venerdì 15 settembre 2017

"Come sò ste riforme?" "Strutturali..."

Difficile immaginare due località più diverse di Halle e Maratea. Tanto orizzontale la prima, adagiata a 87 metri di altezza sull'Hallesches Ackerland, una delle tante pianure alluvionali lungo il basso corso della Saale, quanto verticale la seconda, aggrappata a 300 metri di altezza sul Monte S. Biagio, dirimpetto ai 1505 metri del Coccovello (che è sulla mia todo list da un due o tre anni). Lì barbabietole, e un glorioso passato, nel quale si annovera non solo il cicccione (who can be against us?), ma anche altro (das alte Jahr vergangen ist); qui pini, fichi d'india, bougainvillee, olivi, viti, palme, e un passato dal quale trarre, se non ispirazione, esempio. Lì un orizzonte che ti soffoca non per la sua angustia, ma per la sua insignificanza: la terra trascolora nel cielo, e sono due sfumature di grigio fuse dalla bruma del Nord, quella bruma che un tempo mi fu cara (ma erano altri tempi); qui, scorto da altezze vertiginose, incassato nel triangolo di valli scoscese, un Tirreno di cobalto, che la lontananza fa sembrare immoto come la campitura di uno stemma, ma del quale si intuisce il lavorio, la perenne ripresa: la mer toujours recommencée, che puoi guardare e ascoltare per ore, come guardi e ascolti per ore il fuoco del caminetto... ma non, appunto, la terra delle barbabietole...

Insomma: due mondi completamente diversi: orizzontale contro verticale, terra contro acqua, nebbia contro sole.

Eppure, per uno strano caso, la settimana scorsa mi è toccato dire, in questi due posti diversi, e a interlocutori completamente diversi, esattamente la stessa, stessissima cosa.

La prima volta venerdì, a Halle. Un seminario molto interessante all'IWH, su "Sfide e implicazioni della dinamica inflazionistica". Di cose da raccontarvene ne avrei tante, ma il tempo e la salute sono limitati, quindi vado al punto. Che meraviglia ascoltare tutti questi funzionari della Bce, della Buba, della Banque de France, preoccuparsi per l'inflazione... "Quale inflazione!?", direte voi. Appunto! Questa è la meraviglia! Per uno come me, che ha passato la maggior parte della propria esistenza a vedere economisti e opinionisti stracciarsi le vesti per il pericolo dell'elevata inflazione, che, si sa, rovina la vedova e l'orfano (che tanto stanno a cuore ai banchieri centrali, come anche si sa), quale Wunder osservare questo conciliabolo di tecnici, assolutamente ortodossi e molto preparati, in gramaglie perché l'inflazione è bassa, è below target: pensate, fra tre anni in Europa sarà ancora all'1.8%, anziché al 2%.

Ne hanno viste di cose questi occhi...

Che poi, alla fine, a me, che non sono cattivo (mi dipingo così), venivano quasi i lucciconi, e mi veniva da consolarli.

Avrei potuto dire loro: "Dai, su, non preoccupatevi. Alla fine i modelli che usate sono una cacata pazzesca poggiano su basi epistemologicamente discutibili, quindi magari fra tre anni saremo tornati al 2%: di previsioni ne avete sbagliate tante, se vi va bene sbagliate anche questa!" Ma sarebbe stato indelicato.

Forse avrei potuto dire: "Sì, vabbè, magari restiamo sotto al 2%, ma questo obiettivo che valore ha? Nessuno. La sua logica fasulla, descritta a p. 205 del Tramonto dell'euro, era un misto di wishful thinking (una crescita reale del 2.5% all'anno nell'Eurozona) e pessima teoria economica (la teoria quantitativa della moneta, quella secondo cui la moneta causa i prezzi). Ma prima della crisi la crescita reale è stata del 2.1% (uno scostamento di 0.4 punti che non preoccupava nessuno)! Se contiamo anche gli anni della crisi, si arriva all'1.3%... e questo nonostante che durante la crisi voi abbiate stampato 2000 miliardi di euro che non hanno causato alcuna inflazione! Quindi fatti e teoria sui quali l'obiettivo si basa sono risultati del tutto errati, e visto che l'obiettivo non è iscritto in alcun trattato, ma ve lo siete dati da soli, se proprio non vi riesce di raggiungerlo potete cambiarlo: dite che il mondo è cambiato, che oggi (per esempio) c'è la Cina, e che il nuovo obiettivo di inflazione è l'1.8%, così fra tre anni avrete risolto!". Ma sarei sembrato inopportuno.

Avrei anche potuto dire: "Sì, ma chi se ne frega se l'inflazione media dell'Eurozona è di 0.2 punti sotto al target! Il problema non è questo: il problema è che non ha senso parlare di inflazione dell'Eurozona! Quello che ci ha mandato per aria non è lo scostamento dell'inflazione dal suo obiettivo (scostamento che prima della crisi non c'è stato), ma lo scostamento dell'inflazione tedesca dall'obiettivo: quello che dicevo nel 2012, oggi lo dice anche Bofinger (che è un consigliere del capo). Quindi state sereni: il problema non è la mancata convergenza dell'inflazione media all'obiettivo, ma, caso mai, la mancata convergenze delle inflazioni dei paesi membri alla media. La crisi non ha migliorato le cose: lo scarto quadratico medio fra i tassi di inflazione nazionali non è molto diminuito dal 1999 (i dati sono qui), e magari dovreste preoccuparvene un po' di più...". Ma dire questo sarebbe sembrato un po' troppo corrosivo, perché questo argomento portava ad un'unica conclusione: che l'unica Bce buona è quella... bè, lo sapete!

Allora, per cercare di farli contenti, ho seguito un'altra strada: "Scusate! Ma, come vi ho fatto notare, io qui sono l'unico italiano, behind the enemy lines, e quindi posso darvi una prospettiva diversa sul mistero dell'inflazione scomparsa. Mi ricordo che nel 2011 l'allora governatore della Bce, Trichet, mandò al governo italiano una lettera che chiedeva riforme i cui effetti sarebbero stati sostanzialmente deflazionistici - in particolare attraverso la riforma del mercato del lavoro, che mirava a agevolare la flessibilità dei salari verso il basso rendendo i lavoratori più ricattabili. Il PD poi ha attuato quelle riforme. Ora, non capisco la vostra frustrazione! L'inflazione non c'è più perché avete consigliato delle riforme che la eliminassero, e queste riforme hanno funzionato. Quindi, perché essere mogi?"

Questa osservazione è stata trovata interessante, e il discorso si è spostato su altri temi: la colpa, signora mia, è delle aspettative: non sono ben ancorate, perché laggente non sono razionali (dopo anni passati a imporre politiche di tagli alla spesa pubblica giustificandoli col fatto che laggente sono razionali e quindi capischeno che se tagli la spesa oggi li tassi meno domani... Anche qui, quale Wunder!).

A Maratea, ancor meglio. Dibattito in piazza con Pizzuti, Ciccone e Dal Conte, che non conoscevo, ma era più importante di tutti gli altri messi insieme (compreso il vostro umilissimo) essendo che aveva scritto materialmente il jobs act, la più strutturale delle riforme strutturali. Persona civilissima e simpaticissima (amico di D'Antoni, che ha un passato bocconiano ma è tanto una brava persona), che ha poi sopportato sportivamente le mie punzecchiature: e questo va senz'altro a suo merito. Ma, anche qui, ascoltandolo provavo un certo senso di straniamento. "Le riforme, si sa, sono ardue da fare, soprattutto se strutturali: laggente non le vogliono, perché è più facile comprare consenso dando un reddito a chi è in difficoltà, anziché facendo politiche attive del lavoro, cioè insegnando a un barbiere di Catania come diventare piastrellista a Udine. Ma questo governo ha avuto il coraggio..." "Di riprendersi gli 80 euro coi quali aveva comprato il consenso?" direte voi che siete irriverenti, che non capite la solitudine e il travaglio (con la minuscola) del riformista.... No: il discorso di Dal Conte era più articolato: "Questo governo ha avuto il coraggio di fare riforme impopolari, anche sapendo che poteva mettere a rischio il proprio consenso".

E lì, di esitazioni su cosa dire, ne ho avute molto poche: sostanzialmente, quello che avevo detto a Halle. "Scusa: mi racconti ancora questa storia di Renzi che viene da te e ti dice: aiutami a perdere consenso! Perché io mi ricordo una cosa diversa: mi ricordo che a metà 2011 arrivò dalla Bce una ben precisa agenda di governo, che elencava, ex multis, alcuni provvedimenti specifici in ambito giuslavoristico, fra cui la riforma della contrattazione collettiva, la revisione delle norme che regolano il licenziamento dei dipendenti, e naturalmente, perché no, la vecchia, stantia solfa delle politiche attive che favoriscano la riallocazione del lavoro - una solfa che, peraltro, deriva a sua volta da un altro diktat, questa volta dell'OCSE. Ora, io non ho motivo di dubitare: Renzi, basta guardarlo in faccia e lo si capisce, è senz'altro uno statista disposto a mettersi in gioco per il bene del paese, quindi sicuramente sarà venuto a chiederti come perdere consenso all'uopo. Solo che... io lì non c'ero. La lettera della Bce, invece, l'hanno letta tutti, e tutti hanno visto in quale modo pedissequo il PD l'ha eseguita. Quindi, io, nel dubbio, preferisco pensare che questa ansia da riforma sia indotta, sia esogena, anziché essere spontanea, endogena...".

E ci siamo lasciati da buoni amici, perché, esattamente come non si può voler del male a chi, in Bce, preferisce che la Bce sopravviva, anche se questo distrugge l'Europa, a maggior ragione non si può volerne a un giurista di non aver presenti alcuni limiti intrinseci delle riforme strutturali, e questo soprattutto se frequenta economisti pre-keynesiani, quelli che voi, in modo irriverente, chiamate "bocconiani".

Certo, il giurista, a casa sua, non vive in un mondo pre-keynesiano! Se sta male, anziché farsi fare un salasso (quello che i suoi amici consigliano a noi) prende un antibiotico, e le notizie non le ascolta da una radio a valvole termoioniche, ma magari guardando la televisione. Post-keynesiano per sé, il giurista però diventa pre-keynesiano per gli altri, traducendo in leggi i precetti di un'economia logicamente fallace perché vetusta. Alla base delle riforme strutturali, e del loro fallimento, c'è infatti l'idea un po' bislacca che il cosiddetto mercato del lavoro funzioni come il mercato di Val Melaina, dove io spunto sempre prezzi bassi perché ci passo tornando dalla scuola der Palla, a tarda ora, quando l'eccesso di offerta sul bancone fa scendere i prezzi di qualsiasi bene.

Ma il lavoro non è un bene qualsiasi: il lavoro sono uomini, e questo chiunque dovrebbe percepirlo: indebolire le tutele del lavoro significa indebolire le tutele dell'umanità. Ma di questo uno potrebbe anche battersene. Resterebbe però un altro problema, un problema che negli altri mercati, caso strano, non si presenta. Sì: se a fine giornata la zucchina, o lo sgombro, o il moscato di Terracina, restano sul banco, il venditore può abbassarne il prezzo, per invogliare gli acquirenti. A parità di reddito degli acquirenti, la decisione del fruttarolo di deflazionare aumenta il potere di acquisto degli acquirenti stessi, e magari la frutta non finisce al cassonetto.

Ora, inutile girarci intorno: lo scopo del gioco delle riforme strutturali (tutte) è quello di rendere i salari flessibili al ribasso. Una ottima descrizione la trovate qui. Nel contesto dell'Eurozona sappiamo bene che questa è una scelta obbligata: abbiamo costruito un mondo nel quale viene impedito ai cambi di flettersi perché si flettano i salari. L'euro è lotta di classe, fatta, con efficacia, dal capitale contro il lavoro. Ma anche nel resto del mondo l'idea che i salari sopportino il peso dell'aggiustamento macroeconomico, che se c'è disoccupazione non sia lo Stato a dover investire di più, ma i lavoratori a chiedere di meno, ha ampio corso, come immaginate, visto che i ricchi e potenti, i capitalisti, pagano giornali e università (avendo i soldi per farlo).

Il fatto è che con la flessibilità dei salari verso il basso il problema non si risolve, ma anzi si aggrava. E a capirlo non ci vuole molto.

Con curve di domanda negativamente inclinate, la diminuzione del prezzo causa un aumento della quantità richiesta. Anche l'imprenditore, se scende il prezzo del lavoro, cioè il salario, aumenterà la quantità di occupati richiesti, e questi quindi non saranno più in eccesso di offerta (cioè disoccupati). Così ragionano i pre-keynesiani. Ma questo ragionamento è stupido: si basa su una premessa assurda, che essi rivendicano come suggello di scientificità, con una ingenuità (o una impudenza) che lasciano veramente senza parole! La premessa (assurda) è che valga per la collettività quello che vale per il singolo individuo. Loro, questa premesse demente, la chiamano "microfondazione". Noi la chiamiamo fallacia di composizione. Va la spieago con un paio di slides che ho mostrato ai giovini della scuola MADEurope di Maratea, dove sono stato invitato da un ospitalissimo ed efficientissimo Realfonzo.

Vedete, per gli economisti pre-keynesiani il mercato del lavoro replica esattamente la logica con la quale il singolo imprenditore sceglie quanti lavoratori assumere. Il grafico (se aiuta) è questo:


C'è una curva di domanda di lavoro, in rosso, che dipende negativamente dal salario reale (cioè dal rapporto fra salari e prezzi, insomma: dal potere d'acquisto erogato al lavoratore) e positivamente dal prodotto (perché se vuoi produrre di più ti occorrono più lavoratori). Poi c'è una curva di offerta di lavoro, in blu, che ho immaginato, per semplicità, verticale (anche se potremmo pensare a una sua inclinazione positiva, a indicare che più alto è il salario e più aumentano le persone disposte a lavorare: i salari bassi scoraggiano). Con un salario reale al livello (W/P)0 (misurato sull'asse verticale), le imprese assumono solo A lavoratori (misurati in orizzontale). Ma in A domanda (rossa) e offerta (blu) non si incontrano: c'è un gap, e quel gap sono i disoccupati: persone che vorrebbero lavorare a quel salario, ma che l'imprenditore non vuole assumere a quel salario.

Come si risolve il problema per il pre-keynesiani?

Ma è semplice: con le riforme strutturali! Indebolisco il potere contrattuale dei lavoratori introducendo forme di precariato, aumentando il potere di ricatto del datore d lavoro (ad esempio facilitando i licenziamenti), e vedrai che i salari scendono! Insomma, nel mondo pre-keynesiano le riforma strutturali servono a realizzare una cosa simile:


Basta poco, che cce vò? Il salario reale scende dal livello (W/P)0 al livello (W/P)1, ci si sposta da A a E ed ecco che, in E, domanda e offerta di lavoro si incontrano: a quel salario l'imprenditore è disposto a dare lavoro a tutti quelli che lo chiedono, dato il livello di produzione Y che massimizza il suo profitto.

Sì, tutto bello e tutto giusto, ma c'è un problema. Voi direte: "Certo! Il problema è che magari al nuovo livello di salario reale il lavoratore non sopravvive!". No, amici, siete fuori strada. Il problema non è biologico, ma logico (e quindi di ordine superiore).

Il fatto è che il singolo imprenditore, nel fare le sue scelte, può anche ragionare per un dato livello di produzione. In concorrenza perfetta, infatti, lui fronteggia una curva di domanda di beni infinitamente elastica, che poi significa che per definizione tutti i beni messi in vendita al prezzo che il mercato ritiene "giusto" (cioè di equilibrio) saranno venduti. Quindi, in qualche modo, a livello del singolo imprenditore ha senso ragionare come se il salario reale W/P non influenzasse la produzione ottimale Y, perché in effetti a livello del singolo imprenditore è così. Se il fruttarolo abbassa il prezzo del moscato, corre il rischio di guadagnare meno lui, ma la sua decisione non fa guadagnare di meno me, e siccome l'uva la compro io...

Il punto, però, è che i nostri amici pre-keynesiani menano vanto dall'applicare all'intero sistema economico (cioè su scala macroeconomica) quel grafico e quel ragionamento che funziona (se funziona) a livello del singolo imprenditore (cioè su scala microeconomica). Ma a scala macroeconomica, quando cioè consideri la decisione di tutti gli imprenditori di far riformare il mercato del lavoro in modo da distribuire meno potere di acquisto, ecco che le cose cambiano. Quello che va bene se lo fa uno solo (alzarsi in piedi allo stadio per vedere meglio, tagliare i salari ai propri dipendenti), non va più bene se lo fanno tutti: se tutti si alzano, vedono tutti come prima, e se tutti tagliano?

Se tutti tagliano succede questo:


Dato che se tutti tagliano, dall'altra parte tutti hanno meno soldi per comprare, le aspettative di domanda (cioè l'idea che il produttore si fa di quanti beni potrà vendere) calano, e quindi cala la domanda di lavoro (cioè il produttore assume di meno perché sa che venderà di meno). Insomma, non ci si sposta dal punto A, fuori dall'equilibrio, al punto E, dove le due curve si incontrano, ma al punto B, che è anche lui fuori dall'equilibrio, perché è su una nuova curva di (minor) domanda di lavoro da parte del sistema imprenditoriale. Chiaro, no?

Ed ecco anche spiegato perché le riforme, soprattutto se strutturali, non sono mai abbastanza! Di fatto, la deflazione logora chi la fa: soprattutto se ha successo, la flessibilità dei salari verso il basso allontana, anziché avvicinarlo, l'obiettivo di ridurre la disoccupazione. Tutto quello che si riesce a ottenere per questa via è una crisi di domanda (effettiva), ovvero una situazione in cui circolano talmente pochi soldi che il desiderio di acquistare beni non si traduce effettivamente in domanda per mancanza, appunto, di liquidi! Certo, sappiamo che a questo si può ovviare indebitandosi. Ma ora che le banche saltano una dietro l'altra, sappiamo anche dove questa storia porti: a una crisi finanziaria.

Questo, per voi, non è niente di nuovo, o almeno spero. Ve lo racconto oggi solo per ricordarvi che avete ancora 24 ore per votare questo sito come miglior sito politico-d'opinione ai MIA17, cosa che potete fare seguendo le istruzioni su questa pagina (per favore non fate come il simpatico Nardelli, che mi ha scritto un paio di email assolutamente deliranti perché temo abbia confuso la pagina per la votazione - dove Goofynomics compare nella categoria 27, e dovete esprimere un voto in almeno 10 categorie - con la scheda per la nomination: strano che certe semplici logiche sfuggano proprio a voi che la televisione la guardate - per lamentarvene, ma la guardate...).

Dovreste farlo, perché non credo che abbiate trovato altrove spiegazioni del perché le riforme strutturali sono destinate a fallire (o meglio: del perché il loro scopo è fallire)! Se volete che altri leggano queste spiegazioni, anche votare ai MIA17 può essere un modo. Voi potrete pensare che sia cosa futile: in effetti, lo è. Ma attenzione, ricordatevi una cosa: le riforme le scrivono i giuristi, e i nostri giuristi sono affetti da quella piddinitas che tante volte abbiamo stigmatizzato. Facciamo finta che siano in buona fede: in questo caso, portare a loro, come a tanti altri, il semplice argomento di questo post forse qualcosa può cambiare. Voglio pensare che chi sembra una brava persona lo sia. Nel mercato delle patate ci si può spostare lungo la curva di domanda, da A a E. In quello del lavoro, la variazione del prezzo (del salario) sposta la curva di domanda (a salari bassi laggente non comprano e gli imprenditori quindi non assumono). La differenza fra pre-keynesiani e post-keynesiani è tutta qui: nel prendere atto di questo semplice dato contabile: i soldi che non circolano non si possono spendere, e alterare la distribuzione del reddito con riforme che danneggino i lavoratori alla fine fa crollare tutta la baracca, anche se a queste riforme viene appioppato il rassicurante epiteto di "strutturali". Si sa, le riforme sono strutturali, esattamente come le olive sono... Come sò ste olive?


E così le riforme: noi cominceremmo a essere un po' riluttanti, ma i tanto Mario Brega dei media e della politica insistono: sò strutturali!

E ce le spingono nel gozzo...

Mi faceva un po' tenerezza il giurista che diceva: "Ma sai, noi scontiamo una certa subalternità culturale, magari abbiamo fatto il classico perché non ci piaceva la matematica, poi arriva l'economista con le sue regressioni e ci dice che il mondo funziona così...". Ecco, Keynes non aveva bisogno di regressioni (pur essendo economista quantitativo) per spiegare come va il mondo, e così non ne ho avuto bisogno io. Aggiungo anche che quello che vi ho detto qui, cioè che le riforme strutturali non funzionano perché deflazionistiche, ormai se lo dicono anche i pre-keynesiani, con il loro linguaggio (non comprensibile ai giuristi, in questo caso) e con argomenti diversi (non tutti stupidi). Ma perché una persona dovrebbe dar retta a chi gli parla un linguaggio che non capisce, anziché a chi gli parla un linguaggio comprensibile? Alla fine, l'archetipo della professione giuridica è l'Azzeccagarbugli: ci vuole così tanto a intuire quando chi si ha di fronte usa le formule come il latinorum?

Insisto sul fatto che chi ha una formazione classica, se ce l'ha, dovrebbe diffidare instintivamente dai tentativi di proporre una scienza umana come scienza naturale. Se non diffida, avrebbe fatto meglio a far ragioneria: questa, almeno, gli sarebbe servita a capire che i soldi che non circolano non possono essere spesi, cioè a maneggiare con scioltezza la parte tecnica della fallacia pre-keynesiana. Ma è la parte etica ed epistemologica quella più grave in termini politici, e più apparente a chi abbia avuto un contatto non fugace con le humane lettere.

Il che ci ricorda che non amare la matematica è forse una condizione sufficiente per scegliere il classico, ma non per capire quanto ivi si insegna, e che se la scienza giuridica richiede ragionamento (cosa della qual i giuristi si gloriano, a ragione), non è per questo che la scienza economica possa o debba essere considerata come un sudoku per diversamente letterati privi di capacità logiche.

C'è un grande lavoro di mediazione culturale da fare (visto che la buona fede si presume). Ci stiamo attrezzando per farlo meglio. Intanto, votate Goofynomics ai MIA17. Poi, vi parlerò dei nostri prossimi appuntamenti...

31 commenti:

  1. Forza Prof, continuerò a sostenerla con le unghie e con i denti

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  2. Nella moneta unica la "moderazione "salariale non da tanto il vantaggio immediato,al singolo imprenditore di un minor costo del prodotto che vende, ma è indispensabile,per tutti gli imprenditori, al fine d'avere un regime generalizzato di prezzi bassi per il fatto che milioni di lavoratori poveri spendando ,se da un lato riducono la domanda interna,dall' altro ,deprimono i prezzi interni . Ciòrende possibile esportare come se si fosse svalutata la moneta ,che ,essendo unica non si può svalutare.I bassi salari di chi lavora nel commercio nei servizi o quelli fermi da anni del pubblico impiego servono quindi indirettamente a rendere competitivi i prodotti da esportare

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    1. Ma dove caspita esporti, se la repressione salariale è globale, o almeno continentale? Se parli di prodotti di nicchia (lusso, ecc.) ancora ancora può aver senso, ma i prodotti di largo consumo???
      Se la ggente non ha soldi non compera OVUNQUE si trovi, santa polenta!
      E non parliamo poi di prodotti e servizi base, che si è obbligati a comperare (cibo, casa, acqua, ecc.), dove si stanno attuando politiche ancora più immonde: visto che senza non si sopravvive (o non si vive un minimo decentemente, che, visto che fino a prova contraria la vita è una sola, è l'unica cosa che conta...) allora vai di speculazione libericola a piene mani.
      Ma sempre in buona fede, ovviamente: non sia mai che noi si pensi male dei sociopatici delle elite...

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    2. SteelRust, hai regione, ed in effetti i risultati di queste politiche nell'Eurozona sono evidenti a tutti (quantomeno a chi frequenta questo blog). Tuttavia l'osservazione di Gilberto non è priva di interesse (ma interesse de che.. https://www.youtube.com/watch?v=bPjb3LhePwo). In effetti troverei poco credibile che chi decide le riforme da attuare (intendo i mandanti, non gli esecutori) non conosca la scienza economica, e quindi credo che tali mandanti sappiano perfettamente quali siano gli effetti macroeconomici a livello "locale" (inteso come Eurozona) delle riforma da loro proposte. Detto questo, posto che l'encomiabile opera di divulgazione messa in atto dal Prof. Bagnai e dalla associazione Asimmetrie ha messo a disposizione di tutti i mezzi per capire l'impatto di tali riforme sul breve e lungo termine su scala nazionale, o comunque in un economia con vincoli e barriere di tipo politico-culturale (dogane, leggi, regolamentazioni, abitudini, gusti, etc), mi viende spontaneo chiedermi se per capire le dinamiche in atto sia necessario allargare ancor di più l'orizzonte. La tendenza che vediamo, e che il prof. ha messo in luce, è quella di un economia sempre più aperta, in cui gli stati nazionali e le loro istituzioni vengono sempre di più indeboliti, la cultura sempre di più appiattita e omologata ( e qui i "profeti" sono Pasolini e Guy Debord), in altre parole il terreno economico assomiglia sempre di più ad una giungla in cui vige la legge del più forte. Ora, la mia domanda da ignorante in materia di scienza economica è: esistono modelli che tengono conto di questi vincoli sempre più lassi? Qual'è il futuro del capitalismo in uno scenario globale completamente "aperto"? Grazie a tutti coloro che vogliano condividere con me se non una risposta, delle riflessioni su questo aspetto...

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    3. Esporta di più chi ha menato per primo i propri lavoratori e poi gli altri a seguire ma,e qui hai ragione al 100%, prima o poi,anzi più prima che poi,non ce ne sarà per nessuno .L' idea dell' "external compact" ,letta sul "Tramonto dell' euro"sarebbe la soluzione , per imporla ci vuole un cambiamento dei rapporti di forza ,vediamo cosa succederà .Io sono preoccupato per me e per i miei cari .

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  3. E anche tu picchi (educatamente) duro.

    Proprio velenoso :-)

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  4. Grazie. Forse uno degli articoli più belli, per contenuto, forma e capacità di soddisfare logica, tecnica e filosofia.

    Non le scrivo in realtà per farle i complimenti (immagino possano far piacere ma ritengo più utile contribuire, per quanto posso, in modo più concreto) ma per una richiesta o proposta.

    Innanzi tutto faccio outing: sono Ingegngnere, e ho la sfortuna di avere attorno molti consimili.
    Così come indicato in questo post, a parte alcuni colleghi "gngngngn" per i quali non vi è speranza, per altri io devo presumere siano brave persone e vorrei condividere una difficoltà che incontro nella dialettica sui temi della moneta unica.

    Non sono stato in grado di trovare nel blog un post dedicato a un concetto basilare e che potrebbe essere stato tralasciato perché troppo ovvio: come funziona il mercato dei cambi.
    Ovvero, perché le valute (se lasciate libere) si ostinano a voler mutare incessantemente il loro valore reciproco.
    Quali sono le variabili i gioco e in che misura ognuna influisce sul risultato finale (apprezzamento o deprezzamento di una valuta rispetto ad un altra), rispondere cioè alla domanda "nel determinare la variazione del tasso di cambio di una valuta ha più influenza la bilancia dei pagamenti o il mercato dei titoli di stato, o la "credibilità internazionale" (unità di misura?) o altro?

    Chiedo questo perché, essendoci passato anch'io, riconosco in molti interlocutori lo sguardo bovino di fronte alla sintetica formula "Fissato il cambio, gli squilibri si scaricano sui salari". E' un concetto che spesso non arriva, per mancanza di fondamentali.

    In altre parole, troppe persone non si sono mai chieste, e quindi risposte, perché il valore delle valute varia nel tempo.
    Senza questo passaggio logico, i miei colleghi si perdono nella sequenza logica che porta dal cambio fisso, alle esportazioni, al circolo virtuoso germanico e vizioso degli altri, alla competitività, alla produttività, e quindi al salario e alla disoccupazione, e quindi all'umanità (come spiegato in questo post). Manca loro un tassello e non riescono a fare il salto.

    Ora, mi rendo conto di voler andare contro il primo principio della termodidattica, ma ci vorrei provare ugualmente.

    Chi voleva e poteva capire a quest'ora dovrebbe essere con noi, forse però c'è ancora qualche disperso che val la pena di provare a recuperare.

    Ovviamente sarà lei a decidere se e quando voler tornare su questi temi ed eventualmente accetto anche qualsiasi suggerimento dal pubblico.

    Grazie ancora, per tutto.
    Saluti.

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    1. Io ti darei questa risposta:
      Una valuta si apprezza rispetto alle altre quando nel resto del mondo (ovvero in tutti gli stati del mondo tranne quello della valuta considerata) c´é domanda dei beni prodotti nel paese considerato.
      Non vado oltre perché avrei timore di dire il falso (non ho studiato ne economia ne ingegneria, ma solo fisica) ma ti consiglio di scaricare le dispense di macroeconomia del Prof., o di leggere uno dei suoi libri o quello di Cesaratto

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    2. Prova a leggerti: il buono il brutto e l'azero del 9/1/2016. Considera, in generale, che una valuta si apprezza se le merci di quel Paese vengono richieste maggiormente. Per l'Azerbaijan vale qualche considerazione ulteriore. Ma non ti tolgo la sorpresa
      Bye. Gila

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    3. Ok, suonava un po' come quando si dice "mio cugggino ha un problema... Nooo, non sono io..."

      In realtà una risposta io me la sono cercata e me ne sono fatto una ragione.
      Però è una risposta qualitativa e non quantitativa.

      E' la solita legge della domanda e dell'offerta, bene, ma la Domanda di Valuta di un paese immagino sia composta da vari fattori tra cui sicuramente le esportazioni (ma cosa succede ad esempio se una fornitura è, per contratto, venduta in dollari invece che nella valuta del paese? boh?), ma poi c'è anche un mercato valutario (finanza) con speculazioni varie... Quale conta di più?
      Esistono dei dati di come è composta questa "domanda di valuta"?

      Da solo non ci arrivo.
      Probabilmente anche il problema è mal posto.
      Le risposte che ho cercato in giro non le ho trovate esaurienti.
      I miei interlocutori se ne escono con "la liretta!! la Credibilità internazionale!! il Debito pubblico..."

      Per cui chiedevo lumi.

      ("Solo" Fisica... mavalà...)

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    4. https://www.youtube.com/watch?v=03qVICS0LEc

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    5. Azzardo: la valuta di un Paese rappresenta l'appetibilita' dei suoi prodotti (beni e servizi), ma anche la sua potenza militare.

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    6. Dal modo in cui formuli alcuni (tuoi?) dubbi - ad es. la domanda: "nel determinare la variazione del tasso di cambio di una valuta ha più influenza la bilancia dei pagamenti o il mercato dei titoli di stato, o la 'credibilità internazionale' (unità di misura?) o altro?" - ho l'impressione che ti sarebbe utile, prima di passare ad affinare le armi dialettiche anti-ingegngneri (auguri), mettere meglio a fuoco alcune nozioni propedeutiche rispetto a quella di "mercato dei cambi", che dovrebbero contenere buona parte della risposta al "perché le valute (se lasciate libere) si ostinano a voler mutare incessantemente il loro valore reciproco".

      Per quanto riguarda fonti e materiali (interni ed esterni al blog) hai l'imbarazzo della scelta, a partire dagli ottimi suggerimenti che hai già ricevuto. Googlando al volo ho trovato ad esempio questa vecchia scheda di Vocidallestero che già da sola credo possa contribuire a indirizzarti saldamente sul giusto binario.

      A seguire, tra le tante possibili combinazioni di letture attinte dal blog, puoi provare in sequenza prima questa e poi questa.

      Dopo di che non dovresti avere problemi a sapere da solo cosa cercare e selezionare per seguire il filo rosso (sempre più sottile) dei dubbi.

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    7. Grazie a tutti e grazie in particolare a Fabrizio. A rileggere a posteriori, cioè dopo aver letto e non ancora digerito del tutto i due post sopra, mi rendo conto di quanto imprecisa fosse la mia richiesta. Tuttavia hai colto comunque la natura della mia richiesta. Grazie!

      Ora dovrò metabolizzare il tutto, che non è poco.

      E di nuovo grazie al prof che aveva già trattato approfonditamente questi argomenti.

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    8. A proposito di filo rosso sempre più sottile dei dubbi: avendo approfittato io stesso del suggerimento dato a Nicolò per un sempre utile ripasso, a partire da KPD9 mi sono imbattuto in questo interessantissimo (pur se a tratti alquanto tecnico) Thirlwall del 2011, che evidentemente all’epoca era sfuggito al raggio d’azione delle mie googlate.

      Ebbene, confesso che in alcuni passaggi, rispetto al (evidentemente ancora fragile) quadro esplicativo di riferimento che sono riuscito finora ad assimilare circa il rapporto tra flessibilità dei cambi e vincolo esterno, questo paper mi ha abbastanza disorientato. Ci sono infatti alcune affermazioni che ho difficoltà a conciliare sia con quel quadro che, ancor più implausibilmente, tra loro (il che lo prendo come un segnale del fatto che sono fuori strada).

      Vado al punto.

      Da una parte, coerentemente con quello che credo di aver compreso da tante letture fatte qui e altrove, a p. 327 trovo scritto:

      “Quando il gold standard è collassato, nel 1931, la teoria dei tassi di cambio flessibili ha preso piede, e fu mostrato che se il tasso di cambio è flessibile, e se le condizioni di Marshall-Lerner sono soddisfatte (cioè la somma delle elasticità al prezzo della domanda per esportazioni e e quella per le importazioni è maggiore di 1), la bilancia dei pagamenti andrà in equilibrio. Di nuovo, senza aggiustamenti nel reddito”

      Oppure, a p. 337 (con qualche ulteriore ma pertinente precisazione):

      “un deprezzamento del tasso di cambio, e >0, aumenterà il tasso di crescita se [è soddisfatta] la condizione di Marshall-Lerner per il successo di una svalutazione. Si noti, comunque, che un deprezzamento (o una svalutazione) una tantum non può porre il paese permanentemente su un sentiero di maggiore crescita. Perché ciò avvenisse, il deprezzamento dovrebbe essere continuo, o modificare i parametri strutturali del modello in maniera favorevole”

      Dall’altra, passando attraverso la sequente formulazione più sostanzialmente ‘ridimensionante’:

      “Sulla questione del tasso di cambio flessibile come meccanismo equilibrante, bisogna anzitutto distinguere il tasso di cambio nominale da quello reale. Per i paesi è semplice aggiustare il tasso nominale, ma non altrettanto aggiustare il tasso di cambio reale perché i competitors potrebbero adottare comportamenti del tipo “price to market” o operare delle ritorsioni, e i prezzi interni potrebbero aumentare nonostante una svalutazione nominale. In secondo luogo, le condizioni di Marshall-Lerner devono essere soddisfatte perché la bilancia dei pagamenti vada in equilibrio” (p. 328)

      [continua]

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    9. [segue]

      mi imbatto poche righe dopo nella seguente affermazione, direi abbastanza tranchant:

      “L’evidenza internazionale degli ultimi 40 anni a partire dalla crisi del sistema dei tassi fissi di Bretton Woods, nel 1971, suggerisce che variazioni del tasso di cambio non sono un’arma efficiente nell’aggiustamento della bilancia dei pagamenti. Le valute si apprezzano e deprezzano, ma ciononostante enormi squilibri globali nelle bilance dei pagamenti rimangono” (pp. 328-329)

      Alla quale, nel corso del paper, fanno seguito le seguenti:

      “Se i cambiamenti dei prezzi relativi fossero un meccanismo efficiente di aggiustamento della bilancia dei pagamenti, non dovremmo aspettarci alcuna relazione tra i due tassi [tasso di crescita effettivo e tasso di crescita previsto dal modello della crescita vincolata dalla bilancia dei pagamenti]. I risultati sembravano giustificare le ipotesi del modello: che in effetti i prezzi relativi non cambiano nel lungo periodo, o che le variazioni dei prezzi relativi non funzionano come meccanismo di aggiustamento” (p. 339)

      “Dal 1979 c’è stata una gran quantità di studi che hanno applicato il modello [della crescita vincolata dalla bilancia dei pagamenti] nelle sue varie forme, a singoli paesi o a gruppi di paesi […]l’evidenza empirica mostra in maniera determinante che variazioni nei prezzi relativi o nei tassi di cambio reali non sono un meccanismo di aggiustamento efficiente della bilancia dei pagamenti, a causa del troppo piccolo grado di aggiustamento di lungo periodo o delle troppo basse elasticità al prezzo delle esportazioni e/o delle importazioni. Quindi è il reddito che si aggiusta per mantenere la bilancia dei pagamenti in equilibrio” (p. 355)

      “L’economia mondiale non sarebbe necessariamente in questa situazione di gravi squilibri globali, se avesse istituito dei meccanismi istituzionali per penalizzare i paesi in surplus che sono riluttanti a, o per qualche ragione non sono in grado di, spendere più o ridurre i loro surplus in qualche maniera (ho seri dubbi riguardo al ruolo dell’apprezzamento del esempio [ndr: refuso per ‘cambio’?])” (pp- 357-360)

      Naturalmente riportando le mie perplessità (con annessi probabili fraintendimenti) non intendo inserire alcuna monetina nel juke-box, bensì solo esplicitare e condividere una dissonanza cognitiva che, date l’autorevolezza e l’estrazione teorica della fonte, insieme alla nettezza di certe affermazioni, insiste nell’apparirmi non trascurabile, e resiste più di altre al riassorbimento nel mare magnum della semi-consapevole ignoranza socratica.

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    10. Scusate, però! Se siete qui da tempo dovreste avere una comprensione del dibattito un po' più approfondita. Tony è bravo, ma ha un tipico riflesso pavloviano "cheinesiano" qui descritto mille volte. Punto. Se non vi ho insegnato a riconoscere una religione quando la incontrate, allora posso anche chiudere.

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    11. Dato che un solo cattivo allievo non fa un cattivo maestro, conto di non dover avere sulla coscienza la chiusura del blog. Comunque, religione o non religione, la macroscopicitá di certe incoerenze interne rimane francamente sconcertante: sulla 'fisiologicitá' a tutti i livelli di questo fenomeno ho sicuramente ancora molto da imparare.

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  5. E assaggiale! So greche! "Allora come so se olive? Greche. .." che bella l'Italia dei piccoli negozi dove si guadagnava bene senza la concorrenza delle multinazionali, delle

    lobbies. In quei luoghi si conservava la cultura, la nostra nazione. Complimenti per Il post sempre molto dettagliati e analitici. Ci vogliono uniformare, fare sparire il concetto di nazione, per tacere di tutti gli inglesismi che si usano in radio ecc ecc. Mi scusi se sono andato fuori argomento, è semplicemente uno sfogo. Mi sarebbe piaciuto studiare latino e greco, ma l'insegnante al tempo mi fece capire che la media sufficiente che avevo alle medie, sarebbe stata un ostacolo. Pazienza. Continui la sua battaglia " dietro le linee nemiche".

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  6. Grazie. (ovviamente, già votato da mo')

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  7. dunque il modello deflattivo deve reggersi sulla domanda estera visto che non puo piu farlo su quella interna, parassitando le economie altrui con il drenaggio di reddito derivante dalle esportazioni. Che poi significa anche drenaggio delle capacita produttive del paese "esportato" dato che un aumento dell'import - almeno su beni gia oggetto di produzione a livello nazionale - significa imprese interne che chiudono.
    A questo punto penso una cosa, che e' un argomento da usare nei dibattiti con gli europeisti.
    L'austerita ha come effetto diminuire la domanda, con cio limitando le importazioni ed aumentando le esportazioni. Ed e' assolutamente necessaria nei paesi della Ez, dove gli squilibri di bilancia dei pagamenti non possono essere limitati/corretti ne con dazi (o misure di effetto equivalente), ne con l'aggiustamento dei cambi. Pero se applichiamo l'austerita a livello generalizzato cio che otteniamo e' una paralisi dei flussi commerciali comunitari.
    Insomma l'integrazione finanziaria europea e' resa a scpapito del mercato unico europeo.
    Professorechennepenza?

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  8. E assaggiale! So greche! "Allora come so se olive? Greche. .." che bella l'Italia dei piccoli negozi dove si guadagnava bene senza la concorrenza delle multinazionali, delle

    lobbies. In quei luoghi si conservava la cultura, la nostra nazione. Complimenti per Il post sempre molto dettagliati e analitici. Ci vogliono uniformare, fare sparire il concetto di nazione, per tacere di tutti gli inglesismi che si usano in radio ecc ecc. Mi scusi se sono andato fuori argomento, è semplicemente uno sfogo. Mi sarebbe piaciuto studiare latino e greco, ma l'insegnante al tempo mi fece capire che la media sufficiente che avevo alle medie, sarebbe stata un ostacolo. Pazienza. Continui la sua battaglia " dietro le linee nemiche".

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  9. Etica ed epistemologia: il problema delle "fondazioni" nelle scienze sociali e naturali.

    (L'importanza di Husserl, checché ne potesse giustamente dire Lukács; è un fatto che esista una lieve relazione tra "fondazioni", cognitivismo, coscienza e dialettica assiologica e di classe)

    Vabbè... però, diciamolo, forse i piddini di Goldman Sachs non ci avranno azzeccato sulla questione del rapporto tra euro e shock esterni ma, bisogna ammettere, che la loro anima democristiana, certe cose, ha spinto loro a dirle con grande « trasparenza e chiarezza »: ad esempio come il significato delle "riforme strutturali" siano strettamente connesse alla "flessibilità" del mercato del lavoro.

    Che « non è un mercato normale... il lavoratore è un uomo... incide sulla vita... sulla dignità... »

    Giusto per fare un ripassino sul ruolo dell'istituzione monetaria nel conflitto distributivo.

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  10. Mercati di sbocco! C'e' la Cina, l'India, miliardi di persone ancora senza macchina! Ce ne vuole, prima che gli imprenditori inizino a piangere...

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  11. Come sempre interessante ed illuminante. Forse spiega anche perche' i piccoli soccombano prima dei grandi, nonostante la maggiore efficienza e flessibilita'. Chi ha la forza di vendere in Cina o in India, ovvero di spostarsi piu' velocemente della propagazione degli effetti della deflazione salariale?

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  12. Orgoglioso della mia educazione classica ed all'ascolto dei classici, grazie Prof. Bagnai.

    "[....] If I speak at one constant volume
    At one constant pitch
    At one constant rhythm right into your ear, you still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear
    You still won't hear".

    (Artista: Faith No More;
    titolo: "A small victory";
    album: "Angel dust";
    anno: 1992;
    etichetta: Slash Records)

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  13. "Ma il lavoro non è un bene qualsiasi: il lavoro sono uomini, e questo chiunque dovrebbe percepirlo: indebolire le tutele del lavoro significa indebolire le tutele dell'umanità" ....

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  14. Seguita l'intervista su Radio Radio. Magistrale. La battuta sui BOT di famiglia bruciati (debbbito pubblico) è un capolavoro...

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  15. Faccio fatica a credere che questo sia il vero pomo della discordia. Questo concetto mi era chiaro a livello intuitivo quando proponevano, nel 2011, l'austerità espansiva. Ogni azienda cerca di risparmiare sul proprio personale in un momento di crisi, così fece anche l'azienda per cui lavoravo, ma ognuna di queste aziende pensa di essere l'unica a farlo, mentre in realtà tutte lo fanno. Il risultato non può che essere un minore potere d'acquisto per tutti, che si rifletterà sugli acquisti e di conseguenza sulle vendite delle aziende (e il ciclo si ripete: è un circolo vizioso).

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    1. Tanto quelli ti rispondono invariabilmente che se mi nonno c'aveva tre palle (ovvero in regime di concorrenza perfetta e con TUTTI i prezzi perfettamente flessibili), quello che perdi in salario nominale lo recuperi in riduzione dei prezzi. E quindi la domanda, e quindi la produzione, e quindi l'occupazione, non solo reggono ma si massimizzano: e tutti sono panglossianamente felici e contenti.

      Se poi questo non accade, la colpa non è della teoria, ma della realtà che ottusamente le resiste.

      Poiché però nella realtà c'è sempre qualcuno che è colpevole più e prima di qualcun altro - e guarda caso questo qualcuno è sempre l'ingordo lavoratore - questo qualcuno, volente o nolente, si merita di essere 'riformato' per primo.

      Poi per carità: lotta senza quartiere anche a monopolisti e oligopolisti (e che si sappia in giro!), i quali per fortuna del lavoratore non hanno certo tutti i mezzi che ha lui, formidabilmente e geneticamente votato a organizzarsi a difesa collettiva dei suoi interessi, per riuscire a resistere al sacro zelo riformatore.

      E così, tira di qua, tira di là, tutto si accomoda: basta dare l'aiutino giusto a chi parte naturalmente svantaggiato (aiutino con cui ovviamente la moneta unica non c'entra nulla!)

      L'importante è che alla fine non ci ritroviamo al punto di partenza. Che poi sarebbe, che Dio ce ne scampi, l'abominevole lotta di classe.

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