Mi ricordo che una volta chiamai il professor Canfora, che avevo incrociato in una trasmissione televisiva e che volevo invitare nuovamente al nostro convegno annuale, ed esordii, dopo i convenevoli di rito, con questa domanda: “Caro professore, lei che è uno storico, sa dirmi quante probabilità ho di riuscire ad attuare politiche di sinistra militando in un partito di destra?“.
Prima che iniziate a subissarmi con le vostre stronzate rispettabili opinioni su che cosa voi crediate siano la destra e la sinistra, sul fatto che non esistono più, e via bardellosporteggiando, sminuzzandomi le gonadi con argomenti triti e ritriti (come appunto le mie gonadi) è opportuno che vi segnali che questa domanda, che a qualcuno di voi sembra probabilmente mal posta, al limite dell’incomprensibile, venne invece perfettamente compresa dal mio interlocutore. Il senso ne era in effetti piuttosto chiaro: era ragionevole concepire che l’inevitabile contraccolpo di un’epoca in cui i diritti economici e sociali dei lavoratori erano stati compressi all’inverosimile da partiti che si richiamavano agli ideali della sinistra storica (quelli appunto di difesa del lavoro) potesse essere gestito da partiti che si richiamavano a ideali storicamente conservatori (la difesa del capitale, la proprietà privata, della libertà, del risparmio)?
Gli argomenti a sostegno di questa tesi erano a mio avviso di due ordini.
Primo, come più volte fatto notare in questo blog, e come finalmente è diventato argomento di dominio pubblico, il desiderio del capitale di allargare la sua fetta di torta si è inevitabilmente tramutato in un restringimento della torta. Certo, naturalmente il Pil mondiale continua a crescere, soprattutto per effetto del miglioramento del tenore di vita delle sterminate e crescenti popolazioni dei paesi emergenti. Certo, naturalmente i valori borsistici continuano a crescere, principalmente per effetto del pompaggio nel circuito finanziario di quantità cospicue di denaro da parte delle banche centrali, in un disperato e perennemente frustrato tentativo di tenere insieme i cocci di un sistema che non funziona. Ma, appunto, messo da parte il dettaglio non trascurabile (naturalmente) di questo aumento intrinsecamente fragile della ricchezza finanziaria di pochi, il punto è che la creazione del valore, che classicamente correliamo agli effetti del lavoro, si è allontanata, è stata dislocata altrove, e questo fa sì che una zona un tempo prospera e tuttora dotata di una certa capacità di fare opinione come l’Europa si sia scoperta da un giorno all’altro in una condizione di arretramento inconcepibile. Forse la scoperta degli ultimi due o tre anni, per noi che siamo qui, sta proprio nell’aver toccato con mano che questo arretramento non riguarda più solo l’Italia, ma riguarda tutti i paesi europei, perché si è finalmente compiuto quanto avevamo detto aprendo questo blog: la Germania ha segato il ramo su cui era seduta. C’è poi una scoperta, o meglio una decisione, più recente, che non mi sembra sia oggetto di commento in questi giorni, mentre secondo me è centrale: la decisione di Trump di nominare vicepresidente Vance, il figlio degli sconfitti statunitensi di questa battaglia internazionale del capitale contro il lavoro.
Ora, come spiegammo a suo tempo commentando le bislacche teorie di Draghi sul perché in Europa i rendimenti del capitale fossero bassi, il punto è molto semplice: se il valore non viene creato non può essere distribuito, né come salario, né come profitto. La guerra del capitale contro il lavoro è quindi una guerra del capitale contro il profitto. Questo dato di fatto direi aritmetico può emergere in vari modi: difficilmente con un consapevole gesto di resipiscenza, più frequentemente con un conflitto (bellico). Sono insomma sufficientemente consapevole del fatto che una enorme fallacia di composizione impedisce a questo elemento oggettivo di promuovere una risposta deliberata e consapevole delle élite. I “ricchi” sono tali, anche perché ciascuno pensa al suo portafogli senza essere tenuto necessariamente ad avere una visione olistica. Potrebbe tuttavia capitare, e forse sta capitando, che da quello che siamo abituati a considerare uno dei mali dell’attuale organizzazione dei rapporti economici, cioè l’estrema concentrazione della ricchezza, possa scaturire, paradossalmente, il bene di una decisione presa non collettivamente, ma singolarmente, da una persona, o da un paio di persone, in grado di cambiare da soli le regole del gioco. Non so, e non affermo, se sia questo ciò a cui stiamo assistendo, ma certo il fatto che uno dei più convincenti e appassionanti narratori della sconfitta della classe media sia in un posto così sopra la media è in qualche modo suggestivo, e ci conduce all’altro ordine di argomenti che mi portavano a immaginare che il luogo più ovvio per combattere una battaglia di sinistra oggi fosse la destra.
Lo introduco con un altro ricordo, il ricordo dei tempi in cui ero libero e passavo un po’ di tempo in Francia a insegnare. Un giorno il mio amico Arsène mi condusse dal preside della facoltà di Rouen e nel parlare del più e del meno questi mi espose la sua visione, secondo cui ci stavamo orientando verso una società che lui definiva di tipo neofeudale. Sono considerazioni che poi abbiamo sentito fare da tanti , e che non mancano di appigli nella realtà. Fra i meno ovvi, pensate ai dazi e alle gabelle che dobbiamo pagare in moneta sonante o cedendo i nostri dati ai moderni imperatori per avere il diritto di esercitare tramite cellulare alcuni nostri diritti fondamentali, incluso il diritto all’identità, quello di essere noi stessi e non altri. Una situazione non molto diversa da quando i conti di Borrello, nobile famiglia di origine franca, controllavano una strettoia della Val di Sangro esigendo il pedaggio (ma poi ti lasciavano passare, mentre oggi la situazione è leggermente più ingarbugliata: questo però ci porterebbe a parlare di altro). Fatto sta però che questo neofeudalesimo, proprio per dissimulare se stesso, per non palesarsi, tiene molto alle forme della democrazia, e quindi bisognerà pure che da qualche parte si vadano a cercare i voti. La strategia della sinistra è sufficientemente evidente: quella di appellarsi a una serie di minoranze attive e rumorose, in nome di principi condivisibilissimi e normalmente ricompresi nei diritti fondamentali che ogni democrazia liberale rispetta, ma di cui si millanta la soppressione per chiamare alla rivolta i sette colori dell’iride, sperando che messi insieme proiettino un fascio di luce sull’orizzonte cupo di chi, tradendo i lavoratori, ha tradito la maggioranza. In questo contesto, alla destra resta una strategia ovvia: occuparsi appunto della maggioranza silenziosa! La strage e il grande scempio fatto dalla sinistra rendono questa strategia, oltreché piuttosto ovvia, anche relativamente poco costosa: a chi è stato tolto tutto, compreso il diritto di lamentarsi, basta restituire il diritto al mugugno (che è gratis) per dare la percezione che qualcosa stia cambiando. Se poi ci metti anche un minimo sindacale (anzi scusate, mi dicono che non devo dire parolacce, quindi togliete sindacale), un minimo ragionevole di politica dei redditi, ecco che porti l’obiettivo a casa.
E questo quello che sta succedendo?
Non lo so, non lo sa nessuno. Dobbiamo però concentrare la nostra attenzione su questo tipo di dialettica, se vogliamo tentare di comprendere questa fase, anticiparne gli sviluppi, e valutare quanto sia favorevole per noi.
Parlare di “fine della globalizzazione“ infatti vuol dire tutto e niente. Come ho detto ieri, sicuramente incompreso, in una delle tante trasmissioni radiofoniche cui sono stato invitato, decuplicare il dazio medio sui prodotti in entrata negli Stati Uniti (da circa il 2% a circa il 20%) non significa abbandonare o rinnegare le tecnologie che hanno consentito, abbattendo i costi di trasporto dei beni materiali e immateriali, di promuovere il commercio, non significa propugnare l’autarchia e neanche il mercantilismo. La globalizzazione, che forse dovremmo chiamare glebalizzazione, ovviamente non può essere ricondotta al fenomeno dello scambio di merci fra paesi che commerciano fra loro da millenni: il problema non è la tecnologia che ha velocizzato questi scambi, ma la riorganizzazione che questa rapidità ha determinato nei rapporti sociali di produzione. Dove eventualmente si vede qualche cosa di simile a una volontà di cambiare rotta è nell’atteggiamento dell’amministrazione americana verso le istituzioni che hanno gestito la globalizzazione, a partire dalle banche centrali, passando per l’OCSE, l’OMS, il WTO, e via discorrendo.
Non credo di dire una cosa particolarmente originale (ma di questi tempi non si sa mai): ribadisco che Trump non è esattamente “uno di noi“! Se tatticamente il nemico del nostro nemico è necessariamente un nostro amico, strategicamente dobbiamo chiederci quanto restituire il diritto al mugugno sia dare reale voce agli oppressi da un regime totalitario, su quanto restituire qualche briciola significhi riequilibrare i rapporti sociali di produzione e organizzarli in un modo più razionale e meno suscettibile di condurre all’emersione di nuove tensioni, su quanto implichi rendere nuovamente le persone e i territori arbitri del loro destino. Insomma, prima di dire che qualcosa è finito, bisognerebbe accertarsi che stia cominciando qualcos’altro. O, se volete, per metterla in un altro modo, la fine della globalizzazione, se è arrivata, esattamente come la fine dell’euro, quando arriverà (vi ho promesso che sarà Draghi ad annunciarla esplicitamente, perché implicitamente lo ha già fatto, e così sarà), non ci consegna a un periodo di pace, ma a un periodo di conflitto potenzialmente ancor più difficile da gestire, perché soggetto all’illusione che i nostri avversari siano nostri alleati.
Ma esattamente come le nostre aziende, sopravvissute a un trentennio di cambio strutturalmente sopravvalutato e alla distruzione del 25% della domanda interna del paese in cui hanno sede, sopravviveranno a un dazio del 20%, soprattutto quando gli fornisce vantaggi comparati a doppia cifra su paesi con i quali finora la competizione era acerrima, anche noi, con l’arma della consapevolezza, riusciremo a difenderci nel nuovo contesto.
E così sia.
(…oggi il duro mestiere di ecclesiarca mi ha condotto nella Piddinia inferiore a conoscere una persona che non avrà l’opportunità di sapere come va a finire questa storia. Quando ho deciso che saremmo stati una comunità, ho deciso di condividere le vostre gioie e i vostri dolori. Contrariamente alle mie aspettative, è stato uno dei rari casi in cui a un dolore immenso, che l’avrebbe comunque resa impercettibile, non si è aggiunta la bruttezza: non c’erano chitarre, e il coro era intonato - lo dico a beneficio di chi non ha potuto percepirlo. Del resto, il treno che sto aspettando è in ritardo “per l’intervento dei vigili del fuoco”, e possiamo immaginare facilmente altro dolore. Domani a Firenze cercherò di spiegare che cosa la fine della globalizzazione implica per il partito nel quale sono riconoscente e orgoglioso di essere stato accolto…)
(…incidentalmente, la mozione congressuale di Claudio Durigon propone qualcosa di molto simile a un meccanismo di scala mobile. Con quelli che erano qui nel 2012 abbiamo avuto modo di discuterne. Immagino lo shock della sinistra, quella “griffata” a spese del lavoro minorile del Sud-Est asiatico…)