prima dell'euro costringeva anche il Sistema Monetario Europeo. Va da sé che poter trasferire sul mercato valutario una parte dell'aggiustamento macroeconomico aiuterebbe, ma, come del resto dimostrano anche i grafici che abbiamo visto (o rivisto) non è detto che sarebbe risolutivo. La discesa della quota salari, o, se volete, la stasi del salari reali, è iniziata infatti quasi venti anni prima della moneta unica, e se da un lato è vero che il vincolo esterno monetario era già in opera (attraverso il meccanismo di cambi fissi ma aggiustabili dello SME), è pur vero che all'epoca una parte dell'aggiustamento poteva ancora essere scaricata sui cambi (come accadde nel 1992). Nell'unione monetaria il sentiero che la politica economica può percorrere è particolarmente stretto, come ricordava il buon Pier Carlo. Credo converrete con me che lui questo sentiero lo ha percorso con minori risultati del Governo attuale, sia in termini di dinamica salariale, che in termini di assetto dei conti con l'estero. Avere al tempo stesso il massimo storico dell'occupazione e della posizione netta sull'estero non è senz'altro merito di questo governo: probabilmente è molto più merito del fiscal overkill messo su dal PD e dalla troika. Fatto sta che le accuse fatte a questo governo di aver causato la crisi salariale "perché non ha approvato il salario minimo" sono piuttosto ridicole, ne converrete. Non è questo che dicono i numeri.
Qualcuno potrebbe obiettare: "Certo, ma i numeri dicono anche che si potrebbe fare di più! In fondo abbiamo recuperato un buon margine di competitività, potremmo anche spingere di più sul meccanismo deficit-investimenti pubblici-crescita-occupazione-aumento dei salari, senza compromettere troppo i nostri conti con l'estero!" Questo argomento ha una sua tenuta logica ed è esattamente quello che farei anch'io da professore. C'è però un pezzo di complessità del reale che temo sfugga anche a voi. Nei modelli econometrici la spesa pubblica è una variabile, G, che si può far aumentare o diminuire con un clic. Nella realtà, ci sono di mezzo non solo la Ragioneria Generale dello Stato e le regole europee, ma anche il codice degli appalti, la Corte dei Conti, i bandi europei, gli uffici dei ministeri, delle regioni, delle province e dei comuni, dove il personale non c'è, o è troppo anziano, o non è abbastanza formato (perché c'è stato il blocco del turn over, ricordate?), o è troppo scojonato, perché solo l'anno scorso sono stati allocati dieci miliardi per un primo rinnovo dei contratti. Vi ricordate quando pareva crollasse il mondo perché avevamo proposto un deficit al 2,4%? Vi ricordate poi come andò a finire? Che si spese l'1,6%. Come mai? Perché la macchina amministrativa di cui disponiamo, logorata da anni di austerità a trazione PD, non è in grado di assorbire il carico di lavoro necessario per seguire la mole di spesa che astrattamente sarebbe necessaria per rimettere in piedi la baracca. Avrebbe senso far ripartire la solfa dello spread, attirare su di noi invece su chi se la merita (Francia e Germagna) l'attenzione dei mercati, per fare promesse di stimolo di bilancio che poi non saremmo in grado di mantenere? Varrebbe la pena di sostenere in anticipo il costo dell'incertezza sui mercati, senza poter incassare a valle il beneficio dello stimolo di bilancio, solo per far contento er sor Perepè, il compagno Rizzovich, e Foffoletta647827 su Twitter?
Può darsi che secondo voi questo sia essere keynesiano. Non credo che funzioni così, ma ove mai fosse, devo dirvi che preferisco, per me e per voi, essere giorgettiano, o semplicemente napoleonico: "Non bisogna mai interrompere un nemico mentre sta facendo un errore!". Ripeto: perché dovremmo schiantarci sui mercati noi, ora che stanno shortando gli OAT?
"Ma er popolo soffrono, laggente ci hanno fame!"
Beh, sì, questo credo di saperlo, ma è pur vero che siamo in democrazia, e quindi se ci troviamo su un sentiero stretto questo in qualche modo è avvenuto per scelta del popolo sovrano, cui a questo punto, nel suo interesse, dobbiamo sconsigliare di buttarsi di sotto (per questo basterebbe un PD qualsiasi, che ovviamente correrebbe in soccorso degli angioini)! Sapete benissimo che cosa penso di questo percorso: non l'ho scelto, lo trovo irrazionale, ve ne ho spiegato i limiti in lungo e in largo. Ma finché i commenti al grafico dei salari reali sono quelli che ho suscitato su Facebook, vi assicuro che non avremo (e infatti non abbiamo) la forza politica di fare una cosa che in questo momento tra l'altro è inutile: forzare delle regole che... stanno logorando i nostri nemici!
Quindi alle lamentationes de "er popolo" (che ha quello che desiderava) si provvederà, come è giusto, ma mantenendo un quadro ordinato e mantenendo margine di competitività. Ognuno di noi, istintivamente, tende a ragionare in modalità BAU (business as usual). Eppure dovreste sapere, perché è un po' che ne parliamo, che sono dietro l'angolo una guerra e una crisi finanziaria (whatever comes first).
Non è il momento migliore per farsi notare.
E se Foffoletta647827 ci toglierà il follow, ce ne faremo una ragione: non sapendo chi è, ignoriamo l'entità del lutto che dovremmo elaborare, ma possiamo precauzionalmente stimarla a zero e tirare dritto.
Dichiaro aperta la discussione generale (già immagino gli iscritti a parlare...).
Appendice
Per estendere fino al 1970 le serie di contabilità nazionale ho usato una vecchia versione della contabilità trimestrale dal 1970q1 al 1996q3 che avevo usato per un aggiornamento di questo modello. Naturalmente le serie erano in miliardi di lire anziché in milioni di euro. Inoltre la base dei prezzi era in quel caso il 1990 anziché il 2020. Ne consegue che rifacendo i calcoli separatamente sui due database veniva fuori una roba simile:
con una evidente soluzione di continuità, determinata dai due fattori sopra ricordati (diversa valuta, diversa base dei prezzi) e da una serie di revisioni minori, ad esempio nei criteri di revisione degli occupati. Per ottenere una serie relativamente uniforme ho convertito tutto in euro usando il noto cambio irrevocabile (666 lire per euro) e ho retropolato indice dei prezzi e occupati dipendenti utilizzando i tassi di crescita delle vecchie serie, applicati al primo valore delle nuove. Naturalmente all'ISTAT storcerebbero il naso, ma qualora desiderassero applicarsi loro al compito di ricostruire le serie di CN trimestrale fino al 1970 non credo che con metodi molto più sofisticati otterrebbero risultati particolarmente diversi, tanto più che qui quella che ci interessa è l'informazione "a frequenza zero", su cui le revisioni di cui vi parlavo non impattano (come non impatta la conversione in euro, che è semplicemente una moltiplicazione per una costante).
Quanto alla ricchezza esterna delle nazioni, i tassi di cambio reale vengono da qui e la posizione netta sull'estero viene da qui. Come ricorderete dal post del 2022, l'indicatore di competitività è dichiaratamente discutibile: si tratta del tasso di cambio bilaterale fra Italia e Germania, che quindi misura la competitività rispetto a un particolare partner commerciale, mentre la posizione netta è riferita all'intero resto del mondo. Fatto sta che per le caratteristiche strutturali della Germania e per il peso che ha nel nostro commercio questo indicatore è molto esplicativo delle vicende del nostro indebitamento estero, con un coefficiente di correlazione attorno a -63%.
Visto che si parla di salari reali (e quindi di inflazione calcolata dall'ISTAT) riporto il peso delle varie voci di spesa contenute nel paniere ISTAT: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/02/ponderazione-classi_2025_pesi-definitivi.xlsx
RispondiEliminaContinuo a non capire perchè il paniere non comprenda il valore di acquisto di una casa e perchè l'affitto abbia lo stesso peso della bolletta del gas: 2.7% ( e quasi lo stesso delle sigarette 2%)
Con tutta la migliore buona volontà, non riesco a immaginare la casa come un bene di consumo. Sul resto, se vuoi posso informarmi.
EliminaNon è un bene di consumo ma è un elemento che incide sui soldi che ha effettivamente in tasca chi lavora. Se devo comprare casa e questa costa come 10 anni di stipendio o 20 o 30 anni la cosa incide parecchio sui soldi che ho effettivamente in tasca.
EliminaDimenticavo: sì, se non le pesa se potesse scoprire la risposta a questa domanda:
Elimina"La spesa per la bolletta del gas è molto inferiore a quella dell'affitto, perchè hanno lo stesso peso ?"
L'unico Ph.D. a cui do ancora ascolto, è il duo formato da Jim Diamond e Tony Hymas (quest'ultimo veramente un grande musicista).
RispondiEliminaParlando di salari. In una trasmissione se non ricordo male dove lei era ospite si era parlato di fiscal drag. Se Landini facesse il suo lavoro molte persone finirebbero nello scaglione successivo. O se ipotizzassimo che i salari reali fossero andati bene avremmo moltissimi dipendenti che gli tocca fare gli operai, insegnanti, dipendenti pubblici con 35% di tasse... Quasi la metà.
RispondiEliminaAppunto sarebbero da rivedere le soglie almeno di qualche migliaio di euro tra un passaggio e un altro...
Buonasera innanzi tutto. Con riferimento ai colli di bottiglia della spesa per investimenti dovuti all'inadeguatezza del capitale umano, specie degli enti locali, chiedo se siano state ipotizzate e/o già sperimentate forme di distacco o comando incentivato di personale tra le amministrazioni anche a fini di formazione. In questa prospettiva, forse si potrebbe ipotizzare di coinvolgere il personale di aziende di Stato, penso soprattutto ad Anas e Ferrovie di Stato, o partecipate, i cui uffici appalti hanno sicuramente personale dotato della competenza necessaria. Se poi per finanziare l'operazione si attingesse, dirottandone la programmata destinazione all'industria tedesca, alle ingenti risorse del PNRR, ne sarei particolarmente lieto.
RispondiElimina