Scusate, mi autoapplico la "legge bavaglio" e rettifico (perché ci tengo) un'inesattezza della quale è stata vittima per mia colpa un mio collega. In questo post ho scritto: "Vedi, Gustavo, anch'io ho dei sogni (tu che mi accusi di non averne)."
Ora, dato che scio come una bombola del gas (ho fatto il mio primo e ultimo corso a 39 anni), è chiaro che il collega di nome Gustavo non poteva essere Thöni, ma doveva essere il più celebre Piga, il quale, giustamente, mi ha spedito la tuittata che avevo mal riportato (perché mal ricordavo). Eccola:
Piga (a andrea ortolo): scherza? una vita senza sogni? no grazie. mai.
Bagnai
(a @GustavoPiga @andreaortolo): A bbello! La gente si sta svegliando!
Non sogna più! Fine dei giochi. Ora lotta, e si riprende quello che è
suo.
Piga@GustavoPiga (a @AlbertoBagnai @andreaortolo): quello
anche sarebbe un sogno. e non incompatibile col mio, se siamo d'accordo
su cosa uno si riprende.
Aggiungendo:
Solo per precisare che non ti ho mai accusato di non avere sogni.
ciao
g.
Gustavo: mi scuso. So benissimo che tu sai che anch'io ho dei sogni, perché, come ricordi, ne abbiamo uno in comune: quello di iscriverci a filosofia quando tutto questo sarà finito, per studiare qualcosa di serio. Io ho preso questo sogno molto sul serio, e mi sto facendo dare ripetizioni da un mio lettore che è molto preparato, nonostante se ne esca con roba simile.
Sempre per restare nel campo di quello che dovremmo sapere, sai benissimo quanta riverente stima io provi per te (qualche volta magari irriverente, ma sempre stima), i lettori sanno quanto volte li ho rinviati al tuo blog che è una miniera di informazioni, ecc.
Devi però scusarmi se in questo periodo ho una allergia violentissima verso la categoria del "sogno", che in questo caso mi ha portato a essere lievemente più caustico e superficiale del solito. Credo però che tu, come me, non possa ignorare che questa categoria è stata abusata dai politicanti che ci hanno venduto come "sogno" e "visione" quello che resta comunque un colossale errore tecnico, e che in ogni caso ha alle spalle motivi politici, più o meno consapevoli, che spetterà agli storici o ai magistrati indagare compiutamente.
Quello che appare certo è che i politici hanno spesso insistito sul "sogno europeo" perché a loro faceva comodo un elettorato dormiente. È altresì certo che l'elettorato si sta risvegliando.
"I politici" ti sembra troppo generico, ti sembra "antipolitica"? Può darsi. Credo però che l'Italia sia dominata dal partito unico dell'euro, ed è a questo partito che penso quando parlo di "politici" in senso generico: gli esponenti dei partiti che stanno animando la (finta) dialettica parlamentare nel nostro paese.
Mi piacerebbe, da illuminista, bandire per il momento la categoria del sogno e della visione dal dibattito politico-economico. Mi rendo conto che non posso chiedere a tutti di condividere una simile operazione, né del resto posso sempre attaccare chi la compie. Qualche volta riesco a prenderla con leggerezza e preferisco riderci su. Non volevo assolutamente attaccarti e mi spiace aver dato questa impressione.
So che tu hai una concezione molto meno pessimistica (o realistica) della mia. Sei più ottimista, credo, sulla nostra classe politica (almeno in relazione alle scelte che io chiamo euriste e altri chiamano europee, bestemmiando, secondo me, il nome del nostro continente). Sei anche più costruttivo rispetto alla logica sottostante alle modalità di integrazione che "abbiamo scelto" (oggi Draghi ci conferma che abbiamo da tempo perso la nostra sovranità.... ma nessuno ce lo aveva detto, salvo De Grauwe, che però lo spiega in un modo un po' diverso).
Allora ti chiedo, in amicizia: pare che il 17 dicembre io sia dalle tue parti (Tor Vergata). Non ti andrebbe di parlarne con me, di confrontare le nostre visioni? Non ti andrebbe di fare con me l'inventario di quello che sarebbe opportuno che ci riprendessimo? Non ti andrebbe di passare una mezz'oretta con me, scambiandoci le "figurine" dei nostri sogni? Gli studenti apprezzerebbero.
So bene di non avere lo spessore culturale di un Boldrin, col quale hai recentemente dibattuto di questi temi in quella sede. Ma sento di aver bisogno di ascoltare una voce autorevole (sarebbe la tua, secondo me) che temperi il mio estremismo. E così, magari, per amicizia, in memoria dei vecchi tempi, del barbecue al quale non sono mai riuscito a invitarti, ma dal cui incendio mi hai con tanta generosità salvato (tanto maggiore generosità in quanto escluso dal festino, a differenza del manzo...), in memoria delle aule sorde e grigie (e soprattutto gelide) della Sapienza... Chiedo troppo? E dai, fammi contento! Io, lo sai, ti dico sempre di sì (oh, non pensate male: si parla di sbrigare rogne amministrative)...
Allora: affare fatto?
Fammi sapere, ci tengo. Posso ricambiare con un barbecue...
L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali...
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domenica 28 ottobre 2012
sabato 27 ottobre 2012
Le ricette veloci di Giampiero Friedman
(L'avete voluto il post tecnico? E mo' ve lo leggete. Da istwine, aka Bourka boy, ricevo e volentieri pubblico, dedicandolo non solo all'immortale bisteccone, ma anche e soprattutto a quelli che la moneta si crea con un clic del mouse...)
I PRINCIPI DELLA MONETA ENDOGENA
1 PARTE. UN
BREVE EXCURSUS STORICO.
Al mondo di sicuro ci sono solo
due cose, la morte e le tasse.
Questa citazione attribuita a Benjamin Franklin è poi diventata un
classico dell’umorismo, benché non è detto che Franklin volesse far ridere. A
parte questo, l’idea di Franklin rimane imprecisa, difatti al mondo di sicuro
ci sono ben tre cose, la morte, le tasse e i monetaristi, consapevoli o
inconsapevoli. Questa prima parte ha lo scopo di tracciare una breve storia della
politica monetaria in modo tale da mettere a fuoco un concetto elementare: di
monetarista è rimasto solo l’uomo della strada, ed è arrivata l’ora di
rincasare.
Il metodo che utilizzerò è quello di citare economisti noti e meno
noti, ortodossi e non, in modo tale da rendere evidente che, come si è imparato
leggendo questo blog, nella vulgata dominante di vero non c’è assolutamente
niente e quelle poche cose apparentemente realistiche necessitano quantomeno di
una discussione. Per essere chiari, lo scopo non è quello di convincere
qualcuno che in ambito accademico sono tutti d’accordo, sarei disonesto se
negassi che esiste un dibattito, o meglio, che è esistito un dibattito anche
feroce tra scuole di pensiero. Quello che non esiste invece e che esiste solo nella
mente di quella trascurabile maggioranza onnipresente sul web e nei media
principali è il semplicistico, la didascalia, lo slogan e tutti gli strumenti
di cui si serve il sempreverde conformista. Scusate, prolisso ma
doveroso.
Introduzione
“[…] Our teaching about monetary policy must be completely revamped.
Specifically, students must now learn something about “unconventional” monetary
policies. Remember “conventional” monetary
policy? The Federal Reserve shortens recessions by creating more bank reserves
(“printing money”), which fuels a multiple expansion of the money supply and
credit because banks don’t want to hold excess reserves. So they get rid of
them making more loans and deposits, which also lowers short-term interest
rates. Compare that to current reality: Banks are content to hold over $1.6
trillion in excess reserves, short-term interest rates are stuck near zero, and
Fed policy often works on long-term interest rates instead. No, this is not
your father’s monetary policy, and the old ways of teaching about it simply
won’t do.” (Blinder 2012)
Così scriveva
il 1 Aprile 2012, Alan Blinder, un economista di tutto rispetto. Spero non
scherzasse. Blinder qui si rivolge ai colleghi perché sa che in ambito
accademico vi è un certo fermento, la crisi finanziaria e le politiche non
convenzionali messe in atto in particolare dalla Federal Reserve statunitense e
dalla Bank of England mettono a dura prova le teorie dominanti sulla politica
monetaria e le sue implicazioni e molti economisti si stanno rendendo conto che
qualcosa non torna. La diffusione delle teorie di Minsky per anni snobbate è un
altro esempio di questo processo in corso. Ma guardiamo la chiusura perché è
interessante: secondo Blinder questa non è la politica monetaria che ci hanno insegnato
i padri e la vecchia maniera di insegnarla non funziona più.
“[…] It used to be that most academic research treated money (or sometimes base) as the exogenous policy instrument under the control of the
central bank. This was an irritant to those of us working in central banks, because the instrument
of policy
had always been the short-term interest rate, and because all monetary aggregates (beyond base) have always been and
remain endogenous.
In recent years, more and more academics, in specifying their models, have treated the short-term interest rate as
the policy instrument, thereby increasing the usefulness of their analyses for our thinking about monetary policy and allowing for more
cross-fertilization of work done inside and outside central banks.” (Freedman 2003)
Così scriveva nel 2003,
Charles Freedman, Deputy
Governor della Banca Centrale del Canada per più
di trent’anni, nelle sue Reflections on Three Decades at the
Bank of Canada (2003). Nel paragrafo da cui è tratta la citazione, l’autore racconta le varie fasi
che la Bank of Canada ha passato, quindi la fase di inflation-targeting che
hanno passato tutti (alcuni non riescono a uscirne, se ricordate quel patetico
video della BCE), la presa di coscienza del fatto che
non funziona e il ritorno al passato. Perché è importante questa citazione?
Perché a giudicare dalle parole di Freedman (e non è l’unico, si legga a questo
proposito Nicholas Kaldor – Il Flagello del Monetarismo), forse la politica
monetaria dei padri non era più quella dei nonni. Ma forse non tutti sanno che
anche i bisnonni avevano qualche problema a riguardo. Ce lo racconta brevemente
Ulrich Bindseil che ha scritto un libro, Monetary Policy Implementation: Theory, Past,
and Present (2004). Il libro va comprato, non si
trova sul web (che io sappia), io non l’ho comprato e ne ho letto alcuni
estratti da Google Books, ma fortunatamente Bindseil ha scritto anche alcuni
paper in cui riprende le stesse tesi. Comunque, Bindseil è nientepopodimeno che
Director General of the Markets Operations Department della
Banca Centrale Europea ma è stato tra le altre cose Economista allo European
Monetary Institute, alla Banca Centrale Europea e al Dipartimento Economico
della Deutsche Bundesbank.
La politica monetaria pre-1914
Thornton,
Wicksell, Bagehot, King sono alcuni nomi da tenere a mente se si vuole
discutere della politica monetaria precedente alla nascita della FED. L’idea di
fondo che questi signori portavano avanti era quella che la politica monetaria
non fosse altro che fissare un tasso d’interesse, in particolare il tasso
d’interesse a cui la Banca Centrale prestava alle banche (discount rate
facility). Il dibattito era vivo, ma nessuno metteva in discussione la natura
fondamentale della politica del banchiere centrale, semmai la discussione si
riferiva (come adesso) a quale fosse il tasso d’interesse ideale. Wicksell,
come Thornton, ad esempio sosteneva che bastasse fissare il tasso d’interesse
in base a quello che chiamavano “rate of mercantile profit” per limitare
l’espansione del credito e lo consideravano lo strumento più importante.
Bagehot (1873) allo stesso modo, conscio del fatto che i mercati monetari
fossero per loro natura instabili, considerava molto più efficace fare una
politica di prezzo (il tasso d’interesse) piuttosto che di quantità (le
riserve). Cioè Bagehot aveva capito che la domanda di riserve è poco elastica
rispetto al prezzo (cioè, se ne hanno bisogno, ne hanno bisogno). Nelle parole di
Bindseil:
“Bagehot’s insight into the
inherent instability of the money market implies that any serious
setting of a quantitative operational target means
extreme noise in short term interest rate. Since this noise is unlikely to be white, it also means
noise in medium and longer-term rates – i.e. noise in all rates that are crucial for economic
decisions. Such interest rate noise is unlikely to be compatible with a sensible
control of prices and stable economic conditions in general.”
(N.d.r.: un “rumore bianco” è un
errore statistico imprevedibile – tecnicamente, una sequenza di variabili
aleatorie incorrelate. Quello che Bindseil vuole dire quindi è che porsi degli
obiettivi operativi in termini di quantità di un particolare aggregato
monetario, rischia di indurre una distorsione persistente nel livello dei tassi
di interesse.)
Spostandoci in Inghilterra
invece, Bindseil racconta:
“The technique used by the Bank
of England in the last decades before WWI to set Bank rate and to steer short-term market rates
at a level somewhat below Bank
rate is described in detail in King (1936) and Sayers (1976). In fact the Bank of
England aimed at achieving only a limited recourse to its discount facility, this being ensured
through what would be called later open market operations. In fact, the Bank of England
maintained normally a spread between the Bank rate and market rates of around 1% (see the tables in
King, 1936, pp. 300, 312) – similar to what the Fed has adopted in 2003 after
the reform of its discount window, and what many other central banks had adopted in the
course of the second half of the 20th century. Other central banks, as e.g. the Reichsbank,
instead accepted a permanent large recourse to their discount window and thus that market rates
and the discount rate were in principle equal (see e.g. Reichsbank, 1910). In any case, before 1914, all central banks
quoted at almost any time at least one official discount rate at which they were
prepared to discount eligible paper (see e.g. Bloomfield, 1959).
One may conclude that in 1914,
there was no doubt, neither on the theoretical side, nor on the side of central bank practice,
that central bank policy was interest rate policy, mainly in the form of setting the rate of the
discount facility.”
La Reserve Position Doctrine (RPD)
Il primo
a chiamarla così fu tale Meigs (1962), che nella sua tesi - che aveva come relatore un certo Milton
Friedman - definì la “reserve position doctrine”, ovvero quell’idea che tutti
gli studenti si trovano a ripetere all’esame (ma senza capirla poi, infatti io
mica la capivo, la ripetevo) che vuole che la Banca Centrale tramite le
cosiddette operazioni di mercato aperto (acquisti e vendite di titoli) emetta
moneta e quindi, tramite un meccanismo noto ai più come “moltiplicatore
monetario” riesca bene o male a governare l’offerta di moneta. La teoria ha
diverse varianti, ma la tesi di fondo è che la Banca Centrale sia in grado di
controllare la quantità di moneta nell’economia e che quindi quest’ultima sia
una variabile esogena. L’idea era più vecchia del 1962, si diffuse negli anni
Venti e fece, per certi versi, una vittima illustre: John Maynard Keynes (per
chi vuole approfondire, Bindseil dedica un piccolo paragrafo a Keynes in cui
cerca di spiegare il perché di questo entusiasmo da parte dell’economista
britannico). Non è un caso che Nicholas Kaldor (1982) lo rimprovera di aver,
forse involontariamente, dato autorevolezza a un’altra teoria che va a
braccetto con la Reserve Position Doctrine, ovvero la Teoria Quantitativa della
Moneta, una teoria ancora più vecchia e discutibile su cui non mi soffermo
perché più volte nominata e derisa qui nel blog. Difatti, sostanzialmente,
l’idea era che la Banca Centrale fosse in grado e dovesse controllare l’offerta di moneta perché in caso contrario
l’inflazione sarebbe stata fuori controllo, ma non solo, avrebbe avuto anche un
potere maggiore sull’economia e sul sistema bancario se avesse seguito la
dottrina giusta. Ma come si passò a
quest’idea dopo anni di politica monetaria basata sul tasso d’interesse a breve
termine?
“[…] What makes the episode extraordinary
in the case of the Fed and distinguishes it from other national monetary histories of
WWI and the early 1920s, was the ex post rationalization given to it, namely that the reasons
for the inflation in the first six years of the Fed had not been the failure of the monetary
authorities to hike short term interest rates, but excessive borrowing by the banks
through the discount window, i.e. not rates were the problem, but quantities. This switch of paradigm seems to take
place rather precisely around 1920, with discussion after this date highlighting consistently
the quantity dimension. Two main events seem to explain the switch exactly in 1920 namely (i)
the above-mentioned start of the tightening of monetary policy in November 1919 and its
substantial impact on economic activity, and (ii) an academic event, namely the invention of
the money multiplier by the American C.A. Philipps (1920).” (Bindseil 2004)
Come
tante altre cose, l’idea nasce in USA ed in seguito ad una situazione economica
difficoltosa. La FED era nata da poco, il 23 Dicembre 1913 e pare non avesse
molta esperienza, o meglio, pare che, vista la giovine età, gli si potesse
attribuire la colpa di tutto, in particolare dell’inflazione elevata degli anni
successivi alla nascita. Così cominciò a diffondersi l’idea che fosse
preferibile il controllo diretto degli aggregati monetari piuttosto che del
tasso d’interesse a breve termine, ben prima che Friedman diventasse il padre
spirituale della teoria (ma ci arrivo dopo, anzi gli dedico un paragrafo a sé).
I fautori della Reserve Position Doctrine dunque sostenevano e sostengono che
le Banche Centrali non abbiano alcuna responsabilità rispetto al tasso
d’interesse a breve termine, di conseguenza nei decenni hanno proposto diversi
possibili strumenti: si va dalla quantità di base monetaria emessa,
all’ammontare di operazioni di mercato aperto quotidiane, alla base monetaria
non presa a prestito dalla Banca Centrale, alle riserve in eccesso. Il discorso
è piuttosto tecnico, ma quello che mi preme sottolineare è che ci fu una
piccola rivoluzione nella politica monetaria e soprattutto nella retorica
riguardante l’implementazione e l’utilizzo degli strumenti disponibili e che,
nonostante la cosa poi si sia rivelata un fallimento teorico e pratico, questo
modo di pensare è ancora diffuso e solo negli anni 90 ad esempio la FED passò a
esplicitare un tasso a breve termine come target operativo (o meglio, mantenne
per settant’anni la retorica sugli aggregati nonostante poi lo strumento
principale fosse sempre il tasso d’interesse, a parte più o meno il periodo
1979-82).
Parlo di
retorica perché poi di fondo si trattò di questo, ad esempio una delle cose che
in USA si fece fu rimpiazzare, negli anni Trenta, l’OMIC (Open Market Investment Committee) con l’OMPC (Open Market Policy Committee) che poi divenne il
FOMC (Federal Open Market Committee) nel 1935 e tuttora è chiamato in questa
maniera nonostante la FED, come tutte le Banche Centrali attualmente, si limiti
a segnalare il tasso d’interesse a breve termine. Se consideriamo il periodo
pre-Volcker, la FED ad esempio pose in essere una politica di tipo RPD ma
abbastanza libera sino al 1952 quando poi passò a un target di riserve in
eccesso, arrivando poi al 1970 in cui il tasso d’interesse a breve termine ritornò
ad essere considerato esplicitamente
uno strumento di politica monetaria. Perché dico esplicitamente? Perché la FED
e le Banche che in genere seguirono la retorica monetarista cercarono sempre di
evitare ogni tipo di responsabilità sul tasso a breve, cosicché venisse considerato semplicemente una
risultante delle forze di mercato. Questo è secondo alcuni studiosi, in
particolare Charles Goodhart, una delle maggiori evidenze del fatto che si
trattasse di pura retorica, lui difatti attribuisce al periodo Volcker le
stesse caratteristiche dei periodi precedenti, dice infatti: if properly analysed, reveal that the Fed
continued to use interest rates as its fundamental modus operandi,
even if it dressed up its activities under the mask of monetary base control… there was a degree
of play-acting, even deception…” (2001).
Apro una parentesi. La differenza
tra la pratica e la retorica è la stessa che potete notare quotidianamente
nelle parole del Governo Monti. Sostengono delle cose, ma praticamente non
succede nulla di quello che sostengono. Così vale e valeva per le Banche
Centrali, sostenevano di agire sugli aggregati monetari ma puntualmente non
erano in grado di tenerli sotto controllo e quando tentarono di farlo con
maggior enfasi, con Volcker nel periodo 1979-82, il fallimento fu totale e
l’evidenza fu una e una soltanto: la moneta è endogena. Chiudo la parentesi.
(N.d.r.: apro una parentesi anch’io.
La stessa cosa vale per la politica fiscale. Fatto salvo l’odierno delirio,
tutti i governi di destra e di sinistra di tutti i paesi avanzati hanno sempre
fatto politica fiscale anticiclica anche quando hanno detto di non farla, e i
risultati, come sapete, si
sono visti. Che poi gli strumenti adottati e le conseguenze redistributiva
possano essere state anche moooolto diverse siamo d’accordo, ma all’idea che la
politica fiscale sia inefficace o che il moltiplicatore sia minore di uno o
negativo non ha mai creduto nessuno, anche perché il grafico che vi ho linkato
lo conoscevano tutti. Quindi: retorica=”la politica fiscale è inefficace, il
moltiplicatore non esiste”; realtà=”oh, qui le cose se stanno a mette male,
cerchiamo di spendere un po’ di più – o di tagliare qualche imposta”).
Il problema di fondo della
Reserve Position Doctrine era che non aveva una teoria completa ed esauriente
su cosa fosse la moneta. Era tutto un tripudio di controlli sugli aggregati
monetari, sulle riserve in eccesso, piccole variazioni nelle operazioni di
mercato aperto e addirittura pesanti penalità su chi avesse preso a prestito
dalla Banca Centrale, ma mancavano le fondamenta. I primi che scrissero
ampiamente e con grande lucidità della questione furono alcuni economisti e
giuristi britannici che nel 1959 rilasciarono un piccolo documento conosciuto
poi come il Rapporto Radcliffe, da Lord Radcliffe che era a capo della
commissione d’inchiesta sulla moneta. Bisogna ricordare che la retorica della
RPD non influenzò mai più di tanto sino ad allora la Bank of England e questo,
secondo Bindseil, spiega anche perché Keynes, sempre critico verso l’ortodossia
della Banca, fosse così entusiasta della nuova teoria.
Il Rapporto Radcliffe
sottolineava prima di tutto una cosa fondamentale: ciò che conta non è la
moneta, qualunque cosa sia, ma ciò che loro chiamano “overall liquidity position”, cioè tutta una serie
di asset finanziari liquidi o meno liquidi come depositi nelle banche di
risparmio, azioni, titoli obbligazionari di varia durata, altre forme di
depositi, i saldi in Banca Centrale ecc. Non solo, una volta definita, sarebbe
stato possibile tenerla sotto controllo? Secondo il Rapporto Radcliffe no, ma
vi erano altre intuizioni e altre discussioni teoriche ad esempio sulla
superiorità del tasso d’interesse rispetto a una poco chiara idea di “offerta
di moneta”, dubbi riguardo all’efficacia reale del tasso d’interesse, gli
effetti della politica monetaria sui prezzi ecc. La sostanza del Rapporto,
esplicitata dalle conclusioni era che:
“[…]
when all has been said on the possibility of monetary action and its likely
efficacy, our conclusion is that monetary measures cannot alone be relied upon
to keep in nice balance an economy subject to major strains from both without
and within. Monetary measures can help, but that is all" (Radcliffe Report 1959)
Cioè, a
parte le grandi questioni teoriche, il Rapporto Radcliffe concludeva che la
politica monetaria fosse solo uno strumento e neanche il più importante (che il
Rapporto identifica nella politica fiscale) e tutta la retorica della RPD fosse
appunto retorica, peraltro poco solida e attaccabile sotto ogni punto di vista.
Un grande estimatore del Rapporto Radcliffe, seppur con riserve, fu Nicholas
Kaldor che lo riprese e ne sottolineò la lucidità per i tempi, in particolare:
“In the
same way the emphasis on the "whole liquidity position" in contrast
to the "money supply" (and on the control of bank advances as distinct
from bank deposits) must be puzzling to all those who believe that non-monetary
financial institutions are merely channels in the investment of funds,
incapable of "creating" money or credit in the manner of the clearing
banks whose deposits alone provide media of payment.”
Di
nuovo, il concetto era semplice. Qualunque cosa fosse la moneta, non poteva
essere trattata in maniera così semplicistica come facevano i fautori della
RPD, e qualunque fosse lo scopo della politica monetaria, non poteva essere il
controllo dell’offerta di moneta, proprio perché quest’ultima era in continua
evoluzione e del tutto fuori dal controllo delle autorità monetarie. Per fare
solo un piccolo esempio, ma ci tornerò nella seconda parte, Kaldor racconta
che:
Prima della seconda guerra mondiale vi era un
rapporto obbligatorio minimo dell'8% tra la "cassa contante", più i
saldi con la Banca d'Inghilterra, e il totale dei depositi a tempo e a vista.
Ma in pratica si trattava di un pietoso inganno, perché la disposizione veniva
abitualmente aggirata dalle cinque grandi banche commerciali mediante il
semplice espediente di redigere i propri conti in giorni diversi della
settimana, da lunedì a venerdì, in modo da esibire cinque volte alla settimana
lo stesso contante, che veniva trasferito per ragioni contabili da una banca
all'altra ogni giorno della settimana. La vera "base di riserva"
(ammesso che sia esistita) non fu mai pubblicata anche se si sapeva che, per
ragioni puramente prudenziali, le grandi banche commerciali cercavano di
mantenere una "cassa contante" minima (compresi i loro saldi con la
Banca d'Inghilterra) pari a circa il 2% delle passività. Dopo la seconda guerra
mondiale il rapporto di cassa minimo dell'8% venne anche formalmente abolito e
sostituito col rapporto di liquidità del 28%. Esso tuttavia comprende molte
voci la cui offerta non è per nulla sotto il controllo della banca centrale (ad
esempio le cambiali o le obbligazioni a breve), e presto ci si rese conto che
questo nuovo "rapporto di liquidità" poteva essere manipolato quanto
il vecchio rapporto di cassa. [...] (Kaldor 1982)
Non
solo quindi si trattava di un concetto complesso da definire, ma anche volendo
imporre dei limiti, questi venivano puntualmente aggirati (e lo sono tuttora),
rendendo ancora una volta evidente il concetto base: la moneta è endogena.
Sino a
qui vi sembra chiaro e logico? Ci si può ragionare su ma già da qui, anche se
ho semplificato la storia ovviamente, ci si può rendere conto del fatto che ci
fosse quantomeno una differenza nella profondità del pensiero dei critici della
RPD e dei fautori della RPD. I primi avevano ben chiaro che quella rivoluzione
degli anni Venti era pura retorica e che nonostante avessero anche l’appoggio
di banchieri come Paul Warburg (presente? Approfondite pure la biografia di
quest’individuo), le stesse banche commerciali aggiravano bellamente i
controlli da essi stessi appoggiati, rendendosi automaticamente sostenitori
involontari della teoria dei critici della RPD. Esattamente come Monti,
mandando il paese in recessione, diventa sostenitore involontario delle tesi
dei critici.
Se a
voi sembra chiaro, ad alcuni personaggi noti non lo sembrava.
La tragedia di un uomo ridicolo
Ugo
Tognazzi è protagonista, nel 1981 di un film intitolato La tragedia di un uomo ridicolo. Fate ben attenzione alla data,
1981. Cosa vi ricorda? Ebbene sì, il divorzio Tesoro-Banca d’Italia. C’entra
qualcosa? No, nulla. Però mentre Primo Spaggiari soffre la sua ridicola
tragedia, milioni di persone soffrono un’altra ridicola tragedia:
l’implementazione, per la prima volta, del monetarismo di matrice Milton
Friedman.
Milton
Friedman si era convinto, negli anni 50, che ci fosse una correlazione tra PIL
e quantità di moneta e dunque aveva studiato, dati alla mano, tutto il periodo precedente
arrivando a una conclusione: se si riesce a governare la quantità di moneta si
riesce a governare la crescita del PIL in maniera non inflattiva. Ebbene, lui
sosteneva ci fosse un rapporto di causa ed effetto tra moneta e reddito, cioè,
un rapporto di causa (l’offerta di moneta) ed effetto (il reddito), quindi
agendo sull’offerta di moneta la Banca Centrale avrebbe influito sul PIL e se
l’avesse fatto in maniera professionale, sarebbe riuscita anche a governare
l’inflazione, che per Friedman era un mero fenomeno monetario. Ci mise un po’ a
convincere le persone ma quando ci riuscì ebbe un successo enorme nelle
istituzioni e per certi versi nell’ambiente accademico (prova ne è il fatto che
Mankiw nel suo manuale la propone ancora così, ma ci torno dopo) e molti (no,
non tutti) avevano in bocca le sue teorie e molti erano preoccupati
dell’andamento degli aggregati monetari, l’inflazione era elevata e quindi,
come negli anni Venti, cosa c’era di meglio di una teoria-salva vite,
salva-nazione? (si scherza Barnard)
Una
cosa va sottolineata, la visione di Friedman era molto più semplicistica in
termini pratici di quella dei sostenitori della RPD degli anni Venti. Friedman
vedeva la politica monetaria in maniera non troppo dissimile da come Galeazzi
vede la gastronomia, secondo la parodia di Lillo&Greg.
Le ricette veloci di politica monetaria di Milton
Friedman:
Ciò che Friedman non aveva capito è che la correlazione non implicava in nessuna maniera il nesso di causalità
da lui supposto, semmai l’inverso, cioè dal reddito alla moneta, con
quest’ultima che si adatta alle condizioni economiche del paese. A parte
l’analisi stock-flussi che vedremo più avanti, era l’impianto logico di
Friedman che risultava discutibile. Uno che si premurò di fare un’analisi
sufficientemente approfondita del nuovo monetarismo fu il solito Nicholas
Kaldor, il quale scrisse addirittura un libro, intitolato Il Flagello del Monetarismo. Kaldor se ne occupò perché visse
dall’interno il periodo di maggior successo delle politiche monetarie e fiscali
di stampo monetarista e anche perché gli chiesero di fare un’analisi per il
Tesoro. Il monetarismo ne uscì distrutto sia a livello teorico che a livello pratico.
Dopo aver delineato il contesto economico in cui tornò in auge il
monetarismo, ovvero un periodo di elevata inflazione da costi delle materie
prime e progressiva sfiducia nelle politiche keynesiane, Kaldor racconta:
“[…] Fu in queste circostanze che le idee sull’inflazione da lungo
tempo accantonate, secondo cui la sola causa della crescita generale dei prezzi
va ricercata in una crescita eccessiva precedente dell’offerta di moneta (come
sosteneva da molto tempo il professor Milton Friedman), vennero accolte in modo
sorprendentemente rapido da politici, banchieri, giornalisti e altri leader
dell’opinione pubblica, dapprima negli Stati Uniti, e successivamente nella
maggior parte dei paesi industrializzati del mondo occidentale. Il solo gruppo
che rimase relativamente immune (eccetto forse negli Stati Uniti) fu la
maggioranza degli economisti di professione, che non potevano convincersi ad
abbandonare l’economia keynesiana in cui credevano, e ritornare alle semplici e
rozze nozioni della teoria quantitativa della moneta. Ma per tutti gli altri il
“nuovo monetarismo” rispondeva ai bisogni del momento. Era semplice; offriva
rimedi semplici e, cosa più importante, offriva
la prospettiva di rovesciare lo squilibrio crescente tra il potere dei
lavoratori e il potere del capitale, che era il risultato della situazione di
piena occupazione mantenuta durante i decenni precedenti. Cosicché, in
seguito alle elezioni generali che ebbero luogo verso la fine del decennio,
salirono al potere sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti dei governi
“monetaristi” di destra, e vennero formalmente adottate delle politiche
“monetariste” da parte della maggioranza delle più importanti Banche Centrali.
Queste ultime consistevano in una semplice regola: annunciare una serie di
“obiettivi” minimi e massimi per l’offerta di moneta, e condurre la politica
della banca centrale in modo tale da assicurare che la crescita effettiva
dell’offerta di moneta rimanga fermamente all’interno di quegli obiettivi.
Tuttavia, fin dall’inizio questa politica è andata incontro a difficoltà del
tutto inattese. La prima difficoltà è stata la definizione stessa di “offerta
di moneta” da sottoporre a regolazione. Non appena si dovettero annunciare
degli obiettivi ufficiali fu necessario definire che cosa si intendeva con
“moneta”, un problema che in precedenza
non era stato preso in esame in modo dettagliato, benché fosse noto che in
un’economia con moneta creditizia (a differenza che in un’economia a
moneta-merce, in ci la moneta consiste di monete d’oro e d’argento) sono
possibili diverse definizioni di “moneta” che includono una serie di
certificati di debito trasferibili (dello Stato o del sistema bancario) che
potrebbero servire come mezzi di pagamento, e i cui movimenti non avvengono per
nulla in parallelo gli uni rispetto agli altri.. […] Queste difficoltà inattese
sono esemplificate nel miglior modo possibile dall’esperienza della maggiore
banca centrale del mondo, il Federal Reserve System degli Stati Uniti.”
Segue spiegazione della procedura
tradizionale di azione delle Banche Centrali, cioè come si è detto, agire sui
tassi d’interesse e non sulla quantità di moneta. Poi continua:
[…] Tuttavia, secondo l’opinione dei nuovi monetaristi, questa era la
politica sbagliata al fine di assicurare la stabilità dei prezzi. Per
stabilizzare l’economia ed evitare l’inflazione c’è bisogno innanzitutto di
garantire una crescita costante dell’offerta di moneta, non un tasso costante
di interesse. Perciò la “nuova” politica della Federal Reserve, annunciata formalmente
da Mr Volcker, presidente del Federal Reserve Board, il 6 ottobre 1979,
consisteva nell’assicurare una crescita lenta e costante degli aggregati
monetari M1 e M2 variando le riserve a disposizione del sistema bancario per
mezzo di operazioni di mercato aperto, senza curarsi dei movimenti dei tassi
d’interesse che a ciò si sarebbero accompagnati. Da quel giorno in poi
cominciarono ad avvenire dei drammatici mutamenti, del tutto differenti da
quelli attesi. L’offerta di moneta non crebbe affatto a un tasso moderato e
costante, ma il suo andamento cominciò ad esibire una serie di contorcimenti.
Il tasso d’interesse e il tasso di inflazione, benché entrambi fossero assai
alti all’inizio, veleggiarono ad altezze senza precedenti nel giro di brevissimo
tempo. Nel marzo 1980 il tasso d’interesse era salito al 18,6% e il tasso
d’inflazione al 15,2% (in termini annuali, naturalmente) e poco più tardi
entrambi erano al di sopra del 20%, il che non era mai avvenuto in precedenza
negli Stati Uniti dai tempi della guerra civile, sia in tempo di pace che in
tempi di guerra. E crebbero come funghi nuove forme per operare i pagamenti e
nuovi strumenti per aggirare la politica della Federal Reserve, mediante
l’invenzione di sostituti monetari di ogni genere, come i “now” accounts, i
money market funds, il trasferimento degli affari alle banche non appartenenti
al Federal Reserve System o alle filiali delle banche estere, e così via. La
replica della Federal Reserve, di fronte a tutto ciò, fu che il fiasco delle sue
politiche dichiarate era tutto da attribuirsi alle “scappatoie” nel sistema
esistente, che dovevano essere chiuse. Il Congresso fece cosa grata agli amici
presso la Federal Reserve assai prontamente, approvando il Monetary Control Act
del 1980, integrato dall’appello all’International Banking Act e al Credit
Control Act. Con ciò veniva estesa la riserva obbligatoria minima a tutte le
istituzioni che raccolgono depositi, che fossero o meno banche membri del
Federal Reserve System, così come a tutte le filiali delle banche estere negli
Stati Uniti. Ma nulla di tutto ciò fu d’aiuto […]. L’esperimento monetarista
americano è stato un terribile fallimento, come hanno ammesso pubblicamente
Friedman e Meltzer nel 1982, anche se hanno insistito che l’errore è da attribuirsi
alle autorità, incapaci a condurre in modo appropriato una politica
monetarista, e non alla teoria che ne è il fondamento. […] Dopo un anno e mezzo
di continui insuccessi e una volatilità caotica di ogni cosa – tassi
d’interesse, tassi di cambio, tassi di inflazione – l’esperimento venne
abbandonato e la Federal Reserve ritornò, in effetti, alla politica
tradizionale di regolare i tassi d’interesse, ma con un orientamento
maggiormente deflazionistico (in parte, presumo, per compensare la pressione
inflazionistica dei disavanzi di bilancio federale), e quindi facendo soffrire
(o beneficiando, a seconda dei casi) il resto del mondo delle conseguenze di un
dollaro sopravvalutato.
[…] In Gran Bretagna, quando Mrs Thatcher salì al potere nel maggio 1979,
il governo proclamò ufficialmente l’adozione formale del “credo monetarista”
quasi con la stessa solennità con cui l’imperatore Costantino abbracciò il
Cristianesimo come religione di Stato. Tuttavia nelle circostanze istituzionali
inglesi le difficoltà furono ancora maggiori che negli Stati Uniti, come hanno
mostrato gli eventi successivi. La Banca d’Inghilterra non era in grado di
fissare la “base monetaria”, per non parlare del volume delle riserve
obbligatorie delle banche, o di lasciare che i tassi d’interesse fossero
determinati liberamente dal mercato. Venne invece fissato un obiettivo
quadriennale per la crescita dell’offerta di moneta (secondo la sua definizione
ampia M3, che include depositi bancari fruttiferi di interesse) con un profilo
di restrizione graduale: un aumento del 7-11% nel primo anno, del 6-10% nel
secondo anno, e del 4-8% nel quarto; e ci si affidò, per mantenere l’offerta di
moneta entro la banda-obiettivo, alla graduale riduzione del disavanzo del
settore pubblico (espresso come percentuale del reddito nazionale) e alla
regolazione del tasso d’interesse a breve verso l’alto o verso il basso a
seconda degli scostamenti dell’offerta di moneta in relazione all’obiettivo.
(Il governo era convinto, del tutto erroneamente, a mio avviso, che il
disavanzo del settore pubblico fosse la causa principale delle variazioni
dell’offerta di moneta).
Ma tutto il piano cominciò a scricchiolare nel corso del primo anno di
realizzazione e ad andare disastrosamente in pezzi nel secondo. La crescita
dell’offerta di moneta risultò essere sempre eccedente rispetto alla
banda-obiettivo fin dall’inizio, e salì al tasso quasi senza precedenti del 22%
nel secondo anno finanziario (era in media del 10% all’anno nei cinque anni
precedenti). Allo stesso tempo il disavanzo del settore pubblico eccedeva
l’obiettivo del 2% del PNL nel 1980-1981 e dell’1% nel 1982, nonostante i tagli
della spesa pubblica e il pesante aumento della pressione fiscale.
Il governo, singolarmente, non era dunque riuscito a realizzare gli
obiettivi ch’esso stesso si era prefissato né in termini di crescita
dell’offerta di moneta né di riduzione del disavanzo del settore pubblico. Ma
ciononostante aveva avuto successo (ammesso che “successo” sia il termine
appropriato) nel creare una profonda recessione economica, una recessione che
va molto al di là di quelle che hanno conosciuto tutti gli altri paesi
industrializzati dell’Occidente. La produzione manifatturiera è caduta del
13,5% nel solo 1980, un crollo maggiore di quello che si era avuto durante
l’intero periodo della Grande depressione del 1929-1932. È ancora troppo presto
per dire quanto il governo abbia avuto successo nei suoi obiettivi
antiinflazionistici, dal momento che secondo i criteri ch’esso stesso ha scelto
il risultato dovrebbe essere negativo. Ma ci possono essere pochi dubbi sul
fatto che la crescita senza precedenti del tasso di cambio effettivo della
sterlina (che ha ridotto la competitività industriale di circa il 40% nel 1978)
deve aver svolto un ruolo fondamentale in tutto ciò, causando una grande caduta
di nuovi ordini sia sul mercato nazionale che all’estero, e una riduzione delle
scorte di grandezza eccezionale. La crescita della disoccupazione da 1,2 a 3,2
milioni – pari a 2 milioni, ossia all’8% della forza lavoro, in due anni –
insieme alle numerose chiusure di fabbriche, avvenute o possibili, ha senza
alcun dubbio indebolito fortemente il potere del sindacato, e ha in tal modo
contribuito a rallentare il tasso di aumento dei salari recentemente
contrattati. Ciò, tuttavia, è chiaramente una conseguenza della disoccupazione
di massa dovuta alla recessione; non può essere dovuto a quanto è avvenuto, o
sta avvenendo, sul lato dell’offerta di moneta, di qualunque cosa si tratti. I
“risultati” sul fronte dei salari o del tasso di inflazione non forniscono
nessuna conferma di validità al “monetarismo”, bensì l’esatto contrario, anche
se ciò non impedisce ai portavoce governativi di attribuirsene il merito.”
Uno potrebbe pensare che Nicholas Kaldor al tempo fosse di parte, dopo
tutto lui era uno dei principali esponenti della scuola di Cambridge critico
verso l’economia keynesiana classica, figuriamoci contro il ritorno degli
zombies. Ma Kaldor come anche i suoi colleghi a Cambridge e non solo, aveva
avuto delle intuizioni che poi si rivelarono essere corrette. Solo per citare
due esempi, nel 1984 Alfred Eichner (assieme a Formane e Groves) scriveva in un
articolo intitolato The Demand
Curve For Money Further Considered:
“First,
the amount of bank reserves, and thus the monetary base, is not the exogenously
determined variable assumed in both orthodox Keynesian and monetarist models
but instead depends on the level of nominal income. This is because the central
bank, in order to maintain the liquidity of the financial system, is forced to
purchase government securities in the open market so as to accommodate, at
least in part, the need for additional credit as the pace of economic activity
quickens. With the amount of unborrowed bank reserves, and thus the monetary
base, to a significant extent endogenously determined, it follows that the
money supply is, to no less an extent endogenously determined as well. It is
therefore a misspecification to assume that the money stock, or any of its
components, is entirely exogenous, subject to the control of the monetary
authorities, and then to derive a demand curve for money based on that
assumption. In reality, the demand for and supply of “money” are
interdependent, with no possibility in practice of being able to distinguish
between the two.” (Eichner 1984)
Eichner
e i colleghi avevano ben chiaro quello che Kaldor e colleghi dicevano, ma un
altro che diede un contributo storico enorme fu Basil J Moore che nel 1988
scrisse un libro intitolato Horizontalists
And Verticalists: The Macroeconomics Of Credit Money, che purtroppo non riesco a trovare
ma che inizia così (grazie al Sellers):
“The central message of this book
is that members of the economics profession, all the way from professors to
students, are currently operating with a basically incorrect paradigm of the
way modern banking systems operate and of the causal connection between wages,
prices, on the one hand, and monetary developments, on the other. Currently,
the standard paradigm, especially among economists in the United States, treats
the central bank as determining the money base and thence the money stock. The
growth of the money supply is held to be the main force determining the rate of
growth of money income, wages, and prices.
… This book argues that the
above order of causation should be reversed. Changes in wages and employment
largely determine the demand for bank loans, which in turn determine the rate
of growth of the money stock. Central banks have no alternative but to accept
this course of events, their only option being to vary the short-term rate of
interest at which they supply liquidity to the banking system on demand.
Commercial banks are now in a position to supply whatever volume of credit to
the economy their borrowers demand.” (Moore 1988)
La fine della RPD
Nonostante
sia nata morta la RPD è un esempio di dogma difficile da sradicare. Sempre
Bindseil racconta l’assurdo di una teoria che ha avuto un successo e una
diffusione in ambito accademico e anche in ambito istituzionale (si pensi al
caro vecchio Divorzio all’italiana) del tutto fuori luogo rispetto alla realtà
dei fatti. Intorno agli anni 90 con la diffusione di alcune teorie “nuove” come
quelle di Taylor e Blinder, parte del cosiddetto New Consensus, le Banche
Centrali sono tornate ai vecchi fasti di un tempo, ovvero utilizzare come
principale strumento il tasso d’interesse a breve termine, per dirla nelle
parole di Romer (2000, 154) “The main
change is that it replaces the assumption that the central bank targets the
money supply with an assumption that it follows a simple interest rate rule“.
Perché
le virgolette? Perché se uno vuol essere onesto deve sottolineare che di nuovo
in queste teorie c’è solo un eccesso di ottimismo nel meccanismo di
trasmissione della politica monetaria, ma di nuovo in termini pratici c’è poco
e niente. L’abbandono della RPD da parte del banchiere centrale non ha,
purtroppo, implicato anche l’abbandono dei principali vizi che ad essa si
accompagnavano: l’inflazione come fenomeno puramente monetario, il
moltiplicatore monetario, la possibilità a livello di retorica di controllare
gli aggregati (la BCE è maestra in questo). Eppure il paradosso è evidente, una
volta che tu indirettamente consideri endogena la moneta per forza devi
abbandonare i corollari della teoria. Invece abbiamo visto che Blinder ancora
nel 2012 si stupisce che qualcosa non torni e che il meccanismo si è inceppato
(o non ha mai funzionato come pensava?).
Conclusioni
Lo
scopo di questo testo era quello di fare un brevissimo excursus storico della
politica monetaria. Perché era necessario prima di spiegare, eventualmente, più
approfonditamente le implicazioni della moneta endogena? Perché ovunque ci si
giri c’è qualcuno che ripropone quella che qui abbiamo chiamato RPD. Una teoria
che, come abbiamo visto, era poco credibile negli anni Venti e lo è a maggior
ragione nel 2012. Una costruzione teorica priva di fondamenta ma che aveva
degli scopi ben precisi come Kaldor racconta e come vediamo quotidianamente.
Voglio essere sincero, uno deve essere incline al ragionamento per capire
determinate cose e per unire i puntini come si suol dire. Come ho detto
all’inizio lo slogan non funziona in quest’ambito. Comunque, se mai ci sarà una
seconda parte, vedremo che all’analisi concreta degli stock e dei flussi e dei
T-accounts, l’ingenuità della RPD e dei suoi seguaci moderni (quelli che se
incontrano un ragionamento per strada lo fotografano, per capirsi) lascerà un
filo d’imbarazzo.
Chiudo
citando il solito Bindseil che da studioso e impiegato ha una spiegazione del
perché non riusciamo a liberarci del monetarismo goffo, dice infatti:
“Academics
developed theories detached from reality, without resenting or even admitting
this detachment.
Economic variables of very different nature were mixed up and precision in the
use of the
different concepts (e.g. operational versus intermediate targets, short-term
vs. long-term interest
rates, reserve market quantities vs. monetary aggregates, reserve market shocks
vs. shocks in
the money demand, etc.) was often too low to allow obtaining applicable
results. The dynamics
of academic research and the underlying incentive mechanisms seem to have
lacked a permanent
pressure on monetary economists to investigate the realities of day-to-day work
of central
banks. From today’s perspective, one could feel that academic economists
unconsciously colluded
in their distaste for requestioning the applicability of macro-economic models
on day- to-day
implementation of monetary policy, and their lack of willingness to study the
actual features
of money markets and monetary policy operations. As Goodhart (2001) puts it:
“large parts of
macro-economics are insufficiently empirical; assumptions are not tested
against facts. Otherwise, how could economists have gone on believing
that central banks set H [the monetary base] and not i? In so far as the relevant empirical
underpinnings of macro-economics are ignored, undervalued or relatively costly to study, it
leaves theory too much at the grasp of fashion, with mathematical elegance and intellectual
cleverness being prized above practical relevance.”
“Central bankers failed
to resist the reality-detached theories of academics, or even promoted them as they got convinced or as
the theories served their aim to mask their responsibility for short term interest rate and thus
for economic developments. It is an interesting, but difficult question to disentangle in how
far exactly the adoption of RPD as official Fed doctrine on monetary policy implementation
was deliberate “play-acting” to mask responsibility, and in how far it was just reflecting
convictions. […] If we can imagine academic economists to have been honestly convinced by some theory we
believe today to be wrong, the same should probably not be denied to central bankers. In
sum, it appears difficult to estimate the general degree of conscious play-acting by central bankers in
their supposed RPD practice, probably also since it varied considerably across individuals
and time. It seems also noteworthy that both groups, academic economists and
central bankers, showed little interest in studying well-documented historical
experience (e.g. Bagehot, 1873, King, 1936, Sayers, 1976).”
State bene.
Bagehot, W. (1873/1973), Lombard
Street , in: The collected works of Walter Bagehot, London: The Economist
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Gueterpreise, Eine Studie ueber die den Tauschwert des Geldes bestimmended
Ursachen, Jena: Gustav Fischer, 1898