martedì 8 aprile 2025

I giullari

Scusate, non ve la faccio lunga anche perché ho parecchio da fare, e non voglio imporvi né concedervi i due minuti di odio, ma solo avviare una civile e pacata riflessione su cosa sia diventata la sinistra (sostanzialmente, quello che è sempre stata, temo...).

Oggi leggo sui giornali che Salvini sarebbe un traditore della patria:


e mi vengono due riflessioni spontanee: dov'era cotanto giullare quando il PD eseguiva la lettera della BCE con questi risultati:


vantandosi anche di averlo fatto non nell'interesse dell'Italia ma dell'Europa:


e dov'era cotanto difensore della democrazia:


quando l'UE assassinava la culla della democrazia:


avallando un piano di salvataggio basato su ipotesi economiche assurde, della cui assurdità gli spietati esecutori erano perfettamente consapevoli?


Ho orrore di questi macabri giullari, ho ribrezzo del loro sentirsi dalla parte del giusto jure sanguinis, mi nausea la loro tolleranza verso le sofferenze altrui, ammantata di un buonismo un tanto al chilo a favore di elzeviro, indirizzato agli oleografici "ultimi", così, per mettersi in pace la coscienza e dormirci su tranquilli, mentre i penultimi vengono macellati fino all'ultimo...

Non è solo un deficit culturale: è proprio un deficit etico.

Ma so che non vi insegno nulla.


TTIP

Dunque, da quello che sono riuscito a capire la storia sta andando avanti così: arriva il poliziotto cattivo e dice di voler mettere dazi ritorsivi contro Paesi che da 10 anni il suo Paese denuncia come manipolatori di valuta. Ci sta, verosimilmente una manovra simile è ammessa anche dal WTO, che infatti (non so se ci avete fatto caso) nella disputa che si è sollevata è il grande assente, o quantomeno, se è intervenuto, non ha avuto da parte degli operatori informativi alcun particolare risalto. Strano, perché questa è proprio materia sua! Forse lo sberlone dato dal poliziotto cattivo all’OMS ha insegnato alle fallimentari istituzioni della globalizzazione ad abbassare le penne, o forse mi sono semplicemente distratto…

Partono dotte disquisizioni sulla fine della globalizzazione e sul desiderio del capitalismo di schierarsi dalla parte dei lavoratori (qui abbiamo aggiunto a questa pozione un discreto mestolo di punti interrogativi, ma noi siamo brutte persone…).

Poi arriva il poliziotto buono, che con accenti degni del miglior John Lennon ci dice: “Immagina un mondo senza dazi!”

Last but not least, arriva la causa degli squilibri a dire: “Ci piace un mondo senza dazi! Facciamolo, o altrimenti la nostra vendetta sarà terribile!”

E a questo punto il poliziotto cattivo si fa una risata omerica di fronte alle minacce del minacciato e si frega le mani soddisfatto per aver portato il risultato a casa.

Che ne dite, il ragionamento tiene?

In questo caso, buon Parmesan a tutti!


(… non metto link perché tanto non li leggete, e quando ci servirebbero, fra una decina d’anni, per capire a chi mi sto riferendo - nell’ordine: Trump, Musk, von der Leyen - i link sarebbero inevitabilmente corrotti, impedendoci di ricostruire questo esilarante momento storico caratterizzato, come tutti i momenti storici, dal fatto che a fare più rumore sono quelli con meno argomenti…)

(…a tanta raffinatezza non credo neanche io, ma vedo che in questo periodo si tende a perdere la bussola con una certa facilità. Se si parla di tattica, il nemico del mio nemico è necessariamente un mio amico. Se si parla di strategia, bisogna avere la capacità di guardare qualche mossa avanti. Inutile dire che, pur con tutti i condizionamenti che abbiamo imparato a leggere storicamente in testi come “Sorvegliata speciale“, se il Paese godesse di una maggiore autonomia la situazione sarebbe meno complessa da gestire e soprattutto da interpretare. L’obiettivo strategico è e resta chiaro…)

lunedì 7 aprile 2025

#goofy14: il sondaggio (do something!)

Scusate, un po' perché questo eterno ritorno dell'uguale è trascolorato dalla "s" di seducente a quella di stucchevole, un po' perché proprio non ho tempo per metterci la testa, non riesco a concepire dei nomi di persone che potrebbero venire a dirci dopo quello che noi sapevamo prima (ma in modo interessante), né tanto meno (perché ce ne saranno) quelli di nomi che possano dirci ora che cosa potrebbe succedere dopo.

Voi, al #goofy14, chi invitereste e soprattutto: perché?

Scusate se vi chiedo una mano, ma ogni tanto bisogna pure che anche voi vi abbassiate a "do something", accogliendo l'autorevole invito di LVI.

Accetto suggerimenti (e poi fo come mi pare).

Gradite anche "dissenting voices".

Mi raccomando: do something!

domenica 6 aprile 2025

L’orazion picciola (sovranità e federalismo)


(…che poscia a stento li avrei ritenuti…)

(…io non sono da palco, ma sono disciplinato. Ne avrei volute dire tante, magari le metto nel prossimo post…)







sabato 5 aprile 2025

La fine della globalizzazione?

Mi ricordo che una volta chiamai il professor Canfora, che avevo incrociato in una trasmissione televisiva e che volevo invitare nuovamente al nostro convegno annuale, ed esordii, dopo i convenevoli di rito, con questa domanda: “Caro professore, lei che è uno storico, sa dirmi quante probabilità ho di riuscire ad attuare politiche di sinistra militando in un partito di destra?“.

Prima che iniziate a subissarmi con le vostre stronzate rispettabili opinioni su che cosa voi crediate siano la destra e la sinistra, sul fatto che non esistono più, e via bardellosporteggiando, sminuzzandomi le gonadi con argomenti triti e ritriti (come appunto le mie gonadi) è opportuno che vi segnali che questa domanda, che a qualcuno di voi sembra probabilmente mal posta, al limite dell’incomprensibile, venne invece perfettamente compresa dal mio interlocutore. Il senso ne era in effetti piuttosto chiaro: era ragionevole concepire che l’inevitabile contraccolpo di un’epoca in cui i diritti economici e sociali dei lavoratori erano stati compressi all’inverosimile da partiti che si richiamavano agli ideali della sinistra storica (quelli appunto di difesa del lavoro) potesse essere gestito da partiti che si richiamavano a ideali storicamente conservatori (la difesa del capitale, la proprietà privata, della libertà, del risparmio)?

Gli argomenti a sostegno di questa tesi erano a mio avviso di due ordini.

Primo, come più volte fatto notare in questo blog, e come finalmente è diventato argomento di dominio pubblico, il desiderio del capitale di allargare la sua fetta di torta si è inevitabilmente tramutato in un restringimento della torta. Certo, naturalmente il Pil mondiale continua a crescere, soprattutto per effetto del miglioramento del tenore di vita delle sterminate e crescenti popolazioni dei paesi emergenti. Certo, naturalmente i valori borsistici continuano a crescere, principalmente per effetto del pompaggio nel circuito finanziario di quantità cospicue di denaro da parte delle banche centrali, in un disperato e perennemente frustrato tentativo di tenere insieme i cocci di un sistema che non funziona. Ma, appunto, messo da parte il dettaglio non trascurabile (naturalmente) di questo aumento intrinsecamente fragile della ricchezza finanziaria di pochi, il punto è che la creazione del valore, che classicamente correliamo agli effetti del lavoro, si è allontanata, è stata dislocata altrove, e questo fa sì che una zona un tempo prospera e tuttora dotata di una certa capacità di fare opinione come l’Europa si sia scoperta da un giorno all’altro in una condizione di arretramento inconcepibile. Forse la scoperta degli ultimi due o tre anni, per noi che siamo qui, sta proprio nell’aver toccato con mano che questo arretramento non riguarda più solo l’Italia, ma riguarda tutti i paesi europei, perché si è finalmente compiuto quanto avevamo detto aprendo questo blog: la Germania ha segato il ramo su cui era seduta. C’è poi una scoperta, o meglio una decisione, più recente, che non mi sembra sia oggetto di commento in questi giorni, mentre secondo me è centrale: la decisione di Trump di nominare vicepresidente Vance, il figlio degli sconfitti statunitensi di questa battaglia internazionale del capitale contro il lavoro.

Ora, come spiegammo a suo tempo commentando le bislacche teorie di Draghi sul perché in Europa i rendimenti del capitale fossero bassi, il punto è molto semplice: se il valore non viene creato non può essere distribuito, né come salario, né come profitto. La guerra del capitale contro il lavoro è quindi una guerra del capitale contro il profitto. Questo dato di fatto direi aritmetico può emergere in vari modi: difficilmente con un consapevole gesto di resipiscenza, più frequentemente con un conflitto (bellico). Sono insomma sufficientemente consapevole del fatto che una enorme fallacia di composizione impedisce a questo elemento oggettivo di promuovere una risposta deliberata e consapevole delle élite. I “ricchi” sono tali, anche perché ciascuno pensa al suo portafogli senza essere tenuto necessariamente ad avere una visione olistica. Potrebbe tuttavia capitare, e forse sta capitando, che da quello che siamo abituati a considerare uno dei mali dell’attuale organizzazione dei rapporti economici, cioè l’estrema concentrazione della ricchezza, possa scaturire, paradossalmente, il bene di una decisione presa non collettivamente, ma singolarmente, da una persona, o da un paio di persone, in grado di cambiare da soli le regole del gioco. Non so, e non affermo, se sia questo ciò a cui stiamo assistendo, ma certo il fatto che uno dei più convincenti e appassionanti narratori della sconfitta della classe media sia in un posto così sopra la media è in qualche modo suggestivo, e ci conduce all’altro ordine di argomenti che mi portavano a immaginare che il luogo più ovvio per combattere una battaglia di sinistra oggi fosse la destra.

Lo introduco con un altro ricordo, il ricordo dei tempi in cui ero libero e passavo un po’ di tempo in Francia a insegnare. Un giorno il mio amico Arsène mi condusse dal preside della facoltà di Rouen e nel parlare del più e del meno questi mi espose la sua visione, secondo cui ci stavamo orientando verso una società che lui definiva di tipo neofeudale. Sono considerazioni che poi abbiamo sentito fare da tanti , e che non mancano di appigli nella realtà. Fra i meno ovvi, pensate ai dazi e alle gabelle che dobbiamo pagare in moneta sonante o cedendo i nostri dati ai moderni imperatori per avere il diritto di esercitare tramite cellulare alcuni nostri diritti fondamentali, incluso il diritto all’identità, quello di essere noi stessi e non altri. Una situazione non molto diversa da quando i conti di Borrello, nobile famiglia di origine franca, controllavano una strettoia della Val di Sangro esigendo il pedaggio (ma poi ti lasciavano passare, mentre oggi la situazione è leggermente più ingarbugliata: questo però ci porterebbe a parlare di altro). Fatto sta però che questo neofeudalesimo, proprio per dissimulare se stesso, per non palesarsi, tiene molto alle forme della democrazia, e quindi bisognerà pure che da qualche parte si vadano a cercare i voti. La strategia della sinistra è sufficientemente evidente: quella di appellarsi a una serie di minoranze attive e rumorose, in nome di principi condivisibilissimi e normalmente ricompresi nei diritti fondamentali che ogni democrazia liberale rispetta, ma di cui si millanta la soppressione per chiamare alla rivolta i sette colori dell’iride, sperando che messi insieme proiettino un fascio di luce sull’orizzonte cupo di chi, tradendo i lavoratori, ha tradito la maggioranza. In questo contesto, alla destra resta una strategia ovvia: occuparsi appunto della maggioranza silenziosa! La strage e il grande scempio fatto dalla sinistra rendono questa strategia, oltreché piuttosto ovvia, anche relativamente poco costosa: a chi è stato tolto tutto, compreso il diritto di lamentarsi, basta restituire il diritto al mugugno (che è gratis) per dare la percezione che qualcosa stia cambiando. Se poi ci metti anche un minimo sindacale (anzi scusate, mi dicono che non devo dire parolacce, quindi togliete sindacale), un minimo ragionevole di politica dei redditi, ecco che porti l’obiettivo a casa.

E questo quello che sta succedendo?

Non lo so, non lo sa nessuno. Dobbiamo però concentrare la nostra attenzione su questo tipo di dialettica, se vogliamo tentare di comprendere questa fase, anticiparne gli sviluppi, e valutare quanto sia favorevole per noi.

Parlare di “fine della globalizzazione“ infatti vuol dire tutto e niente. Come ho detto ieri, sicuramente incompreso, in una delle tante trasmissioni radiofoniche cui sono stato invitato, decuplicare il dazio medio sui prodotti in entrata negli Stati Uniti (da circa il 2% a circa il 20%) non significa abbandonare o rinnegare le tecnologie che hanno consentito, abbattendo i costi di trasporto dei beni materiali e immateriali, di promuovere il commercio, non significa propugnare l’autarchia e neanche il mercantilismo. La globalizzazione, che forse dovremmo chiamare glebalizzazione, ovviamente non può essere ricondotta al fenomeno dello scambio di merci fra paesi che commerciano fra loro da millenni: il problema non è la tecnologia che ha velocizzato questi scambi, ma la riorganizzazione che questa rapidità ha determinato nei rapporti sociali di produzione. Dove eventualmente si vede qualche cosa di simile a una volontà di cambiare rotta è nell’atteggiamento dell’amministrazione americana verso le istituzioni che hanno gestito la globalizzazione, a partire dalle banche centrali, passando per l’OCSE, l’OMS, il WTO, e via discorrendo. 

Non credo di dire una cosa particolarmente originale (ma di questi tempi non si sa mai): ribadisco che Trump non è esattamente “uno di noi“! Se tatticamente il nemico del nostro nemico è necessariamente un nostro amico, strategicamente dobbiamo chiederci quanto restituire il diritto al mugugno sia dare reale voce agli oppressi da un regime totalitario, su quanto restituire qualche briciola significhi riequilibrare i rapporti sociali di produzione e organizzarli in un modo più razionale e meno suscettibile di condurre all’emersione di nuove tensioni, su quanto implichi rendere nuovamente le persone e i territori arbitri del loro destino. Insomma, prima di dire che qualcosa è finito, bisognerebbe accertarsi che stia cominciando qualcos’altro. O, se volete, per metterla in un altro modo, la fine della globalizzazione, se è arrivata, esattamente come la fine dell’euro, quando arriverà (vi ho promesso che sarà Draghi ad annunciarla esplicitamente, perché implicitamente lo ha già fatto, e così sarà), non ci consegna a un periodo di pace, ma a un periodo di conflitto potenzialmente ancor più difficile da gestire, perché soggetto all’illusione che i nostri avversari siano nostri alleati.

Ma esattamente come le nostre aziende, sopravvissute a un trentennio di cambio strutturalmente sopravvalutato e alla distruzione del 25% della domanda interna del paese in cui hanno sede, sopravviveranno a un dazio del 20%, soprattutto quando gli fornisce vantaggi comparati a doppia cifra su paesi con i quali finora la competizione era acerrima, anche noi, con l’arma della consapevolezza, riusciremo a difenderci nel nuovo contesto.

E così sia.

(…oggi il duro mestiere di ecclesiarca mi ha condotto nella Piddinia inferiore a conoscere una persona che non avrà l’opportunità di sapere come va a finire questa storia. Quando ho deciso che saremmo stati una comunità, ho deciso di condividere le vostre gioie e i vostri dolori. Contrariamente alle mie aspettative, è stato uno dei rari casi in cui a un dolore immenso, che l’avrebbe comunque resa impercettibile, non si è aggiunta la bruttezza: non c’erano chitarre, e il coro era intonato - lo dico a beneficio di chi non ha potuto percepirlo. Del resto, il treno che sto aspettando è in ritardo “per l’intervento dei vigili del fuoco”, e possiamo immaginare facilmente altro dolore. Domani a Firenze cercherò di spiegare che cosa la fine della globalizzazione implica per il partito nel quale sono riconoscente e orgoglioso di essere stato accolto…)

(…incidentalmente, la mozione congressuale di Claudio Durigon propone qualcosa di molto simile a un meccanismo di scala mobile. Con quelli che erano qui nel 2012 abbiamo avuto modo di discuterne. Immagino lo shock della sinistra, quella “griffata” a spese del lavoro minorile del Sud-Est asiatico…)









venerdì 4 aprile 2025

Lessico (non) famigliare

Scusate, ma siccome vedo che la panna monta (come al tempo della Brexit, che, ci tengo a ricordarlo, non è andata come dicevano i terroristi), mi limito sommessamente a ricordare che l'integrazione economica prevede normalmente queste tappe:


Di tutta questa storia probabilmente ci interessa la nostra situazione, che è quella di una unione economica e monetaria, cioè dell'integrazione fra:

  1. un mercato comune,
  2. un'unione doganale
  3. un'unione monetaria.

Tralasciando come funzionano il mercato comune e l'unione monetaria (entrambi male, perché sono incompatibili, dato che l'esistenza di un'unione monetaria obbliga i Paesi membri del mercato comune a reagire con politiche restrittive, cioè a fare competizione coi salari, abbattendo il potere di acquisto dei partecipanti al mercato, come Draghi chiedeva nel 2011 e ha rinnegato nel 2024), mi soffermo su come funziona una unione doganale, anche nota agli europei come Zollverein, dal nome del suo più illustre precedente storico.

In un'unione doganale non solo si abbattono le barriere commerciali interne all'area (cioè, per semplificare, si portano a zero i dazi fra i Paesi membri), cosa che avviene anche in una zona di libero scambio (esempio attuale: l'ASEAN), ma si adotta anche una tariffa doganale unica verso le merci che arrivano dall'esterno. I singoli membri di una zona di libero scambio, in altri termini, possono farsi concorrenza (o proteggersi) abbattendo (o mettendo) dazi verso paesi terzi diversi da quelli vigenti negli altri Paesi membri della zona. In un'unione doganale, invece, il dazio sulle merci che entrano (precisazione pleonastica, ma purtroppo occorre farla, dato il livello...) è uguale per tutti i Paesi membri.

Ora, il dazio è intrinsecamente imposto sui flussi di merci in entrata a un Paese. I dazi sulle esportazioni sono eccezioni limitatissime e circoscritte. Visto che il mondo è pieno di analfabeti soggetti al principio di autorità, ecco un riferimento utile:


Inoltre, un'Unione doganale ovviamente regola le tariffe imposte alle merci in entrate dai Paesi che ad essa appartengono, non quelle praticate dai Paesi che ad essa non appartengono, per lo stesso motivo per il quale, che so, un abbattimento del cuneo fiscale deciso dal Governo italiano non si applica ai cittadini statunitensi o neozelandesi (mi fa strano doverlo dire, ma qualcosa mi lascia intuire che è necessario).

Ne deriva che la strana idea secondo cui gli Stati Uniti non potrebbero applicare dazi diversificati ai Paesi dell'Unione Europea perché questi sono membri di un'Unione doganale o perché m'ha detto mi cuggino che er commercio è competenza esclusiva dell'Unione ai sensi dell'art. 3 TFUE non ha alcun fondamento!

Gli Stati Uniti non possono decidere quali dazi carichiamo sulle loro merci in ingresso da noi (possono negoziarlo, non deciderlo), e quei dazi dovranno però essere identici per tutti i Paesi dell'Unione Europea perché essa è anche una Unione doganale. Ma noi non possiamo decidere che gli Stati Uniti mettano dazi uniformi sulle nostre merci in ingresso da loro, perché che cosa fanno a casa loro lo decidono loro, perché non sono membri della nostra Unione doganale, e perché se anche lo fossero l'Unione doganale si preoccupa dei dazi all'import nostro (export degli altri), non all'import altrui (export nostro)! Quindi è assolutamente possibile dal punto di vista economico, logico, astratto e concreto che gli Usa decidano di applicare dazi diversificati ai Paesi membri dell'UE, perché il fatto che noi siamo una Unione doganale riguarda noi e il modo in cui abbiamo deciso di non farci concorrenza o di non proteggerci con tariffe doganali unificate, ma non riguarda loro. Tanto è vero che è già successo, e a gennaio ve ne ho fatto un esempio qui. Non solo! L'ottimo Borghi ha anche rintracciato una ammissione piuttosto ovvia di un personaggio che alcuni potrebbero considerare autorevole:


Non so se è chiaro!

Basta così, o volete dell'altro?

Lo so, questa spiegazione sembrerà assurda, perché è assurdo che la si debba dare.

Ma visto che funziona così, allora meglio togliersi il pensiero, così poi passiamo ad altro.

Aggiungo però una sottolineatura politica. Forse di questo strano trucchetto (consistente nel fatto che i membri di una unione doganale devono avere dazi uniformi in entrata, ma possono subire dazi diversificati in uscita, per il semplice motivo che i loro dazi in uscita in realtà sono i dazi in entrata di Paesi terzi che decidono loro quanto far pagare e a chi perché nulla hanno a che spartire con le logiche di una Unione doganale cui non appartengono!) sarebbe meglio non parlare troppo, e il negoziato bilaterale sarebbe meglio farlo (come staranno facendo Francia e Germania) anziché annunciarlo. Va bene che la turba così si sommuove e "laika" (voce del verbo "laikare", ma anche nome di un cane che finì male), ma nell'affermare certe cose si mettono inutilmente in imbarazzo i membri di Governo, si costringono altri membri di Governo a dire leggere imprecisioni, e soprattutto si afferma una cosa che l'arbitro che gioca con i nostri avversari non è disposto ad accettare: che il progetto unionale è fallimentare. E perché turbare così un personaggio cui invece deve andare la nostra riverenza e il cui sogno non va turbato? Ci sono situazioni in cui le cosa vanno fatte, non dette. E se chi ci dovrebbe sostenere nella nostra battaglia di buonsenso non lo capisce, amen! Siamo veramente così convinti che ci occorra il consenso di chi, per soddisfare il proprio narcisistico bisogno di aver votato "le persone giuste", costringe sistematicamente le persone giuste a fare la cosa sbagliata, cioè a svelare al nemico le sue posizioni?

Io no.

Ma io sò strano...

giovedì 3 aprile 2025

I dazi e il paracetamolo

Che c'entrano l'uno con l'altro?

Beh, c'entrano un po' perché, come finalmente il Corriere ha fatto vedere, qui non siamo tutti sole, mare, mandolino, pizza, parmigiano e prosecco, ma siamo soprattutto meccanica e farmaceutica:


(ogni giorno che NSGC mette in terra una retorica cretina muore, ieri il Corriere ha vilmente assassinato la retorica dell'Italia posizionata sui segmenti a basso valore aggiunto e del Made in Italy come branca "alto di gamma" del settore primario).

C'entrano anche perché, se ci fate caso, nel dibattito isterico e sconclusionato sui dazi tutti si soffermano sugli effetti (con scenari di cui sarà divertente saggiare la resistenza alla prova dei fatti), ma nessuno non dico affronta, ma nemmeno menziona la causa, che non è stata ricordata solo da Trump, ma anche da LVI (Draghi) nella sua audizione in Senato:


se pure in un modo un po' raffazzonato e molto al disotto del livello analitico cui voi, miei cari lettori, vi siete dovuti, vostro malgrado, abituare.

Diciamo infine che le cose di cui si parla in queste ore stanno alla causa del problema un po' come il paracetamolo stava a un altro problema (e in effetti, esattamente come il paracetamolo, o meglio: la sua gestione, era suscettibile di aggravare più che di risolvere un certo problema, le ritorsioni, per dirne una, sono senz'altro suscettibili di aggravare anziché risolvere gli squilibri che hanno causato i dazi).


(...ma secondo voi Francia e Germania non stanno già trattando sotto banco?...)

Tristis est anima mea

(…mi dimenticherò perché ho scritto questo post, ma una di voi non lo dimenticherà. Meine Seele ist betrübt bis an den Tod…)


mercoledì 2 aprile 2025

Autonomia, federalismo e sovranità popolare

 (...di seguito il testo della mozione Molinari-Bagnai, poi qualche breve considerazione...)

Premesso che 

grazie alla guida del Segretario Matteo Salvini e al lavoro del Ministro Roberto Calderoli, dopo 23 anni dall’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione e dopo 7 anni dai referendum indetti dalle Regioni Lombardia e Veneto, il Parlamento ha approvato la legge sull’autonomia differenziata, battaglia storica della Lega. 

La Lega ha sempre denunciato apertamente fin dalle sue origini, ma ancora di più sotto la guida di Matteo Salvini, i malfunzionamenti della costruzione UE, che dall’ambizione di essere una organizzazione sovrastatale finalizzata alla pace e prosperità, si è trasformata nei fatti in strumento di cristallizzazione dei rapporti di forza e prevaricazione di alcune economie su altre, ma soprattutto in esecutrice di politiche finalizzate a far prevalere interessi economici di poche élite a danno dei Popoli europei, privati dalle attuali regole dei trattati di un vero potere di controllo e decisione su scelte che impattano pesantemente sulla loro vita quotidiana.  

Considerato che  

il percorso dell’autonomia differenziata, come ampiamente prevedibile, sta incontrando la resistenza delle burocrazie statali ministeriali e ha subito anche un ridimensionamento con la pronuncia della Corte Costituzionale, in particolare per quanto riguarda la non esclusività delle competenze legislative devolvibili alle regioni e il sistema di finanziamento mediante compartecipazione al gettito statale per le regioni; 

l’Unione Europea invece di avviare una seria riflessione sui suoi malfunzionamenti, sembra intenzionata con la Commissione von der Leyen ad allargare ulteriormente le competenze in campi come quello della difesa, abbandonandosi a una deriva bellicista che scaricando i costi del riarmo sui bilanci nazionali bloccherebbe la spesa sociale del nostro Paese, inibisce il contrasto alla deindustrializzazione, che è invece stata accelerata dall’adesione acritica all’agenda ecologista, ma soprattutto non pare intenzionata ad affrontare in modo strutturale il tema delle diseguaglianze sociali, conseguenza necessaria di quelle politiche di repressione salariale reciproca fra Stati membri di cui Mario Draghi ha citato l’impatto nefasto sul nostro stato sociale, attribuendole all’adozione di politiche fiscali procicliche determinata dalle regole fiscali dell’eurozona. A fronte di questo la Commissione von der Leyen mantiene un atteggiamento ambiguo, che da una parte  sembra voler proseguire sulla linea del rigorismo finanziario, ma dall’altra consente a Paesi come la Germania e la Francia di violare patentemente le regole, ampliando le asimmetrie che minano la stabilità del progetto europeo.  

Preso atto che 

si rende necessario proseguire sul percorso tracciato dell’autonomia, dell’attuazione del federalismo fiscale, ma al contempo porsi nuovi obiettivi e strategie per avvicinare sempre di più i livelli decisionali ai territori, nel rispetto di identità, ambizioni e vocazione di ogni singola area del Paese, contrastando l’evidente deriva centralista di Bruxelles, che sta progressivamente ampliando lo spazio di intervento pubblico sotto il diretto controllo della Commissione, a detrimento dei margini di autonomia lasciati alle istanze nazionali e territoriali. 

Il fallimento della globalizzazione e delle istituzioni che la governano, evidenziato nell’Unione Europea dalla grave sofferenza sociale, congiunta a un’esplosione del debito pubblico, causate dall’intervento della cosiddetta “troika” (espressione usata per definire il concerto istituzionale fra Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea), suggeriscono l’opportunità di una gestione bilaterale e su base funzionale dei rapporti internazionali, che veda nell’atlantismo un riferimento imprescindibile e scongiuri lo sterile antagonismo con gli storici alleati statunitensi che permea la retorica europeista. 

Negli ultimi 20 anni la forbice fra la ricchezza dell’1% della popolazione più ricca e il 90% della popolazione più povera nel nostro Paese si è allargata più che mai: l’1% più ricco è passato dal detenere il 17% al 21% del totale della ricchezza, mentre il 90% più povero è passato dal 55% al 44%. Il reddito di diplomati e laureati oggi è inferiore a quello di fine anni ‘80, così come quello degli operai. La forbice fra il reddito del 10% dei lavoratori più ricchi e il lavoratore mediano è cresciuta in media di quasi 10 punti percentuali. Dal 2013 al 2023 più di 300 mila cittadini italiani con un titolo universitario hanno lasciato il Paese per trasferirsi all’estero, i giovani emigrati sono stati 377 mila. 

Considerato altresì che 

La prospettiva di Stati Uniti d’Europa è superata nei fatti dal crescente ricorso all’approccio intergovernativo. Questo non è un male, considerando che nel lessico europeo si intende per “federalismo” un maggiore accentramento delle risorse e della loro gestione, tramite un bilancio unico europeo finanziato da debito comune europeo, cioè un centralismo in contrasto con la storica battaglia della Lega per l’autonomia. 

Peraltro, la tensione centralista dei movimenti europeisti sarà sempre frustrata dal rifiuto francese di una politica di difesa comune, dal rifiuto tedesco di strumenti di debito comune, dall’assenza di una costituzione che offra tutte le tutele democratiche, a partire da una efficace rappresentanza dei territori. Di conseguenza, sta emergendo nel dibattito l’opportunità di adottare un percorso alternativo di integrazione europea, basato sul modello della “coalizione dei volenterosi“,  cioè su un insieme di trattati intergovernativi a geografia variabile, distinti su base funzionale, che consentano agli Stati membri di unirsi, al limite coinvolgendo anche Stati non membri, su temi specifici sui quali la cooperazione offra un mutuo vantaggio. Questa idea ha una lunga tradizione (il processo di integrazione europea nasce da accordi su materie prime ed energia come la CECA e l’Euratom) ed è tutt’ora attuale (si pensi agli accordi stretti dalla Germania con la Russia, Paese non membro, in ambito energetico, o agli accordi in corso col Regno Unito sul tema della difesa comune europea). Un simile modello si tradurrebbe nella sostituzione della costosa burocrazia di Bruxelles, resa ipertrofica dal suo desiderio di imitare un ipotetico Stato nazionale, con agenzie più snelle e più focalizzate sui singoli aspetti funzionali da gestire con trattati specifici. Si supererebbe così l’approccio totalizzante basato sull’integrale accettazione dell’“acquis communautaire” da parte di ogni potenziale Stato membro, approccio alla base dell’asfissiante iper-regolamentazione europea. 

Il Congresso della Lega Salvini Premier impegna il Segretario e il Movimento  

  • A promuovere, nelle materie di competenza legislativa e amministrativa regionale, forme sempre più strette di collaborazione e allineamento normativo per aree macroregionali, in modo da poter dare risposte migliori e più organiche alle esigenze dei territori su temi come ad esempio il TPL, l’ambiente, la sanità, la ricerca o le politiche industriali, valutando anche percorsi istituzionali per la creazione di macroregioni. 
  • A porsi come priorità dell’azione politica nel Governo la piena attuazione dell’autonomia differenziata e del federalismo fiscale. Inoltre, ottenuta l’autonomia, a portare avanti una riforma costituzionale che trasformi l’Italia in uno Stato Federale, prevedendo per le Regioni una maggiore devoluzione di competenze legislative e autonomia fiscale, e superando il bicameralismo paritario, che risulta già ampiamente superato dalla prassi legislativa vigente, attribuendo alla Camera competenza esclusiva sulle questioni di interesse nazionale, mentre un Senato delle regioni dovrebbe occuparsi delle materie concorrenti fra Stato e Regioni ed avere voce sulle riforme costituzionali e sui trattati internazionali.  
  • Ad opporsi a qualunque nuovo allargamento delle attuali competenze dell’UE, avendo avuto svariate prove che l’attuale struttura non garantisce la democraticità delle decisioni, e a proporre un modello di governance basato su una pluralità di nuovi trattati concepiti su base funzionale e a geografia variabile, cui aderiscano inizialmente i principali paesi per PIL e Popolazione. Questa nuova architettura di Trattati dovrebbe porsi il fine di costruire democraticamente un mercato comune in cui il potere d’acquisto interno, la lotta alle diseguaglianze partendo da una tassazione unica nell’area euro per le multinazionali, la difesa della produzione interna e gli investimenti in istruzione e politiche sociali siano la priorità, mettendo da parte il liberismo economico e il rigorismo di bilancio a favore del benessere dei cittadini europei. 
  • Inoltre, al fine di evitare che gli squilibri causati dalla moneta unica compromettano l’armonico sviluppo degli Stati membri, a favorire la revisione delle attuali regole di bilancio per consentire ai bilanci nazionali di svolgere una funzione di riequilibrio degli sbilanci interni all’Unione, misurando la capacità fiscale degli Stati non sull’entità del loro debito pubblico, ma su quella del loro surplus estero, e prevedendo penalizzazioni per gli Stati che non promuovono gli investimenti pubblici allo scopo di mantenere una posizione di surplus strutturale, sulla base delle regole già previste dalla procedura sugli squilibri macroeconomici (MIP). 

 

Riccardo Molinari 

Alberto Bagnai 

  

Alcune brevi considerazioni, partendo da quello che qui sappiamo e ci unisce, ma soprattutto dal contesto complessivo in cui ci troviamo, quello della deglobalizzazione. Il fallimento delle istituzioni multilaterali, che hanno lasciato macerie un po' ovunque in giro per il mondo, anche qui da noi, come la tardiva resipiscenza di Draghi certifica, mette un partito come la Lega di fronte a un interessante trade-off. Il passaggio a un modello bilaterale o comunque intergovernativo, anziché sovranazionale o federale, di gestione delle relazioni internazionali (relazioni che esistono da quando esiste la storia e che mai sono state gestite come pretendiamo di gestirle qui, peraltro), richiede un Governo nazionale forte e autorevole, uno Stato centrale incisivo e rappresentativo, che sia un interlocutore rispettato sui vari tavoli intergovernativi o bilaterali, lasciando dietro di sé l'illusione che ha caratterizzato la gestione PD del Paese, quella che le istituzioni europee fossero concepite nel nostro interesse, e quindi che bastasse affidarsi ad esse, accompagnarle, per trarre dalla propria subalternità la garanzia di avere un posto a tavola nei consessi internazionali:


(Luigi si sbagliava, il tweet è ancora qui).

Questo può sembrare in contrasto con la storica battaglia leghista per l'autonomia, una battaglia che nel tempo ha avuto sporadicamente episodi o toni anche acuti, potenzialmente eversivi, ma che, va sempre ricordato, è iscritta saldamente nei principi fondamentali della Carta costituzionale:

Come conciliare l'esigenza di uno Stato nazionale forte e autorevole verso l'esterno, con il rispetto delle autonomie? La mozione segue due percorsi: considerare l'alternativa, e prendere sul serio l'autonomia.

Partirei dal primo, che a noi è più familiare. L'alternativa a una emancipazione dello Stato nazionale qui da noi è la prospettiva "federalista" europea, che, vorrei ricordarlo, di "federalista" come comunemente si intende nel dibattito nazionale non ha nulla, perché il sogno dei federalisti europei è l'accentramento del maggior numero di funzioni in un governone sovranazionalone, dotato di bilancione comune e di debitone comune europeo. L'incubo di un pensiero genuinamente autonomista e federalista: un accentramento livellatore della diversità e della ricchezza dei singoli territori!  L'inesorabile svolgersi dei fatti ha fatto giustizia anche di un'altra illusione: quella che fosse desiderabile l'integrazione di alcune Regioni, le più progredite del Paese, con la cosiddetta "locomotiva" tedesca, in spregio al fatto che quella "locomotiva", come notava Napolitano nel 1978, come i dati ci indicano, in realtà era un vagone che cresceva sistematicamente e intenzionalmente sotto la media europea, e alla ragionevole presunzione che lo scorpione tedesco avrebbe inevitabilmente punto la rana europea al primo torrente in crisi che si fossero trovati ad attraversare. Qui noi lo abbiamo fatto sempre notare, anche quando eravamo di sinistra: Milano ladrona, Berlino non perdona! Lo abbiamo poi ribadito anche da poco, esaminando i dati a livello di dettaglio regionale:


Non solo l'integrazione monetaria non ha significativamente accelerato quella commerciale, reale, limitandosi a squilibrare nel senso del deficit le relazioni fra le regioni produttive e la potenza manifatturiera tedesca:


ma oggi si pone addirittura il tema strategico di un decoupling da quella che alcuni continuano a chiamare locomotiva (la Germania(, ma che è a tutti gli effetti la zavorra del sistema economico europeo, data la sua connaturata riluttanza a spingere sull'acceleratore della domanda interna (che la porta ad andare a fondo quando distrugge o si preclude mercati di sbocco), cioè un tema di diversificazione (da parte di chi ancora non l'abbia fatto) del "rischio Germania"!

Quello che sfugge a chi nel partito è sospettoso rispetto alle prospettive di recupero della sovranità popolare è che l'alternativa difficilmente può essere quella di una mitologica "Europa delle regioni" o degli improbabili "Stati Uniti d'Europa", e in particolare che questi ultimi, quand'anche fossero possibili (ma non lo sono, per vari motivi di cui alcuni vantano un antichissimo lignaggio), condurrebbero all'esatto contrario di quello che riteniamo sia giusto.

Si pone quindi fortemente il tema di una riorganizzazione delle relazioni in ambito europeo, volta da un lato a formalizzare e disciplinare quella dimensione intergovernativa che regola de facto le relazioni fra Paesi, e dall'altro a armonizzare sulla base di principi economici sensati le politiche macroeconomiche degli Stati nazionali. Insomma: un po' come qui da noi, anche in Europa si pone un problema di allineamento della costituzione formale a quella materiale, reso più complesso, naturalmente, dal fatto che una costituzione formale in Europa non c'è perché non può esserci (verum factum convertuntur).

Qui, però, abbiamo ben chiari quali potrebbero essere due modelli da seguire. Nelle relazioni fra Stati, ci ha sempre convinto l'approccio delle giurisdizioni funzionali sovrapposte, che qui descrivemmo tredici anni or sono (il testo originale è qui). Si tratterebbe di tornare alle origini, quando, come è ben noto, le buone relazioni fra i duellanti (Francia e Germania) vennero stabilite sulla base di accordi funzionali (sulle materie prime, sull'energia, poi sul commercio).

Nell'armonizzazione delle politiche macroeconomiche, dopo che perfino Giavazzi ha dovuto ammettere che il problema dell'Unione erano gli squilibri fra Paesi, gli squilibri di bilancia dei pagamenti:


è assolutamente ovvio che l'impianto delle regole di bilancio andrebbe completamente sovvertito secondo la nostra vecchia proposta di "external compact":


La proposta è articolata e va dettagliata: magari lo facciamo nei commenti, ma il senso complessivo è che converrebbe fare in tempi normali e in termini espansivi quello che oggi siamo costretti a fare in tempi di crisi e quindi necessariamente in termini espansivi, cioè assegnare lo strumento delle politiche di bilancio all'obiettivo dell'equilibrio degli scambi intra-zona. Bisognerebbe insomma che prima delle crisi chi ha una bilancia dei pagamenti in surplus investisse, invece di aspettare la crisi per chiedere a chi ha la bilancia del pagamenti in deficit di tagliare gli investimenti. In questo caso we have tools (cit.): i criteri da applicare già esistono, sono quelli della Macroeconomic Imbalances Procedure, e basterebbe prenderli sul serio, assistendoli con meccanismi di incentivo (preferibili alle sanzioni, che all'atto pratico non hanno avuto grande successo).

Poi c'è la parte "prendere sul serio l'autonomia", cioè di come assicurare che le aspirazioni dei territori siano rispettate, le loro potenzialità pienamente espresse, e la loro voce trovi spazio nelle sedi da cui può avere proiezione internazionale, che poi sono quelle del Governo centrale. La proposta qui è quella di riflettere su un ordinamento di tipo federale, analogo per certi versi a quello adottato da un altro Paese di recente unificazione (la Germania), con due revisioni istituzionali di rilievo, oltre a prevedere l'attribuzione al livello regionale di competenze più penetranti: il superamento del bicameralismo paritario e il ridisegno su base funzionale del ritaglio amministrativo, con l'idea, se non di creare macroregioni, che potrebbe essere un obiettivo, almeno di immaginare forme di collaborazione e allineamento amministrativo su scala macroregionale nelle materie che tipicamente incombono attualmente sulle Regioni (sanità, trasporti, ambiente, ecc.).

Su almeno una di queste cose, il superamento del bicameralismo paritario, credo sappiate come la penso. Quando si trattò di votare sulla Riforma Renzi-Boschi io fui fieramente avverso, non solo per ragioni politiche, ma anche perché i motivi addotti a supporto erano piuttosto fragili, e non avendo lavorato all'interno di una istituzione parlamentare non potevo individuare i punti di debolezza del modello paritario. La nostra proposta è diversa da quella di Renzi e Boschi, e parte da un lato dall'esigenza di avere una connessione fra Parlamento e territorio che non sia affidata alla buona volontà del singolo parlamentare ma abbia una dimensione istituzionale più rilevante e incisiva, e dall'altro dal riconoscimento che il modello paritario nel contesto di una legislazione essenzialmente di iniziativa governativa contribuisce a inibire più che rafforzare il controllo parlamentare. In un Paese più piccolo e meno sfaccettato del nostro forse riterrei preferibile il modello finlandese (Parlamento monocamerale con Commissioni "forti"), ma nel nostro una articolazione un po' più aderente alla lettera della Costituzione:


un Bundesrat, mi sembra molto difendibile. Sono allergico ai #facciamocome tanto quanto ai #fatepresto, ma sono anche abbastanza insofferente verso le cose che non funzionano, e non posso raccontarmi che le cose come sono adesso funzionino, perché non è vero (e il problema non è "la navetta", come si diceva all'epoca della Renzi-Boschi...).

Sul tema delle "macroregioni" ci sarebbe un discorso ampio da fare e non sono sicuro di essere preparatissimo per farlo. Certo è che, anche qui, pur non essendo un fanatico delle economie di scala, devo riconoscere che nella fornitura dei servizi affidati alle Regioni spesso dei problemi di scala si pongono, e sarebbe stupido disconoscerli. Del resto, non a caso una provincia limitrofa sta valutando, fra innumerevoli difficoltà, di ricongiungersi al mio amato feudo dell'Abruzzo Citra. Ci sarebbe poi da riflettere se l'organo su cui puntare per gestire il territorio sia la Regione o la Provincia, quale Regione, quale Provincia. Certo è che la riforma Delrio, chiesta da Draghi:


di macerie ne ha lasciate, e il problema di come ricostruire non possiamo non porcelo.

Bene, tanto vi dovevo. Mi sono iscritto a parlare per illustrare la mozione, non so se lo farò così, sicuramente mi aiuteranno i vostri commenti. Quando il blog iniziò, e quando (pochi mesi o anni dopo) elaborammo o esponemmo le varie proposte di cui vi ho parlato e che oggi sono in una mozione congressuale, mai avrei pensato di essere chiamato a intervenire a un congresso di partito, né che quella chiamata alle armi che da voi mi proveniva, quella richiesta pressante di tradurre in proposte politiche concrete le analisi di questo blog, avrebbe potuto avere una realizzazione così compiuta in termini simbolici e sostanziali.

Ogni tanto succede anche qualcosa che non mi aspetto, devo riconoscerlo, e devo anche esservi riconoscenti perché se è potuto succedere, questo, indubbiamente, è anche grazie a voi.

Dichiaro aperta la discussione generale.

martedì 1 aprile 2025

They have tools

Credo ricordiate tutti la frase minacciosa pronunciata dalla presidente della commissione:

"If things go in a difficult direction we have tools":


Suppongo che ricordiate anche la sorprendente esternazione dell'uterino Thierry Breton:


"On l'a fait en Roumanie...".

Do poi per scontato che tutti ricordiate questa esternazione:


la prima (è del 2013) e la migliore, perché è del Migliore: il pilota automatico che avrebbe proseguito sulla rotta di quelle stesse riforme di cui oggi il Migliore disconosce la paternità. Il pilota non era poi così automatico, in realtà: era lui che manovrava lo spread decidendo di smettere di acquistare i titoli dei governi "nemici", ma insomma, noi non serbiamo rancore, ci basta essercelo tolto di torno e averlo visto balbettare.

Qual è il punto?

Il punto è che da dodici anni Essi(TM) ci dicono di avere strumenti, e questi strumenti sono relativamente diversificati: un tempo le banche centrali (che ora non possono usare, perché un'aggressione via spread metterebbe in seria difficoltà la Francia, come si è visto al tempo di Madame uì ar not ir to cloz ze zpredz), oggi le alte (o basse) corti, domani (ma anche oggi), altre autorità, tutte caratterizzate però da una qualità peculiare: quella dell'indipendenza: l'indipendenza della Banca centrale, l'indipendenza della magistratura, le autorità amministrative indipendenti...

Si torna quindi a uno dei punti nodali del discorso che stiamo svolgendo qui, fin dall'inizio: indipendenti da chi? L'indipendenza è una relazione simmetrica: se A non dipende da B, si assume che B non dipenda da A. Ma se A non dipende da B, e B condiziona A, allora A è sottomesso a B, e se A è espressione democratica di un popolo, allora la democrazia ha un problema. E in effetti è così, come credo sia evidente. L'indipendenza di certe istituzioni (anche qualora si fondi, come quasi mai è il caso, sul dettato della Carta costituzionale) da ipotetico presidio di democrazia è diventata una reale minaccia per la democrazia, è diventato il fondamento del potere coercitivo di cui alcuni si avvalgono per sovvertire le decisioni dei più a beneficio degli interessi di pochi.

Il fatto che sia un problema di difficile soluzione non implica che non dobbiamo riconoscerlo come tale.

Tanto vi dovevo, e torno a lavorare.