Premesso che chi si è esibito in performance simili:
forse farebbe meglio a lasciar passare qualche secolo in dignitoso silenzio, nella speranza di farsi dimenticare, ma riconosciuto altresì che un minimo di imbonimento da fiera paesana è comunque connaturato alla rappresentazione degli interessi ed è da considerarsi fisiologico, voglio fare ammenda su una mia valutazione errata riportata in questo post. Il delitto mio non è, direbbe Leporello, ma è dei soliti noti, dei nemici della democrazia, degli operatori informativi. Sono loro ad aver titolato:
e questo mi ha indotto a pensare che al CSC avessero seri problemi col concetto di elasticità al prezzo (che con ordini di grandezza simili sarebbe stata del 200%: una cosa mai vista in natura, come spiegavo appunto nel post sull'impatto dei dazi).
In realtà, la valutazione del modello CSC (pubblicato dove?) è coerente con quella del modello di Bagnai et al. (2017) (pubblicato su Economic Modelling), perché, come spiegato da una civile & resiliente esponente della nota associazione di categoria nel corso di questo pacato & costruttivo dibattito:
l'impatto di 23 miliardi è calcolato tenendo conto anche della rivalutazione nominale dell'euro, stimata al 15%, e quindi è riferito a un incremento complessivo del 30% sul tasso di cambio reale. A incremento doppio, impatto doppio, e pari elasticità (sempre intorno a 1).
Tuttavia qualcosa mi lascia supporre che questi impatti siano sempre sovrastimati, e pesantemente, e se volete vi spiego subito perché. Il fatto è che i tassi di cambio reali (che sono il prezzo relativo dei beni nazionali rispetto a quelli esteri) sono costruiti con riferimento a due classi di indicatori: o gli indici dei prezzi al consumo, o il costo del lavoro per unità di prodotto. Lo vedete ad esempio qui, nel database dell'Eurostat, che vi consente appunto di scegliere l'indicatore che preferite:
Non entro ora nella ratio di questa scelta, cioè nel perché si usi l'uno o l'altro indicatore e su quale sia preferibile per quale analisi (a richiesta ve lo spiego). Voglio solo far notare che quello che riusciamo a misurare econometricamente è la reazione dei volumi venduti alla variazione del prezzo finale, quello al consumo. Ora, il fatto è che, come sa chiunque abbia un minimo di cervello, il famoso 15% non si applica allo scaffale, ma in dogana. Per capirci, con qualche approssimazione: non si applica al prezzo al dettaglio (che è quello che confluisce nella valutazione del tasso di cambio reale e quindi nella stima dell'elasticità di prezzo), ma al prezzo all'ingrosso, con riflessi proporzionalmente inferiori sul prezzo al dettaglio.
Credo capiate dove voglio arrivare, anche perché è sempre la stessa storia. Quelli che oggi dicono che all'aumento dei dazi del 15% conseguirà un apprezzamento del cambio reale del 15% sono della stessa pasta marrone (che non è cacao) di quelli che dicevano che a un deprezzamento reale del 20% sarebbe conseguita un'inflazione del 20% (ne abbiamo parlato qui, come ricorderete, analizzando le leggende metropolitane bipartisan - perché il non cacao è assolutamente trasversale, c'è in versione socialisteggiante e c'è in versione #verolibberale...). Ci vuole più di un neurone per capire che l'attività economica è fatta di tanti snodi, e che fra ognuno di questi c'è un pass-through: esattamente come un deprezzamento di x% non comporta una inflazione del x%, e esattamente per gli stessi motivi (perché il pricing in regimi oligopolistici o imperfettamente concorrenziali si basa sull'applicazione di mark-up sui costi, mark-up che possono essere ridotti per assorbire shock di prezzo allo scopo di mantenere quote di mercato), un dazio di x% non comporta un aumento del prezzo finale di x% e quindi un apprezzamento del cambio reale misurato sul prezzo finale di x%.
Morale della favola?
Dopo tanto stracciavestismo e espertonismo un tanto al mazzo (di cui fra un po' avrete un esempio all'Aria che tira) non è escluso che, come già accadde nel primo mandato Trump, e prese tutte le debite cautele rispetto al fatto che qui si parla di un dazio generalizzato e comunque il clima internazionale è improntato a una maggiore conflittualità, alla fine le esportazioni italiane verso gli Usa possano in realtà crescere, se l'effetto reddito (maggiore crescita negli Usa) prevarrà sull'effetto prezzo (minore competitività del prodotto europeo), tanto più che il prodotto italiano è solo italiano, e quindi in re ipsa difficilmente sostituibile.
Quindi calma!
Il vero problema è un altro: il fallimento industriale europeo del green deal, e il nostro fallimento politico nel realizzare quella che è e resta una nostra legittima ambizione: essere arbitri del nostro destino sganciandoci da chi regolarmente ci porta a combattere battaglie in guerre che non sono la nostra guerra. Sì, finora non siamo riusciti a renderci indipendenti, ma qualche passo lo abbiamo fatto (vedi riforma MES) e continuiamo a spingere in quella direzione. Ci vediamo fra un po' in TV con chi lo desidera...
A proposito di passi nella direzione giusta e di piccoli cambiamenti di rotta, qualche giorno fa ad un TG ho sentito, nell'ordine:
RispondiElimina- Giorgia Meloni parlare di moltiplicatore. Non era specificato, ma dal contesto e dal valore rivendicato credo fosse proprio il moltiplicatore monetario.
- Elly Schlein chiedere interventi a sostegno della domanda interna. Le soluzioni proposte non mi pare fossero molto centrate, ma intanto si è interrotta la litania del debito pubblico brutto, della spesa pubblica improduttiva, della salubrità dei tagli, etc.
Lentamente, a fatica, ma certe idee, insieme ad un certo lessico, stanno percolando tra i pori della nostra amministrazione, andando a depositarsi là dove è bene che stiano e che possibilmente restino.
Non siamo noi ad aver determinato questi cambiamenti perché abbiamo detto le cose giuste da subito, e quindi troppo in anticipo.
Eliminail problema dei dazi è di metodo e di merito...saremo costantemente sotto ricatto se non troviamo un meccanismo (finanziario? crypto piuttosto che fondo sovrano or whatever?!) che consenta di controbilanciare in breve tempo le paturnie presenti e future di Trump (e di chissà chi altro). Non abbiamo ancora piani B, e sì che il Potus ci ha dato il tempo per ragionarci sopra. Sul green, come sulla lotta contro il cancro e simili fanfaluche, si è capito dagli anni 90 dove vogliono andare a parare (nemici invincibili per soluzioni impossibili), ma anche qui non tocchiamo palla subendo tutto quello che ci impongono, fallimenti e svendite compresi (la Iveco grida ancora vendetta al cospetto di Dio). Sull'Italexit, dopo 20 anni da polli da spennare ed un solo tentativo fallito di affrancarci dai nostri carnefici (Berlusconi), rassegnamoci perchè siamo noi che non capiamo cosa fare (cattiva cermania, tutta colpa sua, bruttacaccapupù). A questo punto la Meloni, umilmente e senza ridere più di tanto, preso atto dell'inconsistenza dei suoi "alleati", dovrebbe chiedere mestamente a Trump e Putin cosa fare, due giganti del decisionismo e dell'amore per la propria patria, che non si sono mai fermati davanti alle critiche o ai risolini dei loro consiglieri; la premier ha avuto una finestra temporale per fare quello che doveva fare, giocarsela con Trump e con i tedeschi, per iniziare a spezzare qualche catena, ma non se l'è sentita, in preda alle critiche e ai risolini dei suoi consiglieri. Il fallimento sta tutto in questo (e la UE se la ride)
RispondiEliminaPerdonami, anonimo: non so se qui sei a casa tua...
Eliminadalla risposta che denota indifferenza alle mie rimostranze, direi che questo blog è troppo "tecnico", vediamo se Borghi mostra più empatia.
Elimina"non è escluso che, come già accadde nel primo mandato Trump, e prese tutte le debite cautele rispetto al fatto che qui si parla di un dazio generalizzato e comunque il clima internazionale è improntato a una maggiore conflittualità, alla fine le esportazioni italiane verso gli Usa possano in realtà crescere, se l'effetto reddito (maggiore crescita negli Usa) prevarrà sull'effetto prezzo (minore competitività del prodotto europeo)"
RispondiEliminaI dati Istat del primo quadrimestre 2025, disponibili su coeweb, mostrano un incremento delle nostre esportazioni in USA rispetto al 2024 (72 miliardi contro 66). Quindi partiamo avvantaggiati.
Però questo potrebbe essere l'effetto di un accaparramento fatto per anticipare l'effetto dei dazi.
EliminaCredo che il nostro futuro dipenderà da quando investiamo in ricerca, una ricerca utile a renderci indipendenti energeticamente. Dopo gli USA ci sta aspettando al varco la Cina per la questione Taiwan e dipendiamo da questo Paese tanto quanto la Russia.
RispondiEliminaBeh, ricerca (come scienza) è una parolina magica! Chi mai sarebbe contrario alla ricerca (o alla scienza)? Saremo mica oscurantisti? Resta da capire come mai il resto del mondo voglia il prodotto italiano se facciamo così poca ricerca. Sul tema energetico, il Governo si è mosso con Nuclitalia. Se son rose fioriranno.
EliminaPensavo di andare anche oltre il nucleare. Dal geotermico allo sfruttamento di energia idroelettrica con canalizzazioni per prevenire alluvioni. Una ricerca a 360 gradi insomma, dove magari qualche vantaggio possiamo averlo a più breve termine.
EliminaScusa tanto, ma sul geotermico o sull'idroelettrico che cosa vuoi che ci sia da ricercare? L'idroelettrico, tra l'altro, è molto "ricercato" perché, come sai, funge da accumulo per le FER intermittenti. Il problema è che si tratta di una tecnologia invasiva e non priva di rischi. Sono morte più persone di idroelettrico che di nucleare, ad esempio (come ben sai), per non parlare del fatto che la quota è spesso soggetta a un vincolo naturalistico (in montagna ci sono i parchi e le aree protette: pensa al caso del Pizzone...). Non capisco poi perché partiamo dal presupposto che non si stia facendo ricerca. Certo, ci sono i buffoni che passano il tempo in tv o i cialtroni che parlano di 500 morti di caldo, ma a differenza che in altre professioni che non cito in quella accademica questi fenomeni da circo sono tutto sommato la minoranza, e lavorano.
EliminaCertamente cresceranno. Ma un tasso inferiore al loro costo medio del capitale. Questo è il problema di fondo del modello neoliberista che hanno adottato da decenni. Un problema che può essere affrontato pacificamente solo con politiche keynesiane ulteriori e diverse rispetto all’attuale keynesismo bellico e una certa dose di repressione finanziaria.
RispondiEliminaEgregio Onorevole,
RispondiEliminain merito alle previsioni del CSC, le segnalo il seguente contributo di Aprile 2025 (vedasi il pdf per i dettagli):
https://www.confindustria.it/documenti/dfp-2025/
Il CSC stimava che l'impatto cumulato al 2026 sulle esportazioni, dovuto ai dazi USA al 10%, era pari a 7 miliardi di €.
Visto che, secondo il CSC, l'export verso gli USA muove 90 miliardi di € (diretti e indiretti), pare proprio che l'elasticità considerata al tempo fosse decisamente più bassa.
La stima dell'impatto cumulato al 2026 sul PIL sarebbe pari al 0.3%.
In merito all'occupazione, l'impatto cumulato al 2026 era pari a 62'200 ULA, contro le 118'000 delle più recenti stime
(https://www.confindustria.it/news/dazi-alle-porte-a-rischio-20-miliardi-di-export-e-118mila-posti-di-lavoro/).
Ora, o in 3 mesi il CSC ha stravolto i coefficienti del proprio modello, oppure a Confindustria serviva fare la voce grossa per vari motivi.
Faccio anche notare che il tasso di cambio nominale €/$ ad aprile aveva già toccato l'1.15, quindi non sarebbe questa la variabile ad aver fatto la differenza.
In merito al modello econometrico annuale del Centro Studi Confindustria, riporto una breve descrizione di qualche anno fa:
"Il modello econometrico ad equazioni simultanee per l’Italia (MACH3), che in termini di stima combina la filosofia della London School of Economics e quella della Cowles Commission aggiornata, presenta una struttura di tipo neo-keynesiano, dove nel breve termine prevalgono effetti di domanda aggregata, mentre nel lungo termine il prodotto tende a tornare verso un livello di equilibrio di stato stazionario."
Un saluto,
Fabio
Grazie, come sempre molto interessante. Sì, le posizioni di Confindustria sono posizioni politiche, non scientifiche: lo erano quando sosteneva l'austerità di Monti che ha distrutto tante imprese, lo erano quando sosteneva il referendum di Renzi, in cui non tutto era da buttare, secondo me, ma l'autore certamente sì, e buttarlo all'umido non avrebbe causato gli effetti paventati dal CSC, lo è oggi quando fa da cassa di risonanza del PD (tanto per cambiare!) intonando la canzoncina Trump pazzo cacca pupù.
EliminaSarebbero una associazione di imprenditori, e quindi tifano per i cosiddetti "comunisti", visto che il problema degli imprenditori è pagare poco gli operai e la soluzione a questo problema in Italia si chiama PD.
Segnalo che nel sito dell'Eurostat sono disponibili i dati delle esportazioni ITA verso gli USA fino a maggio 2025.
EliminaDal grafico seguente:
https://x.com/FFlumian/status/1953697858303275096
si può vedere che, dopo il picco di marzo, per paura dei dazi, le esportazioni totali di beni si sono riportate ai valori medi precedenti, senza subire cali evidenti.
Intanto noto questo: https://www.ilgiornale.it/news/politica/dazi-berlino-si-smarca-e-tratta-sola-2518526.html e se lei tratta da sola potrebbero farlo anche gli altri?
RispondiEliminaPotrebbe la Storia iniziare a dare avvisaglie di quelli che sono i nostri auspici?
Commento "autorazzista": sembra che le élite italiane abbiano un certo talento nello scegliere sempre alleanze che, col tempo, si rivelano sbagliate, e dalle quali si riesce a uscire solo dopo una catastrofe. La costante di queste scelte è l'opportunismo, il bisogno di legittimità che deve sempre venire dall'esterno affinché sia effettivo anche in patria, la leggerezza con cui si prendono le decisioni, pensando che "tanto poi si vedrà...". Mi consola sapere che anche molti altri paesi europei si sono cacciati in questi guaio. I britannici, forse per tradizione inperiale, se ne sono tirati fuori in tempo.
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