mercoledì 30 aprile 2025

La durezza del vivere

...eggnente!

Mi volevo rilassare un'oretta con voi prima di una riunione, e tanto per cambiare, appena aperto il computer, scoppiano due casini, uno qui, e uno qui (e più non dimandate).

C'è tanta manovalanza da fare, con senso di responsabilità, discrezione, e amore per il Paese. Ma soprattutto, come dico ai miei ex colleghi (accademici) per cercare di spiegare com'è cambiata la mia vita: qui è come essere in un pronto soccorso! Ogni due per tre arriva qualcuno con un problema inaspettato, spesso incomprensibile nella genesi e nella gestione (tipo questi o questi, o giù di lì...), tutti caratterizzati da somma urgenza (ci mancherebbe!), con i codici verdi che si lamentano cinque volte più dei codici rossi (ma solo perché hanno cinque volte più energie per farlo, ovviamente), e con l'aggravante che in undici casi su dieci tu avevi saggiamente e discretamente avvertito l'interessato di pensarci prima! Per non parlare di quello che ti cerca per dirti una cosa che tu già sai ampiamente, e siccome ti dedichi ad altri di cui invece non conosci i problemi ti fa cercare dal collega autorevole... Quello che chiamo l'effetto "oblò della lavatrice" (quando una persona ti si affaccia anche dallo sportello della dispensa, trasformando all'istante il tuo blando apprezzamento umano e professionale in un viscerale e sordo sentimento di odiosa ripulsa...).

Ma è vita questa?

Naturalmente sì, è la nostra vita, a modo suo appassionante (non vorrei dire divertente...): è un onore essere a supporto di chi le scelte deve prenderle, ma deve necessariamente delegare ad altri i compiti istruttori o di rappresentanza, esattamente come io delego alla mia squadra, che mi sono costruito con fatica nel tempo, il compito di istruirmi certe pratiche e di tenere aggiornati certi dossier, per poter a mia volta dare risposte fondate ai livelli superiori.

Una catena di affetti che è opportuno non interrompere (semicit.)! Una caterva di rogne da sistemare di cui, quand'anche non fosse impossibile parlare per motivi di riservatezza, non sarebbe comunque possibile dare una compiuta descrizione per vincoli di tempo, perché le vicende umane non sono solo private: sono anche incredibilmente complesse e piene di dettagli

Aiutare a risolvere un problema concreto dà una soddisfazione superiore rispetto a quella, puramente narcisistica, di pubblicare sulla rivista "importante". Ci sono però dei momenti in cui ti fermi e realizzi che essersi messo a servizio degli altri significa non essere più padroni del proprio tempo, ad esempio del tempo di rispondervi o anche semplicemente di leggervi con attenzione (per non dire di leggersi un libro o di fare gli ascolti di un disco), e questo un po', inevitabilmente, lo si rimpiange. Ma poi vedi come si spendono tutti gli altri compagni di squadra (per non parlare del capo), capisci che essere coinvolto è un privilegio, e ti rimetti a testa bassa a smussare gli angoli, perché si trovino le soluzioni migliori, perché si faccia il miglior pane con la farina che si ha.

Quindi, cari amici, la spiegazione di come ho fatto il grafico dei salari reali è rimandata a più tardi, ma se me ne dimentico ricordatemela. Di salari si parlerà molto, e la maggior parte delle volte a vanvera, quindi ci terrei a darvi delle solide basi statistiche.

E ora torno alle mie tempeste in un bicchier d'acqua (o di Montepulciano), che comunque, per chi ci è coinvolto, una loro pregnanza ce l'hanno, e ogni sensibilità va rispettata.

Questa è la durezza del vivere.

Tesoro, mi si sono ristretti i salari!

(...così, de bbotto, ci accorgiamo che esiste un problema di salari in Italia...)


 (...retribuzioni lorde di contabilità nazionale deflazionate con l'indice armonizzato dei prezzi al consumo, indice con base 1996:1=100, il quadrato rosso indica il periodo di illuminata gestione del PD in esecuzione degli ordini di Draghi, come documentato qui...)


Dal Vangelo secondo Matteo:


Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia decimatis mentam et anethum et cyminum et reliquistis, quae graviora sunt legis: iudicium et misericordiam et fidem! Haec oportuit facere et illa non omittere.

Duces caeci, excolantes culicem, camelum autem glutientes.

Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia mundatis, quod de foris est calicis et paropsidis, intus autem pleni sunt rapina et immunditia!

Pharisaee caece, munda prius, quod intus est calicis, ut fiat et id, quod de foris eius est, mundum.

Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia similes estis sepulcris dealbatis, quae a foris quidem parent speciosa, intus vero plena sunt ossibus mortuorum et omni spurcitia!

Sic et vos a foris quidem paretis hominibus iusti, intus autem pleni estis hypocrisi et iniquitate.

Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, qui aedificatis sepulcra prophetarum et ornatis monumenta iustorum

et dicitis: “Si fuissemus in diebus patrum nostrorum, non essemus socii eorum in sanguine prophetarum”!

Itaque testimonio estis vobismetipsis quia filii estis eorum, qui prophetas occiderunt.

Et vos implete mensuram patrum vestrorum.

Serpentes, genimina viperarum, quomodo fugietis a iudicio gehennae?


(...vado a parlarne a Coffee Break...)



martedì 29 aprile 2025

Produzione di eccezioni a mezzo di regole

Secondo gli operatori informativi, il dibattito oggi è riarmo sì, riarmo no (la terra dei cachi). Insomma, una versione riveduta e corretta del grande classico “burro o cannoni”, dove i cannoni sono quella roba indefinita che ormai solo loro (gli operatori informativi) chiamano Rearm EU (nel frattempo, la Commissione gli ha dato un altro nome, ancora più ridicolo), e la Lega, per buttarla un attimo in politica, sarebbe pro-burro e anti-cannoni. Chiusa la parentesi politica, specificando che in realtà la posizione della Lega è “burro e cannoni” (e mi sembra una posizione stranamente razionale, considerando chi sono i consiglieri di Salvini! 😉), vorrei fare una rapidissima riflessione con voi sul perché stiamo parlando di questa roba.

Perché stiamo parlando di riarmo?

E qui voi penserete: “Ma questo è scemo! Non lo vede che i cosacchi sono alle porte!?”

No: confesso che i cosacchi non li vedo, anche se, a tendere, vedo a sud del nostro Paese qualcosa di più pericoloso, perché potenzialmente più interessato a destabilizzare il Mediterraneo. Ma il punto non è questo. Il punto è che noi stiamo parlando di guerra e di riarmo perché per tenere insieme un sistema basato su regole che non funzionano abbiamo un disperato bisogno di violare queste regole costruendo delle eccezioni sempre più persuasive perché sempre più “eccezionali”.

Ora, il fondamento delle regole era la diffidenza dei paesi del Nord, che si credevano invincibili (e sono stati sconfitti dalla storia), nei riguardi dei paesi del Sud, che si riteneva fossero dei cialtroni (ma in questo momento noi siamo gli interlocutori privilegiati della potenza imperiale). I risultati delle regole, che ci dovevano garantire da un eccessivo incremento del debito al Sud, perché quelli del Nord non volevano pagarlo, li abbiamo visti nel post precedente, e sono stati un accumulo di debito paragonabole su scala storica solo a quello necessario a finanziare un conflitto mondiale (del resto, un conflitto mondiale c’è stato, anche se è stato un conflitto distributivo e non bellico).

Le regole avevano dei presupposti inconsistenti perché moralistici, non razionali, e quindi hanno avuto dei risultati disastrosi. Ma più in generale, è irrazionale pensare che l’azione di governo di una realtà complessa come uno Stato possa essere basata su regolette. In altre parole, altre regole (così come altre unioni europee) non sono possibili. Non è quindi strano che per tenere insieme un sistema simile si cerchi di aggirarlo indicando (come peraltro qui da tempo avevamo prefigurato) una serie di eccezioni sempre più assurde e distruttive a regole sempre più smentite dalla realtà fattuale.

Insomma: il problema non sono i cosacchi o gli houthi (che potenzialmente sono un problema). Il problema sono le regole, perché sono loro a richiedere la produzione di eccezioni. E finché non risolveremo il problema, saremo costretti ad andare di eccezione in eccezione (eccezione climatica, eccezione bellica, eccezione spaziale…) nel tentativo di giustificare caso per caso la necessità di restituire allo Stato e alla politica quella centralità che nel mondo delle regole gli si voleva togliere, ma che è indispensabile riaffermare in termini generali per una ordinata convivenza civile negli Stati e fra gli Stati.

Dixi.


lunedì 28 aprile 2025

Un trascurabile dettaglio (130 anni di debito pubblico)

Per aggiungere un trascurabile dettaglio all'analisi svolta nel post precedente, ho esteso il grafico da cui partono Reinhart e Sbrancia:


utilizzando i dati dell'Historical Public Debt Database del Fmi, integrati, a partire dal 2016, con quelli dell'ultimo database del WEO. Per pigrizia non ho ripetuto esattamente l'analisi di Reinhart e Sbrancia, nel senso che invece di prendere la loro definizione di paesi avanzati ed emergenti:


ho utilizzato gli avanzati e gli emergenti del G-20, cioè rispettivamente: Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Corea del Sud, Regno Unito, Stati Uniti (avanzati) e Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sud Africe e Turchia (emergenti). La cosa è meno innocua di quanto potrebbe sembrare, perché le serie aggregate sono calcolate come media aritmetica semplice dei rapporti debito/Pil dei rispettivi gruppi, per cui un Paese insignificante, col Pil di una piccola regione italiana, ma con un rapporto debito/Pil del 300% (in astratto) potrebbe far sballare i conti. Tuttavia, nonostante che i gruppi considerati siano più ristretti di quelli di Reinhart e Sbrancia, le dinamiche sono relativamente simili:


(manca il picco degli emergenti verso il 1991, probabilmente per il problema che vi dicevo), soprattutto per quanto riguarda noi. Nel frattempo, però, è passato del tempo. Aggiungendo i dati del WEO (proiezioni incluse) possiamo estendere lo zoom fino al 2030, e il quadro è questo:


Ora, per capirci, la terza globalizzazione, se la datiamo all'inizio degli anni '80, è iniziata qui:

e il messaggio che emerge da questo grafico, per quanto riguarda noi avanzati, vorrei condensarlo condividendo con voi un momento del cinema italiano più alto e più pregno di insegnamenti:

Diagnosi: una globalizzazione così noi non la reggiamo!

E non noi italiani: noi avanzati! Si vede bene anche dal disegnino (che fotografa la situazione al 2015, ora sarebbe peggio):


Il problema non sono naturalmente le sottocoppe di peltro, o Birillo (che mangia un chilo di macinato al giorno), ma il fatto che l'indipendenza della Banca centrale è intrinsecamente debitogena. Il motivo è molto semplice da comprendere per chiunque abbia familiarità con l'aritmetica del debito pubblico, che si riassume nell'equazione (4):

la cui derivazione è stata spiegata qui e sul cui significato vi ragguaglio brevemente: la formula dice che la variazione (il delta) del rapporto debito/Pil è approssimata dal prodotto della differenza fra il tasso di interesse reale r e il tasso di crescita reale (per gli amici: "la crescita") n, moltiplicato per il rapporto debito/Pil al tempo precedente, cui va sottratto il rapporto avanzo primario/Pil.

Ora, il problema è che l'indipendenza della banca centrale serve ad avere un tasso di interesse reale r positivo e piuttosto alto (per difendere la rendita finanziaria, o per moderare l'inflazione, si cerca di avere un tasso di interesse nominale superiore al tasso di inflazione), e al contempo conduce a un tasso di crescita del Pil basso (per abbattere il debito si cerca di innalzare l'avanzo primario a, ma questo ovviamente deprime la crescita n). L'impatto dell'indipendenza della banca centrale (e più in generale della fine della repressione finanziaria) sul tasso di interesse è ben documentato dalle stesse Reinhart e Sbrancia:


e anche questo grafico andrebbe esteso, perché dopo il 2011 abbiamo avuto una stagione di "tassi zero", ma con inflazione pressoché nulla, e ora le cose sono nuovamente cambiate. Se prendiamo la media dei tassi di interesse reali dei Paesi avanzati del G-20 nei WDI otteniamo questo risultato:


I dati del WDI iniziano nel 1961 e non nel 1945, ma l'andamento è molto simile: una stagione di tassi reali fortemente negativi, seguiti da un innalzamento brusco all'inizio degli anni '80, che poi è da dove i rapporti debito/Pil hanno cominciato a esplodere. Nella stagione dei "tassi zero" il tasso reale era comunque attorno al 2%: solo la sorpresa inflazionistica del 2021-2022 è riuscita ad abbatterli. Il motivo, naturalmente, è che anche se i tassi di policy erano nulli o negativi, quelli di mercato invece no, e con un'inflazione molto bassa, sotto al 2%, non è strano che in media i tassi reali fossero positivi, se pure non elevati come negli anni '80.

Quanto all'impatto sulla crescita delle politiche cortesemente suggerite dalle Banche centrali indipendenti (quindi, ad esempio, qui da noi dalla lettera della Bce di Draghi o dalla troika), esso è sufficientemente noto.

Il problema è che più il debito cresce, più è essenziale che r-n non sia troppo alto, e quindi, alternativamente, o che la rendita finanziaria abbassi le sue pretese (r piccolo) o che si crei più valore (n grande), ma la seconda soluzione (creare più valore) è sfavorita dal capitale, semplicemente perché quando si percorre quella strada si crea occupazione, e i lavoratori, sentendosi tutelati, alzano la cresta. Problema di non facile soluzione, non trovate?

Ad esempio, se d = 1.2 (come a tendere sarà per le economie avanzate), con r al 2% (0.02) e n al 1% (0.01) per non far crescere il debito bisogna avere un avanzo primario pari a 1.2 x 0.01 = 0.012 cioè al 1.2% (i conti sono presto fatti).

Ora, per avere un'idea degli ordini di grandezza e usando lo stesso metodo un po' barbaro delle medie aritmetiche semplici, il fattore r-n (quello che gli eruditi chiamano lo snowball factor, l'effetto "palla di neve", perché descrive in che condizioni la crescita del rapporto debito-Pil tende ad autoalimentarsi, come una valanga: semplicemente, quando la spesa per interessi sovrasta la diluizione del rapporto dovuta alla crescita...) nelle economie avanzate del G-20 ultimamente è stato una cosa così:


Si vede bene che siamo passati da valori negativi, prima degli anni '80, a valori in media positivi.  L'ordine di grandezza dall'inizio del secolo è di circa l'1%, quindi vale quanto ci siamo detti sopra: per annullare la crescita del debito occorrono avanzi primari protratti attorno all'1.2%.Il punto meriterebbe un maggior approfondimento anche statistico, ma insomma si capisce che quello che ci siamo detti del nostro Paese, perché lo confessava l'artefice del divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia, cioè che la crescita del debito è stata innescata da un innalzamento repentino di r-n, dovuta al fatto che il Tesoro era costretto a finanziarsi sui "mercati", e per sembrare credibile doveva fare politiche di contenimento della crescita e dell'inflazione, sembra essere una storia condivisa.

È anche una storia che ci ha portato da debiti pubblici in media attorno al 40% a debiti bene avviati verso il 120%, cioè a triplicare le dimensioni del debito in termini di Pil. Niente male, vero? Evidentemente non tutti sono riusciti, come siamo riusciti noi, ad avere una serie protratta di avanzi primari (che comunque non ci è servita a molto quando è arrivata la crisi del 2009, distruggendo in un attimo dodici anni di sacrifici).

Ora, il punto è esattamente questo: quanto più grande è lo stock di debito accumulato, tanto maggiore deve essere, a parità di altre condizioni, la quantità di risorse da destinare al suo servizio, cioè la quantità di entrate dello Stato che il Governo deve destinare ai detentori dei titoli (alla rendita finanziaria).

Non devo spiegarvi come si interseca questo discorso con quello che facevamo ieri. Non devo farlo io, perché lo hanno fatto nel loro paper Reinhart e Sbrancia! Siamo (noi advanced) a un livello di debito pari a quello con cui siamo usciti dalla Seconda guerra mondiale. La pandemia ha dato una bella spinta verso il 120%, ma già prima eravamo in crescita al 100% e oltre. Ora, o ci avventuriamo verso livelli giapponesi, ma bisogna esserci portati, o le strade, come spiegano le nostre autrici, sono tre: il default (come bancarotta vera e propria o come ristrutturazione del debito), l'iperinflazione, o la "repressione finanziaria" (regolamentazione dei mercati finanziari, e in particolare della banca centrale). Mi riferisco, più precisamente, alle strade intraprese storicamente, perché, come notano le autrici, in teoria ci sarebbero altre due opzioni, che però sono mutuamente esclusive: l'austerità o la crescita. Della prima abbiamo visto in pratica che non funziona, e della seconda abbiamo visto che è difficile averla con una banca centrale indipendente che ti chiede austerità e ti tira su il tasso di interesse.

Come sta andando con i dazi lo avete visto: "Potevate avere la rivalutazione o i dazi, vi siete opposti ai dazi, avrete tutt'e due!" Qui a tendere l'alternativa è fra default o "repressione finanziaria" (in particolare come mitigazione dell'indipendenza della Banca centrale). Non avrei dubbi su cosa scegliere, ma vedrete che si farà di tutto per fare la scelta peggiore. Se però non ci si riuscisse, se per una volta il buon senso prevalesse, ecco che si metterebbe finalmente in discussione la strana idea per cui uno Stato deve affidare la propria politica monetaria a un'istituzione, la Banca centrale, il cui scopo è fare lo sgambetto al ministero del Tesoro nell'interesse di pochi e non rispondendo a nessuno, e di motivi per metterla in discussione, questa strana idea, ce ne sono svariati: non solo, come sapete, agendo a modo loro le banche centrali indipendenti si sono dimostrate incapaci di raggiungere i propri obiettivi di inflazione e hanno ostacolato l'obiettivo di crescita, ma, come vi ho mostrato oggi, hanno anche creato un discreto problema di sostenibilità del debito in giro per il mondo!

Certo, non si può dire.

Ma non dobbiamo dirlo noi: lo dicono i dati!

Concludendo, quindi, la rinuncia al dogma della Banca centrale non è necessaria solo per evitare che riparta la giostra degli squilibri globali, come ci dicevamo ieri qui e questa mattina in diretta, ma anche per evitare che il debito si avviti definitivamente su se stesso. Ciò richiede un ambiente di crescita moderatamente inflazionistica, come quella che Trump vuole realizzare negli Usa rimpatriando le filiere strategiche, e noi dovremmo realizzare qui (ma potremo farlo solo abbandonando il delirio green e facendo un discorso pragmatico sulle fonti di energia).

Questo lo teniamo da parte per i prossimi quattordici anni, e vediamo se invecchierà bene come quest'altro. Non so se augurarmelo...


(...anch'io ho sofferto! Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d'ora...)

domenica 27 aprile 2025

Produzione di squilibri a mezzo di squilibri

Parafraso il titolo di un libro che mi venne imposto dal docente di storia delle dottrine economiche quando ero iscritto a filosofia. Potete immaginare quanto riuscissi a capire di un testo così tecnico, ma all’epoca funzionava così, non si era ancora affermata l’ideologia del facilismo, con le sue carte patinate e i suoi box riassuntivi dai colori tenui: i docenti universitari buttavano tutti in piscina e poi si interessavano a quelli che sapevano nuotare. Suona un po’ darwinista, e forse lo è (mi perdonerà Enzo che ho rivisto con piacere ieri sera), ma il fatto è che nella sua apparente scorrettezza quel sistema funzionava.

Oggi però non voglio parlarvi della conversione dei valori in prezzi (quindi non voglio neanche spiegare che cosa sia a chi ha la fortuna di non saperlo), ma di una conversione molto più semplice: quella degli euro in dollari, ponendo qui a voi in modo più articolato e disteso, una domanda che ieri ho posto a un amico in una conversazione privata, e poi, in serata, a una platea ristretta di studenti in un seminario altresì privato, dove ci siamo molto divertiti (nel senso eletto ed etimologico del termine):



La domanda parte dalle osservazioni di Paolo Torp al post su Unione Europea e squilibri globali, e in particolare dalla sua constatazione di quanto lucida fosse la visione che Geithner aveva del tema degli squilibri globali. Come penso di avervi ricordato più volte, e senza nulla togliere alla capacità analitica e alla chiarezza di esposizione di Geithner (o dei suoi stagisti), in tanta consapevolezza non v’era nulla di miracoloso. I global macroeconomic imbalances erano un tema di ricerca assestato e consolidato da anni negli Stati Uniti, arrivato poi qui con il consueto ritardo di fase della nostra produzione accademica, tant’è che due anni prima anch’io mi ci ero buttato per scrivere un lavoro sul ruolo svolto dalla Cina nella loro formazione.

Ora, nel post in questione ironizzavo sul fatto che all’epoca Geithner diceva al G20 quello che oggi Draghi balbetta in audizione.

A parte il ritardo di Draghi, in fondo non è così strano che eventually (che non significa "eventualmente", ma "alla fine", nonostante quello che pensano i colleghi che chiamano il pi greco “Pai” come le patatine e i decenni “decadi”) i due si ritrovino su una diagnosi condivisa. Diagnosi che poi è quella della migliore economia ortodossa ed eterodossa da sempre, e, con maggiore consapevolezza, in particolare dai tempi degli accordi di Bretton Woods, dove, come sapete, il contrasto fra le posizioni americana e inglese verteva essenzialmente su come strutturare il sistema monetario internazionale perché arginasse l’emersione di squilibri globali, ovvero sul tema, oggi di particolare attualità grazie alle posizioni espresse dagli esperti di Trump, della condivisione dei costi di quella struttura cruciale per lo sviluppo economico che è l'architettura finanziaria internazionale (ne parlammo occupandoci di Keynes, Draghi, Gollum e i tassi negativi).

Questa unità di visione attraverso il tempo è tanto meno strana in quanto Geithner e Draghi sono cuccioli più o meno riusciti della stessa nidiata globalista. Eventualmente (nel senso di eventualmente!) può apparire strano che posizioni simili siano espresse dal segretario al Tesoro di Obama e dagli esperti di Trump! Che cosa potrà mai avere in comune il presidente statunitense che Berlusconi definiva “abbronzato“, fulgida icona della globalizzazione, con l’attuale presidente statunitense? La risposta superficiale credo sia “niente!". Penso che ci possano anche essere risposte meno superficiali e più articolate (che però nessuno mi sta dando), ma intanto andiamo avanti con la domanda che ieri ho posto due volte: se per gli Stati Uniti, indipendentemente dall’orientamento politico di chi li conduce, gli squilibri globali sono un problema, è mai possibile che non si siano posti e non si stiano ponendo il tema del ruolo dell’euro?

Mi spiego.

Anche gli squilibri globali sono, a modo loro, un “bene” (cioè un male, un’esternalità negativa), e vale quindi per loro quello che vale per gli altri beni. Esattamente come una Volkswagen, così anche uno squilibrio globale, per poterlo esportare, devi prima produrlo. La fabbrica delle Volkswagen (o almeno la sua principale sede legale) è a Wolfsburg, quella degli squilibri è a Francoforte: è la BCE. Come vi ho documentato nel post sugli squilibri globali, un paio di giorni fa, e nei post cui esso rinvia, la “materia prima“ del colossale squilibrio commerciale esportato dall’eurozona a partire dagli anni '10 è costituita dai tanti squilibri regionali fra Germania e paesi appartenenti al mercato unico. Questi squilibri regionali, costruitisi grazie all’euro, si sono poi riversati sui mercati globali a causa dell'austerità, che aveva prosciugato la capacità del mercato unico di assorbirli. Il punto è che se in primis questi squilibri non ci fossero stati, nessuna austerità avrebbe potuto contribuire a esportarli! Ai neofiti e ai passanti ricordo in sintesi che l'euro ha permesso alla Germania di vendere le proprie auto (e le proprie lavatrici, e i propri sommergibili...) all'Europa periferica a un prezzo relativamente contenuto perché non influenzato dal marco forte, e ai paesi periferici di indebitarsi a tassi molto convenienti per comprare le auto tedesche perché distorti al ribasso dalla "credibilità" dell'Unione economica e monetaria: gli squilibri nascono così, per una duplice inibizione del meccanismo di formazione di un prezzo di equilibrio in due mercati importanti, quello valutario (che avrebbe naturalmente condotto a un cambio tedesco più alto) e quello finanziario (che avrebbe naturalmente condotto a tassi di interessi greci, portoghesi, spagnoli ecc. più alti). Può sembrare strano ai profani che quello che è stato descritto come un bene assoluto (i bassi tassi di interesse) si riveli un male (un incentivo all'indebitamento), ma per i professionisti due principi dovrebbero essere assodati: che non ci sono pasti gratis e che non esistono distorsioni benefiche del mercato...

Ora, qui bisogna rovesciare una frase a me tanto cara di Keynes ne “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi per realizzarlo!”. Dobbiamo cioè chiederci se, perché e fino a quando gli Stati Uniti potrebbero volere il mezzo (cioè l’euro) visto il fine che realizza (cioè gli squilibri globali), fine al quale loro si sono sempre detti contrari in un’ottica assolutamente trasversale dal punto di vista degli orientamenti politici.

Ecco: mentre nella conversazione privata con uno di voi sono riuscito ad andare al punto in modo abbastanza rapido, ho seri dubbi che intervenendo al seminario io sia riuscito a farmi capire.  Come vi dicevo in un commento al post precedente, il costo di una accresciuta consapevolezza rischia di essere l'autoreferenzialità. Un costo che forse paghiamo anche qui: per farmi capire da chi è appena arrivato sono costretto a citare altri post di questo blog, il che, mi rendo conto, trasmette un senso di autoreferenzialità (ma ogni post in realtà cita letteratura e dati "esterni"), anche se è semplicemente un modo per tenere insieme il filo del discorso.

Faccio un esempio delle mie difficoltà nel dibattito di ieri sera, partendo da un argomento che ho sentito formulare, quello secondo cui “dobbiamo stare con Trump perché scardina il sistema”, cioè, in sintesi, “il nemico del mio nemico è necessariamente un mio amico”. Ora, non è che io non lo condivida, questo approccio, come sapete! Per me che sono entrato in politica con un unico obiettivo, quello di espellere gli occupanti abusivi del concetto di “sinistra”, qualsiasi cosa li faccia impazzire è naturalmente benvenuta! Tuttavia, mi fa un po’ sorridere che le persone che ragionano così siano le stesse che poi con fare pensoso e riflessivo affermano un’altra banalità, cioè che “di tattica si muore”. Il dibattito fra tattica e strategia ha una lunghissima dignità anche nelle scienze economiche e si riconduce al dibattito se il lungo periodo possa essere o meno considerato come la somma di tanti brevi periodi. Non è di questo che voglio parlare, dovrei studiare molto per aiutarmi e aiutarvi a capire questo dibattito, peraltro irrisolto, ma voglio solo stabilire il punto che “il nemico del mio nemico è mio amico” è un ragionamento intrinsecamente tattico: mi suggerisce come posso fare un danno al mio avversario, ma non mi definisce l’obiettivo che voglio raggiungere, sia esso la vetta del Monte Porrara o una più equa distribuzione del reddito.

Il dibattito di ieri sera era anche arricchito, e in qualche modo confuso, dall’apporto di diversi geopolitici, categoria che qui abbiamo trattato un po’ come gli ingegneri, liquidandoli affettuosamente e forse un po’ affrettatamente, e di cui mi piace evidenziare un paradosso: a quel che capisco, secondo loro la geografia dominerebbe in quanto determina l’accesso a risorse strategiche per lo sviluppo economico, ma l’economia sarebbe però una categoria trascurabile. Insomma: la geografia ci interessa perché determina l’economia che però non ci interessa. Sul primo pezzo della proposizione non posso che essere d’accordo, da persona che con la geografia lotta ogni settimana sulle creste delle montagne, e che quindi è in grado di capire perché Passo Lanciano o Forca di Penne si chiamino così - anche se oggi pochi li percorrerebbero per raggiungere le rispettive località eponime (sì, perché ci sarebbe anche quell’altro dettaglio: sulla geografia regna la geologia, ma il percorso che porta dai lenti movimenti delle placche tettoniche all’estrema volatilità del tasso di cambio è un pochino troppo lungo e oggi ce lo risparmiamo)! Sul secondo ho qualche dubbio. In effetti, quello che attribuisce a un particolare elemento della tavola periodica lo status di risorsa è la sua capacità di soddisfare bisogni che in alcuni casi sono determinati dalla biologia, ma in molti altri dall'economia. Pensate alle famose terre rare (che rare non sono): quello che le ha fatte diventare così cruciali è stata la risposta statunitense al surplus della Germania, il Dieselgate con il conseguente reindirizzamento dell'automotive tedesco verso il green (e connessa sceneggiata gretina). Come la definiremmo questa dinamica se non economica? E quindi viene prima l'uovo geografico o la gallina economica?

È un po’ come l’altro paradosso, quello secondo cui la volontà di potenza della politica è indirizzata a espandere la propria sfera di influenza economica, ma l’economia non conta perché c’è il primato della politica! Fatto sta che senza sghei non si armano eserciti, e il primato della politica va così a farsi benedire di fronte al primato della contabilità (che ha a più che vedere con l'economia che con la politica).

Non voglio però commettere l’errore dal quale vi metto sempre in guardia, quello per cui se sei un martello ogni problema ti sembra un chiodo. Non mi viene in mente nessun modo consentito dalla legge per vincere una partita a scacchi con un martello (mentre quello non consentito dalla legge è ovvio: suonarlo in fronte all’avversario, che poi è quanto regolarmente avviene sullo scacchiere internazionale)! Non voglio quindi sminuire assolutamente il ruolo di altri approcci analitici, considerando che le categorie economiche in 15 anni di riflessione non mi hanno consentito di trovare una risposta a questa semplice ma fondamentale domanda: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell’euro (e quindi dell’Europa)? È chiaro che a questa domanda non si può trovare risposta nell’ambito della mera ottimizzazione, soprattutto perché la funzione obiettivo ci è ignota, e il contesto è di informazione estremamente asimmetrica. Cercherò di promuovere un dibattito su questo tema coinvolgendo più competenze, ma intanto “mi verrebbe da” (cit.) dirvi in che cosa penso che la dimensione economica possa aiutarci, e per farlo vi ricorderò alcuni "fatti stilizzati" economici che secondo me dovrebbero essere integrati (e non so se lo siano) nel ragionamento "geopolitico" per dargli una piena rotondità. Perché sì, va bene la KernEuropa, vanno bene le "grandi potenze talassocratiche", va bene tutto, ma poi la sera, o almeno a mezzogiorno, qualcosa in tavola ci deve essere, e la categoria rilevante in questo caso è indubbiamente quella di distribuzione del reddito...

Parto da una delle cose in qualche modo “dissonanti“ con le categorie della mia professione che ho sentito ieri: l'idea che la globalizzazione sarebbe stata provocata dal crollo del muro di Berlino, e sarebbe il tentativo di dare una risposta al mutamento degli assetti geopolitici determinato da questo crollo. Ora, gli economisti sono abbastanza d’accordo sul fatto che la terza ondata di globalizzazione sia in realtà iniziata quasi un decennio prima, cioè all’inizio, non alla fine, degli anni ‘80, e si sia manifestata in termini istituzionali sotto forma di una liberalizzazione progressivamente indiscriminata dei movimenti di capitale (le "riforme strutturali", come oggi si direbbe, all'epoca furono quelle). La liberalizzazione era lo strumento che serviva al capitale per sconfiggere definitivamente il lavoro mettendo in concorrenza il penultimo con l’ultimo proletariato (fuori di metafora, portando i capitali a costruire fabbriche dove il lavoro costava di meno). Volendola buttare in politica, questo significa che la tromba della globalizzazione ha squillato non quando il blocco occidentale ha sconfitto i comunisti a casa loro, ma quando il capitale ha sconfitto il lavoro in casa propria. Volendola dire in un altro modo, in questa lettura la terza globalizzazione comincia quando il capitale ha vinto la lotta di classe, non è la battaglia che ha consentito al capitale di vincerla (ricordo agli interessati anche il post in cui abbiamo affrontato specificamente il tema delle caratteristiche strutturali di questa globalizzazione).

Ora, un geopolitico secondo me è assente giustificatissimo dai presupposti di questa interpretazione della realtà. Gli mancano almeno due elementi che noi invece qui possediamo. Il primo è la constatazione di un fatto: la crescita dei salari reali da noi termina alla fine degli anni ‘70 (quando i salari si fermano e la produttività prosegue per un po’ il suo cammino); il secondo è la nozione di che cosa sia la “repressione finanziaria” e di cosa comporti la sua affermazione o il suo smantellamento. Il primo fenomeno ve l’ho messo in evidenza fin dall’inizio e l’ultima volta nel post sull’Italietta della liretta, sul secondo ci siamo soffermati più volte, a partire dal post su produttività, salari, crisi, logaritmi, marxiani, onestà, che è comunque un post fondante di questo blog e che vi consiglio di rileggere anche per capire che il fenomeno dell’arresto dei salari reali non è circoscritto al nostro paese:


ma è un fatto stilizzato, anzi: il fatto stilizzato più significativo per caratterizzare le dinamiche del blocco occidentale, un fatto che non può essere eluso da spiegazioni che ambiscano a fornire basi solide a ragionamenti predittivi.

Mi viene qui in mente un altro paradosso: in tutte le conversazioni “geopolitiche” prima o poi salta fuori il concetto, assolutamente dignitoso e condivisibile, secondo cui l’ordine mondiale proposto, esposto, imposto, dalle cosiddette democrazie liberali non sia assolutamente l’unico modello di democrazia. Il paradosso consiste nel fatto che quelli che affermano questa indiscutibile verità nella stragrande maggioranza dei casi mettono in disparte, o proprio non considerano, il fatto che anche all'interno del perimetro delle democrazie liberali esistono diversi possibili atteggiamenti verso l’egemonia del mercato. Anche qui: non vorrei che l’essere un "martello" docente di politica economica mi facesse vedere ogni problema come il "chiodo" del rapporto fra Stato e mercato. Tuttavia, non porre al centro questo tema quando si ragiona dei rapporti politici in uno Stato o fra gli Stati mi sembra un errore. Ve la dico in un altro modo: magari nell’affermare che un altro mondo è possibile si dovrebbe partire dal chiedersi se un’altra Banca centrale sia possibile, il che presuppone la conoscenza del percorso storico che ha portato a questa indipendenza, e la capacità di trarre un bilancio sull'esperienza dell'indipendenza…

Ora, torno al punto cui volevo condurvi: la lettura secondo cui la terza globalizzazione inizia alla fine degli anni  ‘80 può naturalmente convivere con la datazione che del fenomeno danno economisti, se si aggiunge un passaggio, ipotizzando che l’Unione Sovietica fosse già tecnicamente morta all’inizio degli anni ‘80. In questo caso, però, il crollo del muro da elemento "fondativo" della terza globalizzazione andrebbe letto come evento di enorme portata simbolica (quella è innegabile), ma che i capitalismi occidentali non hanno avuto bisogno di aspettare per regolare i conti con i loro proletariati, o almeno per porre le basi istituzionali che consentissero loro di regolare questi conti in modo più spiccio (l’indipendenza della Banca centrale si afferma infatti all’inizio degli anni ‘80). Tuttavia, e qui vado al punto, per capire se sulla relazione con Trump si debba costruire una tattica o si possa articolare una strategia, cioè, in altri termini, per capire se Trump sta veramente scardinando l’ordine mondiale instauratosi alla fine degli anni ‘70 con la sconfitta del lavoro, cioè della classe media, e la vittoria del capitale, cioè del capitalismo dei fondi, credo sia fondamentale avere un’idea condivisa e argomentata di quando è iniziato questo ordine mondiale e in che modo. In altre parole, ho qualche difficoltà con chi mi dice che la terza globalizzazione è finita grazie a Trump, o comunque che Trump vuole porre fine ai suoi giorni (per quanto io possa trovare auspicabile questa prospettiva), ma non mi fornisce una datazione del suo inizio collimante con l’evidenza che vi ho mostrato, cioè con i principali fatti stilizzati riferiti alla distribuzione del reddito nel "primo" mondo!

L’argomento che pure ieri ho sentito, cioè che Trump vorrebbe scardinare tutto in quanto ha preso sul personale il fatto che gli abbiano sparato addosso, non mi sembra molto convincente, non ne fa di per sé “uno di noi”. Questo non tanto perché a quasi nessuno di noi (spero) qualcuno ha sparato addosso, quanto perché, come ampiamente dibattuto al tempo dei "punturini" parlando di quanto la storia insegna, la minaccia esistenziale diretta è comunque un fondamento molto labile per la costruzione di una solidarietà di classe. Sparare addosso a un miliardario non ne fa necessariamente un paladino della classe media, indipendentemente dal fatto che il colpo vada a segno o meno...

Insomma, non sono riuscito a capire bene, ma è un limite mio, in base a quale ragionamento datino ad oggi la fine della globalizzazione quelli che ne datano l’inizio dalla caduta del muro (e che quindi non riescono a spiegarci come mai la quota salari nei paesi occidentali sia scesa in picchiata dieci anni prima che il "comunismo" venisse sconfitto). Quello che so, però, e che qui credo sappiamo tutti, è che il dato veramente segnaletico non è tanto quello su cui, tanto per cambiare, i media vogliono che voi concentriate la vostra attenzione (“dazi sì, dazi no”), quanto il tema più complessivo del rapporto di questa amministrazione con le istituzioni della globalizzazione, e in particolare con l’indipendenza della Banca centrale.

Quella è la battaglia da seguire.

Qui abbiamo ampiamente discusso sul ruolo che l'indipendenza della Banca centrale gioca nell'orientare la distribuzione del reddito a vantaggio della rendita finanziaria (ad esempio, alle pagg. 267 e seguenti de Il tramonto dell'euro). Basti pensare che da noi l’indipendenza ha condotto alla lunga stagione degli avanzi primari, che sono stati altrettanti trasferimenti di risorse dei contribuenti ai percettori degli interessi sul debito (categorie che in alcuni casi possono coincidere, ma che proprio nel meraviglioso mondo dell'indipendenza si sono progressivamente disaccoppiate). Oggi il fronte di questa eterna lotta è destinato a scaldarsi ancora di più, per il semplice motivo che sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea gli orientamenti politici necessariamente conducono a tensioni inflazionistiche: non credo di dovervi spiegare nulla circa le tensioni inflazionistiche intrinseche nella strategia Green in cui l’Europa ha cercato salvezza e che rilutta ancora ad abbandonare in modo chiaro e definitivamente segnaletico, e penso di non dovervi spiegare che voler rimpatriare le fabbriche negli Stati Uniti, in cui il tasso di disoccupazione è vicino ai minimi:


significa accettare il rischio che ci siano tensioni inflattive, per l'operare della curva di Phillips, di cui parlammo spiegando lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro, e su cui siamo tornati recentemente per spiegare come si fa a far scendere i salari.

La domanda quindi diventa: questa promozione, consapevole o meno che sia, di un ambiente di crescita (nel caso degli Stati Uniti) o decrescita (nel caso dell'Unione Europea) moderatamente inflazionistica verso quale scenario ci porta? Per usare le categorie di Reinhart e Sbrancia, stiamo aprendo a una "liquidazione del debito pubblico" (e non solo pubblico), realizzata tramite la promozione di una crescita moderatamente inflazionistica e della regolamentazione dei mercati dei capitali, cioè della "repressione finanziaria", con il conseguente abbandono del dogma dell'indipendenza della banca centrale e la riappropriazione dello strumento monetario da parte dei governi, o ci trincereremo dietro il dogma dell'indipendenza (per quanto la sua applicazione non abbia praticamente mantenuto alcuna delle tante promesse fatte), innalzando i tassi di interesse e conducendo il sistema economico a un progressivo soffocamento (cioè giapponesizzandoci, per usare l'espressione di Krugman che vi ho ricordato parlando dei negazionisti del declino)?

La battaglia è questa, come ben sapete: nei miei testi e in questo blog il tema dell'indipendenza della Banca centrale (ma più in generale dell'esistenza di istituzioni indipendenti dall'espressione della sovranità popolare) e la sua declinazione locale, cioè il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia, è sempre stato centrale, perché indissolubilmente legato a una domanda che non è parente così distante di quella da cui siamo partiti: chi deve decidere sulla distribuzione del reddito? Questa decisione è tecnica o politica? Spetta a burocrati non eletti e privi di responsabilità politica o a rappresentanti dei cittadini, soggetti alla volontà popolare attraverso il processo elettorale (cioè quella cosa da cui Monti voleva proteggere le decisioni importanti, che per lui andavano appunto riposte "al riparo dal processo elettorale")?

Non sono mai riuscito a capire (per mia superficialità, s'intende) quanto i geopolitici "mettano a tema" (come credo direbbero) questa domanda, che però è la domanda fondativa del vivere comune. Fatto salvo Robinson Crusoe, che non aveva motivi di porsela (e che non a caso è diventato paradigma economico del modello neoclassico - quello che nel becero e disinformato dibattito nostrano viene chiamato "neoliberista"...), chiunque non se la ponga non è un cittadino particolarmente consapevole né uno studioso particolarmente illuminante dei processi sociali.

A questa domanda è legata la domanda da cui siamo partiti: che cosa vogliono fare gli Stati Uniti dell'Europa? Immagino che i geopolitici (o i politologi, o gli ingegneri, o gli editorialisti dei grandi giornali in caduta libera) abbiano lettura diverse e tutte interessanti del significato del Trattato di Maastricht, ma dal punto di vista tecnico è piuttosto evidente che "la ciccia" è nell'articolo 104, quello che ha istituzionalizzato e formalizzato il "divorzio", cioè l'indipendenza della Banca centrale dal potere esecutivo. Quanto reggerebbe l'Occidente (immaginando che esso si componga di America settentrionale ed Europa) nel caso in cui gli Stati Uniti rinunciassero all'indipendenza della Banca centrale, per assicurare un regime di crescita moderatamente inflazionistica, e l'Europa reprimesse la propria crescita sotto la sferza di alti tassi di interesse? La repressione della crescita significa, come sapete, repressione delle importazioni, quindi promozione di surplus di bilancia dei pagamenti, quindi, ancora una volta, per finire da dove abbiamo cominciato, produzione di squilibri (commerciali) a mezzi di squilibri (istituzionali).

La posta in gioco è questa. Trump ha bisogno di una Banca centrale accomodante per realizzare il suo progetto di reindustrializzazione degli Stati Uniti, i cui sistemi d'arma, mi dicono gli esperti, dipendono ormai in modo preoccupante dalle tecnologie cinesi. Se il rimpatrio delle catene del valore strategiche, con le conseguenti tensioni inflazionistiche, venisse stroncato da politiche di alti tassi di interesse, l'intento strategico sarebbe frustrato. Lo sarebbe però anche se qui da noi si continuasse a esportare squilibri, magari sotto forma di carri armati VW!

Ecco: io alla domanda che da anni mi pongo (e che ieri ho posto due volte con scarso successo) ancora non so rispondere, ma qualcosa mi dice che vivrò abbastanza da vedere quale sarà la risposta della Storia. Come vedete, i temi posti tredici anni fa nel Tramonto dell'euro e più in generale nel corso della nostra lunga conversazione mantengono la loro centralità anche oggi che la crisi non si presenta sotto le categorie dell'economico (non è fallita nessuna grande banca, non si parla di spread, ecc.) ma del politico (la richiesta esplicita di Trump all'Unione Europea di scegliere in quale campo stare). Almeno in questo senso il tanto lavoro fatto e il tanto tempo passato insieme non sono stati inutili.

Buona domenica!

La Polonia nell'Europa a sette velocità

Nel post precedente Ciaone ha chiesto come mai la Polonia abbia conservato la propria valuta nazionale, rilevando che questo le conferisce un vantaggio sugli altri Stati membri. Non ha reagito benissimo al mio caloroso "benvenuto fra noi!" che non aveva lo scopo di mettere lui di fronte alla sua ignoranza (non mi permetterei mai), ma di mettere tutti voi di fronte all'ignoranza del resto del mondo. Sono reduce da una serata in cui, sia pure in modo piacevole e per certi versi "progressivo", si è comunque reinventata la ruota, come dicono gli inglesi. Chi sta qui da un po' non ha idea di quale sia il suo vantaggio comparato sul resto del mondo, e anzi commette l'errore di pensare che quanto qui abbiamo appreso in quattordici anni di percorso comune, di mutuo arricchimento culturale, sia patrimonio condiviso.

Non è così!

Le domande che mi sono sentito fare questa sera denotavano una totale inconsapevolezza dell'esistenza di serie criticità (per essere gentili) nel progetto europeo, per non parlare poi di analisi di ordine superiore circa le motivazioni e la genesi di queste criticità. La gente semplicemente non sa, semplicemente non capisce che il suo mondo (il mondo in cui lei vive) è una loro rappresentazione (una rappresentazione orchestrata e gestita dai suoi nemici di classe). Nel momento in cui apri un giornale invece di un libro, hai già perso la lotta di classe, e di libri non ne mancano, e presto ce ne sarà uno particolarmente utile (anche se nel titolo c'è una parola particolarmente dannosa). I giornali puoi sì leggerli, ma solo dopo aver capito bene come vengono scritti, quale fabbrica del falso siano, quali stregoni della notizia ci lavorino.

Prendiamo una delle tante cose che secondo me pochi sanno: l'Eurozona non coincide con l'Unione Europea, che a sua non coincide con l'Europa e in questo momento è ad almeno tre "velocità" (cioè coesistono in essa tre regimi):

1) Stati membri (dell'Unione) la cui valuta è l'euro: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Grecia, Slovenia, Cipro, Malta, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Croazia (dovrebbero essere venti, magari ricontateli, fosse successo qualcosa nella notte...);

2) Stati membri che conservano la valuta nazionale in virtù di deroghe (clausole di opt-out) definite nei Trattati: prima erano due (Regno Unito e Danimarca), ora ne è rimasto solo uno (sapete quale);

3) Stati membri che non hanno ancora adottato l'euro ma non beneficiano di una deroga, quindi a tendere lo adotteranno (in teoria): Svezia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Polonia, Bulgaria;

e fino a qui siamo a 20+1+6=27 Stati membri dell'Unione, ma se ci riferiamo all'Eurozona dobbiamo sapere anche che esistono:

4) Stati non membri dell'Unione che hanno adottato l'euro in seguito ad accordi bilaterali: Andorra, Monaco, Vaticano e San Marino (piccoli, ma non trascurabili);

5) Stati non membri eurizzati, cioè che hanno deciso di adottare unilateralmente l'euro: Montenegro e Repubblica del Kosovo,

dove la differenza fra (4) e (5) è che i Paesi sub (4) possono coniare monete (ma non stampare banconote), mentre i paesi sub (5) (cioè gli "eurizzati") non possono nemmeno coniare le monete.

Vi sembra abbastanza complicato?

No, è peggio di così, perché, ad esempio, non tutti gli Stati la cui valuta non è l'euro lasciano fluttuare liberamente il cambio. Basta fare il disegnino (sono solo 7):


Sicuramente il leu si è svalutato molto, il forint ha ceduto in misura minore, zloty e krona hanno avuto alterne vicende e la koruna invece si è tendenzialmente rivalutata (nota bene: sono quotazioni incerto per certo, quindi se salgono significa che ci vogliono più unità di valuta nazionale per acquistare un euro, cioè che la valuta nazionale vale meno). Se togliamo queste cinque valute, noteremo una differenza fra le restanti due:


il lev (che non ha opt-out) ha cambio praticamente fisso (a parte qualche mal di pancia iniziale), mentre la krone (che ha un opt-out) oscilla in una banda ristretta, nonostante formalmente entrambi abbiano adottato (la Danimarca non essendo tenuta a farlo) il regime ERM-2 o AEC-2 che dir si voglia. Quindi, pensate un po': dei due Paesi con opt-out, uno lasciava fluttuare il cambio (il Regno Unito) e l'altro no (la Danimarca), quest'ultimo era entrato in banda di oscillazione ristretta non essendo tenuto a farlo, mentre la Bulgaria in realtà non è esattamente entrata in banda di oscillazione ristretta (il che comporterebbe che stesse iniziando il suo percorso verso l'euro), ma ha semplicemente ereditato un precedente aggancio valutario con il marco tedesco (un currency board in vigore dal 1997), e se l'è tenuto, difendendolo con qualche difficoltà, il che significa però che è di fatto nell'euro, pur non essendo un Paese eurizzato.

Se vi è venuto un lieve mal di testa vi capisco, considerando che siamo a circa sette diversi regimi, e ovviamente non stiamo considerando l'Europa non unionale, che presenta Stati non banali come Svizzera e Norvegia.

Ora: quanti di voi la sapevano tutta? O, di converso, quanti di voi identificavano "Europa" e "euro"?

Se facciamo un focus sulla Polonia, il Paese che interessava a Ciaone, la situazione è questa:


una bella svalutazione di quasi il 30% in occasione della crisi del 2009, descritta a pag. 75 de L'Italia può farcela, poi recuperata, e da lì in avanti una tendenza alla svalutazione fino al 2022, poi recuperata anch'essa.

Ora, a voi è stato raccontato che l'euro è stato fatto per non indurci in tentazione, per non farci svalutare, ma vi ho spiegato e mostrato coi fatti che la realtà era un'altra: il suo scopo era quello di impedire alla Germania di rivalutare, lo scopo dell'euro era cioè di inibire un meccanismo di mercato che avrebbe corretto il gigantesco surplus tedesco, che la Germania non voleva correggere. Ma le cose stanno peggio di così! Eh sì, e dovreste averlo capito: perché mentre da un lato la Germania manipolava la propria valuta impedendole di rivalutarsi in modo da conservare competitività di prezzo rispetto ai Paesi terzi (fra cui gli Stati Uniti), dall'altro, però, uno dei suoi principali subfornitori, la Polonia, che è il secondo Paese di provenienza delle sue importazioni dopo gli Stati Uniti, svalutava progressivamente la propria valuta, cioè la Germania (l’euro) si rivalutava rispetto allo zloty, rendendo così sempre più convenienti la componentistica e i semilavorati polacchi per l'industria tedesca.

Insomma: la Germania, con questo bel guazzabuglio di arrangiamenti monetari a millemila velocità, è riuscita nel duplice scopo di manipolare al ribasso la propria valuta verso i suoi clienti, mentre beneficiava di un ribasso della valuta dei suoi fornitori! Vendi sottoprezzo e ti rifornisci sottocosto: che vuoi di più dalla vita? Guadagni competitività perché svaluti rispetto al dollaro e perché rivaluti rispetto allo zloty, cioè lo zloty svaluta rispetto a te...

E così abbiamo anche risposto alla domanda di Ciaone: "a chi faceva comodo?". La domanda non è mal posta, ma forse un po' superflua. I rapporti di forza vigenti finora rendevano la risposta sufficientemente ovvia: a chi comanda(va), cioè alla Germania. So che molti di voi storceranno il nasino, ma against this backdrop qualsiasi cosa faccia comandare un po' di meno la Germania mi sembra debba essere visto come un successo, o almeno come la mitigazione di un danno, anche se comporta scelte geopolitiche urticanti per alcune sensibilità.

Liberi voi di pensarla diversamente: io la penso così, e credo di avervi spiegato oggi il perché.

Buona notte!

venerdì 25 aprile 2025

UE e squilibri globali: un dialogo fra sòrdi

Un paio di anni fa vi feci vedere che prima della Strafexpedition tedesca (per restare in tema di 25 aprile) contro gli Untermenschen colpevoli solo di aver acquistato beni tedeschi gli squilibri commerciali fra Paesi europei erano rimasti all'interno dell'Eurozona. Falcidiate le popolazioni periferiche con una raffica di austerità, nell'inverno del '43 (no, scusate, quelli erano i Limmari, che ora risarciremo, forse, coi soldi del PNRR, cioè coi soldi nostri), nell'inverno del '13 la Germania, non potendo invadere la Polonia, che ora si difendeva con l'arma più potente (la flessibilità del cambio) invase gli Stati Uniti con le proprie auto:

Questo è il grafico che vi mostrai all'inizio del 2023 nel post sui banchieri filantropi, mentre qui trovate l'analisi più dettagliata che ho esposto al nostro convegno del 5 marzo, descrivendo 50 anni di squilibri europei e globali:


Non sapevo, nonostante che gli squilibri globali fossero già all'epoca un mio tema di ricerca, e apprendo oggi da un amico che se ne era nel frattempo dimenticato, che un paio di anni prima che l'Unione Europea adottasse, sotto l'egemonia del Reich millenario, politiche deliberatamente volte ad alimentare questi squilibri, uno de passaggio aveva esplicitamente chiesto ai Governi del G20 di attuare politiche per ridurli:


E no, non lo mandava Trump: lo mandava Obama! Pensate un po'! Quello che Draghi è venuto a farfugliare in Senato, Geithner lo diceva chiaro e tondo al G20 quindici anni prima (nell'anno 1 a.G.):


Il testo integrale lo trovate qui.

Ci sarebbero diverse riflessioni da fare, ma vado di corsa perché devo essere alle 20 a Bucchianico per accogliere l'ex direttore amministrativo dell'Ospedale San Giacomo di Roma. Mi limito a quella ovvia: le istituzioni multilaterali hanno fallito nel guidare i Governi mondiali verso una soluzione cooperativa di quello che veniva all'epoca percepito come un problema, e l'Unione Europea, addirittura, implementò due anni dopo il richiamo di Geithner politiche che andavano frontalmente contro l'idea di spostare l'asse della crescita dalla domanda esterna alla domanda interna, e lo fece perché questa è la sua natura, perché sono i suoi Trattati a chiederle di comportarsi in modo "competitivo" (cioè beggar-thy-neighbour): citofonare Barra Caracciolo per esaustiva trattazione del tema!

L'Unione Europea resta quindi una minaccia per un ordinato e pacifico sviluppo dell'economia mondiale, anche se mi rendo conto che questo sia impossibile da far capire a quelli che dopo aver cacciato (da soli?) i tedeschi dalla porta, li hanno poi fatti rientrare dalla finestra, costringendoci per la seconda volta in un secolo a condividerne il destino, quando la principale lezione della Storia del XXI secolo era proprio che convenisse tener separata la propria politica da quella di nazioni animate da una grottesca Wille zur Macht. Legarsi al più suicida dei nazionalismi non è combattere il nazionalismo, ma hai voglia a insistere: è un dialogo fra sordi, o, forse, come si direbbe a Roma, fra sòrdi (cioè fra grandi capitali).

E ora vado a riverire una persona che ha fatto del bene, perché ha saputo cambiare vita.




Moro river (il mio 25 aprile)

Non poteva che finire così: l'autore del blog che non c'è non poteva che diventare il rappresentante di una Regione che non c'è, la cui arte, geografia, storia non fanno parte del bagaglio culturale dell'italiano colto. Dell'orso sanno tutti, delle piste da sci troppi, degli arrosticini molti, i più ardimentosi si spingono fino ai trabocchi, i più appassionati ricordano gli alianti di Skorzeny, i più dotti (forse) Bominaco, o Saturnino Gatti, o (ma la vedo difficile) Andrea De Litio, e poi, va da sé, qualcuno conosce Flaiano, molti credono di conoscerlo, e tutti conoscono D'Annunzio (o pretendono di conoscerlo).

Dimentico qualcosa, di quanto sapete voi?

Lo confesso: all'inizio (e parlo quindi di vent'anni fa, perché sono ormai vent'anni che lavoro in Abruzzo, e sette che indegnamente lo rappresento), quando giravo per certe città o paesi di questa Regione (di cui comunque preferivo, nella mia connaturata misantropia, le creste e gli altopiani isolati) non potevo nascondere un sentimento di sufficienza nell'imbattermi in spiacevoli soluzioni di continuità: talvolta un rudere diroccato, o un cumulo di macerie, o ancora qualche palazzina moderna, tutta cemento, intonaco e alluminio anodizzato. Lacerazioni vistose del tessuto architettonico dei centri storici, niente a che vedere col travertino di Montepulciano o col cotto di Pienza, i paesi della mia infanzia, pressoché intatti nella nitidezza del loro disegno rinascimentale; episodi che prima facie se non a trasandatezza o scarsa attenzione delle amministrazioni, potevano rinviare a storie di povertà, economica o culturale che fosse. Solo da poco ho capito una cosa che non sarebbe poi stato così difficile intuire, soprattutto a conoscere la storia dell'Abruzzo: se tanti borghi hanno perso in tutto o in parte il loro fascino antico, i loro palazzi gentilizi, le loro chiese, le loro case dagli infissi squadrati in pietra scolpita dagli scalpellini di Pennapiedimonte, le loro ringhiere in ferro battuto dagli artigiani di Guardiagrele o di Pescocostanzo, se il loro tessuto urbano è così dolorosamente lacerato, se presenta cicatrici così mal rabberciate e risarcite, un motivo c'è, ed è un motivo commovente e angoscioso, che mi fa guardare con affettuoso e coinvolto rispetto, considerandolo come testimonianza di un impreveduto e immeritato martirio, ciò da cui prima distoglievo un po' altezzosamente lo sguardo.

La Regione che non c'è è stata vittima della sua geografia che nessuno conosce, ma che la Wehrmacht conosceva bene. Si vis pacem, para bellum, e i tedeschi, in questo affini al vostro autore preferito, pensando che se qualcosa avesse potuto andar male lo avrebbe fatto, prima che le cose cominciassero ad andar male avevano mandato, travisati da turisti, dei loro cartografi a zonzo per l'Italia centromeridionale, alla ricerca di linee che si prestassero a organizzare una difesa. The Hamptons is not a defensible position, ma la sinistra orografica del Sangro (sarebbe il versante Nord, per quelli meno addentro) lo è, oh se lo è!, soprattutto, ça va sans dire, se la potenziale minaccia si immagina possa arrivare da Sud. E così i monti Pizzi, e in particolare Pizzoferrato, da dove si vede tutto, da Vasto alle montagne dello spartiacque, attrassero la loro attenzione, quella dei cartografi, e qui venne attrezzata la linea Gustav, dove vi ho portato in più di una diretta Facebook. Più in generale questa Regione, fatta di fiumi (Trigno, Sinello, Sangro, Aventino, Moro, Foro, Alento, ecc.) che scendono a pettine dalle montagne verso il mare, perpendicolarmente, creando altrettante trincee, fu il luogo dove si combatté una battaglia di ferocia uguale a quella combattuta a Ovest della cresta spartiacque, ma totalmente caduta nel dimenticatoio. Di Montecassino saprete tutti, ma della battaglia del Sangro credo sappiano pochi. La cosa che perdevo di vista era appunto questa: quello che ha fatto perdere a tanti paesi il loro antico fascino, preservato integralmente in pochi casi (Pescocostanzo fra tutti), è proprio questo: i Liberator dei liberatori, e gli Immergrün degli invasori.

Città come Orsogna, o Castel di Sangro, o la stessa Ortona


vennero completamente piallate dall'artiglieria, mentre i tedeschi resistevano alla pressione dell'ottava armata inglese di Montgomery, e dei reparti alleati: canadesi, neozelandesi, poi polacchi. E certo oggi Tommaso riposa in una diversa basilica:


che ma un motivo c'è, e va ricercato nella storia.

Una storia cui si intrecciano tante altre storie di eroismo e di viltà, fra cui suggerirei, per chi non la conoscesse, quella della brigata Maiella, che ha avuto uno dei suoi episodi culminanti proprio nella chiesa in cui ho inciso il mio ultimo disco:


(se ingrandite, vedrete nell'abside i fori delle pallottole, che i cittadini di Pizzoferrato non hanno voluto stuccare - e hanno fatto bene!).

Qualche mese fa (era a gennaio), salendo lungo la costa a Ortona da San Vito, dove ero stato a incontrare un collega per apprendere da lui alcune delle mille storie del mio collegio (perché anche questo fa parte dell'impegno che ho preso con i miei elettori: avere l'umiltà di ascoltare chi ne ha viste più di me), avendo, per una volta, tempi non troppo contingentati, mi sono lasciato tentare da una deviazione:


Their name liveth for evermore! 

Quando c'è, perché alcuni sono ignoti, cioè, come si dice nella loro lingua:

Known unto God (ed ho imparato che questa formula così ispirata ed espressiva era stata scelta da un poeta nominato dalla Imperial War Graves Commission: ci sono anche burocrazie che funzionano...). Tirava un vento porco, ma non sentivo freddo (era l'11 gennaio e poi l'avrei pagata). Erano i canadesi: passavo in rassegna smarrito e colpevole il loro schieramento:

più ordinato e solenne di quello dei miei VAM di Torricola, e pensavo che l'inglese, in fondo, è una bella lingua:


o almeno così risultava, in quelle lapidi, al confronto con la da me tanto amata e frequentata lingua francese. La sintesi e la concisione conferivano alla lingua imperiale una potenza certo amplificata dalla sacralità del luogo.

Poi, a Ortona, a casa di un altro rispettabile politico di lunga esperienza, mi sono imbattuto in un bel libro sulla battaglia di Ortona, apprendendo così dell'esistenza del "Moro river":


oggi piuttosto malridotto. Gli italiani nemmeno sanno che esista, ma gli inglesi sì e per un buon motivo: perché nonostante sia poco più di un rigagnolo, oggi maleodorante, l'Ottava Armata ci aveva messo un bel po' a superarlo.

Chissà che età aveva il ragazzo della prima foto, chissà se ha portato la pelle a casa, se ha ancora un nome, o se è noto solo a Dio. Chissà che cosa stavano osservando i suoi occhi sgranati sotto al Brodie. Chissà se ci era voluto venire, sulla sponda Sud del Moro river, o se ce lo avevano costretto, o se non si era posto troppe domande, nel partire, ritenendo che quello fosse un suo dovere, o magari ignorando che cosa questa decisione, presa o subita, significasse: fango, sangue, terrore... Noi oggi non possiamo concepire, perché non vogliamo vedere. Sta succedendo ancora, non ha mai smesso di succedere, quelli che ci hanno propinato il mito irenico dell'Europa sono gli stessi che non hanno voluto, e tuttora non vogliono, fare i conti con quello che è successo, perché vogliono rimuovere quanto sta succedendo, e soprattutto il perché stia succedendo, e il perché potrebbe succedere di nuovo (cioè il perché potrebbe succedere a noi, perché è sufficientemente chiaro, e la storia dei punturini ce lo ha definitivamente chiavato in testa, che finché non succederà a noi non capiremo che la Storia non è finita).

Vorrei dirvi molte altre cose, ma devo dormire. Non mancheranno occasioni.


(...oggi, rientrando da Pizzoferrato verso Fortunati con Rex,


a Casale Greci - c'è anche Casale Turchi, Pizzoferrato è stato costretto all'inclusività dalla sua lunga storia - due cani ci hanno aggredito. Pareva ce l'avessero con lui, che non si sottraeva. Devo dire che la mia prima reazione è stata quella di lasciare che se la spicciassero da soli. Ho sempre avuto paura dei cani: l'appostismo non è una loro virtù, la troppa confidenza con l'uomo li rende pericolosi. Quando poi ho capito che Rex era in difficoltà, ho pensato che fosse troppo facile abbandonare al suo destino qualcuno che aveva avuto la cortesia di accompagnarmi dove avrei preferito non essere solo, e allora ho fatto l'uomo: ho deciso che comandavo io, che in cima alla piramide alimentare c'ero io - anche se a mani nude avrei potuto essere smentito - e mi sono convinto di avere coraggio, "facendo brutto" ai due aggressori. Ripristinata la gerarchia naturale - cioè artificiale - delle cose, Rex si è venuto immediatamente a rifugiare fra le mie gambe, come mi hanno detto che facciano i cani quando sentono il lupo - o una sua convincente imitazione - mentre io invitavo col mio proverbiale garbo i suoi distanti cugini ad andarsene per i fatti loro. Evidentemente sono riuscito a convincerli che non mi spaventavano, ma non era così. D'altra parte, Rex è community, ormai - e qualcuno di voi sa che per quanto vi possa trovare appiccicosi e indigesti, quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis, mihi fecistis. Entro certi limiti, non sempre gestibili, la paura è una scelta. Sarebbe bello non dover sondare questi limiti, ma purtroppo, come ci ricorda questo racconto, e la sua foto d'apertura, questo non è sempre possibile. Non abbiate paura... o almeno non fatelo vedere!...)

mercoledì 23 aprile 2025

La riforma strutturale

Scusate: un rapidissimo post di servizio per chiedervi una mano.

Qui ormai i “veci” sono pochi, o forse i “bocia” sono troppi. Credo che possa essere utile, per aiutare i nuovi arrivati a orientarsi, rimettere un po’ di ordine nelle pagine “chi sono” e “per cominciare” (e forse anche in altre pagine, come “video”). Sono quelle che vedete nei menù qui:

o qui:


a seconda del dispositivo che state utilizzando.

Mi è venuto in mente vedendo Wendelgee rispondere a idivev sul riferimento al paper di Reinhart e Sbrancia, uno dei paper fondamentali per lo sviluppo del nostro pensiero e per la comprensione di quello che potrebbe accadere (ci tornerò con calma domani sera dalla montagna).

Credo che l’ultima revisione di quelle pagine risalga a almeno 10 anni fa, e nel frattempo sono successe tante cose: abbiamo incontrato sul nostro percorso altre letture fondamentali (ad esempio Io sono il potere), abbiamo scritto dei post che possono esservi sembrati più utili di post magari precedenti nel vostro percorso di comprensione, può essere successo che alcuni link si siano corrotti e vadano aggiornati, o magari preferireste vedere quelle informazioni presentate in modo diverso (io la mia biografia oggi la scriverei in modo diverso, ad esempio, visto che oggi sono un politico e non un accademico). In generale, ci saranno certamente delle cose che a vostro avviso potrebbero essere utili per aiutare chi arriva qui a recuperare il suo “decennio perduto”, quello passato ignorando il Dibattito.

Se vi va di perder tempo a dare un’occhiata a quelle pagine e a darmi qualche consiglio, mi fate una cortesia. Ho visto che vengono ancora visitate (nelle ultime 24 ore, ad esempio, una ventina di persone sono atterrate sulla pagina “per cominciare”, e al posto loro io me ne sarei andato per sempre!), e poi si presentano in continuazione esigenze specifiche come quella che vi riferivo sopra.

Quindi, ricapitolando, una mano a togliere roba obsoleta e aggiungere roba che invece ritenete “fondante“ (con la “a”) per il nostro discorso sarebbe gradita al padrone di casa e agli eventuali avventori occasionali. I meno occasionali sanno come orientarsi, ma proprio per questo a loro io sono meno utile. 

(…ci vediamo dopo. Ora S.A.S. deve presentarmi una persona. Una roba così, per capirci! Come passa il tempo…)


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