domenica 19 ottobre 2025

Il ritorno dell'austeritah?

La legge di bilancio è ormai definita, il testo ancora non l'ho visto ma so che c'è ciò su cui mi ero impegnato (e avendomelo detto una fonte autorevole non mi sono troppo sbattuto a cercare bozze: sufficit diei malitia sua), nel giorno stesso della conferenza stampa il Governo è stato promosso da una agenzia di rating, DBRS, che ci ha assegnato la A, riportandoci al rating antecedente alla crisi cosiddetta "dei debiti sovrani" (quella che noi qui nel 2011 e er Piroetta nel 2015 individuammo come una crisi di debito estero, ma lasciamo stare...).

Piddini e sovranistiquelliveri strepitano all'unisono: "è tornata l'austeritah!" I sovranistiquelliveri, a partire da Thelmo e Louiso, accompagnano questa sentenza uggiolando la piagnucolosa lamentazione della mulier derelicta: "Bagnai ha traditoh!"

Questa insolita corrispondenza di amorosi nonsensi fra i subumani (piddini e sovranistiquelliveri) non dovrebbe stupirci, atteso che i secondi sono gli (a giudicare dai risultati non troppo) utili idioti dei primi. Ormai lo abbiamo capito, almeno lo ha capito chi poteva capirlo. Quelli che "però Thelmo e Louiso dicono le cose come stanno!" li lasciamo al loro esito naturale (la pattumiera della storia), regolandoci come meglio ci aggrada sotto il profilo umano (o subumano). Alcuni sono miei amici cari, di cui capisco la frustrazione, e quindi li perdono. Altri non li ho mai cagati considerati, e non vedo particolari incentivi per cominciare a farlo proprio adesso.

Al netto di questo elemento soggettivo, prima di dormire vorrei scrivere due righe al volo sui profili oggettivi della vicenda. Che cosa ci dicono i dati? Dire che "l'austerità è tornata" e quindi "il governo sta uccidendo la crescita" è fare una coraggiosa testimonianza di impegno civile, o è dire una solenne stronzata?

Apro e chiudo una parentesi che sul coraggio civile di chi ha un brillante futuro politico dietro le spalle (Thelmo) o di chi non ha nessun futuro davanti a sé (Louiso) avrei qualcosa da eccepire: forse era un po' più coraggioso un certo docente di economia che sotto concorso prese di petto l'hidalgo de la Sierra e "er Piroetta": sicuramente aveva molto da perdere e poco da guadagnare, a differenza dei sullodati, che nulla hanno da perdere, e hanno visibilità da guadagnare (la visibilità che il sistema presta a chi ostacola chi vuole cambiare le cose), ma non entro in simili valutazioni (sarebbe veramente consolante non doverci entrare, non doversi addentrare nell'ovvio, ma se non dovessimo entrarci, probabilmente non saremmo entrati neanche nell'euro).

L'argomento dei gemelli diversi (i piddini e i sovranistiquelliveri) sembra essere: il Governo fascista farà l'austerità perché ha detto che farà avanzi primari, che com'è noto manganellano la crescita.

Può darsi, ma perché non andiamo a vedere che cosa è successo storicamente?

Questa è la serie della crescita reale e del rapporto fra saldo primario e Pil in Italia dal 1992 (Trattato di Maastricht e svalutazione della lira) a oggi:

(fonte: WEO), e sì, lo vedete anche voi: la correlazione fra le due serie, invece di essere robusta e negativa (cioè: quando l'avanzo primario va su, la crescita va giù, e viceversa), è debole e blandamente positiva, a 0.09, a indicare che quando l'avanzo va su, la crescita va pure lei un pochino su. Per capire meglio che cosa è successo filtrando le variazioni congiunturali possiamo analizzare le medie prese su periodi che abbiano un minimo senso economico:


dove i periodi sono 1992-1998 (stipula del Trattato di Maastricht e avvicinamento all'euro); 1999-2007 (dall'entrata nell'euro all'inizio della crisi finanziaria); 2008-2011 (crisi finanziaria); 2012-2019 (austerità); 2020-2022 (pandemia); 2023-2025 (fasheesmo). La correlazione in questo caso ha il segno giusto:


(negativa, non significativa), ma resterebbe da capire qualcosina. Ad esempio: come mai nel periodo di preparazione all'euro e nei primi otto anni di unione monetaria abbiamo avuto la stessa crescita (1.5%), nonostante che l'avanzo primario diminuisse dal 3.1% al 2.1% del Pil? E come mai nel periodo della pandemia con un saldo primario del -5.3% abbiamo avuto una crescita sostanzialmente identica a quella dei due periodi sopra menzionati (1.6%), anziché avere una crescita stellare? Ma soprattutto, come mai nel periodo dell'austerità, della crescita zero, l'avanzo primario era all'1.5%, cioè la metà di quello che avevamo negli anni '90 in cui però la crescita era all'1.5%?

Non sto dicendo, naturalmente, che una politica di bilancio più espansiva danneggi la crescita. Sto solo cercando di far capire che ci sono più cose fra il bilancio pubblico e la crescita di quante ne sogni la filosofia del piddino! Sto cercando di far capire, insomma, che nel ragionamento dei gemelli diversi mancano almeno due ordini di considerazioni: primo, la spesa pubblica primaria netta è solo una delle componenti autonome, esogene, della domanda aggregata (l'altra essendo, tipicamente, la spesa dei non residenti per l'acquisto di beni prodotti dal Paese, cioè le esportazioni); secondo, oltre al volume della spesa (netta) conta anche la sua composizione. L'argomento secondo cui "il Governo sta facendo macelleria sociale perché ha detto che porterà l'avanzo primario all'1,5% nel 2027" mi sembra un po' deboluccio, in ogni caso, atteso che con un avanzo primario doppio, intorno al 3%, il nostro Paese ha sperimentato una crescita doppia rispetto a quella dello scenario programmatico del DPFP:


Riflettiamo un attimo: qual è la componente di spesa che, come tutti sappiamo, contribuisce in modo più significativo alla crescita? Gli investimenti, cioè la formazione di capitale fisso, cioè l'acquisto di beni produttivi. Quelli delle imprese si rivolgono a macchinari, attrezzature, capannoni industriali e mezzi di trasporto. Quelli pubblici, viceversa, sono principalmente infrastrutture. La contabilità nazionale riporta queste spese al lordo e al netto degli ammortamenti di contabilità nazionale:


cioè della perdita di valore dovuta al deperimento dei beni capitali (usura, obsolescenza, ecc.). Ovviamente questo "ammortamento" non va confuso con quello quello finanziario/contabile dei bilanci aziendali, pur essendo strettamente affine ad esso. Nel caso del capitale fisso pubblico (le infrastrutture), l'ammortamento è il deperimento conseguente a mancata manutenzione, la distruzione di infrastrutture derivante dal fatto che non metti soldi nel loro mantenimento in efficienza. Un investimento pubblico netto pari a zero mantiene intatto lo stock di infrastrutture esistenti (tutti i soldi spesi in infrastrutture vanno in "ammortamento", cioè compensano il deperimento dell'infrastruttura), un investimento pubblico netto positivo aggiunge infrastrutture a quelle esistenti, un investimento pubblico netto negativo indica che nel Paese sono stata distrutte o ammalorate infrastrutture.

Ci siamo?

Allora diamo un'occhiata qua:


Questo è un grafico molto utile da far vedere ai cretini che "l'Italia non ha fatto austerità!". Nel nostro Paese fra il 2012 e il 2022 l'investimento pubblico netto (fonte: AMECO) è stato pesantemente negativo, unico caso fra i tre grandi dell'Eurozona. Ora, se ci fate caso, questo fatto stilizzato "fa scopa" con un altro fatto stilizzato rilevante, quello di cui abbiamo parlato tante volte a partire da qui:


Il periodo in cui la crescita italiana si stende corrisponde largamente a quello in cui l'investimento pubblico netto prima precipita verso lo zero e poi diventa negativo. Dal 2012 al 2022 (l'intervallo in cui l'investimento pubblico netto è stato negativo) il saldo di bilancio primario è stato in media di -0,3% del Pil (blando deficit), ma la crescita si è arenata totalmente.

Volendo quindi astrarre dalla complessità del reale per concentrarci su un unico indicatore della fiscal stance, direi che per quanto preoccupa noi (la crescita di lungo periodo) gli investimenti pubblici netti sono ovviamente una variabile di gran lunga più significativa: lo evidenzia l'allineamento fra due fatti stilizzati maggiori, ma soprattutto lo evidenzia il buon senso: un Paese senza infrastrutture (strade, scuole, ospedali) non cresce.

A titolo informativo, allargo un po' il quadro:


per farvi vedere chi ha fatto austerità (i PIGS), chi ne ha fatta di più (noi), chi non ne ha fatta per niente (la Francia, ma mo je tocca). Può essere utile, ai nostri fini, rappresentare questi dati in un altro modo, facendo la cumulata dell'investimento pubblico netto al tempo dell'austerità (2012-2022), e al tempo del fasheesmo (2023-2025):


Portogallo, Italia, Grecia e Spagna hanno tutti accumulato investimenti pubblici netti negativi (distruzione di infrastrutture pubbliche) nel periodo dell'austerità (2012-2022), ma solo in Italia questa distruzione di infrastrutture pubbliche ha raggiunto la cifra impressionante di 100 miliardi di euro di infrastrutture in meno!

Questa è la parte tragica della storia.

Poi c'è la parte comica: dall'avvento del fasheesmo (quindi nel triennio 2023-2025) l'Italia ha accumulato più infrastrutture pubbliche (cumulata degli investimenti pubblici netti positiva) di qualsiasi altro Paese europeo, incluso quello che finora si è bellamente fatto i cazzi suoi, e che ora ne pagherà il salatissimo conto (la Francia).

Voi direte: "Beh, ma questa evidenza statistica è rassicurante (relativamente, perché in tre anni abbiamo accumulato solo 70 miliardi di investimenti pubblici netti, cioè di nuove infrastrutture, quindi non abbiamo rimpiazzato tutte quelle distrutte durante l'austerità): perché dici che è comica?"

Perché non so voi, ma io trovo comico che le facce di merda bronzo che in dieci anni si sono fumati cento miliardi di capitale infrastrutturale pubblico per obbedire ai diktat dei bancarottieri seriali di Bruxelles vengano, ora che sono stati neutralizzati dal vostro voto,  a fare la lezioncina sui benefici delle politiche di bilancio espansive, vengano ora a puntare il ditino lanciando accuse di deriva neoliberista, a chi in soli tre anni ha realizzato nuove infrastrutture per 70 miliardi!

Voi no?

Si vede che non avete un senso dell'umorismo molto sviluppato, oppure, visto che molti di voi li conosco, e sono spiritosi, si vede che non sapete ancora abbastanza di contabilità nazionale da capire quanto vi prenda in giro la propaganda piddina.

Bene: da questa sera ne sapete un po' di più. Spero che questo vi aiuti ad apprezzare la comicità del momento, e a capire dove guardare per apprezzare l'intonazione espansiva o restrittiva di una politica di bilancio. Sempre che non abbiate ancora capito, dopo quindici anni di assidua e faticosa paideia, chi sia a mentirvi, perché ha interesse a farlo: Thelmo, Louiso, e il PD.


(...però Thelmo parla veramente bene! Pensate, l'altra sera ha perfino detto che l'euro è un problema per la crescita dell'economia europea!...)

(...ci sarebbe anche da fare un commento sulle parole miserabili di chi dopo aver messo su l'armata Brancaleone dei fact checker, relitti umani senza arte e con troppa parte, viene ora ad accusare il fasheesmo di aver represso la libertà di espressione. Ma quelle le affido per oggi a un giudice più giusto di noi...)

mercoledì 15 ottobre 2025

Quelli che...

Oggi intervengo all'assemblea delle due Confindustria di Lecco-Sondrio e di Como, con le conclusioni del presidente della Confindustria nazionale, Orsini.

In quattordici anni di dibattiti pubblici sono stato guidato da due principi ispiratori: divertirmi (e quindi, in particolare, non ripetere mai lo stesso discorso, e non leggere da un foglio di carta, con alcune notabili eccezioni), e essere utile agli altri. Si pone quindi la domanda di come sia possibile essere utili con delicatezza a una platea di 800 PMI del Nord, di come avvicinare queste imprese, senza strappi e senza forzature, a quel "Folagra moment":


da cui non potrebbero che trarre beneficio. L'unica certezza riguarda cosa non fare: esattamente quello che farebbe un Trombetta o un altro consimile zerovirgolista: rimproverare all'eletto consesso le evidenti cantonate prese nel corso degli ultimi quindici anni! Bisognerà pur tirare una linea e cominciare ad accompagnare, anziché continuare a recriminare, ora che la rapida evoluzione delle posizioni del mainstream ci suggerisce che certe lezioni sono state apprese, almeno da chi era in condizioni di apprenderle. Vale infatti sempre il principio secondo cui:


Il successo del nostro Paese, successo, s'intende, in termini relativi (tanto per chiarire subito un equivoco: non recupereremo mai lo sfregio fatto alla nostra crescita dalle politiche di Monti-Letta-Renzi), ha del miracoloso non solo per quelli che, imbesuiti dalla propaganda anti-italiana, hanno interiorizzato la solfa del "sistema Paese" inefficiente e improduttivo per colpa delle PMI che non vogliono crescere (fra questi, duole dirlo, molti imprenditori...), ma anche e soprattutto per chi, come noi, sa in quale quadro informativo sistematicamente distorto migliaia di imprenditori abbiano dovuto quotidianamente decidere come posizionarsi, quali scelte strategiche fare. Come siano riusciti a sopravvivere e a crescere tanti imprenditori sopraffatti da mitologemi privi di fondamento e significato resta per me un mistero! Le spiegazioni possono essere svariate, e quella vera forse è una loro combinazione convessa: forse alcuni imprenditori credono più ai loro occhi che ai loro giornali; forse, da macroeconomista, sopravvaluto l'effettiva rilevanza per le decisioni aziendali dell'avere un quadro macroeconomico corretto; o forse, se oltre ad avere istinto, la nostra classe imprenditoriale avesse avuto una visione equilibrata degli scenari macroeconomici, i risultati del Paese sarebbero migliori di quelli dei partiti "sovranisti quelli veri", cioè migliori dello zero virgola (abbiamo comunque visto che ex post l'ISTAT, il migliore amico dell'uomo che vuole informarsi sull'economia, ci ha confermato che nel 2023 eravamo arrivati all'uno virgola, e confido che ci torneremo).

Certo, esattamente come io da macroeconomista corro il rischio di enfatizzare la rilevanza dell'analisi macroeconomica, va da sé che chi produce (cioè offre) beni tenderà a focalizzarsi esclusivamente sul lato dell'offerta. Aggiungo che se io, da macroeconomista, posso avere (e ho dal 2011) un quadro equilibrato del contributo della Germania alla crescita europea e italiana (un rimorchio, non una locomotiva, e un capitalismo che avrebbe segato il ramo su cui era seduto, come oggi ognuno vede), è assolutamente ovvio che nell'ottica microeconomica della singola impresa del Nord che finora ha prosperato perché inserita nell'indotto di una azienda tedesca che ancora non si fosse suicidata le mie considerazioni sul ruolo complessivo della Germania sono, prima ancora che incomprensibili, eversive.

Come vi ho ricordato più volte, sopra la macchina da cucire di mia nonna Quartina era appesa una targa in legno su cui erano scolpite queste parole della principessa Maria: "Tutto comprendere è tutto perdonare!" Le rilessi con piacevole sorpresa parecchi decenni dopo, avendo deciso di tuffarmi nel flusso potente del Romanzo. Sta di fatto che la comprensione è soggetta a una singolare, sgradevole asimmetria: il cervello, o meglio il tempo per farlo funzionare, può mettercelo chi ce l'ha, il che costringe chi più sa a mangiare più spesso degli altri il metaforico cucchiaino di cioccolata. Vero è che non si può sempre abbozzare pro bono pacis, e che ogni tanto qualche sberla bisogna anche darla...

Per ingannare il tempo, e anche per fare un minimo lavoro di aggiornamento del blog, vorrei passare in rapida rassegna almeno alcuni dei tanti mitologemi che ci siamo dovuti sciroppare, e tuttora dobbiamo sciropparci, utilizzando il database dell'ultimo World Economic Outlook. Chissà, magari qualcuno di questi aggiornamenti di verità per noi ormai banali e ritrite mi tornerà utile più tardi...

Quelli che la Germania è la locomotiva d'Europa

Questa è la madre di tutte le stronzate lievi imprecisioni, ed è in sé una cosa molto tedesca, perché perfettamente conforme al principio di Goebbels: »Wenn man eine große Lüge erzählt und sie oft genug wiederholt, dann werden die Leute sie am Ende glauben.« 

Le cose in effetti stanno così:

Dall'ingresso nella moneta unica la Germania è terz'ultima per crescita, con una crescita media sostanzialmente indistinguibile da quella di un Paese assassinato come la Grecia. Vero è che noi abbiamo fatto peggio, per motivi su cui ci siamo spesso intrattenuti, ed è altresì vero che il contributo di un Paese alla crescita di un'area dipende non solo dalla velocità della crescita, ma anche dalla dimensione del Paese (con calma possiamo fare i calcoli), ma converrete con me che nell'immaginario collettivo la Germania tiene il posto che nei dati è dell'Irlanda! Questo valeva prima della grande crisi finanziaria:


quando la Germania era addirittura penultima (noi sempre ultimi), come era stato all'epoca notato dal saggio De Nardis, e vale ancor più ora che la Germania ha segato il ramo:


(e i terzultimi siamo diventati noi).

Quelli che la Germania cresce perché è competitiva grazie a elevati investimenti

Questa invece è la nonna (cioè la madre della madre) di tutte le puttanate lievi imprecisioni. In realtà, come qui ben sapete (ne parlammo fin dall'inizio), per tutto il periodo antecedente alla Grande crisi finanziaria la Germania è stata il fanalino di coda degli investimenti europei:


Vero è che dopo la scoppola della pandemia, grazie al cospicuo ricorso a fondi extra-bilancio e altre alchimie (o scorrettezze) contabili la Germania si è rimessa in carreggiata:


(noi però siamo sempre sopra), per cui nell'intera era dell'euro il risultato è questo:


Il punto è che nel periodo in cui si sono andati costruendo gli squilibri interni all'Eurozona (1999-2008) la Germania ha costruito il proprio vantaggio competitivo con una politica di repressione, non di promozione, degli investimenti. Si tratta di mera contabilità nazionale, a voi spiegata a suo tempo:

S - I = X - M

per cui se X supera M (esportazioni superiori alle importazioni, bilancia dei pagamenti in attivo) necessariamente I sarà inferiore a S, il che si può ottenere o con tassi di risparmio da società contadina, o con una repressione degli investimenti di cui ancora oggi la Germania paga il fio, come ci ha spiegato il più autorevole dei commentatori economici tedeschi al nostro convegno annuale del 2023:


(ma voi lo sapevate già)...

D'altra parte, è difficile che un eccesso di esportazioni (sulle importazioni) possa essere spiegato da un eccesso di risparmio (sugli investimenti) in un Paese in cui una politica di deliberata repressione salariale da noi più volte illustrata (a partire da qui) ha lasciato in tasca ai lavoratori poco reddito da destinare al risparmio, no? Oggi arriva Draghi lellero lellero a spiegarci che questa race to the bottom salariale è un fenomeno generalizzato dell'Eurozona, è il modo in cui "noi" abbiamo cercato di recuperare competitività (sarebbe la famosa "scossa" di Draghi, per noi che ne parliamo da quindici anni più soporifera che elettrizzante):


Dimentica però di spiegare perché qui da noi l'idea, invero non originale, di fare maggiori profitti pagando meno i lavoratori sia diventata un percorso obbligato: perché da quando l'unione monetaria ha precluso la rivalutazione della valuta dei Paesi in surplus (in particolare, del marco tedesco), l'unica strada percorribile per sopravvivere alle aggressive politiche dei redditi tedesche (le riforme Hartz) era svalutare i salari nei Paesi in deficit (in particolare, in Italia).

Eh già! L'euro lo fa...

Quelli che l'euro ci ha dato stabilità valutaria...

...e anche su questo ci sarebbe molto da dire, ma la cosa più semplice resta sempre accompagnare il vostro interlocutore in questo semplice esperimento concettuale: preso il grafico del cambio della valuta italiana (lira fino al 1999, poi euro) con il dollaro statunitense:

(come si costruisce ve l'ho spiegato qui), individui il candidato il momento in cui il Paese entra nella stabilità conferita dall'euro. Se non siete molto, ma molto del mestiere, individuare quel punto è praticamente impossibile, perché l'euro non è stato particolarmente più stabile della lira rispetto al dollaro. L'unica differenza è che da quando siamo insieme alla Germania, la nostra politica valutaria è soggetta alla necessità dell'industria tedesca di indebolire l'euro per promuovere le esportazioni tedesche (essendosi prima assicurata una fornitura di energia a basso costo dalla Russia). Quindi la volatilità è a spanne la medesima, ma non riflette le caratteristiche o gli interessi della nostra economia, bensì di un'altra...

Quelli che l'euro ha contribuito alla nostra crescita integrandoci nelle catene del valore tedesche

E anche qui qualcosa da dire ce l'avremmo, tant'è che abbiamo perfino creato la categoria del PISL (definita in questo post): il Piccolo Imprenditore Spaventato Lombardo, spaventato ovviamente da Borghi (l'uomo che sussurra allo spread, il volto becero del sovranismo), non dal mellifluo Bagnai (il mediocre clavicembalista, il volto presentabile del sovranismo). Ora, i dati raccontano un'altra storia: l'integrazione, è indubbio, c'è stata in re ipsa. Apro e chiudo una parentesi per evidenziare che i nostri imprenditori continuano a commerciare con Paesi rispetto ai quali il cambio della loro e nostra valuta continua a fluttuare a piacimento della Germania, e quindi non sono dei deficienti incapaci di utilizzare una calcolatrice o di coprirsi dal rischio di cambio! Fatto sta che mentre l'interscambio totale fra Lombardia e Germania è rimasto più o meno quello che era prima:


l'orientamento dei flussi commerciali è cambiato bruscamente:


con un drammatico sprofondamento del saldo commerciale fra Lombardia e Germania verso una posizione di deficit strutturale che sottrae, non aggiunge, alla crescita, non solo per il banale fatto contabile che:

Y = C + I + G + X - M

(per cui se la somma algebrica dei due ultimi addendi è negativa, il Pil Y è più basso di quanto potrebbe essere se fosse bilanciata), ma anche per il fatto economico che un deficit commerciale è domanda che si rivolge al mercato estero anziché a quello interno, e che quindi in quello, anziché in questo, genera crescita.

Segare il ramo

D'altra parte, che lo scopo del gioco non fosse l'integrazione lo si capisce anche da un altro grafico, che non credo di avervi mai fatto vedere: quello della composizione percentuale dell'export tedesco per destinazione:


Come ognuno vede, tranne chi non vuole vederlo, l'ingresso nella moneta unica non ha aumentato la percentuale di esportazioni verso l'Unione a 27. Viceversa, le politiche di austerità l'hanno fatta drasticamente diminuire. E per forza! La "strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri, combinando ciò con una politica fiscale prociclica" ha distrutto la domanda interna del mercato unico, il che ha costretto la Germania a rivolgersi ad altri mercati, con una riduzione strutturale della quote europea nel suo export che dal 57% del 2007 scende rapidamente al 48% del 2013 e rimbalza poi lentamente per attestarsi attorno al 51% attuale. Il metaforico ramo su cui la Germania era seduta, per capirci, era l'area azzurra. L'area arancione comprende il Paese che sta reagendo coi dazi alla svalutazione competitiva dell'euro.

Concludendo

Vorrei sperare che questo sia patrimonio acquisito per la nostra bella d'elettori famiglia e di lettori, ma ci credo poco. Quelli che quando mi incontrano non sanno dirmi nemmeno come si chiamano difficilmente sapranno dire all'average Joe piddino come stanno le cose. L'importante, ricordate, è desistere. Non ha senso rovinare una cena in famiglia, più di quanto ne avrebbe rovinare un importante convegno. La pietà umana, e l'intelligenza tattica, comandano di lasciare che certe verità trovino da sole la propria strada e i propri evangelisti! Oggi Uva è uno di noi, e questo deve allietarci (oltre a esilararci). E ora rispondo ai messaggi che non saranno mancati, mentre mi concedevo questo breve momento di approfondimento e condivisione con voi...


(...il dato controintuitivo della settimana è che sono guarito in modo assolutamente inatteso dalla brutta contusione che mi ero fatto. Mi ero messo d'accordo con un pastore di Pizzoferrato per salire al Monte Lucino dal Culo dell'asino - toponimo che le carte pudicamente non riportano - scendendo dalla Cuccagna. Visto da giù sembrava abbastanza tranquillo. Fatto sta che abbiamo dovuto arrampicare per un centinaio di metri di dislivello, tant'è che all'imbocco del primo canalino a me era già passata la fantasia, ma avendo disturbato una persona non potevo dirgli: "Scusa, torniamo a casa perché ho le vertigini!" Mi sono quindi attenuto a due sagge massime: non guardare indietro, cioè giù, e arrampicare con le gambe, cioè privilegiando la spinta alla trazione. La cresta, poi, sottile e tutta sbreccata, mi ha regalato altre emozioni, sicché fino al momento di rimettere piede su qualcosa di simile a un sentiero a tutt'altro avevo da pensare che al mio costato. Che ero guarito me ne sono accorto poi, mettendomi a letto. Nessun dolore. Chissà se Lascienza ha una spiegazione per questo strano fenomeno? In ogni caso, come ho detto su FB: non andateci da soli!...)

martedì 14 ottobre 2025

sabato 4 ottobre 2025

55 anni di salari italiani trimestrali

Dal mio letto di dolore proseguo l'operazione di spietramento delle mie calzature.

Oggi torno su un tema che qui abbiamo affrontato più volte, e che quindi voi, ma solo voi, in Italia conoscete bene: quello della dinamica salariale nel nostro Paese. La motivazione principale per tornare su questo argomento risiede nella lista di oscene stupidaggini che trovate in commento a questo mio post su Facebook. Non mi riferisco, sia ben chiaro, alle espressioni di dissenso rispetto alla mia valutazione politica, che dovrebbe esservi anch'essa ben familiare, e che in estrema sintesi potrebbe essere riassunta così: staremmo meglio se i sindacati facessero, e soprattutto avessero fatto, i sindacati (difendendo i salari), invece di fare i partiti politici (difendendo l'Unione Europea). Naturalmente per chi, come voi, capisce che questi due obiettivi (salari e Unione Europea) sono incompatibili (per i motivi ultimamente espressi anche da Draghi, cioè perché l'Unione Europea costringe a farsi concorrenza sui salari), questa mia affermazione è banale e scontata.

Si potrebbe portarla a un livello più sofisticato di approfondimento ragionando sul fatto che con la delegittimazione e lo smantellamento dei partiti politici, corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 49), nei fatti i sindacati sono rimasti l'unico altro corpo intermedio di rilevanza costituzionale (art. 39) a mantenere una struttura organizzata e finanziata. Si può quindi sostenere che il fatto che ormai esercitino una funzione di supplenza rispetto ai partiti nel "determinare la politica nazionale" (art. 49) in senso complessivo, invece di concentrarsi sulla gestione del conflitto distributivo, è anche l'esito di dinamiche tanto perverse quanto oggettive, è anche il riempimento di un vuoto lasciato dall'antipolitica, oltre a essere certamente l'espressione delle velleità parlamentari di personaggi dello spessore di Landini (non questo, che di spessore ne aveva, ma questo...). Fatto sta che l'oblio dei diritti dei lavoratori è nelle cose, lo abbiamo visto (e fra breve lo rivedremo) nel tracciato dei salari, ed è sulle motivazioni di questa negligenza, non su quelle del concomitante impegno in politica, che ci si dovrebbe porre una domanda.

Questa però è materia politica e quindi aperta alla discussione: non ce l'ho con le povere pecore che per un motivo o per l'altro non capiscono che è stato il pastore a portarle al macello, non ce l'ho con chi ritiene di doversi occupare di battaglie altrui avendo rinunciato a combattere le proprie, o per giustificarsi del non averle combattute: va tutto bene! Quello che è veramente desolante è la disinvoltura (e la protervia) con cui chiunque si avventura in materia economica non avendo la benché minima idea di quali siano i concetti chiave, le unità di misura, le definizioni delle variabili, per non parlare della loro dinamica e delle interazioni fra esse previste dalla teoria economica, o semplicemente conseguenti dalla loro definizione! Mi sembra evidente che su queste basi una soluzione realmente democratica dei conflitti è preclusa (altro tema che qui ci è dolorosamente familiare). Di fatto, da molti commenti capirete che pochi sanno che cosa si intende per salario reale, e quindi che cosa ci racconti la sua dinamica: c'è chi chiede di depurarlo dall'inflazione (!), c'è chi sostiene che se il potere d'acquisto è rimasto costante dagli anni '80 non dobbiamo lamentarci (!), e via andare...

Lo scopo di questo post è duplice.

Da un lato voglio riprendere la "Breve ma veridica storia dei salari italiani" (che quindi vi consiglio di rileggere), per due motivi:

  • perché da quando l'abbiamo scritta, a maggio 2025, si sono aggiunti due punti dati (corrispondenti ai primi due trimestri del 2025), e voglio vedere se nel primo semestre di quest'anno si è mantenuto il trend di recupero del potere d'acquisto che avevano evidenziato, e se abbiamo recuperato i valori pre-pandemia;
  • perché voglio estenderla all'indietro, fino al 1970, utilizzando i vecchi dati di contabilità nazionale trimestrale (io non butto mai nulla), in modo da vedere se questi dati trimestrali di fonte ISTAT restituiscono lo stesso profilo visto in "La crisi dei salari e la produttività" (che quindi vi consiglio di rileggere), cioè una crescita lungo tutti gli anni '70 che si arresta all'inizio degli anni '80 su livelli sostanzialmente prossimi a quelli attuali.

Dall'altro, siccome sappiamo che la flessione dei salari (e quello che c'è a monte, cioè l'aumento della disoccupazione, e ancora a monte il taglio degli investimenti pubblici, cioè l'austerità) serve a recuperare competitività, cioè a migliorare la propria bilancia dei pagamenti e la propria posizione finanziaria netta sull'estero, voglio aggiornare l'analisi fatta in "La ricchezza esterna delle nazioni" (quando l'abbiamo scritto c'era ancora Draghi!), per vedere se il recupero dei salari si è già riflesso in una perdita di competitività e ha già cominciato a compromettere la nostra posizione debitoria netta nei confronti del resto del mondo.

Procederò quindi estendendo separatamente i due grafici e evidenziandone le principali caratteristiche. Per snellezza di trattazione, la metodologia (che trovate comunque nei post citati qua sopra) sarà descritta in appendice.

Breve ma veridica storia del salari italiani: aggiornamento

Il grafico aggiornato al secondo trimestre 2025 e esteso fino al primo trimestre 1970 è questo:


(dettagli tecnici in appendice). Elenco le caratteristiche più apparenti:

  1. la crescita dei salari reali sta proseguendo, dopo una pausa nel primo trimestre del 2025, il livello raggiunto nel secondo trimestre 2025 è 6822 euro a trimestre ai prezzi 2020 (rispetto ai 6791 dell'ultimo trimestre 2024), ma siamo ancora dell'1,5% al disotto del livello pre-pandemia (quello dell'ultimo trimestre 2019, pari a 6928. Quindi bene, ma naturalmente non benissimo (ci mancherebbe altro!), e il rallentamento dell'economia mondiale non aiuterà (ricordate? Per distribuire valore bisogna produrlo);
  2. il profilo dei dati trimestrali sui 55 anni considerati è quello che emerge dai dati annuali: crescita vigorosa fino all'inizio degli anni '80, poi un primo arresto, poi di nuovo crescita fino al 1992, poi una flessione, poi una stasi fino alla crisi finanziaria globale, poi una flessione, poi una stasi fino alla pandemia, poi un'altra flessione, e poi la ripresa di cui parlavamo. Diciamo però che il fasheesmo, cioè Giorgia, a occhio e croce con la stasi dei salari c'entra poco. Quando questa è iniziata, lei aveva quattro anni, e per quanto possa essere stata pestifera non credo che riuscisse a perturbare le variabili macroeconomiche.

Il massimo storico, pari a 7347, resta nell'ultimo trimestre del 2005.

Più avanti entriamo nel merito di tutte queste caratteristiche, mettendole in relazione con i cambiamenti strutturali dell'economia italiana, con i governi in carica, ecc.

La ricchezza esterna delle nazioni

Estendendo al 2024 il grafico (che qui si fermava al 2020) otteniamo:

In questo caso le cose vanno decisamente meglio. Nonostante la ripresa dei salari, nel 2023 e 2024 prosegue il deprezzamento reale (cioè l'aumento della competitività) del nostro Paese e conseguentemente migliora la sua posizione netta sull'estero, che è diventata creditoria (positiva) nel 2021 e che nel 2024 ha raggiunto il massimo da quando siamo entrati nell'euro (ma in effetti è il massimo storico, almeno dal 1970, come potreste verificare al solito posto). L'andamento a specchio delle due variabili, previsto dalla teoria economica, è assolutamente confermato dai dati. Si vede anzi che quando nel 2022 il deprezzamento reale si arresta per un anno, la posizione netta sull'estero peggiora lievemente.

Nota bene: siccome una diminuzione della disoccupazione, o un aumento dell'occupazione, fa aumentare i salari, quindi i prezzi, e quindi fa apprezzare il tasso di cambio reale (che è il rapporto fra i prezzi nazionali e esteri), e quindi diminuire la competitività, e quindi peggiorare la bilancia dei pagamenti, e quindi aumentare l'indebitamento estero (o diminuire l'accreditamento estero), non è per niente banale avere simultaneamente il massimo storico dell'occupazione e della posizione  (creditoria) netta sull'estero.

Non lo dico per fare i complimenti alla mia maggioranza, che secondo me nemmeno se ne rende conto (sentite mai qualcuno parlare del vero debito, quello estero?). Lo dico perché siamo qui per parlare di economia, e questa configurazione dei fondamentali macroeconomici è piuttosto inedita e merita di essere evidenziata.

Qualche commento

Partirei dai più ovvi.

Intanto, i salari reali sono i salari nominali depurati per l'effetto dei prezzi. A benefici dei piddini che mi commentano su FB, ricordo che "reale" in economia non è il contrario di "immaginario", ma di "nominale o a prezzi correnti". Il salario reale cioè misura il potere d'acquisto, la "quantità di cose" (res) che puoi comprare col tuo salario. 

Quindi:

  1. non ha senso chiedere di depurare dall'inflazione il salario reale, perché per definizione già ne tiene conto;
  2. non ha nemmeno senso dire che se rimane costante va tutto bene.

Il secondo punto merita un approfondimento.

No, non è corretto dire che se il potere d'acquisto dei salari resta costante allora siamo a posto, per il semplice motivo che per il lavoratore non è un gran vantaggio poter comprare la stessa quantità di cose in un mondo in cui ci sono più cose da comprare! In altri termini, non è detto che quando non crescono i salari reali (la parte di prodotto che va ai lavoratori) non cresca l'economia (e quindi il prodotto totale)!

Se calcoliamo il rapporto fra il monte salari e il prodotto interno lordo otteniamo un rozzo indicatore della quota salari (variabile di cui ci siamo occupati in diverse occasioni):


e constatiamo un altro dei "fatti stilizzati" che i lettori di questo blog conoscono bene, ma l'average Joe piddino non vorrà mai ammettere: al tempo dell'inflazione a due cifre negli anni '70 della liretta e della svalutazione (secondo l'immaginario distorto dei piddini), la quota salari si è mantenuta o è andata crescendo, mentre lungo tutti gli anni '80 e fino alla metà degli anni '90 la quota salari è andata diminuendo, questo perché a partire dagli anni '80, mentre la produttività continuava ad aumentare, la remunerazione reale del lavoro restava costante. Quello che vedete nel grafico soprastante, in altre parole, è la conseguenza di quanto vedete in questo grafico:


che forse ricorderete (ve lo avevo mostrato un anno addietro parlando de "La crisi dei salari e la produttività"). In estremissima sintesi, mentre la corsa dei salari reali si è arrestata con il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia (all'inizio degli anni '80), cioè con le politiche di disinflazione, quella della produttività si è arrestata con l'ingresso nell'euro, cioè con le politiche di deflazione, il che comporta che dall'inizio degli anni '80 alla metà degli anni '90 la quota salari sia diminuita, cioè il tenore di vita delle classi salariate non sia rimasto costante, ma sia arretrato in termini distributivi (la relazione fra produttività, salario reale e quota salari voi la conoscete perché ho dovuto spiegarla a un collega che non la conosceva), in concomitanza del resto con l'aumento della disuguaglianza.

Questo dibattito non è meramente teorico, è anzi dannatamente pratico! Quello che ci dice infatti è che se in termini di salario medio in termini reali oggi siamo tornati ai livelli del 2013, che poi erano quelli del 1988, in termini di quota salari siamo tornati ai livelli del 2010, che poi erano quelli del 1970! Questo spiega come nonostante una dinamica dei salari in crescita i lavoratori non percepiscano un effettivo beneficio, e naturalmente fa capire ancora meglio quanto sia lontana la radice del problema.

Ovviamente non mi fiderei troppo di questi calcoli fatti "sulla carta del prosciutto". Se però prendiamo la variabile "adjusted wage share" calcolata dal database AMECO, con riferimento a variabili diverse (AMECO rapporta i redditi da lavoro dipendenti nominali al Pil nominale e aggiusta ulteriormente per il rapporto fra occupati dipendenti e totale degli occupati) otteniamo una dinamica sostanzialmente simile:


con un declino lungo tutti gli anni '80 e '90 che sarà piuttosto difficile recuperare, in un mondo in cui il capitale ha decisamente più del solito il coltello dalla parte del manico.

In ogni caso, credo sia sufficientemente ovvio che né la mitologica "inflazzione a due cifre" né la temibilissima "svalutazzione" hanno un rapporto immediato e diretto con la dinamica della quota salari, o semplicemente dei salari reali. I salari reali, come qui vi ho fatto vedere fin dall'inizio, sono andati crescendo (e la quota salari è cresciuta o si è mantenuta comunque stabile) nel periodo dell'esecranda "inflazzione a due cifre", come mi pregio di farvi nuovamente vedere su dati trimestrali:


ma anche:


talché pare proprio che contrariamente a quanto credono i piddini, nel lungo termine l'inflazione sia piuttosto amica che nemica dei lavoratori, e sui motivi ci siamo dilungati (ma se qualcuno ha dubbi, sono qui per rispondere). Aggiungo che i salari reali sono diminuiti con l'austerità fra 2011 e 2014, ma non con la svalutazione competitiva dell'euro fra 2015 e 2020! Insomma, il meraviglioso mondo di Drindrin resta una fola per bimbi sciorni (ma rigorosamente col pieiccdì).

Conclusioni

In Italia la crisi salariale va avanti da decenni: la colpa non è del fasheesmo (nel senso di Giorgia), ma, come sappiamo, di un esito del conflitto distributivo per tanti motivi sfavorevole ai lavoratori, per via del quadro complessivo della terza globalizzazione, e, nel nostro contesto regionale, della necessità di competere al ribasso sui salari cui prima dell'euro costringeva anche il Sistema Monetario Europeo. Va da sé che poter trasferire sul mercato valutario una parte dell'aggiustamento macroeconomico aiuterebbe, ma, come del resto dimostrano anche i grafici che abbiamo visto (o rivisto) non è detto che sarebbe risolutivo. La discesa della quota salari, o, se volete, la stasi del salari reali, è iniziata infatti quasi venti anni prima della moneta unica, e se da un lato è vero che il vincolo esterno monetario era già in opera (attraverso il meccanismo di cambi fissi ma aggiustabili dello SME), è pur vero che all'epoca una parte dell'aggiustamento poteva ancora essere scaricata sui cambi (come accadde nel 1992). Nell'unione monetaria il sentiero che la politica economica può percorrere è particolarmente stretto, come ricordava il buon Pier Carlo. Credo converrete con me che lui questo sentiero lo ha percorso con minori risultati del Governo attuale, sia in termini di dinamica salariale, che in termini di assetto dei conti con l'estero. Avere al tempo stesso il massimo storico dell'occupazione e della posizione netta sull'estero non è senz'altro merito di questo governo: probabilmente è molto più merito del fiscal overkill messo su dal PD e dalla troika. Fatto sta che le accuse fatte a questo governo di aver causato la crisi salariale "perché non ha approvato il salario minimo" sono piuttosto ridicole, ne converrete. Non è questo che dicono i numeri.

Qualcuno potrebbe obiettare: "Certo, ma i numeri dicono anche che si potrebbe fare di più! In fondo abbiamo recuperato un buon margine di competitività, potremmo anche spingere di più sul meccanismo deficit-investimenti pubblici-crescita-occupazione-aumento dei salari, senza compromettere troppo i nostri conti con l'estero!" Questo argomento ha una sua tenuta logica ed è esattamente quello che farei anch'io da professore. C'è però un pezzo di complessità del reale che temo sfugga anche a voi. Nei modelli econometrici la spesa pubblica è una variabile, G, che si può far aumentare o diminuire con un clic. Nella realtà, ci sono di mezzo non solo la Ragioneria Generale dello Stato e le regole europee, ma anche il codice degli appalti, la Corte dei Conti, i bandi europei, gli uffici dei ministeri, delle regioni, delle province e dei comuni, dove il personale non c'è, o è troppo anziano, o non è abbastanza formato (perché c'è stato il blocco del turn over, ricordate?), o è troppo scojonato, perché solo l'anno scorso sono stati allocati dieci miliardi per un primo rinnovo dei contratti. Vi ricordate quando pareva crollasse il mondo perché avevamo proposto un deficit al 2,4%? Vi ricordate poi come andò a finire? Che si spese l'1,6%. Come mai? Perché la macchina amministrativa di cui disponiamo, logorata da anni di austerità a trazione PD, non è in grado di assorbire il carico di lavoro necessario per seguire la mole di spesa che astrattamente sarebbe necessaria per rimettere in piedi la baracca. Avrebbe senso far ripartire la solfa dello spread, attirare su di noi invece su chi se la merita (Francia e Germagna) l'attenzione dei mercati, per fare promesse di stimolo di bilancio che poi non saremmo in grado di mantenere? Varrebbe la pena di sostenere in anticipo il costo dell'incertezza sui mercati, senza poter incassare a valle il beneficio dello stimolo di bilancio, solo per far contento er sor Perepè, il compagno Rizzovich, e Foffoletta647827 su Twitter?

Può darsi che secondo voi questo sia essere keynesiano. Non credo che funzioni così, ma ove mai fosse, devo dirvi che preferisco, per me e per voi, essere giorgettiano, o semplicemente napoleonico: "Non bisogna mai interrompere un nemico mentre sta facendo un errore!". Ripeto: perché dovremmo schiantarci sui mercati noi, ora che stanno shortando gli OAT?

"Ma er popolo soffrono, laggente ci hanno fame!"

Beh, sì, questo credo di saperlo, ma è pur vero che siamo in democrazia, e quindi se ci troviamo su un sentiero stretto questo in qualche modo è avvenuto per scelta del popolo sovrano, cui a questo punto, nel suo interesse, dobbiamo sconsigliare di buttarsi di sotto (per questo basterebbe un PD qualsiasi, che ovviamente correrebbe in soccorso degli angioini)! Sapete benissimo che cosa penso di questo percorso: non l'ho scelto, lo trovo irrazionale, ve ne ho spiegato i limiti in lungo e in largo. Ma finché i commenti al grafico dei salari reali sono quelli che ho suscitato su Facebook, vi assicuro che non avremo (e infatti non abbiamo) la forza politica di fare una cosa che in questo momento tra l'altro è inutile: forzare delle regole che... stanno logorando i nostri nemici!

Quindi alle lamentationes de "er popolo" (che ha quello che desiderava) si provvederà, come è giusto, ma mantenendo un quadro ordinato e mantenendo margine di competitività. Ognuno di noi, istintivamente, tende a ragionare in modalità BAU (business as usual). Eppure dovreste sapere, perché è un po' che ne parliamo, che sono dietro l'angolo una guerra e una crisi finanziaria (whatever comes first).

Non è il momento migliore per farsi notare.

E se Foffoletta647827 ci toglierà il follow, ce ne faremo una ragione: non sapendo chi è, ignoriamo l'entità del lutto che dovremmo elaborare, ma possiamo precauzionalmente stimarla a zero e tirare dritto.

Dichiaro aperta la discussione generale (già immagino gli iscritti a parlare...).

Appendice

Per estendere fino al 1970 le serie di contabilità nazionale ho usato una vecchia versione della contabilità trimestrale dal 1970q1 al 1996q3 che avevo usato per un aggiornamento di questo modello. Naturalmente le serie erano in miliardi di lire anziché in milioni di euro. Inoltre la base dei prezzi era in quel caso il 1990 anziché il 2020. Ne consegue che rifacendo i calcoli separatamente sui due database veniva fuori una roba simile:


con una evidente soluzione di continuità, determinata dai due fattori sopra ricordati (diversa valuta, diversa base dei prezzi) e da una serie di revisioni minori, ad esempio nei criteri di revisione degli occupati. Per ottenere una serie relativamente uniforme ho convertito tutto in euro usando il noto cambio irrevocabile (666 lire per euro) e ho retropolato indice dei prezzi e occupati dipendenti utilizzando i tassi di crescita delle vecchie serie, applicati al primo valore delle nuove. Naturalmente all'ISTAT storcerebbero il naso, ma qualora desiderassero applicarsi loro al compito di ricostruire le serie di CN trimestrale fino al 1970 non credo che con metodi molto più sofisticati otterrebbero risultati particolarmente diversi, tanto più che qui quella che ci interessa è l'informazione "a frequenza zero", su cui le revisioni di cui vi parlavo non impattano (come non impatta la conversione in euro, che è semplicemente una moltiplicazione per una costante).

Quanto alla ricchezza esterna delle nazioni, i tassi di cambio reale vengono da qui e la posizione netta sull'estero viene da qui. Come ricorderete dal post del 2022, l'indicatore di competitività è dichiaratamente discutibile: si tratta del tasso di cambio bilaterale fra Italia e Germania, che quindi misura la competitività rispetto a un particolare partner commerciale, mentre la posizione netta è riferita all'intero resto del mondo. Fatto sta che per le caratteristiche strutturali della Germania e per il peso che ha nel nostro commercio questo indicatore è molto esplicativo delle vicende del nostro indebitamento estero, con un coefficiente di correlazione attorno a -63%.

Astensione e risultato elettorale

Chiedo scusa! Metto qui a verbale del Dibattito un'osservazione che ho visto fare a pochissimi: me stesso

il prof. Magnani:


e un'altra persona di valore che sicuramente non vuole essere nominata (nel senso: non qui! Magari in un cda sì, e ne avrebbe tutti i presupposti, ma non nel blog...).

Tengo la formulazione di Carlo: fino a qualche anno (ma forse mese) fa, con un'astensione pari a metà degli aventi diritto in una regione tradizionalmente rouge la sinistra avrebbe vinto con 20 punti di distacco (60 a 40). Il fatto che abbia perso con 8 punti (44 a 52) è una assoluta novità, soprattutto se consideriamo l'azione di disturbo dei partituncoli, alcuni dei quali, per quanto di ideologia "comunista", nei fatti assolvono al compito di sottrarre voti a noi (mi riferisco a Rizzo & Co.).

Pare quindi che a scoraggiarsi, o magari addirittura a votare a destra, siano stati gli elettori di sinistra.

Sarà una tendenza locale o nazionale?

Lo scopriremo presto, osservando le prossime due regioni "progressiste": Toscana e Puglia. Sarà interessante poi tirare le fila del discorso, cosa per la quale mi affiderò a Claudio, l'unico analista elettorale di cui mi fidi ex post, avendo avuto plurimi benefici dal fidarmene ex ante! Se dovesse emergere qualcosa di simile a una effettiva presa di coscienza da parte degli italiani dei danni catastrofici che il PD ha inflitto al Paese ne sarei sorpreso (mi rammarica dirlo), ma naturalmente molto lieto. In realtà credo che una consapevolezza a questo livello non ci sia, non ci possa essere (lo vediamo nel prossimo post), e quindi o il fenomeno che si è manifestato nelle Marche è destinato a restare estemporaneo, o, se si consolida, ci sarà da interrogarsi sulle sue ragioni. Probabilmente, il fatto che il "progressismo" si manifesti come l'occuparsi delle sorti di qualsiasi popolo tranne che del proprio potrebbe aver giocato un ruolo, per quanto la presa emotiva di questo messaggio possa essere forte sugli sprovveduti o su coloro cui non incombe il compito di portare la pagnotta a casa (i cosiddetti "ggiovani"). Chiamiamola eterogenesi dei fini! Ci piacerebbe che il voto fosse guidato da un apprezzamento corretto da parte degli elettori delle effettive dinamiche di classe, ma possiamo tranquillamente accontentarci del fatto che esso sia guidato da una ripulsa istintiva, sempre da parte degli elettori, delle dinamiche di classe fasulle che vengono proposte loro dai "progressisti", purché il risultato sia quello che deve essere!

E intanto l'abbiamo messa a verbale, a beneficio delle vostre osservazioni, e di quelle altrui che eventualmente vorrete riportarmi.

venerdì 3 ottobre 2025

I migranti climatici

(...ma putemm vince la guerr nu?...)


Ulisse ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Esiste un diritto umano a immigrare?":


Caro Professore,

ho ascoltato in differita le dirette di ieri.

È sempre un privilegio ascoltarla e leggerla.

È riuscito anche a citare il Marco Papa di 300 e mezzo. Meravigliosa citazione in dialetto pescarese. Mi sono commosso.

Ciò detto.

Mio papà, che alla veneranda età di 86 anni va ancora in azienda la mattina alle 6 (lui si che si meriterebbe l'onorificienza di cavaliere del lavoro), mi raccontava, quando ero bambino, dei suoi 11 anni in Svizzera, a Berna. Avevano 3 mesi per cercare lavoro e se non lo trovavano li rimettevano sul treno senza troppe cerimonie. La manodopera italiana era ricercatissima e pagata dignitosamente (inoltre il cambio marco/lira permetteva di costruire in Italia, nel caso specifico in Abruzzo, le basi per una vita più che dignitosa. Il mio paese è stato costruito con le rimesse degli immigrati). Ma non esisteva che venisse commesso un reato da un immigrato o che qualcuno fosse privo di titolo di soggiorno.

Quei racconti mi danno la misura di quanto siano stupidi i paladini dell'accoglienza nostrani. Non sanno di cosa parlano quando parlano di immigrazione e di emigrazione.

Il nostro paese ha un apparato sanzionatorio che, nei fatti, è molto blando. Gli stranieri, soprattutto quelli che delinquono, lo sanno e ne approfittano. E il paese di ritrova in una situazione sempre peggiore. Dove regna il caos.

Diritto di immigrare? Gli stupidi paladini dell'accoglienza non capiscono il concetto di coesione culturale di un popolo e quindi non capiscono il concetto di invasione e disintegrazione socio-culturale. È questo ciò a cui stiamo andando incontro.

Ma soprattutto, quando affermano il diritto di immigrare, dicono implicitamente che gli stranieri, nei loro paesi, non possono avere una vita dignitosa. E non capiscono che questa è una forma di razzismo molto sottile.

Io, che gli stranieri me li faccio amici, posso assicurare che ce ne sono molti che sono tanto meritevoli. Ma quelli meritevoli, spesso, e quando non c'è guerra o dittatura nel loro paese (gli afghani di etnia azara si guardano bene dal tornare in Afghanistan) non vedono l'ora di tornare a casa loro. Come mio padre.

Possibile che non riusciamo a trovare il modo di selezionare gli immigrati meritevoli?

Pubblicato da Ulisse su Goofynomics il giorno 30 set 2025, 23:22


(...dopo essere sceso infinite volte di corsa dai miei monti - Porrara, Secine, Pizzalto, ecc. - dopo essere sopravvissuto perfino alla Rava del Ferro - dove però ho corso poco! - martedì scorso, poco prima di questa diretta, ho fatto un inglorioso tonfo correndo a Villa Glori. Attila Gualtieri, aka l'incompetente, che sta buttando giù alberi peggio dell'uragano Vaia (anche a Villa Glori), ha lasciato lungo il vialetto della villa una insidiosa radice su cui il mio lubrico piè si è impuntato, condannandomi a una caduta rovinosa. Ho smorzato l'impatto abbozzando una capriola, ma nel girarmi di fianco per distribuire il peso mi devo essere contuso il torace. Lì per lì non ho sentito nulla, mi sono rialzato con una certa elasticità, ho proseguito la corsa, poi ho condiviso con voi qualche considerazione, ma dopo, arrivato in ditta, ho cominciato a sentire un certo dolore al costato. Dopo una notte difficile, mercoledì mi sono fatto vedere: nonostante le malelingue, sono bello dentro! Le costole ci sono tutte, candide e intatte, ma la contusione mi fa un male cane e quindi oggi, invece di assistere a due convegni cui ero particolarmente contento di prendere parte, per poi salire a pestare la prima neve sulla Majella - ma è meteo, amici, non clima! - me ne sto a letto a risolvere nell'immobilità e con l'immobilità una serie di arretrati. Immaginerete quanto mordo il freno, ipercinetico come sono. Ho deciso di sfogare la frustrazione per questa mia forzata inerzia togliendomi alcune benne di sassolini dalle scarpe, e cominciamo da una delle più colossali stronzate lievi imprecisioni che ci vengono propinate da iBuoni(TM): quella dei migranti "climatici"...)


Trovo l'osservazione di Ulisse particolarmente corretta e pregnante: uno dei due argomenti utilizzati per presentare l'immigrazione come un dato di natura, come un fenomeno ineluttabile e prepolitico, a una più attenta considerazione si rivela essere una sottile manifestazione di razzismo e una inconsapevole ammissione della propria incapacità di comprendere, o scarsa volontà di risolvere, il problema. Perché mai infatti gli abitanti di una delle parti più ricche di risorse del globo sarebbero in qualche modo costretti ad abbandonarla per incapacità di trarne sostentamento, tanto più ora che le nostre dissennate politiche, quelle che ci condannano a morire di fame oggi per non morire di caldo domani, hanno fatto lievitare oltre ogni più sfrenata immaginazione il prezzo di materie prime la cui strategicità un tempo sarebbe stato difficile prevedere?


(...il prezzo del petrolio è il Crude Oil (petroleum), simple average of three spot prices; Dated Brent, West Texas Intermediate, and the Dubai Fateh, US$ per barrel, quello del rame è il Copper, grade A cathode, LME spot price, CIF European ports, US$ per metric tonne, entrambi espressi come indici a base 100 nel 1980, provenienti dal solito database. La Repubblica Democratica del Congo - non a caso un posto tranquillo! - è il secondo produttore mondiale di rame...)

Presumere che in mezzo a tanta bonanza gli autoctoni siano incapaci di provvedere al proprio dignitoso sostentamento significa affermarne implicitamente un qualche deficit intellettuale o culturale. Ma siamo sicuri che questa sia una linea di argomentazione fondata e accettabile?

Una volta la sinistra non dico che si proponesse di risolvere, ma almeno "metteva a tema il" (come dicono loro), cioè parlava del (come dicono le persone normali) problema del colonialismo, dello sfruttamento dei popoli africani, del loro diritto all'autodeterminazione, e di cosa fare per accompagnarli lungo un percorso virtuoso. Oggi il massimo di elaborazione che ci perviene da cotanti intellettuali è una sorta di riedizione for dummies del principio dei vasi comunicanti, quella secondo cui è ovvio che loro debbano venire qui, perché lì sono tanti e qui siamo pochi.

Ma perché la sinistra italiana è regredita verso argomentazioni così infantili e controvertibili?

(...a mero titolo di esempio: è certamente vero che in Africa sono tanti, ma hanno molto più spazio a disposizione di noi, tant'è che la densità della loro popolazione per km quadrato è la metà della nostra...)

Per chi segue il lavoro che stiamo facendo qui da anni la risposta è chiara: la sinistra italiana ha smesso di riflettere sull'autodeterminazione dei popoli africani quando ha deciso di rimuovere psicanaliticamente quella dei popoli europei, cioè quando si è venduta al progetto europeo, a quella mascheratura di una politica di deflazione e di recessione antioperaia, onde ottenere dalla sponda de leSocialdemocrazieeuropee(TM) un sostegno per governare in casa propria contro il volere dell'elettorato (ultimo episodio eloquente: i sorrisetti di Sarkozy; letteratura rilevante: i lavori di Kevin Featherstone). Qualcuno, negli anni '10 di questo secolo, si sarebbe potuto chiedere perché mai impietosirsi per il destino dei bantù e non per quello dei greci, e quindi, per non far venire strane idee all'elettorato piddino, si è preferito dimenticare i bantù! Si è insomma lasciato cadere con eleganza il tema nodale, che è quello di cosa si possa fare per accelerare il cammino dei popoli verso una effettiva indipendenza, per evitare che quel discorso potesse applicarsi anche al popolo che la sinistra italiana in cuor suo più disprezza: quello italiano.

Il fatto è che in Africa questa indipendenza passerebbe, ovviamente, da una cosa che nessuno vuole, e in cuor loro men che meno gli ideologi climatisti e a scendere tutti i volenterosi carnefici della filiera climatista: il riappropriarsi delle risorse africane da parte dei popoli africani. Perché sul climatismo c'è chi mangia a quattro palmenti, e una condizione necessaria, ma non sufficiente, per continuare a farlo è proseguire sulla strada dello sfruttamento coloniale dell'Africa, che oggi vede come protagonista indiscussa la Cina (ma con molto maggiore intelligenza di quella dimostrata dagli europei nel XIX secolo). Il piano Mattei, che colpevolmente non ho mai studiato e di cui non saprei effettivamente argomentarvi i contenuti (ma se interessa posso studiare), ha se non altro il pregio di comunicare qualcosa che una volta era una cosa di sinistra: aiutiamo i popoli africani a progredire a casa loro!

Perché, vedete, qui si intersecano vari livelli di sinistre contraddizioni, che vale la pena di enumerare.

1) Risorse o minus habens?

Una è quella evidenziata da Ulisse: dare per scontato che una popolazione che vive in un territorio così ricco sia ineluttabilmente condannata ad abbandonarlo, consegnando ad altri tanta ricchezza, significa presumere che questa popolazione sia fatta di minus habens: è quindi oggettivamente una forma di razzismo, nemmeno tanto implicito. Ma se l'incapacità dei popoli africani di vivere dignitosamente a casa loro fosse veramente dovuta a una qualche forma di deficit intellettuale o culturale (come affermano quelli secondo cui l'immigrazione è un ineluttabile dato prepolitico), allora crollerebbe la retorica de imigrantichecipaganolepensioni, atteso che difficilmente coi contributi di lavoratori a basse competenze, basso valore aggiunto e conseguentemente bassa remunerazione si potrebbe pensare di sostenere l'onere pensionistico di una popolazione relativamente più evoluta. O no? In altri termini, se non riescono ad essere "risorse" a casa loro, perché mai dovrebbero esserlo a casa nostra, dove qualcuno ce li indica come la panacea di tutti i nostri mali (trascurando come sempre l'aritmetica)? Ma anche, di converso: ammesso che possano essere risorse a casa nostra, perché non dovrebbero esserlo anche a casa loro, dove fino a prova contraria c'è più bisogno? Di questo vogliamo parlare? Su questo qualcuno ci informa?

2) Ogni immigrazione a casa nostra è un'emigrazione a casa altrui

Aggiungo che è ovviamente contraddittorio stracciarsi le vesti per la nostra pretesa incapacità o contrarietà ad assicurare un ipotetico diritto all'immigrazione altrui, e al contempo stracciarsi le sottovesti per l'effettivo problema causato dell'emigrazione dei nostri giovani. Quello che per noi è un problema, cioè la nostra esportazione di capitale umano, il fatto di investire somme ingenti nella formazione di giovani cui non diamo opportunità di lavoro (e quindi possibilità di contribuire alla prosperità collettiva) in patria, evidentemente lo sarà anche, e in misura tanto maggiore quanto più essi sono arretrati, per i Paesi africani, o no? Quelli che imigrantichecipaganolepensioni non se lo pongono il problema di chi pagherà le pensioni agli africani? E allora vogliamo porre la questione nei termini corretti, che non sono quelli di assicurare il diritto all'immigrazione, ma di assicurare il diritto di restare a casa propria, come solo Benedetto XVI ha fatto nel dibattito pubblico occidentale (a meno che io non mi sia perso qualche cosa)? Va da sé che in determinate circostanze, riconducibili alla protezione umanitaria, l'accoglienza resterà un dato non negoziabile (e chi lo nega?). Al contempo, l'accoglienza non può essere vista o addirittura imposta come unica valvola di sfogo di evidenti squilibri strutturali cui dobbiamo porre rimedio innanzitutto a casa nostra, per il duplice ottimo motivo che a casa nostra abbiamo maggiori possibilità di incidere che a casa altrui, e che se non risolviamo i nostri problemi, condannandoci a un lento declino, non potremo assicurare nemmeno la protezione umanitaria (che costa).

Resta sullo sfondo la stucchevole retorica colpevolizzante, elemento costitutivo di ogni pensiero magico, sciamanico, o religioso: dobbiamo accoglierli perché è colpa nostra se stanno male (ma non dobbiamo riflettere su come farli stare meglio)! Non stanno male per colpa mia, né credo per colpa di nessuno di voi, e non è abolendo una vera riflessione, razionale, non deamicisian-sentimentale, sui problemi di questi popoli che potremo tacitare le nostre coscienza. Oddio, il piddino a dire il vero è di facile contentatura: gli basta di potersi sentire buono, e per lui il problema è risolto. Per sentirsi buono, poi, gli basta chiedere agli altri di accogliere indiscriminatamente chiunque nei loro quartieri, come sappiamo. Ma proprio chi, a meri fini di autoflagellazione, riconosce l'eredità storica del colonialismo, dovrebbe esercitare maggiore solerzia nell'individuare le forme che lo sfruttamento prende nella contemporaneità (e l'ecologismo è una di queste), e nel proporre strade alternativa.

Invece l'unica riflessione e l'unica proposta è quella thatcheriana: there is no alternative, l'immigrazione non è oggetto di valutazione politica né può essere oggetto di gestione politica, se non "a valle", perché è un indiscutibile dato di natura.

Che cosa può andare storto di fronte a cotanta profondità di ragionamento e di proposta?

Gli argomenti di natura economico-demografica utilizzati per argomentare l'ineluttabilità dei flussi in entrata da noi sono quindi tutti riconducibili a una matrice razzista, perché non saprei come definire altrimenti (ha ragione Ulisse) una simile radicale sfiducia nella possibilità dei popoli africani di ridiventare padroni del proprio destino. Ma credo sfugga, o almeno non ho sentito mai nessuno rilevarlo, che anche gli argomenti di natura ambientale sono ugualmente razzisti.

Mi spiego: avrete sentito parlare pure voi di migranti climatici, no? L'argomento è una diversa declinazione del TINA (there is no alternative) immigrazionista: sopra ci siamo occupati del "devono venire qui perché sono più di noi", ora vorrei spendere due parole sul "devono venire qui perché da loro fa più caldo che da noi". Insomma: l'idea che l'alluvione umana, come quella idrica, dipenda dal clima, e quindi non possa essere gestita se non con la "transizione", cioè con lo sfruttamento coloniale delle risorse africane (che invece, come sto cercando di far capire, è più un pezzo del problema che della soluzione...).

Bene.

Questa dell'immigrazionismo "climatico" è una gigantesca puttanata, una cretinata che può essere affermata solo da persone totalmente digiune di geografia, tanto ignoranti quanto razziste. La premessa (duole doverla fare) è che il clima equatoriale è caratterizzato dall'assenza di stagioni e da temperature stabili su una fascia fra i 25 e i 30 gradi centigradi, quindi, certo, relativamente calde rispetto alle nostre temperature non estive. Ad esempio, in questo momento a Kinshasa ci sono 32 gradi, con un'umidità del 51%, quindi non particolarmente elevata (non tale da qualificare questa come una giornata umida), mentre a Roma abbiamo una giornata decisamente più fresca e secca, con 19 gradi e umidità al 34%. Noterete che siccome qui fa fresco, oggi nessuno ci sta dicendo che "devono immigrare da noi perché da loro fa caldo". Dato che il piddino è in grado di immedesimarsi coi problemi dell'altro solo quando questi sono i suoi problemi, nei Paesi a clima temperato questo tipo di analisi ha una sua stagionalità: si presenta di solito in estate! Fatto sta che è proprio in quelle circostanze che l'immigrazionismo climatico dimostra tutta la sua fallacia. In un'estate calda, infatti, la situazione a metà giornata di solito si configura così:


(ho preso a caso uno dei miei tanti screenshot: questo è del 19 luglio 2023). Non so se notate l'elegante paradosso: quando il piddino, flagellato dal solleone nostrano, viene a dirci che "dobbiamo accoglierli perché cercano rifugio dalla crisi (?) climaticaaah!11!", a Kinshasa fa più fresco che alla Valle del Sole di Pizzoferrato! Questa cosa non succede per caso (e infatti di screenshot simili rigurgita il mio telefonino), ma per due ben precisi elementi che solo chi è ignorante come una zappa può, appunto, ignorare (come li ignorerebbe una zappa)!

Il primo è che il continente africano è sì più esposto al Sole (avendo un'ampia fascia tropicale), ma capita che nostro Signore, nella sua imperscrutabile sapienza, lo abbia innalzato più dell'Europa rispetto al livello delle acque. Il secondo è che gli africani non sono scemi, e ovviamente potendo scegliere vanno a insediarsi in altura, dove fa più fresco. Se prendiamo le prime dieci capitali europee e le prime dieci capitali africane la situazione è questa (vi metto i conti che ho fatto sulla carta del prosciutto, così potete verificarli):


L'elevazione media dei principali insediamenti in Africa è dieci volte quella dei corrispondenti insediamenti europei (Pretoria è più alta di Gamberale, Addis Abeba è all'altezza della Forchetta di Maiella...), e siccome il gradiente termico verticale è di 0,65 gradi centigradi ogni cento metri, vedi bene che qui ci scappano 6,5 gradi centigradi di differenza a vantaggio proprio di quei Paesi da cui, nell'epos piddino, si scapperebbe "a causa del caldo".

Va da sé che a questa statistica non attribuisco un particolare valore dirimente, ma rimango estasiato dall'ignoranza di quelli che mentre amano atteggiarsi a profondi intellettuali, da un lato ignorano i lineamenti più elementari di quella scienza tanto bistrattata che è la geografia (dovrebbe essere noto che l'Africa subsahariana è un gigantesco altopiano, con quel che ne consegue) e dall'altro - in qualche modo prevedibilmente! - vedono nell'africano un "buon selvaggio" incapace di scegliere in modo razionale il luogo in cui insediarsi. Eppure, se il Sahara è un deserto, questo significa, per definizione, che non c'è nessuno! E ci sarà pure un cazzo di motivo se in un continente di oltre un miliardo e mezzo di persone il luogo più caldo è deserto, no? Sarà perché gli africani, non essendo scemi, nella misura del possibile preferiscono insediarsi altrove, giusto? Quindi l'idea che "poverini, dobbiamo accoglierli perché a casa loro fanno 50 gradi" (massima estiva nel deserto del Sahara) andrebbe un po' rivista, magari dando ogni tanto un'occhiata all'app del meteo sul cellulare (che essendo fatto anche di coltan dovrebbe ricordare alle anime belle l'esistenza dell'Africa equatoriale).

Ecco, scusatemi, questa cosa era un po' che volevo dirvela, e non so perché mi è venuto di farlo oggi. Aspetto le vostre valutazioni.