Uno dei principali problemi di chi vuole uscire dall’Unione europea e
dall’Euro è quello di costruire una grande alleanza sociale e politica capace
resistere alla dura reazione che i grandi poteri nazionali (ma soprattutto
internazionali) non mancherebbero di scatenare di fronte a questo
“inaccettabile” gesto di autodeterminazione. Un’alleanza capace, quindi, non
solo di guadagnare il consenso politico e morale di milioni di cittadini ed
elettori, ma anche di metter mano ad un concreto programma alternativo di
rilancio dello sviluppo del paese, base materiale della resistenza contro le
iniziative ostili che, almeno in un primo momento, si concretizzerebbero
proprio nel tentativo di strangolamento economico. Una simile alleanza non può
non prevedere un riavvicinamento di ciò che in questi anni è stato (a volte
artificiosamente) separato: e quindi una riunificazione dei diversi spezzoni in
cui si è frammentato il lavoro dipendente, ed una nuova relazione tra l’intero
mondo del lavoro dipendente ed una parte significativa delle piccole e medie
imprese. Questo riavvicinamento si presenta indubbiamente come cosa assai
difficile, e richiede decisi mutamenti di atteggiamento sia agli uni che agli
altri. Proprio per questo conviene parlarne da subito, e con franchezza,
precisando che quanto dirò vale sia nell’ipotesi di una rottura prodotta dal
nostro paese che nell’ipotesi di una rottura subita: le turbolenze ed i rischi
di regressione in questo secondo caso non sarebbero inferiori (anche per la
presenza di una ormai innegabile tendenza alla guerra) alle conseguenze di un
nostro scatto di dignità nazionale.
Ogni discorso che riguardi l’alleanza tra le diverse classi che oggi
subiscono la sottomissione all’euro ed all’Unione europea non può non tener conto di un fatto tanto
macroscopico quanto spesso sottaciuto. Ossia
del fatto che in Italia, negli ultimi 30 anni o giù di lì, l’unica classe
sociale che non ha goduto di una propria, autonoma, rappresentanza
politica, né ha potuto giovarsi di
organizzazioni categoriali che non fossero colluse con la controparte, è la
classe dei lavoratori dipendenti, o comunque subordinati. Mentre le diverse
categorie di imprenditori, pur perdendo tradizionali “tutori” della Prima
repubblica, ne hanno trovato subito altri e più aggressivi, la classe dei
lavoratori dipendenti è scomparsa come classe politicamente autonoma
(ovviamente il presupposto di questo discorso è che il PD non sia né un partito
“laburista” né un partito almeno interclassista come la vecchia DC), e nello
stesso linguaggio comune si sono affermati come protagonisti solo gli
imprenditori da una parte ed i consumatori dall’altra. Questo drastico
mutamento della costituzione materiale del paese (precondizione dei diversi
stravolgimenti della costituzione formale) ha consentito lo stabilizzarsi di un
modello di sviluppo assai fragile, perché fondato quasi esclusivamente sulla
compressione dei salari, ed ha visto il suo apogeo nella sostituzione della
lira con l’euro, sostituzione che appare quindi non come causa esclusiva o
principale della compressione dei salari , ma come ulteriore (ed in certo qual
modo “definitivo”) strumento di una strategia di classe iniziata da tempo e
concordemente perseguita da tutte le frazioni dei capitalisti nostrani.
Ora, e per fortuna, una parte non trascurabile degli imprenditori si
pronuncia con durezza contro l’euro e comincia a deprecare gli effetti di una
flessibilità del lavoro che inevitabilmente conduce alla depressione della
domanda interna. Una alleanza con questi imprenditori è dunque possibile, utile
e necessaria. Non solo perché si tratta di forze economicamente rilevanti e
quantitativamente ingenti (stiamo infatti parlando soprattutto di piccoli
imprenditori), da cui non si può prescindere nella dura battaglia che si
profila. Ma anche perché un’alternativa credibile al modello di società vigente
in Italia, se deve necessariamente prevedere, come io credo, una decisa
estensione della proprietà pubblica sui grandi gruppi industriali e bancari,
prevede altresì la persistenza (ed in buona misura anche la tutela) di un forte
settore di piccola e media industria dinamica, oltre che di un Terzo settore
liberato dalla sua funzione di grimaldello della privatizzazione. Bene. Ma la
condizione preliminare per un’alleanza seria è proprio il riconoscimento della
specificità e dell’autonomia di tutti gli interessi in causa, quindi anche (e direi “soprattutto”, visto il
clima culturale attuale) di quelli dei lavoratori dipendenti e subordinati.
Nessuna alleanza è possibile se si presenta come illusoria
cancellazione delle differenze di classe, piuttosto che come intelligente
mediazione fra esse. Quella parte di imprenditori che intende liberarsi dal
giogo dell’euro e dell’Unione europea e che più di altri subisce il calo della
domanda interna dovrebbe quindi non solo divenire consapevole della necessità
di un ampio fronte sociale, ma anche comprendere che, perché un tale fronte si
costituisca e funzioni, la flessibilità del lavoro deve essere sostituita, nel
suo ruolo di incentivo alla crescita, dall’intervento dello stato quale fornitore
di credito e quale agente dell’espansione della domanda. Deve, insomma, essere
abbandonato quel modello liberista che ha avvelenato l’Italia per troppi anni,
che ha impoverito i salariati e che ha offerto alla piccola impresa illusori
margini nei tempi buoni, per poi soffocarla all’arrivo della crisi.
E’ per questi motivi che non credo che le attuali forze politiche
della destra (nemmeno quelle che sono momentaneamente esterne all’area di
governo) siano in grado di promuovere la grande alleanza oggi necessaria: sono
troppo legate al modello liberista (interpretato sovente come un liberismo a
metà, che funziona esclusivamente sul mercato del lavoro), troppo inclini a
spazzar via l’euro tenendosi però la flessibilità del lavoro e, aggiungo, troppo
atlantiste per poter affrontare davvero il problema. La posizione della destra
sui diritti civili, che a volte viene sbandierata come ostacolo di principio a
qualunque tipo di convergenza, qui c’entra poco o nulla. Non la condivido
assolutamente. E penso che, pur se è diventata, per la “sinistra” il sostituto
di ogni politica d’eguaglianza e il pretesto per appoggiare le più ipocrite
guerre, la battaglia per i diritti civili resti fondamentale per la costruzione
di un socialismo non autoritario (che non abbisogni, quindi, di capri espiatori
da individuarsi oggi negli omosessuali, domani negli immigrati, negli “alternativi”
e poi chissà…). Ma tutto ciò non impedirebbe un’ alleanza con qualsivoglia
forza di destra costituzionale che avesse un accettabile programma economico di
fase. Ciò che oggi ostacola tale alleanza non sono le idee sulla fecondazione
eterologa, ma quelle che riguardano le modalità di assunzione e licenziamento,
per intenderci. Certo, mi si può obiettare che l’importante, adesso, è unirsi
contro l’euro: per il resto si vedrà. E si può aggiungere che pur se non si
crea una vera alleanza, una semplice convergenza su obiettivi comuni in sedi
comuni può essere comunque utilmente perseguita. Concordo: figuratevi che sarei
disposto a convergere anche col PD, se mai fosse tatticamente necessario,
perché non dovrei farlo con Crosetto? Perché dovrei porre veti alla destra
populista e non farlo con la destra tecnocratica, momentaneamente rappresentata
dal traballante Renzi? Il problema è, però, che le convergenze tattiche con
questo e quell’altro non basteranno: la scelta di uscire dall’euro e di darsi
un modello di sviluppo capace di far davvero progredire il paese è talmente
ardua e difficile, talmente forti saranno le reazioni ad essa che soltanto una
profonda e stabile unità dei cittadini italiani (e di coloro che cittadini
ancora non sono e dovrebbero comunque esserlo) potrà consentirci di
attraversare questo passaggio. Anche solo per unirsi efficacemente contro
l’euro, e per uscirne bene, è quindi necessario un programma che possa davvero
convincere i lavoratori dipendenti, ossia la grande maggioranza dei cittadini,
che oltre l’euro non c’è la temuta catastrofe inflazionista, non c’è “solo” la
svalutazione, ma anche il rilancio della domanda tramite investimenti pubblici
e la fine della precarietà.
La costruzione dell’alleanza passa quindi per una trasformazione della
cultura e degli atteggiamenti degli imprenditori italiani.
Ma una trasformazione di non minore entità deve riguardare la cultura
e gli atteggiamenti dei lavoratori. Che oggi sono alleati del capitale
europeista, oppure del capitale semi-protezionista colluso col primo, oppure
stanno a guardare. Che in buona sostanza oscillano tra ribellismo (a parole,
per ora) e conservazione. Mentre il ribellismo non ha bisogno di particolari
spiegazioni, qualche riflessione in più merita l’atteggiamento conservatore dei
lavoratori, e non solo quello dei lavoratori più culturalmente deprivati e più
isolati che, secondo diverse analisi, spaventati dalla globalizzazione e dai
rischi dell’individualismo ripiegano nell’appoggio alle forze tradizionalmente
definite come conservatrici. Mi interessa piuttosto il conservatorismo della
parte più politicizzata e organizzata dei lavoratori, quella che si riconosce,
in larga misura, nei sindacati maggioritari e nel PD ossia nelle forze che
hanno attivamente promosso la modifica in
peius dei rapporti sociali in Italia. Perché pagare tessere a chi, tanto
per dirne una, è incapace di inscenare una qualche pur apparente protesta
contro la signora Fornero? Perché un popolo che ad ogni piè sospinto se la
prende con le banche continua a votare
chi delle banche è terminale politico? Una spiegazione razionale forse c’è.
Mentre i grandi e medi imprenditori possono avere influenza politica anche
senza riferirsi stabilmente ad una organizzazione categoriale o partitica (vuoi
perché riescono a farsi tutelare direttamente dallo stato, vuoi perché possono
fare lobbying o costruirsi partiti ad hoc), mentre i piccoli imprenditori
hanno, nei confronti dell’organizzazione, un atteggiamento impastato di
strumentalismo, diffidenza, difesa della propria autonomia e propensione alla
defezione, i lavoratori sanno invece di non poter avere alcuna influenza
politica se non come membri o sostenitori di organizzazioni. E quindi quei
lavoratori che vogliono avere un peso politico tendono ad accettare e
conservare (appunto) le organizzazioni ereditate dal passato (soprattutto
quando sono, o appaiono, “grandi”) pur conoscendone i limiti, pur
sperimentandone a volte con rabbia, giorno dopo giorno, lo snaturamento, finché
non sopraggiungano eventi fortemente traumatici e finché non emerga una
credibile alternativa.
Ora, i lavoratori organizzati
(che spesso sono parzialmente privilegiati rispetto agli altri) hanno fino ad
oggi vissuto gli eventi traumatici legati alle vicende europee in maniera
relativamente diluita ed attutita: la paura di perdere quel poco che hanno è
finora superiore alla pur crescente rabbia verso il tangibile impoverimento
delle classi subalterne, e verso il comportamento quotidiano del sindacato e
del PD. E d’altra parte non s’è vista nessuna vera alternativa. Un po’ perché
il PD è riuscito ancora una volta, con Renzi, ad imbrogliar le carte
presentandosi “alternativo a sé stesso”: fedele esecutore delle direttive
europee ma anche fermo critico dell’ottusità teutonica e tenace difensore delle
prerogative nazionali (!). Un po’ perché
i concorrenti si dimostrano, ahinoi, incapaci. Il sindacalismo alternativo e
“di classe” non riesce a conquistare lo spazio che pure meriterebbe: e ci si
dovrà presto chiedere il perché. La sinistra che per abitudine definiamo
radicale, quando non ha ridotto il suo messaggio alla retorica dei diritti e
della democrazia partecipata, ha proposto ai lavoratori un modello mutuato
dagli anni '70 ed oggi impraticabile: quello della priorità del
"sociale" sul "politico", quello di un conflitto che nasce
come conflitto sindacale e sociale, su questa base cresce, e solo
successivamente, e a poco a poco, investe il terreno della politica e dello
stato. Modello impraticabile, dicevo, perché oggi le condizioni del mercato del
lavoro rendono molto difficile la mobilitazione diretta dei lavoratori sul
terreno economico-sociale e impediscono la costruzione di piattaforme sindacali
capaci di avere impatto sulle decisioni politiche. Oggi, piuttosto,
l'iniziativa dei lavoratori e la stessa lotta di classe possono avere efficacia
solo se si presentano come iniziativa immediatamente politica, che investe da
subito il terreno dello stato e che mobilita i lavoratori stessi non semplicemente
come membri di una classe, ma anche come cittadini. Il filosofo della politica
direbbe che quel passaggio da "lavoratore" a "cittadino"
che, a partire dagli anni '80 ha accompagnato il momentaneo tramonto della
lotta di classe riassumendosi nella figura del "cittadino
consumatore" (il quale grazie alla concorrenza avrebbe dovuto, secondo i
diversi Veltroni della sinistra, guadagnare appunto come consumatore quel che
andava perdendo come produttore) oggi può presentarsi invece come potenziamento
della lotta di classe quando mette capo alla figura del "cittadino
ribelle" che si mobilita immediatamente per la destituzione delle attuali
élite, e quando a tale destituzione consegue una seria redistribuzione del
potere politico ed economico.
Questo mutamento della forma
dei conflitti, che risulta del tutto incomprensibile alla sinistra radicale e
ne spiega l’irrilevanza, è stato invece intuito dal M5S che proprio ponendosi
come portabandiera dei cittadini contro i potenti, e proprio ponendo con forza
l’obiettivo della conquista del potere e della democrazia diretta ha saputo
compiere il miracolo di costruire “dal nulla” un’alternativa elettorale. Solo
che il M5S, oltre ad essere troppo oscillante sulla questione dell’Europa, ha
il difetto di interpretare il tema della cittadinanza come diluizione e non
come spostamento del conflitto di classe. I “cittadini” appaiono come una massa
indistinta che unitariamente lotta contro il “potere”, e non si perde tempo a
cercare di comprendere le differenze di interessi trai diversi gruppi sociali e
a cercare di mediarle. In poche parole, il M5S non è stato finora in grado di
porre il problema della grande alleanza ed anzi le più importanti dichiarazioni
del suo leader sono spesso improntate ad una datata polemica antilavorista, ad
un disprezzo per intere categorie di lavoratori, ad una facile adesione a
versioni piatte della teoria della decrescita che sembrano fatti apposta per
allontanare parti significative del lavoro dipendente. Ben più che alle trovate
di Renzi ed allo stile scomposto di Grillo, il M5S deve il suo momentaneo
arresto alla forse congenita incapacità di entrare in sintonia con la latente
crisi di rappresentanza del lavoro organizzato e quindi all’incapacità di proporre
una credibile alternativa alla grande maggioranza dei cittadini italiani.
Insomma, la diversa percezione della crisi da parte dei diversi gruppi
di lavoratori e l’assenza di alternative politiche spiegano l’oscillazione dei
lavoratori stessi tra ribellismo e conservatorismo. Questa oscillazione finirà
con l’acutizzarsi della crisi e con l’auspicabile creazione di un’alternativa.
La cui concretezza si misurerà anche dal saper affrontare il tema della grande
alleanza che, da punto di vista dei lavoratori, si presenta sotto almeno tre
aspetti.
Prima di tutto si dovrà ricomporre la grande frattura interna al mondo
del lavoro, quella che divide i lavoratori maggiormente qualificati e/o
garantiti da quelli che lo sono di meno: una frattura che tende spontaneamente
a produrre, in assenza di programmi unificanti, comportamenti politici diversi
e spesso opposti. Non si sottovaluti l’importanza di questo lato della
questione: quando si parla della costruzione dell’unità tra la maggior parte
dei cittadini italiani si parla in buona misura della riunificazione del lavoro
dipendente, e quindi di un’operazione che non implica affatto l’attenuazione
dell’autonomia culturale ed organizzativa dei lavoratori, ma il suo contrario.
Poi si dovrà ricostruire l'unità del ciclo produttivo, tentando di
reinternalizzare le "partite iva per forza", ossia quei lavoratori
che sono stati costretti a svolgere come "liberi" imprenditori quelle
stesse funzioni subalterne che prima svolgevano come dipendenti. E si dovrà
anche stabilire un legame duraturo (prevedendo eventualmente forme particolari di welfare) con le fasce alte delle partite iva, ossia con quei
lavoratori di alta qualificazione che non possono ed in ogni caso non intendono
essere ricondotti alla figura del lavoratore subalterno.
E finalmente si dovranno formulare proposte adeguate ad attrarre sia
le PMI in sofferenza, sia quelle più dinamiche ed internazionalizzate. Se per
queste ultime l'alleanza è possibile sulla base dell'ipotesi di nuove relazioni
geopolitiche del paese, e quindi di nuovi mercati, nonché di un ruolo propulsivo
dello stato, per le prime il discorso deve riguardare, più direttamente, la
spinosa questione fiscale. Si dovrà insomma capire che, se è assolutamente
giusto puntare alla regolarizzazione fiscale delle PMI, è peraltro
indispensabile, per evitare un dramma sociale e per non consegnare miriadi di
piccoli imprenditori alla disperazione ed alla destra estrema, proporre uno
scambio tra lealtà fiscale ed intervento pubblico (credito, sostegno alle reti
di impresa, semplificazione della P.A., investimenti diretti) e soprattutto
modulare i tempi della regolarizzazione fiscale su quelli della crisi,
prevedendone la piena attuazione solo in una auspicabile nuova fase di
sviluppo.
Come si vede, per gli uni e per gli altri l'alleanza è tanto
necessaria quanto difficile, perché richiede forti mutamenti negli schemi abituali
di interpretazione della realtà. E la difficoltà è aumentata dall'urgenza. Ma
la durezza dei fatti ci potrà aiutare, soprattutto se sarà accompagnata dalla
chiarezza delle idee.
***
Una postilla sulla distinzione destra/sinistra, che è logicamente
correlata al tema delle alleanze. In sintesi, io penso che l’idea secondo cui
tale distinzione è “superata” sia da respingere, che però la distinzione debba
essere ripensata e che, infine, pur mantenendo la distinzione, non si possano
affatto escludere convergenze tra una ridefinita sinistra, un centro ed una
destra costituzionale.
Che la distinzione destra/sinistra sia ormai superata è tesi da
respingere perché è stata una della condizioni culturali del trionfo del
neoliberismo. Dire che il dividersi tra destra e sinistra è ideologismo
passatista significa dire che di fronte alla presunta modernità dei mercati
finanziari non c’è alternativa. La salita dello spread non è né di destra né di sinistra: è un fatto; il giudizio
dei mercati non fa riferimento a politiche o ideologie: è puramente tecnico. E
così via. La capacità di penetrazione di questa tesi deriva dal fatto che essa
utilizza una piccola verità per nasconderne una ben più grande e importante. La
piccola verità è quella della tendenziale identità di vedute tra le attuali
forze politiche di destra e di sinistra sulle questioni economiche essenziali e
spesso sulle stesse questioni istituzionali: una convergenza tanto palese e
tanto significativa da costituire oggi l’architrave su cui si reggono sia
l’Unione europea che molti degli stati che la compongono. La grande verità che
viene nascosta dall’abbagliante evidenza della prima è che, qualunque sia il
comportamento delle forze politiche attuali, gli individui e le società hanno
sempre la possibilità di scegliere fra alternative diverse e spesso molto
diverse. Il rilevare (decantandola o deprecandola) la convergenza tra destra e sinistra serve invece
in genere a sostenere, surrettiziamente, che è inutile o impossibile pretendere
di operare delle scelte fra alternative reali, quindi che l’universo
capitalistico non è trascendibile, e che gli attuali rapporti sociali sono
insuperabili: e questo proprio mentre essi stanno dimostrando tutta la loro
tragica contraddittorietà.
Tengo dunque ferma la distinzione fra destra e sinistra. Ma per farlo
utilmente devo modificare il termine “sinistra”. Non posso dichiararmi
sostenitore di una “sinistra senza aggettivi”. La “sinistra senza aggettivi” ha
sempre prodotto, in Italia, affarismo parlamentare, corruzione, autoritarismo, guerra.
La sinistra ha senso solo quando si connette alle grandi ideologie di
emancipazione popolare: il comunismo, il socialismo, il cristianesimo sociale e
così via; altrimenti è solo (presunta) modernizzazione, serve solo ad espandere
il cosiddetto mercato, a bombardare popolazioni inermi e a correre in soccorso
del vincitore. Io penso quindi che la distinzione fondamentale, oggi, sia di
nuovo ed ancora (visti gli esiti del capitalismo reale) quella tra comunisti e
no. E più precisamente, siccome per me il comunismo può esistere realmente solo
come combinazione di diversi modi di produzione, quindi come socialismo, dico
che la distinzione significativa è quella tra socialisti e no. Non certo nel
senso che chi non è socialista è necessariamente un nemico del popolo, una
canaglia ecc. . Ma nel senso che le scelte fondamentali, oggi più di ieri,
riguardano i rapporti sociali di produzione, i rapporti di proprietà, e quindi
non (o non semplicemente) i diritti civili, le forme della democrazia o la
stessa politica economica. La distinzione tra socialisti e no ridefinisce, per
quanto mi riguarda, la distinzione fra destra e sinistra. La sinistra è tutto ciò che si avvicina ad una prospettiva
socialista, la implica o comunque non la ostacola radicalmente. Il centro e la
destra sono definiti dalla minore o maggiore distanza dall’ipotesi socialista.
Detto questo, e quindi mantenuta e ridefinita una distinzione, si può
porre positivamente il problema della convergenza tra la sinistra ed una parte del
centro e della destra sul tema dell’euro e dell’Europa. Distinguere nettamente
non serve, in questo caso, ad escludere, ma serve ad unire in maniera più efficace.
Nulla vieta che una sinistra socialista, un centro ed una destra costituzionale
si uniscano nel nome dell’autodeterminazione del paese e del recupero di tutta
la sovranità realmente possibile. E che successivamente si separino senza
tragedie sociali e senza escludere nuove convergenze. Nulla vieta, nemmeno, di
pensare che il soggetto politico di cui abbiamo disperatamente bisogno (quello
capace di guidare il paese in un frangente così difficile verso un più
dignitoso regime economico ed istituzionale) invece di nascere come unione di
preesistenti soggetti organizzati di destra, centro o sinistra, debba
presentarsi da subito come partito unitario democratico-costituzionale, fatto
di persone di diversa cultura politica accomunate dalla scelta di ricollocare
il paese nello spazio internazionale e di costruire rapporti sociali più
coerenti con la Carta fondamentale. Ma tutto ciò è questione di valutazione
concreta delle condizioni attuali, dei rapporti di forza, ecc. . Quindi per ora
mi fermo qui.
Per Aloisio (princeps rosiconorum): ti sento molto competitivo, e quindi voglio aiutarti a rilassarti. Parti da un principio, quello di Gunny: "È una lotta fra la mia forza di volontà e la tua, e hai già perso!"