domenica 8 giugno 2025

Due trade-off sul debito pubblico

Continuo a ricevere graditi segni di apprezzamento per l’intervento che ho svolto ieri a Rapallo e che trovate nel post precedente. Qualcuno ha anche chiesto che vengano pubblicate le slide e lo farò senz’altro, ma prima vorrei evidenziare rapidamente qui due cose che non sono nelle slide, ma che ho detto e sulle quali secondo me è importante fissare l’attenzione.

Un falso trade-off

La prima cosa sulla quale vorrei farvi riflettere è una evidente limitaziine della teoria economica standard, secondo la quale gli investimenti pubblici sono in qualche modo alternativi rispetto agli investimenti privati, nel senso che, per usare il linguaggio degli economisti, li “spazzerebbero” (il termine inglese utilizzato è: crowding out). Questa visione deriva dall’idea molto stilizzata secondo cui l’unica determinante del volume degli investimenti è il tasso di interesse. Se le cose stessero così, allora avrebbe un senso pensare che qualora lo Stato effettui investimenti finanziandoli in deficit, cioè con emissioni di debito pubblico, e ipotizzando che queste emissioni facciano innalzare il tasso di interesse, allora l’investimento pubblico determinerebbe una contrazione di quello privato attraverso il canale del tasso di interesse. In realtà, come ho cercato di spiegare ieri (ma non solo ieri) fra le determinanti complessive della redditività di un investimento ci sono anche le condizioni complessive della domanda aggregata e lo stato delle infrastrutture. Nessuno investe per portare al mercato con una strada che non c’è un bene che nessuno domanda. Voi (ad eccezione di Corrado) lo fareste? Io no, ma io non faccio testo: il problema è che non lo fa nessuno. Bisognerebbe quindi parlare di crowding in (non out) dell’investimento privato da parte di quello pubblico. Se lo si facesse, si capirebbe anche perché in un periodo in cui i tassi di interesse sono stati tenuti molto bassi, l’investimento privato in effetti non è esploso. Il motivo è semplice: perché in contemporanea sono stati tagliati gli investimenti pubblici, deteriorando lo stato della domanda aggregata complessiva e lasciando andare in malora le infrastrutture. La teoria economica corretta è quella che meglio si adatta ai dati: quello che vi ho detto spiega perché può succedere che l’acqua ci sia, ma il cavallo non beva.

Un vero trade-off

Un’altra cosa che non vorrei passasse inosservata nelle pieghe del discorso è riferita a una effettiva difficoltà alla quale un livello elevato di debito pubblico può esporre. Questo sfugge ancora a molti, ma è importante che noi, che preferiamo anticipare gli eventi (umilmente consapevoli del fatto che comunque non siamo in grado di influire più di tanto su di essi), ci mettiamo la testa. Livelli elevati di debito pubblico determinano un trade-off fra stabilità macroeconomica (intesa come controllo dell’inflazione) e stabilità finanziaria. Il motivo è molto semplice: dato che l’inflazione dipende dalla legge della domanda e dell’offerta, e che, conseguentemente, l’unico strumento che una banca centrale ha per controllarla è abbattere la domanda innalzando i tassi di interesse, quando le posizioni debitorie sono molto elevate c’è il rischio che un innalzamento dei tassi di interesse motivato dal desiderio di contrastare l’inflazione renda troppo oneroso rifinanziare le posizioni debitorie in essere. Detto in un altro modo, e pensando al debito pubblico, quando agli inizi degli anni ‘80 Paul Volcker avviò la sua politica di tassi di interesse elevati per combattere l’inflazione, il livello medio di debito pubblico nei paesi avanzati si situava attorno al 40%, e l’innalzamento dei tassi reali di circa quattro-sei punti avviò in molti paesi una spirale per cui ci si indebitava per pagare gli interessi sul debito. Ora il debito medio è oltre il doppio, cioè oltre l’80%, e quindi anche innalzamenti più contenuti dei tassi di interesse potrebbero farci entrare in una spirale simile, che potrebbe mandare fuori controllo le esposizioni debitorie pubbliche, ma soprattutto private. Per questo motivo sarebbe importante che queste venissero in qualche modo diluite, spingendo sulla crescita nominale, cioè sulla crescita reale e sull’inflazione.

Ecco: queste due cose nelle slide non c’erano, ma erano forse le due cose più importanti che avevo da dire ieri. Spero vi abbiano aperto delle prospettive utili.


sabato 7 giugno 2025

Rapallo (sul green e l’Europa)

Qui c’è il motivo per cui non sono riuscito a rispondervi (e ora sto per imbarcarmi):


Dovevo preparare questo intervento. Sono sempre le stesse cose, ma non negli stessi tempi e non alle stesse persone. Il risultato si è visto, il messaggio è passato (ascoltate i commenti degli altri, nei loro interventi tutti molto interessanti), stiamo portando la nostra voce in altri ambienti e piano piano ci costruiamo spazi di ascolto e di reputazione che ci saranno utili.

Ci vediamo più tardi per i commenti a questo e agli ultimi post, ma intanto volevo condividere un’osservazione che mi è venuta in mente lavorando a questo intervento: è strano come quelli secondo cui lo Stato è come una famiglia (una tribù variopinta che a quanto abbiamo visto annovera anche miliardari “visionari”) chiedano allo Stato di non comportarsi come si comporta una famiglia quando deve acquistare un bene capitale (un’automobile, una casa)! Le famiglie (o le aziende) per acquistare macchinari o edifici si indebitano. Secondi i gianninizzeri, lo Stato, invece, non dovrebbe indebitarsi mai, nonostante che sia ormai chiaro come chi sta alimentando una pericolosa catena di Sant’Antonio sia il settore privato: è quest’ultimo a indebitarsi per pagare dividendi, non il settore pubblico, e lo dice l’OCSE!

Questa è la consistenza dei nostri interlocutori social. Sono decisamente migliori e fortunatamente più rilevanti quelli in carne ed ossa. Spiaze per Serendippo! 😢

venerdì 6 giugno 2025

Chi esporta merci esporta capitale (umano)

Abbiamo ormai perso ogni speranza di far capire al secol superbo e sciocco (LVI incluso) che per mera contabilità la somma dei saldi merci e capitali (rectius: la somma algebrica del saldo delle partite correnti e del conto finanziario della bilancia dei pagamenti) deve (must) essere nulla. Non si tratta di alchimia o di convenzione! Si tratta della rappresentazione nitida e facilmente comprensibile di un dato di fatto. Quando l’esportatore italiano incassa dollari (e in bilancia dei pagamenti si registra quindi un segno più, come sempre quando la valuta entra), la storia non finisce, ne manca un pezzo importante.

Con i suoi dollari l’esportatore può fare tre cose:

1) tenerli in tasca (ma a meno che non sia Eta Beta questa strategia potrebbe dimostrarsi rapidamente insostenibile, oltre a essere finanziariamente poco conveniente);

2) acquistarci attività finanziarie denominate in dollari, per non tenere contante ozioso e infruttifero, nel qual caso in bilancia dei pagamenti si registrerebbe un segno meno (un’uscita di valuta annotata nel conto finanziario);

3) convertirli in euro per comprarsi un gelato (o per fare investimenti produttivi), nel qual caso si registrerebbe ugualmente un segno meno sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti, perché la Banca centrale non è come il deposito di Paperone un gigantesco hangar blindato colmo di dollaroni metallici ballanti e sonanti, ma un ufficio popolato da una burocrazia più o meno amica del Paese ma sicuramente razionale, che quindi con i dollari che le vengono ceduti in cambio di euro acquista attività denominate in dollari (con relativa annotazione in uscita nella bilancia dei pagamenti).

Punto.

È così difficile? Apparentemente sì, se perfino LVI non capisce che non puoi chiedere al contempo più competitività e meno fuga di capitali! La competitività, in quanto venga raggiunta, si manifesta come esportazione di merci e quindi esportazione (o fuga) di capitali.

Ri-punto.

Ma c’è un’altro aspetto su cui non si riflette abbastanza, che nessuno vede (strano…), nonostante sia sotto gli occhi di tutti, nonostante perfino 🍇 lo abbia in qualche modo confessato a denti stretti.

Seguitemi: per esportare devi essere competitivo, giusto? Per essere competitivo devi tagliare i salari (lo ha detto Draghi), giusto? Ma se i salari di ingresso sono troppo bassi, che cosa fanno i giovani migliori? Ma è semplice: emigrano in cerca di migliori opportunità! Quindi in un’unione monetaria chi vuole esportare merci vuole esportare capitale umano, vuole separarsi dai propri figli.

Dite che non vuole?

Eh, no: Keynes dice che vuole, perché ricordate che cosa afferma ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”? Ve lo ricordo: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo”! Quindi quando sentite qualcuno, come 🍇 o chi gli è intellettualmente subalterno, parlare di competitività della nostra economia sappiate che lui vuole separarvi dai vostri figli, di quello sta parlando, perché ora funziona così, perché qualcuno (non noi) ha voluto che funzionasse così. Il presupposto per non esportare capitale umano è un mercato interno florido e dinamico, è un modello di crescita basato sulla domanda interna, e quindi wage led, non export led.

Aspetto argomentate confutazioni di queste ovvietà.

Ma ora… decollo per Genova!

Destroying domestic demand: il disegnino

Credo che qui tutti ricordino le parole di Monti: "We are actually destroying domestic demand..." (per chi se le fosse dimenticate o non le avesse mai sentite sono qui), la spudorata confessione del fatto che le politiche procicliche, il consolidamento fiscale, insomma, l'austerità, era stata una politica deliberata volta a recuperare competitività, come oggi ammette lo stesso Draghi:


(per i diversamente capaci di unire i puntini: in altre parole, il risanamento dei conti pubblici era solo un pretesto per effettuare politiche redistributive accampando uno stato di necessità, e infatti i conti pubblici non li abbiamo risanati e mai avremmo potuto farlo così per i motivi a suo tempo esposti).

Per un qualche motivo mi è venuta voglia di fare il disegnino di questo bel capolavoro, non tanto quello dell'Italia (ormai lo conoscete), quanto quello dell'Unione Europea:


Qui vedete i dati dell'OCSE. Notate che gli Stati Uniti viaggiano su livelli di domanda interna (definita come somma di consumi, compresi quelli pubblici, e investimenti, compresa la variazione delle scorte) superiori al 100% del Pil: è un dato coerente con la loro posizione di importatori netti. Noterete anche che dalla metà degli anni '90 sostanzialmente all'inizio della crisi dei subprime questa percentuale è andata crescendo, fino a quando il botto del 2008 non ha un po' ridimensionato la domanda interna (via crollo del credito).

Il tracciato europeo è molto diverso. Per sedici anni il peso della domanda interna è rimasto sostanzialmente costante. Poi, dopo il 2011, si è ridimensionato bruscamente, scendendo di più di due punti percentuali, per poi rimanere su un sentiero inferiore.

Questa cosa si vede anche coi dati AMECO:


e anche coi dati Eurostat:


Insomma: è nei dati.

Nei dati, naturalmente, c'è anche quella che abbiamo chiamato la "sostituzione etnica" di una platea di consumatori con un'altra:


Si vede bene, no?

Qui gli ultimi tre anni sono previsti, e la previsione è che a breve questo assetto rimanga invariato, nonostante i pressanti e accorati appelli a rinvigorire la domanda interna (ma anche la competitività, cioè la domanda estera) dell'Eurozona. Il grafico si divide esattamente in due: nella prima metà, il mercato interno funziona (i tedeschi vendono e i PIGS comprano), e quindi i conti con l'estero sono in equilibrio. Nella seconda metà il mercato interno non funziona: i tedeschi vogliono vendere ma i PIGS non possono più comprare (essendo stata destroyed their domestic demand, cioè i loro redditi), per cui il surplus produttivo si scarica all'estero generando gli squilibri che sappiamo e cui gli Stati Uniti hanno reagito come sappiamo.

Dice: "E vabbè, ma quanto sò incazzosi gli americani! Che vuoi che siano tre punti di Pil di surplus!? Sta a gguardà er Pil nell'uovo..."

Beh, come vi ho spiegato il 5 marzo a Roma, tre punti di Pil sò 400 mijardi di euro, e la storia ci insegna che gli americani hanno ucciso (figuratamente, e non solo) per molto meno:


Lo so, sono cose che sapete, che sappiamo, soprattutto qui (le sappiamo dal 2011, da prima che ce le spiegasse Monti, cui noi spiegammo in anticipo il suo fallimento: Draghi con tutto il rispetto non è nemmeno in partita!...).

Tuttavia, pensavo che questo disegnino:


potesse interessarvi.

Sperando di aver fatto cosa gradita, mi pregio pertanto di porgervi i miei più cordiali saluti (e vado a fare un altro disegnino).

Il vostro affezionatissimo,

Guru.

Ci vuole più freddezza

Com’era inevitabile, in queste ore i nodi stanno venendo al pettine, in una misura onestamente inattesa anche per chi vi scrive. Che però ci fosse qualcosa di sostanzialmente fallace nell’argomento secondo cui Trump o Elon fossero “uno di noi” qui, visto che nessuno ci legge, ci siamo sempre permessi di dirlo. Si tratta di un problema metodologico generale. Il mondo è troppo complicato per darci la garanzia che il nemico del nostro nemico (in quale battaglia?) sia matematicamente nostro amico, o amico dei nostri amici (cioè di altri nemici dei nostri nemici). Come corollario, quindi, non c’è nulla di così strano nel fatto che due nemici dei nostri nemici scoprano di non essere amici!

Questo dobbiamo sempre tenerlo a mente. Le grida di vittoria per battaglie vinte da altri, in altri paesi, su altri presupposti, in altri contesti, possono avere il significato tattico di rinforzare il morale della truppa, di rinsaldare il consenso. È successo anche a me, anch’io mi sono abbandonato a questa tentazione. Ricordo il mio intervento, che forse pochi di voi ricorderanno, al palazzo delle stelline a Milano nel 2016 quando ironicamente esordii con: “Dio è con noi, e adesso è con noi anche Trump!” Parlo ovviamente dello stesso Trump che poi, in un momento difficile di questo paese, fece il noto endorsement a Giuseppi. Cose che all’epoca era praticamente impossibile immaginare, anche per chi aveva scritto da poco il post in cui prevedeva che Pd e 5 Stelle si sarebbero saldati (ma onestamente la benedizione degli Stati Uniti a questo improbabile coniugio non me l’ero immaginata, non essendo per me chiaro allora, come non lo è ora, l’atteggiamento degli Stati uniti nei confronti del Problema, che è e resta l’euro, il che mi suggeriva di non addentrarmi in pronostici per i quali mi mancava un elemento essenziale).

Naturalmente questo non vuol dire che l’emersione di fatti o persone disruptive non debba essere salutata come un elemento positivo. Certamente lo è! Non vuole nemmeno dire che quanto terrorizza, destabilizza, o anche semplicemente infastidisce il Santo sinedrio piddino non sia di per sé un dato tattico positivo. Visto che non ci piace dove siamo, qualsiasi cosa smuova le acque è ovviamente benvenuta, perché in qualche modo ci aiuta a spostarci. Questa però è tattica, cioè la risposta alla domanda: come mi sposto, o come creo i presupposti per spostarmi? La strategia è una cosa diversa, risponde a un’altra domanda: dove voglio andare? Provando a definire in sintesi questo obiettivo, potremmo dire che vogliamo andare verso un mondo in cui la distorsione del mercato e l’ingerenza estera (entrambe a nostro danno) non siano l’essenza stessa delle istituzioni che ci governano, concorrendo ad aumentare la disuguaglianza e la tensione sociale. Un mondo cioè in cui la classe media e i ceti produttivi possano riappropriarsi di un minimo di voice e migliorare la loro posizione in termini reddituali dopo anni di arretramento relativo.

Vorremmo anche arrivarci vivi.

La questione che si pone quindi è su quali sponde dobbiamo giocare per mandare la palla in quella buca lì. Questo non presuppone necessariamente che i nostri compagni di strada la pensino come noi o abbiano i nostri obiettivi. Presuppone però un’altra cosa: che non ci dimentichiamo mai che il nostro interesse riguarda noi, non gli altri, che non possiamo chiedere ad altri di combattere la nostra battaglia, che se noi non siamo dalla nostra parte, nessun altro ci sarà, e che qualsiasi “vittoria” che non sia agita da noi non ci dà alcuna garanzia di avvicinarci in modo significativo ai nostri obiettivi. Presuppone cioè un minimo di freddezza, quella che consiste nell’essere consapevoli che non esisterà un evento palingenetico, una “vittoria risolutiva“, che nulla ci solleverà dal duro compito della militanza e del conflitto (che è poi il motivo per il quale continuo a tenere vivo questo blog).

Per questo motivo sconsiglierei di parteggiare per l’uno o l’altro dei contendenti. Sì, è abbastanza evidente che Musk ha una visione, come dire, un po’ rudimentale del debito pubblico. Tuttavia, non credo che il problema principale sia esattamente lì, se anche lo fosse non credo che si possa risolvere con un momento didattico (in questo senso quello che è successo con Salvini rappresenta probabilmente un’eccezione nella storia mondiale), non credo che il suo ex amico con cui ora sta baruffando sia un raffinato analista della teoria post-Keynesiana della sostenibilità del debito, e, per spostarci su un altro piano, sono un pochino scettico sul fatto che si possa prescindere dalla tecnologia di cui Musk dispone (e non parlo di auto). Quanto all’altro contendente, è indubbio che abbia scelto come vice un eloquente cantore dell’epopea della classe media, è (o sembra) evidente che nel conflitto fra Wall Street e Main street abbia scelto di schierarsi dalla parte di quest’ultima, tuttavia, se avessi un euro da scommettere, preferirei scommetterlo sui Lupi di Pizzoferrato in finale di Champions League, piuttosto che sull’idea che un miliardario statunitense passi le sue notti leggendo le analisi del capitalismo produttivista di Froud et al. (l’ultima volta ne abbiamo parlato qui, e nel frattempo pare che la Bce si sia accorta anch’essa del problema), ragionando su come sganciarsi dal coupon pool capitalism magari ristabilendo un minimo sindacale di financial repression. Non credo, e non glielo auguro, considerando che gli hanno sparato per molto meno!

Come dicevo qualche sera fa a una tavolata di manager, il fatto che la sinistra non difenda più i lavoratori per noi è un disastro, perché costringe noi a farlo, raddoppiando il nostro lavoro! Era ovviamente una battuta e così è stata intesa (volendo essere seri, dovremmo invece fare un discorso su perché la sinistra abbia rinunciato, bollandolo come interclassismo, al tentativo di tracciare una demarcazione tra interessi di classe rispondente alla realtà odierna, non a quella di due secoli fa), ma ci avvicina a un punto con cui vorrei concludere il mio sermone.

Il problema insito nell’aspettarsi che siano altri a combattere le nostre battaglie non è solo nell’indurci a una postura passiva, nel suggerirci di stare sdraiati sotto al palmizio della storia aspettando che cada la banana (o la noce di cocco?) del risultato da noi auspicato. Il problema è più sottile, e consiste nel rischio di illudersi, in un vuoto ideologico generale, che gli obiettivi del nostro alleato pro tempore, la sua ideologia, debbano necessariamente essere i nostri. Non è così e il rischio di abbagli è presente e concreto. Tanto per fare un esempio, la cosa che più mi preoccupa dell’intera vicenda dei dazi è la controproposta di “dazi zero“, che oltre a essere abbastanza insensata di suo, smentisce tutto quello che qui abbiamo sempre detto (prevalentemente da sinistra) e la Lega ha sempre detto (verosimilmente da destra) sui limiti del liberoscambismo (pensate alla battaglia contro TTIP e CETA, ad esempio).

Mi sembra un problema per noi lievemente più grave, non fosse altro perché ci riguarda direttamente, rispetto al fatto che il noto miliardario abbia idee troppo convenzionali sul debito pubblico.

Ma questo ve lo scrivo qui, dove nessuno lo legge, con la solita clausola: speriamo di avere torto!



giovedì 5 giugno 2025

Inflazione, energia e logaritmi

(...breve momento didattico sulla presentazione dei dati...)

Utilizzando il Pink sheet e i World Development Indicators ho costruito questo grafico che accosta l'indice del prezzo dell'energia (globale) all'indice dei prezzi al consumo italiano:

Si nota che l'indice dei prezzi dell'energia è più volatile dell'indice dei prezzi al consumo e la correlazione fra i due indici è relativamente debole. Dato che le due serie hanno entrambe tendenza crescente, la loro correlazione va filtrata su serie depurate dalla tendenza (prendendo le differenze prime o i tassi di crescita), altrimenti si otterrebbe una correlazione spuria (le due serie sembrerebbero in relazione semplicemente perché sono entrambe crescenti, ma questa correlazione potrebbe essere illusoria, come in questi casi). La correlazione fra i tassi di crescita è 0.33.

C'è tuttavia un problema: l'indice dei prezzi dell'energia è in dollari, ma l'indice dei prezzi al consumo dell'Italia è in valuta nazionale, che non è mai stata il dollaro! Possiamo convertire l'indice dei prezzi dell'energia in valuta nazionale moltiplicandolo per il cambio "valuta italiana/dollaro" (in LCU per US$, local currency units  per dollaro, costo in valuta italiana di un dollaro). Dato che i prezzi sono espressi come indici, possiamo ribasare il tasso di cambio perché valga 1 nell'anno base, in modo che gli indici continuino a valere 100 nell'anno base. Il risultato è:


e la correlazione (calcolata sui tassi di crescita) aumenta a 0.41. Si noti che l'aver espresso i prezzi dell'energia in valuta nazionale, anziché in dollari, non altera poi in modo così drammatico il profilo della serie, contro la narrazione secondo cui quando c'era la liretta occorrevano carriole di banconote per un barile di petrolio (se fosse stato così, in questo grafico il costo dell'energia dovrebbe schizzare verso l'alto negli anni della lira, per poi scendere, ma invece il suo profilo è molto simile al quello del costo espresso in dollari).

In ogni caso, la situazione dei prezzi dell'energia sembra molto più disastrosa verso la fine che verso l'inizio del grafico. Anche questa è un'illusione ottica: dipende dal fatto che 1 è il 10% di 10 ma solo l'1% di 100: all'inizio del grafico, partendo da valori bassi, anche variazioni impercettibili erano in realtà percentualmente rilevanti. A questo si rimedia prendendo la scala logaritmica, che trasforma i dati in modo che la pendenza della curva corrisponda al tasso di crescita percentuale della curva stessa:


Inquadrati (correttamente) così, si vede che gli shock petroliferi degli anni '70 sono stati fenomeni molto più devastanti dell'ultima crisi energetica che tanto ci ha fatto penare.

Del resto, lo si potrebbe vedere anche prendendo i tassi di crescita delle variabili:


Qui si notano due cose: che le variazioni dei prezzi dell'energia negli anni '70 raggiunsero picchi del 250%, mentre l'episodio più recente vede un incremento intorno al 75%: non lamentiamoci troppo! La seconda cosa interessante è che la risposta dell'inflazione allo shock di offerta è sostanzialmente proporzionale nel tempo. Con un picco di crescita dei prezzi dell'energia intorno al 200% si ebbe un picco di inflazione intorno al 20% e con un picco di crescita dei prezzi dell'energia intorno al 70% si è avuto un picco di inflazione attorno al 7%. Il pass-through da prezzi globali dell'energia a prezzi al consumo è rimasto quello, circa il 10%. Quella che è cambiata, evidentemente, è la persistenza della risposta inflattiva allo shock: negli anni '80 la discesa dell'inflazione fu più lenta, prese un decennio, nonostante il controshock petrolifero del 1986. Ai giorni nostri è stata pressoché immediata, come dicono anche le cronache.

La maggior persistenza è attribuita all'operare di meccanismi di indicizzazione dei salari. Quello che mi colpisce (ve ne avevo già parlato), però, è che il pass-through sia rimasto sostanzialmente identico. Insomma: se oggi incorressimo in uno shock da offerta come quelli degli anni '70, cioè se il prezzo dell'energia triplicasse, avremmo nuovamente un'inflazione in doppia cifra al 20%.

Basta saperlo.

(...ci dormo sopra...)

lunedì 2 giugno 2025

Alla ricerca del fondo perduto (il PNRR e i fuuuuurbi)

Corrado Luciani ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Chi ha dato e chi ha avuto: i numeri veri dei fondi UE":

Commento tardivo perché ho letto l'articolo da poco. Tuttavia i contributi a fondo perduto (esclusi quindi i prestiti) vengono restituiti non completamente, ma pro quota in base al PIL e quindi comunque sborsiamo una parte e non tutto quello che abbiamo ricevuto (comunque ben superiore alla pro quota del PIL). Non è così?

Pubblicato da Corrado Luciani su Goofynomics il giorno 2 giu 2025, 08:48


No, non è proprio così. E non lo è, caro Corrado, per motivi in effetti non agevolmente verificabili. Sul PNRR sei stato disinformato anche tu, come tutti, e di questo non sei certo colpevole. Tuttavia, già l'insistere a chiamare "a fondo perduto" una cosa che a fondo perduto non è (io dico sempre: "le sovvenzioni, cioè i contributi cosiddetti a fondo perduto") è parente del perseverare a chiamare Europa l'Unione Europea, e questo in noi suscita un sentimento di sospetto.

Ma ragioniamo spassionatamente.

Noi abbiamo avuto sovvenzioni per quasi 72 miliardi:


(fonte: la solita), su un totale di sovvenzioni pari a 359 miliardi:


per cui, come correttamente evidenzi, la percentuale di "fondo perduto" è stata superiore alla nostra percentuale sul Pil dell'Eurozona (in effetti andrebbe utilizzato il Reddito nazionale lordo, ma stranamente Eurostat non lo dà e quindi ci teniamo il Pil): rispettivamente, il 19.99% (facciamo il 20%) dei grants a fronte del 12.4% (facciamo 12%) del Pil (poi c'è da controllare se anche qui si usi la PPA e quanto sia il saldo dei redditi primari dall'estero, ma non entro in questo, sono comunque decimali). Vale anche la pena di dare l'ordine di grandezza di questo insigne favore ricevuto: la differenza fra il 20% e il 12% è l'8% dei grants (che avremmo ricevuto in eccedenza rispetto alla proporzione del nostro Pil sul totale europeo), cioè 0.08x359/6 = 4.78 miliardi l'anno (cioè un po' più della metà dei titoli collocati con l'ultima asta dei Btp Italia).

Comunque, finché si tratta di prendere, possiamo anche pensare che ci sia andata bene (ovviamente, senza voler considerare i costi di transazione determinati principalmente dal non poter decidere le priorità di spesa e dal dover sostenere i costi di una serie di nuovi adempimenti burocratici, fra cui il ReGiS).

Si dimentica però sempre che il rimborso, invece, andrà fatto pro quota e noi siamo contribuenti netti.

Ora, il punto che a tutti sfugge (perché viene accuratamente tenuto nascosto) è questo: quanto andrà rimborsato? Il fatto è che nessuno lo sa esattamente. Per quanto possa sembrare strano, il primo studio scientifico sugli scenari di rimborso del "fondo perduto", cioè delle sovvenzioni, cioè sulla parte che incombe sul bilancio europeo, è stato fatto nell'ottobre del 2023 per la Commissione bilancio della precedente legislatura europea su richiesta dei cattivissimi sovranisti e lo trovi qui. Soggiungo che richiesto da chi vi parla se esistessero studi precedenti su questo tema non banale nel quadro di una audizione parlamentare svoltasi il 27 marzo scorso:


il Commissario al bilancio, Piotr Serafin, non ha risposto (del resto, ha voluto un incontro informale, senza stenografico né sommario, proprio per evitare che le sue non risposte venissero non messe a verbale)! Quindi, in base al brocardo qui tacet adsentire videtur, fino a prova contraria la Commissione un piano finanziario sufficientemente articolato per scenari e ipotesi verosimili sull'evoluzione dei tassi di interesse non ce l'aveva, e qui lo sappiamo bene, altrimenti a maggio 2023 non sarebbe scoppiato questo gran casino:


ricordato dall'ottima Pacione De Bello (e alla base della richiesta di approfondimento dei parlamentari del gruppo ID). Mi affretto a dire, per fugare equivoci, che gli autori dall'approfondimento sono tre economisti di provatissima fede europeista (in particolare, io ho conosciuto Claeys quando ero vicepresidente di INFER, come qualcuno ricorderà): basta guardare i loro CV e le loro pubblicazioni per rendersene conto (qui quelle dell'ortodossissimo Gregory).

Ora, to make a long story short, il succo dei loro findings è questo qui:


al bilancio europeo il rimborso del "fondo perduto", fra capitale e interessi, costerà una roba fra i 582 e i 715 miliardi (nel grafico che rappresenta il profilo del rimborso in blu c'è la quota capitale, in arancione la parte di interessi). Ora, volendo fare un ragionamento grossolano, il 12% di 582 miliardi (scenario ottimistico) è 69.84 miliardi, mentre il 12% di 715 miliardi è 85.8 miliardi (naturalmente spalmato sul periodo di restituzione, ci mancherebbe).

Ora, il calcolo può essere complicato a piacere. Suggerisco due direzioni: nel periodo del rimborso noi non saremo solo contribuenti, ma anche beneficiari del bilancio comunitario; inoltre, come ogni prestito, anche le sovvenzioni aiutano a risolvere un problema di liquidità.

Giusto!

Tuttavia: noi resteremo per forza di cose contribuenti netti al bilancio comunitario (avendo un Pil pro capite maggiore di quello degli altri e in crescita), e quindi non dovremo ringraziare nessuno, mentre qualcuno dovrebbe ringraziare noi. Inoltre, il problema di liquidità poteva essere risolto da Draghi quando vigeva la clausola di sospensione generale e il debito era a costo virtualmente nullo: perché si è scelto questo modo così opaco e bizantino di gestirlo?

Perché quello che si voleva, quello che Conte, in particolare, voleva, e ci fu chiaro fin dal suo primo discorso in Senato (con quell'incongruo richiamo all'Unione Bancaria, del tutto non concordato e fuori linea), era rendere il Paese schiavo di Bruxelles. Siamo riusciti a impedirgli di realizzare questo suo piano via MES, ma non siamo riusciti a impedirgli di realizzarlo via PNRR, che resta, sotto questo profilo, un MES che ce l'ha fatta.

Ma attenzione: potrebbe andare ancora peggio! Se leggete con attenzione lo studio di Claeys et al. ci troverete la parola del demonio: rollover. Quello sarebbe l'inizio della fine, e uno dei modi per introdurlo potrebbe anche essere la (lodevole) intenzione di gestire in modo meno drastico il piano di rientro da NGEU. Sarebbe però mettere il piede nella porta degli Eurobond, cioè della definitiva fine della nostra autonomia decisionale.

Pensiamoci bene!

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